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sabato 7 ottobre 2017

Sanctissimi Rosarii Beatæ Mariæ Virginis


Preghiamo
O Dio, il cui Unigenito colla sua vita, morte e risurrezione ci ha meritato il premio dell'eterna salvezza: concedi, che. meditando questi misteri col sacratissimo Rosario della beata Vergine Maria, e imitiamo ciò che contengono, e conseguiamo ciò che promettono.
Per il medesimo nostro Signore Gesù Cristo, tuo Figlio, che è Dio, e vive e regna con te, in unità con lo Spirito Santo, per tutti i secoli dei secoli.
R. Amen.

Lettura 4

Allorché l'eresia degli Albigesi s'estendeva empiamente nella provincia di Tolosa mettendovi di giorno in giorno radici sempre più profonde, san Domenico, che aveva fondato allora l'ordine dei Predicatori, si applicò interamente a sradicarla. E per riuscirvi più sicuramente, implorò con assidue preghiere il soccorso della beata Vergine, la cui dignità quegli eretici attaccavano impudentemente, ed a cui è dato di distruggere tutte l'eresie nell'intero universo. 
Ricevuto da lei l'avviso (secondo che vuole la tradizione) di predicare ai popoli il Rosario come aiuto singolarmente efficace contro l'eresie e i vizi, stupisce vedere con qual fervore e con qual successo egli eseguì l'ufficio affidatogli. Ora il Rosario è una formula particolare di preghiera nella quale si distinguono quindici decade di salutazioni angeliche, separate dall'orazione Domenicale, e in ciascuna delle quali ricordiamo, meditandoli piamente, altrettanti misteri della nostra redenzione. Da quel tempo dunque questa maniera di pregare incominciò, grazie a san Domenico, a farsi conoscere e a spandersi. E, ch'egli ne sia l'istitutore e l'autore, lo si trova affermato non di rado nelle lettere apostoliche dei sommi Pontefici.



Lettura 5

Da questa istituzione si salutare promanarono nel popolo cristiano innumerevoli benefici. Fra i quali si cita con ragione la vittoria, che il santissimo Pontefice Pio V e i principi cristiani infiammati da lui riportarono presso le isole Cursolari [La battaglia di Lepanto o delle Curzolari]  sul potentissimo despota dei Turchi. Infatti, essendo stata riportata questa vittoria il giorno medesimo in cui i confratelli del santissimo Rosario indirizzavano a Maria in tutto il mondo le consuete suppliche e le preghiere stabilite secondo l'uso, non senza ragione essa si attribuì a queste preghiere. 


E ciò l'attestò anche Gregorio XIII, ordinando che a ricordo di beneficio tanto singolare, in tutto il mondo si rendessero perenni azioni di grazie alla beata Vergine sotto il titolo del Rosario, in tutte le chiese che avessero un altare del Rosario, e concedendo in perpetuo in tal giorno un Ufficio di rito doppio maggiore; e altri Pontefici hanno accordato indulgenze pressoché innumerevoli a quelli che recitano il Rosario e alla confraternita di questo nome.


Lettura 6

Clemente XI poi, stimando che anche l'insigne vittoria riportata l'anno 1716 nel regno d'Ungheria da Carlo VI, imperatore dei Romani, su l'immenso esercito dei Turchi, accadde lo stesso giorno in cui si celebrava la festa della Dedicazione di santa Maria della Neve, e quasi nel medesimo tempo che a Roma i confratelli del santissimo Rosario facendo preghiere pubbliche e solenni con immenso concorso di popolo e grande pietà indirizzavano a Dio ferventi suppliche per l'abbattimento dei Turchi e imploravano umilmente l'aiuto potente della Vergine Madre di Dio a favore dei Cristiani; perciò credé dover attribuire questa vittoria al patrocinio della stessa Vergine, come pure la liberazione, avvenuta poco dopo, dell'isola di Corcira dall'assedio parimente dei Turchi. Quindi perché restasse sempre perpetuo e grato ricordo di si insigne beneficio, estese a tutta la Chiesa la festa del santissimo Rosario da celebrarsi collo stesso rito. Benedetto XIII fece inserire tutto ciò nel Breviario Romano. 



Leone XIII poi, in tempi turbolentissimi per la Chiesa, e nell'orribile tempesta di mali che da lungo tempo ci opprimono, ha sovente e vivamente eccitato con reiterate lettere apostoliche tutti i fedeli del mondo a recitare spesso il Rosario di Maria, soprattutto nel mese d'Ottobre, ne ha innalzato di più la festa a rito superiore, ha aggiunto alle litanie Lauretane l'invocazione, Regina del sacratissimo Rosario, e concesso a tutta la Chiesa un Ufficio proprio per la stessa solennità. Veneriamo dunque sempre la santissima Madre di Dio con questa devozione che le è gratissima; affinché, invocata tante volte dai fedeli di Cristo colla preghiera del Rosario, dopo averci dato d'abbattere e annientare i nemici terreni, ci conceda altresì di trionfare di quelli infernali.

V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.

*

http://www.conchiglia.net/C_DOC/16.347_NSGuadalupe_Vittoriosa_contro_musulmani_a_Lepanto_07.10.16.pdf

mercoledì 7 ottobre 2015

Battaglia di Lepanto

Hoc est hora Mariae    . . .  Ave Domina !

7 Ottobre 2015 - 

444° Anniversario della Battaglia di Lepanto


https://blogger.googleusercontent.com/img/b/R29vZ2xl/AVvXsEhibGkNrSprVS8VQG-SQnQ7kxD2TT-wd4P2K4Ej34HDX4cXM0oem3AWS1ng2J7YGrCk_BQBy8srNmH9zOJvxQQz-GH72Dr_e-1xBf2gk_4FOOUpUvxCN_e9Zgfrl3yeyh1UJz5YerN-vkc/s1600/andrea-vicentino-battle-of-lepanto.jpg
(Battaglia di Lepanto, Andrea Vicentino, Venezia, Palazzo Ducale) 













Non ci si poteva esimere dal ricordare ancora questa data, solitamente taciuta dai media, ma anche dalla Chiesa recente, tutta presa a scusarsi anche di essersi difesa: ha mutato la vita nel nostro Continente a quel tempo, e per i secoli a venire; e, insieme, ci lascia misurare con inquietudine quanto la situazione nelle nostre terre sia mutata oggi, e di segno opposto.

7 ottobre 1571: San Pio V, il Papa di Lepanto



Con indescrivibile tensione aveva Pio V tenuto gli occhi rivolti all’Oriente. I suoi pensieri erano continuamente presso la flotta cristiana, i suoi voti la precorrevano di molto. Giorno e notte egli in ardente preghiera la raccomandava alla protezione dell’Altissimo. Dopo che ebbe ricevuto notizia dell’arrivo di Don Juan a Messina, il papa raddoppiò le sue penitenze ed elemosine. Egli aveva ferma fiducia nella potenza della preghiera, specialmente del rosario.


In un concistoro del 27 agosto Pio V invitò i cardinali a digiunare un giorno la settimana ed a fare straordinarie elemosine, solo colla penitenza potendosi sperare misericordia da Dio in sì grande distretta. Sua Santità – così notificò ai 26 di settembre del 1571 l’ambasciatore spagnuolo – digiuna tre giorni la settimana e dedica quotidianamente molte ore alla preghiera: ha ordinato anche preghiere nelle chiese. Per assicurare Roma da un’improvvisa irruzione di corsari turchi, il papa al principio di settembre aveva comandato che si terminasse la fortificazione di Borgo. Soltanto molto rare arrivavano notizie sull’armata cristiana e pertanto alla Curia si stava in penosa incertezza. Fu quindi come una liberazione l’apprendere finalmente ai primi di ottobre l’arrivo della flotta della lega a Corfù.

Giunta ai 13 di ottobre la nuova che la flotta turca trovavasi a Lepanto e che quella della lega si sarebbe messa in movimento il 30 settembre, non v’aveva dubbio che il cozzo era imminente. Il papa, sebbene fermamente fiducioso della vittoria delle armi cristiane, ordinò tuttavia straordinarie preghiere diurne e notturne in tutti i monasteri di Roma: egli poi in simili esercizi andava avanti a tutti col migliore esempio. La sua preghiera doveva finalmente venire esaudita. Nella notte dal 21 al 22 ottobre arrivò un corriere mandato dal nunzio a Venezia Facchinetti e rimise al cardinal Rusticucci che dirigeva gli affari della segreteria di Stato una lettera del Facchinetti contenente la notizia portata a Venezia il 19 ottobre da Giofrè Giustiniani della grande vittoria ottenuta presso Lepanto sotto l’ottima direzione di Don Juan. Il cardinale fece tosto svegliare il papa, che prorompendo in lagrime di gioia pronunziò, le parole del vecchio Simeone:“nunc dimittis servum tuum in pace”. Si alzò subito per ringraziare Iddio in ginocchio e poi ritornò in letto, ma per la lieta eccitazione non potè trovar sonno.

La mattina seguente si recò a S. Pietro per nuova calda preghiera di ringraziamento, ricevendo poscia gli ambasciatori e cardinali ai quali disse che ora dovevansi fare nel prossimo anno gli sforzi estremi per continuare la guerra turca. In quest’occasione egli alludendo al nome di Don Juan ripetè le parole della Scrittura: “fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Ioannes”. (…) Tanto Colonna quanto il papa avevano chiara coscienza di quanto mancasse ancora per raggiungere la grande meta dell’abbattimento della potenza degli ottomani: ambedue erano così concordi sui passi da intraprendersi che Pio V associò il suo esperimentato ammiraglio ai cardinali deputati per gli affari della lega, che dal 10 dicembre tenevano quasi ogni giorno coi rappresentati di Spagna, Requesens e Pacheco, e cogli inviati di Venezia due sedute, spesso della durata di cinque ore.

Sotto pena di scomunica riservata al papa tutto era tenuto rigorosissimamente segreto, perchè il sultano aveva mandato a Roma degli spioni parlanti italiano. Nelle consulte ordinate dal papa nei mesi di ottobre e novembre era venuta in prima linea la provvista dei mezzi finanziarii; ora trattavasi principalmente dello scopo dell’impresa da compiersi nella prossima primavera. E qui solo malamente i rappresentanti sia di Spagna, sia di Venezia potevano nascondere la gelosia e avversione, che nutrivano a vicenda. Gli interessi particolari dei due alleati emersero sì fortemente che venne messa in forse qualsiasi azione comune. I veneziani volevano servirsi della lega non solo per riavere Cipro, ma anche per fare nuove conquiste in Levante. Filippo II, invece, avverso ad ogni rafforzamento della repubblica di S. Marco, fece dichiarare dal Requesens che la lega doveva in primo luogo muovere contro gli stati berbereschi dell’Africa, perchè questi tornassero in possesso della Spagna. In questa proposta i veneziani videro una trappola per impedirli dalla riconquista di Cipro ed esporli al pericolo di perdere anche Corfù mentre la loro flotta combatteva gli stati berbereschi pel re di Spagna. A Venezia ritenevasi ora sicuro che Filippo II volesse trarre il maggior utile possibile nel suo proprio interesse dalle forze della lega.

Non può dirsi con certezza quanto le lagnanze per ciò sollevate siano giustificate. Per giudicare rettamente il re di Spagna va in ogni modo tenuto conto del contegno della Francia, il cui governo fu abbastanza svergognato da proporre al sultano subito dopo la battaglia di Lepanto un’alleanza diretta contro la Spagna. Filippo II era perfettamente a giorno delle trattative che la Francia conduceva non solo col sultano, ma anche cogli ugonotti, i capi della rivoluzione neerlandese e con Elisabetta d’Inghilterra. In conseguenza egli doveva fare i conti con un contemporaneo attacco d’una coalizione franco-neerlandese-inglese-turca. Non fu pertanto solo gelosia verso Venezia quella che guidò il re cattolico. Del resto lo stesso Don Juan confessò ch’era contro il tenore del patto della lega rinunciare alla guerra contro il sultano a favore di un’impresa in Africa.

Di fronte al contrasto degli interessi spagnuoli e veneziani Pio V continuò a rappresentare la concezione più vasta e sommamente disinteressata: egli pensava alla liberazione di Gerusalemme, a cui doveva precedere la conquista di Costantinopoli. Ma, come scrisse Zúñiga all’Alba il 10 novembre 1571, un colpo efficace nel cuore della potenza ottomana era possibile soltanto in vista di un attacco contemporaneo e all’impensata per terra e per mare. Di qui i continuati sforzi di Pio V per arrivare a una coalizione europea contro i Turchi. Se a questo riguardo nulla era da sperarsi dalla Francia, che nel luglio aveva mandato un ambasciatore in Turchia, egli tuttavia sperava di guadagnare all’idea almeno altre potenze, prima di tutti l’imperatore, poi Polonia e Portogallo. A dispetto di tutti gli insuccessi finallora incontrati egli coi suoi legati e nunzi continuò a spingere sempre a questa meta.

Pio V cercava di utilizzare al possibile a questo riguardo il più leggero segno di buona volontà. Così prese occasione dalle frasi generiche, con cui Massimiliano II assicurò di essere disposto ad aiutare la causa cristiana, per dargli l’aspettativa da parte degli alleati di un aiuto di 20,000 uomini a piedi e di 2000 a cavallo. L’imperatore ringraziò ai 25 di gennaio del 1572 dell’offerta deplorando di non potere subito decidersi in un negozio di tale importanza. A Roma il duca di Urbino fece risaltare che c’era poco da sperare da Massimiliano ed anzi nulla dai principi tedeschi, specialmente dai protestanti. In un memoriale del papa del gennaio 1572 egli sostenne con buone ragioni l’idea che la guerra dovesse condursi là dove esercito e flotta potessero operare congiunte e dove «noi siamo padroni della situazione», quindi principalmente colla flotta in Levante. Se i Turchi venissero attaccati in Europa dall’imperatore e dalla Polonia, tanto meglio; ma la cosa principale è che si attacchi tosto, perchè chi semplicemente si difende non combatte; chi vuole conquistare deve andare avanti risoluto.

La lega quindi si volga contro Gallipoli aprendosi così lo stretto dei Dardanelli. Ma per tale impresa era incondizionatamente necessaria una intesa della Spagna con Venezia, mentre invece i loro rappresentanti da mesi altercavano a Roma nel modo più spiacevole. Quando finalmente i veneziani fecero la proposta, conforme alle clausole del patto della lega del maggio 1571, di far decidere dal papa i punti contestati, anche la Spagna non osò fare opposizione.

Decise Pio V che la guerra della lega dovesse continuarsi nel Levante, che nel marzo la flotta pontificia si riunisse con la spagnuola a Messina e s’incontrasse con la veneta a Corfù, donde le tre forze unite dovevano procedere secondo gli ordini dei loro ammiragli, che gli alleati aumentassero, potendolo, le loro galere fino a 250 e procurassero secondo la proporzione prescritta nel patto della lega 32,000 soldati e 500 cavalieri oltre alla corrispondente artiglieria e munizioni e che alla fine di giugno dovessero trovarsi riuniti a Otranto 11,000 soldati (1000 pontifici, 6000 spagnuoli e 4000 veneziani). Ognuno degli alleati doveva preparare vettovaglie per sette mesi. Queste convenzioni vennero sottoscritte il 10 febbraio 1572.

Il 16 Pio V ammonì il gran maestro dei Gerosolimitani di tenere pronte le sue galere a Messina. I preparativi nello Stato pontificio, pei quali il denaro venne procurato principalmente col Monte della Lega, furono spinti avanti sì alacremente che nello stesso giorno si potè inviare ad Otranto 1800 uomini. A Civitavecchia erano pronte tre galere ed altre là erano attese da Livorno. Il papa era tutto pieno del pensiero della crociata: egli viveva e movevasi nel progetto, di cui fin dal principio era stato da solo l’anima.

Per dieci anni, così si espresse Pio V col cardinale Santori, deve farsi guerra ai Turchi per mare e per terra. La bolla del giubileo, in data 12 marzo 1572, concedeva a tutti coloro, che prendevano essi stessi le armi o volevano equipaggiare un altro o contribuire con denaro, le stesse indulgenze che per il passato avevano acquistate i crociati; i beni di quelli, che partivano per la guerra, dovevano essere sotto la protezione della Chiesa nè potevano venire pregiudicati da chicchessia; tutte le loro liti dovevano sospendersi fino al loro ritorno o a che ne fosse accertata la morte ed essi dovevano restare esenti da ogni tributo.

Da una notizia del 15 marzo 1572 appare quanto la faccenda tenesse occupato il papa: in questa settimana si sono tenute in Vaticano niente meno che tre consulte in proposito. Per infervorare Don Juan, alla fine di marzo del 1572 gli vennero mandati come speciale distinzione lo stocco e il berretto benedetti a Natale. Con nuove speranze Pio V guardava al futuro: buona ventura gli risparmiò di vedere che la gloriosa vittoria di Lepanto rimanesse senza immediate conseguenze strategiche e politiche a causa della gelosia e dell’egoismo degli spagnuoli e veneziani, che dal febbraio 1572 disputarono sulle spese della spedizione dell’anno passato. Tanto più grandi furono però gli effetti mediati.

Quanto profondamente venisse scosso l’impero del sultano, risulta dal movimento che prese i suoi sudditi cristiani. Non era affatto ingiustificata la speranza d’una insurrezione di cui sarebbe stata la base la popolazione cristiana di Costantinopoli e Pera, che contava 40,000 uomini. Aggiungevasi la sensibile perdita della grande flotta, che d’un colpo era stata annientata con tutta l’artiglieria e l’equipaggio difficile a surrogarsi.

Se anche, in seguito della grandiosa organizzazione dell’impero e della straordinaria attività di Occhiali, si riuscì a creare un nuovo equivalente, l’avvenire doveva tuttavia insegnare che dalla battaglia di Lepanto data la lenta decadenza di tutta la forza navale di Turchia: era stato messo un termine al suo avanzare e l’incubo della sua invincibilità era stato per la prima volta distrutto. Ciò sentì istintivamente il mondo cristiano ora respirante più agevolmente. Di qui la letizia interminabile, che passò rumorosa per tutti i paesi. «Fu per noi tutti come un sogno», scrisse l’11 novembre 1571 a Don Juan da Madrid Luis de Alzamara; “credemmo di riconoscere l’immediato intervento di Dio”.

Le chiese de’ paesi cattolici risuonarono dell’inno di ringraziamento, il Te Deum. Primo fra tutti Pio V richiamò il pensiero al cielo: nelle medaglie commemorative, che fece coniare, egli pose le parole del salmista: “la destra del Signore ha fatto cose grandi; da Dio questo proviene”. Poichè la battaglia era stata guadagnata la prima domenica d’ottobre, in cui a Roma le confraternite del rosario facevano le loro processioni, Pio V considerò autrice della vittoria la potente interceditrice, la misericordiosa madre della cristianità e quindi ordinò che ogni anno nel giorno della battaglia si celebrasse una festa di ringraziamento come “commemorazione della nostra Donna della vittoria”.

Addì 1° aprile 1573 il suo successore Gregorio XIII stabilì che la festa venisse in seguito celebrata come festa del Rosario la prima domenica d’ottobre. In Ispagna e Italia, i paesi più minacciati dai Turchi, sorsero ben presto chiese e cappelle dedicate a Maria della Vittoria. Il senato veneto pose sotto la rappresentazione della battaglia nel palazzo dei dogi le parole: “nè potenza e armi nè duci, ma la Madonna del Rosario ci ha aiutato a vincere”. Molte città, come ad es. Genova, fecero dipingere la Madonna del Rosario sulle loro porte ed altre introdussero nelle loro armi l’immagine di Maria che sta sulla mezza luna.


Da Ludwig von Pastor, "Storia dei Papi. Dalla fine del medio evo", Desclée, Roma 1950, vol. 8, 1566-1572.
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Segnalazioni:
_Imola Oggi ricorda la giornata, citando l'art.661 c.p., sull’abuso della credulità popolare, a proposito dell'ideologia coatta pro immigrazione di massa. Previste manifestazioni davanti alle Prefetture. (al link, maggiori dettagli)

 lepanto


_Un articolo, trovato in maniera del tutto casuale, riporta un'intervista a uno studioso, dalle idee e storia personale assolutamente diverse da me, e dalla maggior parte dei lettori del sito, ma che arriva a conclusioni anche più nette delle nostre, basandosi sul principio di realtà.
Da Libero, Renaud Camus parla ormai apertamente di sostituzione di popoli, in un testo volutamente non tradotto in italiano dalla stampa sotto tutela.
Le Grand Remplacement, cioè la Grande Sostituzione. 
Spiega perché e soprattutto come si sta compiendo una sostituzione di popoli ai danni degli europei.
(per maggiori dettagli, cliccare sui links segnalati)

mercoledì 8 ottobre 2014

Lepanto, 7 ottobre 1571: battaglia navale, la maggiore a memoria d'uomo

Lepanto, 7 ottobre 1571



Ricordiamo la crociata di san Pio V contro i Turchi che portò alla gloriosa vittoria di Lepanto pubblicando alcune pagine di Ludwig von Pastor, tratte dalla sua monumentale Storia dei Papi. Dopo che s'era discusso per lo spazio di più che tre settimane, finalmente ai 16 di settembre avvenne la partenza da Messina. Diversità d'idee e dissapori si verificarono tuttavia anche altrimenti fra i capitani: ma tutti sentivano che s'andava incontro alla battaglia decisiva. Le ciurme vi si prepararono anche col ricevere i santi sacramenti dai Cappuccini e Gesuiti addetti alla flotta (225). Divisa in quattro squadre, la flotta della lega volse verso Corfù radunandosi poi nel porto di Gomenitsa sulla costa dell'Albania. Ivi in conseguenza d'un'arbitraria azione di Venier contro uno spagnuolo si venne a un litigio con Don Juan, che senza l'avveduto intervento di Colonna avrebbe potuto avere le peggiori conseguenze. Si concordò che intanto Agostino Barbarigo assumesse le veci di Venier. 

Nel frattempo, degli esploratori fecero sapere che la flotta turca era nel porto di Lepanto, l'antica Naupatto. I giorni seguenti passarono in mutua osservazione. Frattanto arrivò la nuova della caduta di Famagosta avvenuta il 1° agosto, dell'obbrobriosa mancanza alla parola commessa dai Turchi e della crudele esecuzione dell'eroico Bragadino. I Turchi avevano scorticato vivo l'infelice, imbottitane la pelle, che, vestita dell'abito veneziano rispondente all'officio, fu trascinata per la città! (226) La novella di questi orrori andò diffondendosi prestamente e tutti i combattenti anelavano alla vendetta. Presi tutti i provvedimenti necessarii per una battaglia, la flotta nella notte del 6 ottobre nonostante vento sfavorevole fece vela, tenendosi strettamente alle isole rupestri delle Curzolari, note nell'antichità col nome di Echinadi, verso l'ampio golfo di Patrasso. 

Allorchè la mattina seguente, per lo stretto canale fra l'isola Oscia e il capo Scrofa si entrò in quel golfo, Don Juan dopo breve con siglio con Venier (227) diede con un colpo di cannone il segno di disporsi per l'attacco, facendo nello stesso tempo issare all'albero maestro della sua nave il vessillo della Santa lega (228). Gli ecclesiastici addetti alla flotta impartirono l'assoluzione generale: ancora una breve, fervida preghiera e poi da migliaia di voci risuonò il grido: Vittoria! Vittoria! Viva Cristo! (229) Le forze a fronte erano molto considerevoli e a un dipresso egualmente forti. I Turchi disponevano di 222 galere, 60 altri vascelli, 750 cannoni, 34,000 soldati, 13,000 marinai e 41,000 schiavi rematori; i cristiani di 207 galere (105 veneziane, 81 spagnuole, 12 pontificie, 3 di Malta, Genova e Savoia ciascuna), 30 altri vascelli, 6 grandi galere o galeazze che «sembravano castelli», 1800 cannoni, 30,000 soldati, 12,900 marinai e 43,000 rematori (230). 

Seguendo la tattica d'allora Don Juan aveva diviso la flotta in quattro squadre quasi egualmente forti e distinte dai colori delle bandiere. Le sei galeazze dei veneziani comandate da Francesco Duodo costituivano l'avanguardia e colla loro superiore artiglieria dovevano spaventare e mettere in disordine i Turchi (231). Dietro ad esse veleggiavano in linea dritta le prime tre squadre, avendo il comando dell'ala sinistra il provveditore veneziano Agostino Barbarigo, della destra l'ammiraglio spagnuolo Doria, del centro Don Juan. Ai due lati della sua nave ammiraglia veleggiavano Colonna e Venier. La quarta squadra sotto Alvaro de Bazan, marchese di Santa Cruz (232), formava la retroguardia. 

Comandava l'ala sinistra della flotta turca il rinnegato calabrese Uluds Alì (Occhiali) (233), pascià d'Algeri, la destra Mohammed Saulak, governatore d'Alessandria, il centro il generalissimo grand’ammiraglio Muesinsade Alì. 

Verso mezzogiorno si calma il vento favorevole ai Turchi. Mentre che il sole sfolgora dal cielo senza nubi, le due flotte s’urtano una contro l'altra, una sotto il vessillo del Crocefisso, l'altra sotto la bandiera purpurea del sultano col nome di Allah ricamato a lettere d'oro. I Turchi cercano di oltrepassare i loro nemici alle due estremità. Al fine di impedire la cosa, Doria distende la sua linea di battaglia tanto che fra l'ala destra e il centro si forma un vuoto, nel quale il nemico può facilmente penetrare. 

Mentre qui la lotta prende una piega pericolosa e Doria in seguito ad abili manovre dei Turchi è spinto con 50 galere verso il mare aperto, la battaglia si svolge molto felicemente all'ala sinistra. Ivi i veneziani combattono contro forze preponderanti con altrettanta tenacia che successo, sebbene il loro capo, il Barbarigo, colpito a un occhio da una freccia, cada mortalmente ferito. Più violenta ondeggia la battaglia al centro. Là Don Juan che ha a bordo 300 vecchi soldati spagnuoli (234), muove direttamente contro la nave di Alì, sulla quale trovansi 400 giannizzeri. Con lui partecipano valorosamente alla sanguinosa lotta, che rimane a lungo indecisa, le galere di Colonna, Requesens, Venier e dei principi di Parma e Urbino. La morte del grande ammiraglio turco Alì, la cui ricca galera viene saccheggiata dai soldati di Don Juan e di Colonna, reca la decisione alle ore 4 circa del pomeriggio. Allorquando i Turchi apprendono il disfacimento del loro centro, anche la loro ala sinistra cede e in conseguenza Uluds deve interrompere la lotta con Doria e pensare alla sua ritirata, che egli eseguisce aprendosi fra gravi perdite la via con 40 galere verso Santa Maura e Lepanto (235). 

Sebbene l'esaurimento dei rematori e lo scoppio d'un violento temporale impedissero che si compisse lunga caccia dei nemici, la vittoria dei cristiani fu tuttavia completa. Rottami di navi e cadaveri coprivano in larga estensione il mare. Circa 8000 Turchi erano morti e 10.000 caduti prigioni; 117 delle loro galere caddero in mano dei cristiani e 50 erano affondate o incendiate. I vincitori perdettero 12 galere ed ebbero 7500 morti con altrettanti feriti. 

Numerosi trofei, come bandiere purpuree con iscrizioni d'oro e d'argento, con stelle e luna, e una grande parte dell'artiglieria nemica erano venuti in mano dei cristiani: 42 prigionieri appartenevano alle più ragguardevoli famiglie turche: fra essi erano il governatore di Negroponte e due figli del grande ammiraglio Alì. Il bottino più bello consistette in 12,000 schiavi cristiani applicati alle galere, fra cui 2000 spagnuoli, che dovettero alla vittoria la loro liberazione (236). Molto sangue di nobili andò versato. Mentre gli spagnuoli ebbero a deplorare la perdita di Juan de Córdova, Alfonso de Cárdena e Juan Ponce de León, i veneziani perdettero 20 nobili delle prime case della repubblica. Fabiano Graziani, fratello dello storico di questa guerra, era caduto a lato del Colonna su una galera pontificia. 

Fra i feriti trovaronsi Venier e un genio allora tuttavia ignoto al mondo, il poeta Cervantes (237). Come la spagnuola e la veneziana, così s'era coperta di gloria anche la nobiltà di Napoli, Calabria, Sicilia e specialmente dello Stato pontificio. Con Alessandro Farnese, principe di Parma, e Francesco Maria della Rovere, principe d'Urbino, si videro fra i combattenti Sforza conte di Santa Fiora, Ascanio della Corgna, Paolo Giordano Orsini di Bracciano, Virginio Orsini di Vicovaro, Orazio Orsini di Bomarzo, Pompeo Colonna, Gabrio Serbelloni, Troilo Savelli, Onorato Caetani, Lelio de' Massimi, Michele Bonelli, i Frangipani, Santa Croce, Capizuchi, Ruspoli, Gabrielli, Malvezzi, Oddi, Berardi (238). 

Con giustificato orgoglio la storiografia italiana ricorda la parte gloriosa presa da rappresentanti di tutti i territorii della penisola appenninica alla battaglia navale, che fu la maggiore a memoria d'uomo (239) Con indescrivibile tensione aveva Pio V tenuto gli occhi rivolti all'Oriente. I suoi pensieri erano continuamente presso la flotta cristiana, i suoi voti la precorrevano di molto. Giorno e notte egli in ardente preghiera la raccomandava alla protezione dell'Altissimo. Dopo che ebbe ricevuto notizia dell'arrivo di Don Juan a Messina, il papa raddoppiò le sue penitenze ed elemosine. Egli aveva ferma fiducia nella potenza della preghiera, specialmente del rosario (240). 

In un concistoro del 27 agosto Pio V invitò i cardinali a digiunare un giorno la settimana ed a fare straordinarie elemosine, solo colla penitenza potendosi sperare misericordia da Dio in sì grande distretta (241). Sua Santità -così notificò ai 26 di settembre del 1571 l'ambasciatore spagnuolo- digiuna tre giorni la settimana e dedica quotidianamente molte ore alla preghiera: ha ordinato anche preghiere nelle chiese (242). Per assicurare Roma da un'improvvisa irruzione di corsari turchi, il papa al principio di settembre aveva comandato che si terminasse la fortificazione di Borgo (243). Soltanto molto rare arrivavano notizie sull'armata cristiana e pertanto alla Curia si stava in penosa incertezza. Fu quindi come un liberazione l'apprendere finalmente ai primi di ottobre l'arrivo della flotta della lega a Corfù (244). Giunta ai 13 di ottobre la nuova che la flotta turca trovavasi a Lepanto e che quella della lega si sarebbe messa in movimento il 30 settembre, (245) non v'aveva dubbio che il cozzo era imminente. Il papa, sebbene fermamente fiducioso della vittoria delle armi cristiane (246), ordinò tuttavia straordinarie preghiere diurne e notturne in tutti i monasteri di Roma: egli poi in simili esercizi andava avanti a tutti col migliore esempio (247). La sua preghiera doveva finalmente venire esaudita. Nella notte dal 21 al 22 ottobre arrivò un corriere mandato dal nunzio a Venezia Facchinetti e rimise al cardinal Rusticucci che dirigeva gli affari della segreteria di Stato una lettera del Facchinetti contenente la notizia portata a Venezia il 19 ottobre da Giofrè Giustiniani della grande vittoria ottenuta presso Lepanto sotto l'ottima direzione di Don Juan (248). Il cardinale fece tosto svegliare il papa, che prorompendo in lagrime di gioia pronunziò, le parole del vecchio Simeone: «nunc dimittis servum tuum in pace». Si alzò subito per ringraziare Iddio in ginocchio e poi ritornò in letto, ma per la lieta eccitazione non potè trovar sonno (249). La mattina seguente si recò a S. Pietro per nuova calda preghiera di ringraziamento, ricevendo poscia gli ambasciatori e cardinali ai quali disse che ora dovevansi fare nel prossimo anno gli sforzi estremi per continuare la guerra turca (250). 

In quest'occasione egli alludendo al nome di Don Juan ripetè le parole della Scrittura: «fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Ioannes». (…) Tanto Colonna quanto il papa avevano chiara coscienza di quanto mancasse ancora per raggiungere la grande meta dell'abbattimento della potenza degli ottomani: ambedue erano così concordi sui passi da intraprendersi che Pio V associò il suo esperimentato ammiraglio ai cardinali deputati per gli affari della lega, che dal 10 dicembre tenevano quasi ogni giorno coi rappresentati di Spagna, Requesens e Pacheco, e cogli inviati di Venezia due sedute (278), spesso della durata di cinque ore (279). Sotto pena di scomunica riservata al papa tutto era tenuto rigorosissimamente segreto, perchè il sultano aveva mandato a Roma degli spioni parlanti italiano (280). 

Nelle consulte ordinate dal papa nei mesi di ottobre e novembre era venuta in prima linea la provvista dei mezzi finanziarii (281); ora trattavasi principalmente dello scopo dell'impresa da compiersi nella prossima primavera. E qui solo malamente i rappresentanti sia di Spagna, sia di Venezia potevano nascondere la gelosia e avversione, che nutrivano a vicenda. Gli interessi particolari dei due alleati emersero sì fortemente che venne messa in forse qualsiasi azione comune. I veneziani volevano servirsi della lega non solo per riavere Cipro, ma anche per fare nuove conquiste in Levante. Filippo II, invece, avverso ad ogni rafforzamento della repubblica di S. Marco, fece dichiarare dal Requesens che la lega doveva in primo luogo muovere contro gli stati berbereschi dell’Africa, perchè questi tornassero in possesso della Spagna. In questa proposta i veneziani videro una trappola per impedirli dalla riconquista di Cipro ed esporli al pericolo di perdere anche Corfù mentre la loro flotta combatteva gli stati berbereschi pel re di Spagna (282). 


A Venezia ritenevasi ora sicuro che Filippo II volesse trarre il maggior utile possibile nel suo proprio interesse dalle forze della lega. Non può dirsi con certezza quanto le lagnanze per ciò sollevate siano giustificate. Per giudicare rettamente il re di Spagna va in ogni modo tenuto conto del contegno della Francia, il cui governo fu abbastanza svergognato da proporre al sultano subito dopo la battaglia di Lepanto un'alleanza diretta contro la Spagna. Filippo II era perfettamente a giorno delle trattative che la Francia conduceva non solo col sultano, ma anche cogli ugonotti, i capi della rivoluzione neerlandese e con Elisabetta d'Inghilterra. In conseguenza egli doveva fare i conti con un contemporaneo attacco d'una coalizione franco-neerlandese-inglese-turca. Non fu pertanto solo gelosia verso Venezia quella che guidò il re cattolico (283). 

Del resto lo stesso Don Juan confessò ch'era contro il tenore del patto della lega rinunciare alla guerra contro il sultano a favore di un'impresa in Africa (284). Di fronte al contrasto degli interessi spagnuoli e veneziani Pio V continuò a rappresentare la concezione più vasta e sommamente disinteressata: egli pensava alla liberazione di Gerusalemme, a cui doveva precedere la conquista di Costantinopoli (285). Ma, come scrisse Zúñiga all’Alba il 10 novembre 1571, un colpo efficace nel cuore della potenza ottomana era possibile soltanto in vista di un attacco contemporaneo e all'impensata per terra e per mare (286). Di qui i continuati sforzi di Pio V per arrivare a una coalizione europea contro i Turchi. 

Se a questo riguardo nulla era da sperarsi dalla Francia (287), che nel luglio aveva mandato un ambasciatore in Turchia (288), egli tuttavia sperava di guadagnare all'idea almeno altre potenze, prima di tutti l’imperatore, poi Polonia e Portogallo. A dispetto di tutti gli insuccessi finallora incontrati egli coi suoi legati e nunzi continuò a spingere sempre a questa meta (289). Pio V cercava di utilizzare al possibile a questo riguardo il più leggero segno di buona volontà. Così prese occasione dalle frasi generiche, con cui Massimiliano II assicurò di essere disposto ad aiutare la causa cristiana, per dargli l'aspettativa da parte degli alleati di un aiuto di 20,000 uomini a piedi e di 2000 a cavallo. L'imperatore ringraziò ai 25 di gennaio del 1572 dell'offerta deplorando di non potere subito decidersi in un negozio di tale importanza (290). 

A Roma il duca di Urbino fece risaltare che c'era poco da sperare da Massimiliano ed anzi nulla dai principi tedeschi, specialmente dai protestanti. In un memoriale del papa del gennaio 1572 egli sostenne con buone ragioni l'idea che la guerra dovesse condursi là dove esercito e flotta potessero operare congiunte e dove «noi siamo padroni della situazione», quindi principalmente colla flotta in Levante. Se i Turchi venissero attaccati in Europa dall'imperatore e dalla Polonia, tanto meglio; ma la cosa principale è che si attacchi tosto, perchè chi semplicemente si difende non combatte; chi vuole conquistare deve andare avanti risoluto. La lega quindi si volga contro Gallipoli aprendosi così lo stretto dei Dardanelli (291). 

Ma per tale impresa era incondizionatamente necessaria una intesa della Spagna con Venezia, mentre invece i loro rappresentanti da mesi altercavano a Roma nel modo più spiacevole. Quando finalmente i veneziani fecero la proposta, conforme alle clausole del patto della lega del maggio 1571, di far decidere dal papa i punti contestati, anche la Spagna non osò fare opposizione. Decise Pio V che la guerra della lega dovesse continuarsi nel Levante, che nel marzo la flotta pontificia si riunisse con la spagnuola a Messina e s'incontrasse con la veneta a Corfù, donde le tre forze unite dovevano procedere secondo gli ordini dei loro ammiragli, che gli alleati aumentassero, potendolo, le loro galere fino a 250 e procurassero secondo la proporzione prescritta nel patto della lega 32,000 soldati e 500 cavalieri oltre alla corrispondente artiglieria e munizioni e che alla fine di giugno dovessero trovarsi riuniti a Otranto 11,000 soldati (1000 pontifici, 6000 spagnuoli e 4000 veneziani). Ognuno degli alleati doveva preparare vettovaglie per sette mesi (292). Queste convenzioni vennero sottoscritte il 10 febbraio 1572 (293). Il 16 Pio V ammonì il gran maestro dei Gerosolimitani di tenere pronte le sue galere a Messina (294). I preparativi nello Stato pontificio, pei quali il denaro venne procurato principalmente col «Monte della Lega» (295), furono spinti avanti sì alacremente che nello stesso giorno si potè inviare ad Otranto 1800 uomini (296). 

A Civitavecchia erano pronte tre galere ed altre là erano attese da Livorno (297). Il papa era tutto pieno del pensiero della crociata: egli viveva e movevasi nel progetto, di cui fin dal principio era stato da solo l'anima. Per dieci anni, così si espresse Pio V col cardinale Santori, deve farsi guerra ai Turchi per mare e per terra (298). La bolla del giubileo, in data 12 marzo 1572, concedeva a tutti coloro, che prendevano essi stessi le armi o volevano equipaggiare un altro o contribuire con denaro, le stesse indulgenze che per il passato avevano acquistate i crociati; i beni di quelli, che partivano per la guerra, dovevano essere sotto la protezione della Chiesa nè potevano venire pregiudicati da chicchessia; tutte le loro liti dovevano sospendersi fino al loro ritorno o a che ne fosse accertata la morte ed essi dovevano restare esenti da ogni tributo (299). 

Da una notizia del 15 marzo 1572 appare quanto la faccenda tenesse occupato il papa: in questa settimana si sono tenute in Vaticano niente meno che tre consulte in proposito (300). Per infervorare Don Juan, alla fine di marzo del 1572 gli vennero mandati come speciale distinzione lo stocco e il berretto benedetti a Natale (301). Con nuove speranze Pio V guardava al futuro: buona ventura gli risparmiò di vedere che la gloriosa vittoria di Lepanto rimanesse senza immediate conseguenze strategiche e politiche a causa della gelosia e dell’egoismo degli spagnuoli e veneziani, che dal febbraio 1572 disputarono sulle spese della spedizione dell'anno passato (302). Tanto più grandi furono però gli effetti mediati. 

Quanto profondamente venisse scosso l'impero del sultano, risulta dal movimento che prese i suoi sudditi cristiani. Non era affatto ingiustificata la speranza d'una insurrezione di cui sarebbe stata la base la popolazione cristiana di Costantinopoli e Pera, che contava 40,000 uomini (303). Aggiungevasi la sensibile perdita della grande flotta, che d'un colpo era stata annientata con tutta l'artiglieria e l'equipaggio difficile a surrogarsi. Se anche, in seguito della grandiosa organizzazione dell'impero e della straordinaria attività di Occhiali, si riuscì a creare un nuovo equivalente, l'avvenire doveva tuttavia insegnare che dalla battaglia di Lepanto data la lenta decadenza di tutta la forza navale di Turchia: era stato messo un termine al suo avanzare e l'incubo della sua invincibilità era stato per la prima volta distrutto (304). Ciò sentì istintivamente il mondo cristiano ora respirante più agevolmente. 

Di qui la letizia interminabile, che passò rumorosa per tutti i paesi (305). «Fu per noi tutti come un sogno», scrisse l’11 novembre 1571 a Don Juan da Madrid Luis de Alzamara; «credemmo di riconoscere l'immediato intervento di Dio» (306). Le chiese de’ paesi cattolici risuonarono dell'inno di ringraziamento, il «Te Deum» (307). Primo fra tutti Pio V richiamò il pensiero al cielo: nelle medaglie commemorative, che fece coniare, egli pose le parole del salmista: «la destra del Signore ha fatto cose grandi; da Dio questo proviene» (308). Poichè la battaglia era stata guadagnata la prima domenica d'ottobre, in cui a Roma le confraternite del rosario facevano le loro processioni, Pio V considerò autrice della vittoria la potente interceditrice, la misericordiosa madre della cristianità e quindi ordinò che ogni anno nel giorno della battaglia si celebrasse una festa di ringraziamento come «commemorazione della nostra Donna della vittoria» (309). Addì 1° aprile 1573 il suo successore Gregorio XIII stabilì che la festa venisse in seguito celebrata come festa del Rosario la prima domenica d'ottobre (310). In Ispagna e Italia, i paesi più minacciati dai Turchi, sorsero ben presto chiese e cappelle dedicate a «Maria della Vittoria» (311). Il senato veneto pose sotto la rappresentazione della battaglia nel palazzo dei dogi le parole: «nè potenza e armi nè duci, ma la Madonna del Rosario ci ha aiutato a vincere» (312). Molte città, come ad es. Genova (313), fecero dipingere la Madonna del Rosario sulle loro porte ed altre introdussero nelle loro armi l'immagine di Maria che sta sulla mezza luna.

Tratto da: Ludwig von Pastor, Storia dei Papi. Dalla fine del medio evo, Desclée, Roma 1950, vol. 8, 1566-1572

sabato 12 ottobre 2013

SAN PIO V


 SAN PIO V
negli Atti Parlamentari della Repubblica Italiana di appena 10 anni fa 

Atti Parlamentari - Camera dei Deputati - 6 ottobre 2003

FEDERICO BRICOLO. Signor Presidente, approfitto del provvedimento riguardante l'assegnazione di risorse finanziarie a favore dell'Istituto «San Pio V», oggi all'esame 
dell'Assemblea, per intervenire a titolo personale in merito alla figura di questo grande Papa santo. 

Si tratta senza dubbio di uno dei più grandi Papi della storia della Chiesa. Un Papa padano, San Pio V, che nacque in Piemonte, a Bosco Marengo, nel 1504, da una nobile famiglia di origine bolognese, la famiglia Ghislieri. A 14 anni entrò nell'ordine domenicano, ordine che brillò nella 
lotta contro le eresie di quel periodo, lo stesso ordine Mendicante di San Pietro da Verona e di San Tommaso D'Aquino. Lui stesso fu un grande inquisitore, Commissario generale del Santo Uffizio e poi Papa per soli sette anni, dal 1566 al 1572. Sette anni drammatici, epici, gloriosi, vissuti coraggiosamente, che rimarranno impressi per 
sempre nella storia della nostra civiltà. 

In questi sette anni di pontificato San Pio V arrestò l'eresia in Germania e in Francia, dove inviò un corpo di armati pontifici a combattere i protestanti, contribuendo alla deposizione della regina anglicana Elisabetta I di Inghilterra. Emanò inoltre il catechismo tridentino, che è alla base di tutti i 
catechismi dell'orbe cattolico. Anni in cui confermò, decretò e rese perenne la Messa in latino in rito romano antico, anni in cui si batté contro l'islam e indisse la crociata contro i turchi, che vennero sconfitti nella più grande battaglia navale della storia a Lepanto il 7 ottobre 1571, consacrando quel 
giorno, da allora in poi, alla Madonna del Rosario alla cui intercessione attribuì la vittoria. 

Senza dubbio, dunque, un grande della storia, un Papa santo, giudicato oggi, da molti, scomodo, cui tutti, però, dobbiamo molto. Il Papa della tradizione, il Papa che combatté per difendere la nostra civiltà. Fu lui, come abbiamo detto, che preservò la liturgia cattolica dall'attacco dell'eresia protestante di Lutero. 

Con la bolla Quo primum tempore del 1570 stabilì una volta per tutte la liturgia della Messa, quella stessa messa che fino a quarant'anni fa veniva celebrata in tutto il mondo cristiano. Mi permetto di citare alcuni passi di questa bolla, per far capire come fosse chiara e decisa la posizione di San Pio V su questo argomento: "La Messa non potrà essere celebrata in altro modo da quello prescritto dal Messale da noi pubblicato, da valere in perpetuo, e decretiamo e dichiariamo che in nessun tempo queste disposizioni potranno venire revocate  o diminuite, ma stabili e sempre valide dovranno rimanere nel loro vigore. Nessuno dunque si permetta in nessun modo con temerario ardimento 
di violare e trasgredire questo nostro documento, che se qualcuno avrà l'audacia di attentarvi, sappia che incorrerà nell'indignazione di Dio onnipotente e dei suoi beati Pietro e Paolo". 

Sappiamo tutti, invece, cosa é poi accaduto: quarant'anni fa le commissioni post-Concilio Vaticano II decisero di cambiare tutta la liturgia della Messa. 
Il 3 aprile 1969 Paolo VI ruppe con la continuità di duemila anni di tradizione liturgica e promulgò la Costituzione apostolica Missale Romanum. Si trattava di 
un cambiamento radicale, eseguito in spirito ecumenico; si «protestantizzò» la liturgia, si girarono gli altari, ma soprattutto si crearono i presupposti e si aprì la strada per un processo di riforma liturgica che ora permette a sacerdoti sempre più disorientati di celebrare messe con rappresentanti di altre religioni, di celebrare messe con la bandiera della pace sull'altare, di introdurre tamburi, 
chitarre, ballerini nelle chiese, di servire la comunione non più in ginocchio in segno di riverenza ma in piedi o addirittura nelle mani, di fare confessioni comuni, cambiando talvolta il significato stesso della Messa da sacrificio redentivo a banchetto conviviale. 

Gli stessi cardinali Bacci e Ottaviani - allora prefetto del Sant'Uffizio - inviarono una lettera a Paolo  VI, il 5 ottobre 1969, in cui affermavano che la nuova messa rappresenta sia nel suo insieme sia nei particolari un impressionante allontanamento dalla teologia cattolica di sempre.

Dunque, un Papa (san PIO V) scomodo ai giorni nostri, sicuramente dal punto di vista della liturgia: non piace evidentemente a nessuno ricordare tali sue affermazioni. 
Un Papa ancora più scomodo per la sua battaglia anti-islamica, in difesa della nostra civiltà: se oggi l'Europa non è islamica, molto lo si deve a San Pio V. 

Domani ricorre il quattrocentotrentaduesimo anniversario della battaglia di Lepanto, in cui la flotta degli Stati cristiani voluta da San Pio V sconfisse quella ottomana. Mesi di 
paziente lavoro diplomatico lo portarono alla costituzione della Lega santa, guidata dal giovane Giovanni d'Austria, figlio di Carlo V, cui partecipò in primis, con più della metà delle imbarcazioni - e da veneto lo dico con un certo orgoglio - la Serenissima Repubblica di Venezia, e poi la 
cattolicissima Spagna di Filippo II, lo Stato pontificio, Genova, i Savoia, moltissimi volontari provenienti da tutta la cristianità. 

Per merito di quel Papa, gli Stati cristiani del Mediterraneo si unirono per battere il nemico comune, un nemico sempre più feroce, un nemico sempre più pericoloso, il nemico islamico. 
È chiaro dunque che questo Papa, forse più di tutti, impersona valori che in molti settori della nostra società oggi si vogliono cancellare. L'ideologia illuminista e relativista propria della nostra realtà, impostata su non valori, trema nel dover fare i conti con questo passato. 

La Chiesa stessa, uscita dal Vaticano II, ha paura a confrontarsi con questo Papa e con ciò che ha rappresentato. Lo vogliono dimenticare e, spesso molti, lo dico anche con disagio, addirittura se ne vergognano. 
È dunque doveroso oggi, in questa occasione, ricordare da parte mia ciò che molti vogliono dimenticare. 

Anche questa Chiesa, dicevamo, con il Concilio Vaticano II si è trasformata: una nuova messa, una nuova teologia dei sacramenti, un nuovo catechismo, un nuovo diritto canonico, nuovi concordati, addirittura una nuova lettura della storia, quasi che qualcuno volesse farla diventare una nuova religione. Oggi sembra affermare cose che in passato apparentemente condannava. Pensiamo all'atteggiamento sulla libertà religiosa. Pensiamo alle condanne che vengono 
emesse sul glorioso periodo delle crociate, dimenticando che le stesse crociate vennero indette, predicate e combattute da santi papi come - appunto - San Pio V, dal Beato Urbano II, da santi predicatori come Bernardo Chiaravalle, da santi re, uno su tutti San Luigi, re di Francia. 

Pensiamo a figure di santi stravolte e riviste in chiave modernista, come quella di San Francescodiventato il paladino della teologia della liberazione, il santo dei pacifisti. 
Tutti dimenticano che San Francesco partecipò alla quinta crociata e incontrò anche il sultano Malik al Kamil, non certo per dialogare ma per tentare di convertirlo. Questa è storia. 

In un interessante studio sulla figura di San Francesco, Guido Vignelli illustra le distorsioni della cultura laicista. E non solo. Anche Vittorio Messori, nel libro, Uomini, storia e fede, parla della figura di San Francesco e di come essa sia stata travisata in questi giorni. È interessante leggere 
cosa dice Messori sulla figura di San Francesco: questo San Francesco che esercita un fascino unico su uomini di ogni razza, di ogni fede e di ogni incredulità; ma spesso il loro Francesco non è mai esistito. A lui credono di rifarsi adepti e proseliti di molte ideologie e utopie contemporanee, 
sospette e, magari, dannose sotto le nobili apparenze. È nel suo nome che si parla di uno spirito di Assisi che ha spesso l'aria di uno spirito di pseudoecumenismo da 8 settembre, da tutti a casa.Messori cita una dichiarazione di Franco Cardini, medievalista, che - anch'egli - si ribella al disegno 
che è stato proposto di San Francesco. Dice Cardini che San Francesco non è affatto il personaggio che generalmente ci viene presentato adesso. Non era il precursore dei teologi della liberazione né tantomeno fu l'araldo di un cristianesimo dolciastro, melenso, ecologico e pacifista, del tipo di chi ride sempre, dello scemo del villaggio, di chi parla con gli uccellini e fa amicizia con i lupi. 
Francesco era un'altra cosa. Ecco, questi sono alcuni esempi sui quali, purtroppo, ci dobbiamo confrontare in questo momento. 

Ora, invece, dobbiamo prendere atto che molti sacerdoti non cercano più di convertire come facevano nel passato ma, anzi, si arrendono, attraverso il dialogo ecumenico, di fronte al dilagare delle altre religioni. Dunque, siamo costretti ad assistere, ogni giorno di più, a situazioni che sarebbero state giudicate impossibili, incredibili e inaccettabili fino a pochi anni fa: incontri di preghiera sincretistici; preti che si vergognano di vestirsi da preti; sacerdoti che sfilano nei gay 
pride e che manifestano nelle piazze con i violenti dei centri sociali, che affermano che non serve credere nella Chiesa per salvarsi, che vogliono sposarsi, che vivono il loro sacerdozio come un lavoro e non come una missione. 

La crisi della Chiesa nasce, evidentemente, dal Concilio Vaticano II. Si è arrivati al punto che, in molte chiese, i vescovi negano ai loro fedeli la messa tridentina, che, per altro, è autorizzata dal Vaticano, e allo stesso tempo concedono le loro chiese o i locali delle loro parrocchie ai 
rappresentanti di altre religioni, tra cui agli islamici, magari per festeggiare la fine del Ramadan. La gente, i fedeli stessi sono sempre più confusi: non hanno esempi su cui basarsi né certezze in cui credere e si stanno creando una propria religione, una religione soggettivista. 

Il venerabile Pio XII 
pronunciò queste parole che oggi, forse, sembrano profetiche: verrà un giorno in cui il mondo civilizzato rinnegherà il suo Dio, in cui la Chiesa dubiterà come Pietro ha dubitato; sarà tentata di credere che l'uomo è diventato Dio e che suo figlio non è che un simbolo, una filosofia 
come tante altre. Forse, quel giorno sta per arrivare, purtroppo. Comunque, è certo che i presupposti di quell'avvento nascono, sicuramente, nel Concilio Vaticano II, di cui, evidentemente, non si potrà parlare mai sufficientemente male per i danni che dalla sua 
interpretazione sono derivati, causando  una crisi della Chiesa che sembra inarrestabile. 

Confido in un ripensamento, in un ritorno alla tradizione. È l'unica ancora di salvezza di fronte alle tenebre di questa società moderna, impostata ormai sull'unico valore del dio denaro. San Pio V è l'esempio della tradizione, è l'esempio che molti, nella Chiesa cattolica di oggi, dovrebbero seguire. 
Dobbiamo difendere la nostra identità. Molti non si rendono neanche conto dell'eredità a cui stiamo rinunciando: 2 mila anni di storia che pian piano saranno cancellati. 

Il mondo moderno, le multinazionali e i grandi interessi hanno, evidentemente, bisogno di masse senza personalità e senza identità, da guidare e a cui imporre le proprie regole. E l'identità religiosa che, comunque, ti lega al territorio e alle sue tradizioni diventa un ostacolo. Ed è chiaro che faranno di tutto per abbattere questo ostacolo. Dunque, è indispensabile muoversi, agire e combattere e certo non conformarsi al pensiero unico, contro i nemici della tradizione, della nostra storia, della nostra cultura e della nostra identità. 

Per chi crede in questa battaglia, il santo giusto a cui votarsi è sicuramente San Pio V, il papa di Lepanto. 
Io spero che questo istituto, visto che è intitolato a San Pio V, al papa di Lepanto, porti avanti nella sua azione questi valori che, abbiamo visto, si vogliono dimenticare, si vogliono cancellare. Questi valori sono scomodi, ma comunque rappresentano la nostra storia e noi pensiamo sia importante farli ricordare a tutti. 

PRESIDENTE. Non vi sono altri iscritti a parlare e pertanto dichiaro chiusa la discussione sulle linee generali.