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sabato 4 ottobre 2014

BEATI I POVERI DI SPIRITO!



<<"Come si conquista Iddio e il suo Regno attraverso altra più dolce

via che non la severa del Sinai?" voi dite. 
Non vi è altra via. Quella è. Ma però guardiamola non attraverso il
colore della minaccia, ma attraverso il colore dell'amore. Non diciamo: 
"Guai se non farò questo!" rimanendo tremanti in attesa di peccare, 
di non essere capaci di non peccare. Ma diciamo: "Beato me se farò
questo!" e con slancio di soprannaturale gioia, giubilando, lanciamoci 
verso queste beatitudini, nate dall'osservanza della Legge come corolle di 
rose da un cespuglio di spine.


1-Beato me se sarò povero di spirito perché mio allora è il Regno dei Cieli!

2-Beato me se sarò mansueto perché erediterò la Terra!
3-Beato me se sarò capace di piangere senza ribellione perché sarò consolato!
4-Beato me se più del pane e del vino per saziare la carne avrò fame e sete 
di giustizia. La Giustizia mi sazierà! Beato me se sarò misericordioso perché 
mi sarà usata divina misericordia!
5-Beato me se sarò puro di cuore perché Dio si piegherà sul mio cuore 
puro ed io lo vedrò!
6-Beato me se avrò spirito di pace perché sarò da Dio chiamato suo 
figlio, perché nella pace è l'amore, e Dio è Amore che ama chi è simile a Lui!
7-Beato me se per fedeltà alla giustizia sarò perseguitato, perché a 
compensarmi delle terrene persecuzioni Dio, mio Padre, mi darà il 
Regno dei Cieli!
8-Beato me se sarò oltraggiato e accusato bugiardamente per 
saper essere tuo figlio, o Dio! Non desolazione ma gioia mi deve venire 
da questo, perché questo mi uguaglia ai tuoi servi migliori, ai Profeti, 
per la stessa ragione perseguitati, e coi quali io credo fermamente di 
condividere la stessa ricompensa grande, eterna, nel Cielo che è mio! 


Guardiamo così la via della salute. Attraverso la gioia dei santi.



(1) Beato me se sarò povero di spirito Oh! delle ricchezze, arsura 

satanica, a quanti deliri tu porti! Nei ricchi, nei poveri. Il ricco che 
vive per il suo oro: l'idolo infame del suo spirito rovinato. 
Il povero che vive dell'odio al ricco perché egli ha l'oro, e se anche 
non fa materiale omicidio lancia i suoi anatema sul capo dei ricchi,
desiderando loro male d'ogni sorta. 

Il male non basta non farlo, 
bisogna anche non desiderare di farlo. Colui che maledice augurando 
sciagure e morti non è molto dissimile da colui che materialmente 
uccide, poiché ha in lui il desiderio di veder perire colui che odia. 

In verità vi dico che il desiderio non è che un atto trattenuto,
come un concepito da ventre già formato ma non ancora espulso
Il desiderio malvagio avvelena e guasta, poiché permane più a lungo 
dell'atto violento, più in profondità dell'atto stesso

Il povero di spirito se è ricco non pecca per l'oro, ma del suo oro fa la sua 
santificazione poiché ne fa amore. Amato e benedetto, egli è
simile a quelle sorgive che salvano nei deserti e che si danno, 
senza avarizia, liete di potersi dare per sollevare le disperazioni. 

Se è povero, è lieto nella sua povertà, e mangia il suo pane dolce della 
ilarità del libero dall'arsione dell'oro, e dorme il suo sonno scevro 
da incubi, e sorge riposato al suo sereno lavoro che pare sempre 
leggero se viene fatto senza avidità e invidia. 

Le cose che fanno ricco l'uomo sono l'oro come materia, gli affetti come morale. 
Nell'oro sono comprese non solo le monete ma anche le case, i campi, i
gioielli, i mobili, le mandrie, tutto quanto insomma fa materialmente 
doviziosa la vita. 
Nelle affezioni: i legami di sangue o di coniugio, le amicizie, le dovizie 
intellettuali, le cariche pubbliche. 

Come vedete, se per la prima categoria il povero può dire: " Oh! per me! 
Basta che io non invidi chi ha e poi sono a posto perché
io sono povero e perciò a posto per forza ", per la seconda anche 
il povero ha da sorvegliarsi, potendo, anche
il più miserabile fra gli uomini, divenire peccaminosamente ricco di spirito. 

Colui che si affeziona smoderatamente ad una cosa, 
ecco che pecca. Voi direte: "Ma allora dobbiamo odiare il bene che 
Dio ci ha concesso? Ma allora perché comanda di amare il padre e 
la madre, la sposa, i figli, e dice: 'Amerai il tuo prossimo come te stesso? 
Distinguete. Amare dobbiamo il padre e la madre e la sposa e il 
prossimo, ma nella misura che Dio ha dato: " come noi stessi ". Mentre 
Dio va amato sopra ogni cosa e con tutti noi stessi. Non amare Dio come 
amiamo fra il prossimo i più cari, questa perché ci ha allattato, 
l'altra perché dorme sul nostro petto e ci procrea i figli, ma amarlo 
con tutti noi stessi, ossia con tutta la capacità di amare che è
nell'uomo: amore di figlio, amore di sposo, amore di amico e, oh! 
non vi scandalizzate! e amore di padre. 

Sì, per l'interesse di Dio 
dobbiamo avere la stessa cura che un padre ha per la sua prole, 
per la quale con amore tutela le sostanze e le accresce, e si 
occupa e preoccupa della sua crescita fisica e culturale e della sua riuscita
nel mondo. L'amore non è un male e non lo deve divenire. 

Le grazie che Dio ci concede non sono un male e non lo devono 
divenire. Amore sono. Per amore sono date. Occorre con amore 
usarne di queste ricchezze che Dio ci concede in affetti e in bene. 
E solo chi non se ne fa degli idoli ma dei mezzi per servire in santità
Dio, mostra di non avere un attaccamento peccaminoso ad esse. 
Pratica allora la santa povertà dello spirito, che di tutto si spoglia per 
essere più libero di conquistare Iddio santo, suprema Ricchezza. 
Conquistare Dio, ossia avere il Regno dei Cieli. >>


lunedì 16 giugno 2014

San Francesco Antonio Fasani


Carissimo Amico/Amica,

Il 25 marzo 1858, verso le quattro del mattino, Bernadette Soubirous lascia la «segreta», la catapecchia in cui abita la sua famiglia, per recarsi alla grotta di Massabielle, dove, dall'11 febbraio, le appare una misteriosa Signora. L'adolescente di quattordici anni attraversa Lourdes addormentata, accompagnata da alcune persone cui sua zia ha rivelato il segreto. Ha appena recitato una posta del rosario davanti alla grotta, quando la Signora le si manifesta. Sorridente, le fa segno di avvicinarsi. Bernadette si trova allora vicinissima alla Visitatrice cui trasmette, nel suo dialetto regionale, la richiesta pressante del suo Curato: «Signora, vuol avere la bontà di dirmi chi è?» L'Apparizione sorride e non risponde. Per due volte, la ragazza ripete la domanda. La terza volta, la Signora, che tiene le mani aperte, le congiunge all'altezza del cuore e dice: «Que soy era Immaculada Councepciou... (cioè: Sono l'Immacolata Concezione). Desidero che qui sorga una cappella...» Poi, sempre sorridendo, si dilegua.

Sulla via del ritorno, Bernadette non smette di ripetere, per paura di dimenticarle, quelle parole incomprensibili per lei: «Que soy era Immaculada Councepciou». Corre dal Signor Curato e gli dichiara, senza nemmeno salutarlo: «Que soy era Immaculada Councepciou. – Cosa dici mai, piccola presuntuosa? – È la Signora che mi ha detto queste parole... – La tua Signora non può avere questo nome! Ti sbagli! Sai cosa vuol dire l'Immacolata Concezione? – Non lo so; per questo ho ripetuto le parole continuamente, fin qui, per non dimenticarle».

Come potrebbe sapere cosa significa «l'Immacolata Concezione», lei che non ha ancora imparato a leggere e che si è appena iscritta al Catechismo? Ma il sacerdote lo sa benissimo: meno di quattro anni prima, papa Pio IX ha proclamato la Santa Vergine immacolata nella Concezione. Nella Bolla Ineffabilis, dell'8 dicembre 1854, ha detto: «Noi determiniamo che la dottrina che considera che la Beata Vergine Maria è stata, fin dal primo istante della sua concezione, per una grazia ed un privilegio singolare di Dio onnipotente, in previsione dei meriti di Gesù Cristo, Salvatore del genere umano, preservata intatta da ogni macchia del peccato originale, è una dottrina rivelata da Dio, e pertanto essa deve essere fermamente e costantemente creduta da tutti i fedeli». Più di diciotto secoli dopo Gesù Cristo, attraverso tale atto solenne, il Papa ha definito un nuovo dogma. Certi si chiedono: come è possibile? La Chiesa ha un simile potere? La Rivelazione non è finita con Gesù Cristo?

Effettivamente, nella Lettera agli Ebrei, si legge: Dio, che aveva già parlato nei tempi antichi molte volte e in diversi modi ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio (Eb. 1, 1-2). San Giovanni della Croce commenta questo passo nei seguenti termini: «Dal momento in cui ci ha donato il Figlio suo, che è la sua unica e definitiva Parola, Dio non ha da dirci altre parole. Ci ha detto tutto in una sola volta con questa sola Parola... infatti quello che un giorno diceva parzialmente ai profeti, l'ha detto tutto in suo Figlio, dandoci questo tutto che è suo Figlio». Il Concilio Vaticano II ricorda anch'esso: «L'economia cristiana, in quanto è Alleanza Nuova e definitiva, non passerà mai e non c'è da aspettarsi alcuna nuova Rivelazione pubblica prima della manifestazione gloriosa di nostro Signore Gesù Cristo» (Dei Verbum, n. 4).

Progredire nell'intelligenza della fede

«Tuttavia, insegna il Catechismo della Chiesa Cattolica, anche se la Rivelazione è compiuta, non è però completamente esplicitata; toccherà alla fede cristiana coglierne gradualmente tutta la portata nel corso dei secoli» (CCC, n. 66). La Rivelazione è stata affidata da Dio alla Chiesa, perchè essa la trasmetta e la interpreti. «L'ufficio di interpretare autenticamente la Parola di Dio scritta o trasmessa è stato affidato al solo Magistero vivente della Chiesa, la cui autorità è esercitata nel nome di Gesù Cristo... Il Magistero della Chiesa si avvale in pienezza dell'autorità che gli viene da Cristo quando definisce qualche dogma, cioè quando, in una forma che obbliga il popolo cristiano ad un'irrevocabile adesione di fede, propone verità contenute nella Rivelazione divina... Così, grazie all'assistenza dello Spirito Santo, l'intelligenza tanto delle realtà quanto delle parole del deposito della fede può progredire nella vita della Chiesa» (CCC, nn. 85-88-94); cosa che si è realizzata in particolare con la definizione del dogma dell'Immacolata Concezione.

Questo dogma si basa, nella Sacra Scrittura, sul saluto dell'Angelo Gabriele alla Vergine Maria: Ti saluto, o piena di grazia (Luca 1, 27); tale pienezza di grazia è veramente completa solo se si estende, nel tempo, al primo istante della vita della Santa Vergine, quello della sua concezione. Tuttavia, questo passo del Vangelo, pur fornendo una preziosa indicazione, non basta, da solo, a dimostrare la verità dell'Immacolata Concezione della Santissima Vergine; perchè la luce che contiene sia afferrata pienamente, bisogna ricorrere alla testimonianza della Tradizione. Infatti, la Chiesa «non trae la certezza su tutti i punti della Rivelazione dalla sola Sacra Scrittura. Per questo la Scrittura e la Tradizione devono esser ricevute e venerate con pari sentimento di pietà e di rispetto» (Concilio Vaticano II, Dei Verbum, n. 9).

La credenza nell'immacolata concezione di Maria risale ai primi secoli della storia della Chiesa. I Padri della Chiesa che ne hanno parlato sono unanimi nel riconoscere che la Madre di Gesù Cristo è la sposa tutta bella e senza macchia di cui è questione nel Cantico dei Cantici (4, 7). Sant'Efrem († 373) scrive che la Madre di Dio è «piena di grazia..., tutta pura, tutta immacolata, tutta senza peccato..., assolutamente estranea a qualsiasi lordura ed a qualsiasi macchia del peccato» (Oratio ad Deiparam). La festa liturgica della Concezione di Maria (8 dicembre) esiste almeno dal settimo secolo nella Chiesa greca. Grandi teologi, nel Medioevo, hanno, è vero, formulato obiezioni contro la credenza nell'Immacolata Concezione, che sembrava loro costituire una minaccia per l'universalità della Redenzione di Cristo. Il beato Giovanni Duns Scoto (1266-1308), e, come lui, i teologi della scuola francescana, hanno risposto che Maria è rimasta immune da ogni macchia del peccato originale, in previsione dei meriti futuri di Gesù Cristo, Salvatore del genere umano; la Santa Vergine è stata dunque effettivamente riscattata dal Sangue di Gesù Cristo, ma in un modo affatto sublime, quello della preservazione dal peccato.

San Massimiliano Maria Kolbe, morto quale martire della carità ad Auschwitz nel 1941, figura fra i Francescani che hanno parlato meglio dell'Immacolata Concezione. San Francesco Antonio Fasani, canonizzato da Papa Giovanni Paolo II il 13 aprile 1986, è meno noto: molto tempo prima della proclamazione del dogma, questo frate  ha avuto il merito di far conoscere ed amare l'Immacolata.

Il «peccatore dell'Immacolata»

Antonio Giovanni Fasani è nato il 6 agosto 1681 a Lucera (Foggia), nelle Puglie (sud-est dell'Italia). I suoi genitori sono di umile condizione; il padre si guadagna la vita quale bracciante agricolo. Nella famiglia Fasani, povera di beni materiali, si è ricchi di fede. Tutte le sere, si recita il rosario davanti ad un'immagine di Maria Immacolata. Antonio trova presso la madre le radici della sua profonda devozione alla Santa Vergine. Fin dal 1695, a quattordici anni, il ragazzo è accolto dai Frati Minori Conventuali. L'anno seguente, pronuncia i voti con il nome di Fra Francesco Antonio, nel convento di Monte Sant'Angelo. Il giovane monaco ha un temperamento vivace e ardente, temperato da un'umile riserva. Si è fatto Monaco per diventare perfetto.

Dal 1696 al 1709, Fra Francesco Antonio continua gli studi di teologia, che conclude ad Assisi, conseguendo il grado di Maestro, il che fa che venga chiamato «Padre Maestro». Il suo affetto e la sua venerazione per l'Immacolata non cessano di crescere e, nella sua umiltà, egli definisce spesso se stesso come «il peccatore dell'Immacolata», vale a dire un povero peccatore riscattato dall'intercessione di Maria Immacolata.

Per la Quaresima del 1707, Padre Fasani viene mandato improvvisamente a predicare a Palazzo, non lontano da Assisi. La sua giovane età, la sicurezza del suo sapere teologico, il calore della sua voce, l'ascetismo del viso da cui traspare una vita interiore profonda, come pure la convinzione che lo anima, provocano nel popolo entusiasmo ed edificazione. Un testimone riferisce: «Predicava con un fervore sensibile, in modo che imprimeva nell'anima degli ascoltatori le verità che annunciava... Parlava della Santa Madre di Dio con un tal trasporto di devozione, una tale tenerezza ed un'espressione del volto talmente affettuosa, che sembrava aver avuto un colloquio faccia a faccia con Lei».

Il male più grave

Tornato a Lucera, dove rimarrà per tutta la vita, predica ivi e in tutta la regione delle Puglie. La sua predicazione, basata sulla Parola di Dio, non lascia nessun posto alla fioritura retorica, tanto in onore all'epoca. Padre Fasani manifesta un orrore e un disappunto indicibile quando vede Dio offeso o quando gli si riferiscono azioni peccaminose. Quest'orrore del peccato, condiviso da tutti i Santi, non è per nulla esagerato. Sant'Ignazio di Loyola, negli Esercizi Spirituali, tante volte raccomandati dalla Chiesa, invita colui che partecipa ad un ritiro spirituale a chiedere alla Santa Vergine la grazia di conoscere intimamente i propri peccati e di concepirne orrore (n. 63). 
Il Catechismo della Chiesa Cattolica insegna: «Agli occhi della fede, nessun male è più grave del peccato, e niente ha conseguenze peggiori per gli stessi peccatori, per la Chiesa e per il mondo intero» (n. 1488). Infatti, per il peccatore, la conseguenza del peccato mortale (cioè del peccato commesso in materia grave, con piena coscienza e pieno consenso) significa la perdita della grazia santificante; e, se muore in tale stato, la privazione della vita eterna. San Paolo avverte di ciò i Corinti:  “O non sapete che gli ingiusti non erediteranno il regno di Dio? Non illudetevi: nè immorali, nè idolatri, nè adulteri, nè effeminati, nè sodomiti, nè ladri, nè avari, nè ubriaconi, nè maldicenti, nè rapaci erediteranno il regno di Dio” (1 Cor. 6, 9-10).

Ed a colui che si avvale della bontà di Dio per rimanere nel peccato e rassicurarsi sulla sua sorte eterna, san Paolo risponde: “O ti prendi gioco della ricchezza della bontà di Dio, della sua tolleranza e della sua pazienza, senza riconoscere che la bontà di Dio ti spinge alla conversione? Tu, però, con la tua durezza e il tuo cuore impenitente accumuli collera su di te per il giorno dell'ira e della rivelazione del giusto giudizio di Dio, il quale renderà a ciascuno secondo le sue opere: la vita eterna a coloro che perseverando nelle opere di bene cercano gloria, onore e incorruttibilità; sdegno ed ira contro coloro che per ribellione resistono alla verità e obbediscono all'ingiustizia (Rom. 2, 4-8).

Dal pulpito, san Francesco Antonio si infiamma contro i vizi e gli scandali pubblici. Allora, fioccano contro di lui reazioni di sdegno e ingiurie: lo si taccia di isterico e di rozzo; ma, in fin dei conti, si va comunque a confessarsi da lui. Ogni giorno, rimane per parecchie ore nel confessionale, accogliendo persone di tutte le specie con la massima pazienza e con il volto gioioso. Le sue parole tendono ad ispirare il pentimento e la volontà di correggersi. Questo ministero finisce coll'assorbire la maggior parte del suo tempo. Grande è la sua gioia quando riesce a portare alla conversione gente dai costumi dissoluti o scandalosi, peccatori inveterati.

Maria, rifugio dei peccatori

Nella sua lotta contro il peccato, il santo ricorre a Maria Immacolata. Sottolinea che se la Madre di Dio è immacolata, è per essere il rifugio dei peccatori. La sua purezza cancella le nostre macchie e ci rende puri; il suo splendore allontana le nostre tenebre. Dopo il peccato di Adamo e Eva, Dio dice al serpente (cioè al demonio): Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno (Gen. 3, 15 [Vulgata]). I Padri della Chiesa hanno visto questa profezia compiersi nella Vergine Immacolata, nuova Eva, che ha assecondato in modo unico il divino Figlio, nuovo Adamo, nella sua lotta contro il male.

Ai peccatori che vogliono convertirsi, Padre Fasani ripete instancabilmente che Maria, nemica del peccato, è in pari tempo la Madre della misericordia e la «porta del Cielo» perchè ci invita a pregare, a frequentare i sacramenti della penitenza e dell'Eucaristia, ad ascoltare il suo divino Figlio ed a seguirLo. San Massimiliano Maria Kolbe, due secoli più tardi, giungerà fino a dire che l'Immacolata è la personificazione della misericordia divina: non aggiunge nulla alla misericordia di Dio, che passa attraverso il Sacro Cuore di Gesù; ma, conformemente alla volontà di suo Padre, Gesù vuole che la misericordia sia dispensata dalle mani di Maria.

Nell'Immacolata Concezione, san Francesco Antonio vede in primo luogo la realtà positiva, la sublimità della grazia che innalza fin dal primo istante la persona di Maria, perfettamente santificata in vista della sua missione di Madre di Dio. Mette in luce, come in contrasto con la grandezza del dono divino, l'umiltà della Vergine in quanto creatura; la sublimità le viene esclusivamente da Dio: non è una conquista della natura umana. Padre Fasani sottolinea anche che dopo quell'inizio straordinario, la vita di Nostra Signora è stata segnata da una crescita spirituale costante, in una libera corrispondenza con le grazie di Dio.

In occasione delle prediche, il santo distribuisce ampiamente, soprattutto ai bambini, immaginette della Vergine Immacolata, sul retro delle quali è iscritta una pia raccomandazione, una breve preghiera o un pensiero elevato. I frutti spirituali di tale pratica semplicissima sono numerosi. La Santa Vergine si degna di compiere guarigioni miracolose, che si producono quando i malati toccano dette immagini.


Modello dell'anima d'orazione

Le predicazioni mariali di Padre Francesco Antonio si concludono sempre con una lezione pratica: i cristiani possono e devono imitare Maria, perfettissimo modello di fedeltà al Vangelo, per giungere in sua compagnia all'intimità d'amore con Gesù e appartenerGli interamente.
Gli piace contemplare nella Madre di Dio il modello dell'anima d'orazione. La vita della Vergine Immacolata è stata un colloquio permanente con Dio. Chi più di Essa, dopo il suo divino Figlio, può insegnarci a pregare? Il santo fa notare ai suoi monaci: «Si studia Dio, si predica Dio, si discute di Dio, ma lo spirito rimane arido, senza devozione: molto sapere, e nessuna orazione».

Ma che cos'è l'orazione? A questa domanda, il Catechismo della Chiesa Cattolica risponde citando santa Teresa d'Avila: «L'orazione mentale, a mio parere, non è che un intimo rapporto di amicizia, nel quale ci si intrattiene spesso da solo a solo con quel Dio da cui ci si sa amati». L'orazione cerca l'Amore dell'anima mia (Cantico dei Cantici 1, 7), Gesù, e, in Lui, il Padre. È anche ascolto della Parola di Dio. Lungi dall'esser passivo, questo ascolto s'identifica con l'obbedienza della fede, incondizionata accoglienza del servo e adesione piena d'amore del figlio (ved. CCC, nn. 2709-2716).

La scelta del tempo e della durata dell'orazione dipende da una volontà determinata, rivelatrice dei segreti del cuore. Non si fa orazione quando si ha tempo: si prende il tempo di essere per il Signore, con la ferma decisione di non riprenderglielo lungo il cammino, qualsiasi siano le prove e l'aridità dell'incontro. L'orazione può farsi «contemplazione», cioè sguardo di fede fissato su Gesù. «Io lo guardo ed Egli mi guarda», diceva al suo santo curato il contadino d'Ars in preghiera davanti al Tabernacolo. La luce dello sguardo di Gesù illumina gli occhi del nostro cuore che purifica; ci insegna a vedere tutto nella luce della sua verità e della sua compassione per tutti gli uomini. La contemplazione porta il suo sguardo anche sui misteri della vita di Cristo. In questo modo conduce alla conoscenza intima del Signore, per amarLo e seguirLo di più (cfr. sant'Ignazio di Loyola, Esercizi Spirituali, n. 104).

Difensore dei poveri

Padre Francesco Antonio pratica la virtù della povertà dormendo su un pagliericcio nella sua angusta cella, accontentandosi di poco e portando vestiti usati. La vista degli indigenti lo affligge, e nelle sue prediche insiste sulla carità nei riguardi dei poveri. Per essi, mendica denaro e vestiti. Un giorno, un mendicante seminudo gli chiede qualche vestito per coprirsi. Padre Francesco si spoglia dei suoi vestiti principali e torna in convento coperto del solo saio.

Gestisce saggiamente la «banca di credito» che ha sede nel convento ed il cui scopo è quello di proteggere i poveri contro le speculazioni degli usurai. Grazie a detto ente, può organizzare una mensa aperta quotidianamente ai bisognosi. Tutti i giorni si vede accostarcisi un'umile donna del popolo, Isabella Occhiaperti, la madre stessa di Padre Fasani. Nel paese rovinato dalle guerre, in cui i latifondisti gravano i contadini di tasse enormi, il Francescano ricorda ai ricchi il dovere di condividere i beni di questo mondo e di dare un giusto salario ai loro operai.
Oggi come ieri, la pratica della giustizia sociale è un grave obbligo per i cristiani, specialmente i più abbienti. «San Giovanni Crisostomo lo ricordava con forza ai suoi contemporanei: «Non condividere con i poveri i propri beni, è defraudarli e toglier loro la vita. Non sono nostri i beni che possediamo, sono dei poveri».

Bisogna adempiere innanzitutto gli obblighi di giustizia, perchè non venga offerto come dono di carità ciò che è già dovuto a titolo di giustizia. «Quando doniamo ai poveri le cose indispensabili, non facciamo loro delle elargizioni personali, ma rendiamo loro ciò che è loro. Più che compiere un atto di carità, adempiamo un dovere di giustizia» (San Gregorio Magno)» (CCC, n. 2446). Tale dovere di giustizia è particolarmente grave all'epoca presente, segnata dallo «scandalo delle società opulente attuali, in cui i ricchi diventano sempre più ricchi, perchè la ricchezza produce la ricchezza, ed i poveri diventano sempre più poveri, perché la povertà tende a creare altre povertà. Questo scandalo non esiste solamente all'interno delle varie nazioni; ha dimensioni che superano ampiamente le frontiere... In realtà, è lo spirito di solidarietà che deve crescere nel mondo, per vincere l'egoismo delle persone e delle nazioni» (Giovanni Paolo II, 4 novembre 2000).

L'umiltà che fa i miracoli

Indotto a difendere la virtù di una ragazza quindicenne, senza mezzi, su cui un gentiluomo ha messo gli occhi, san Francesco Antonio la porta in un orfanatrofio, dove essa sarà educata gratuitamente. Cosa che gli procura le minacce e l'odio del gentiluomo che lo denuncia a Roma, dove deve recarsi per discolparsi. Introdotto alla presenza del Papa, non dice nulla per difendersi; ma, mentre bacia umilmente i piedi del Pontefice, questi, che soffre di gotta, si ritrova, a tale contatto, istantaneamente liberato dal suo male; è così convinto dell'innocenza del Francescano. La sua obbedienza produce anch'essa prodigi meravigliosi. Un giorno in cui predica dal pulpito, il suo vescovo, entrando nella chiesa, gli chiede, davanti a tutti, di tacere; tace immediatamente. Qualche giorno dopo, il segretario del vescovo viene a prenderlo: il Prelato, colpito da un violento malessere, reclama Padre Francesco Antonio al suo capezzale. «Inutile, risponde il santo; ha già ricevuto la guarigione da Maria Immacolata».

Il 29 novembre 1742, all'inizio di una novena preparatoria alla festa dell'Immacolata Concezione, Padre Francesco Antonio Fasani muore di spossatezza. Il 16 aprile 1986, canonizzandolo, Giovanni Paolo II sottolineava: «Predicatore instancabile, san Fasani non attenuò mai le esigenze del Messaggio evangelico nel desiderio di compiacere agli uomini». Possa egli, dall'alto del Cielo, aiutarci a ricorrere instancabilmente a Colei che, per sempre immune da ogni macchia, può liberarci da tutto il male che è in noi.
«O Maria, concepita senza peccato, prega per noi che ricorriamo a Te».

Dom Antoine Marie osb

AMDG et BVM

sabato 21 dicembre 2013

Domenica 22 dicembre 2013, IV Domenica di Avvento - Anno A : San Matteo 1,18-24.

"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’, ma leggetela e fatela leggere"
Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
"Evangelo come mi è stato rivelato"
di Maria Valtorta

Domenica 22 dicembre 2013, IV Domenica di Avvento - Anno A

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Matteo 1,18-24.
Ecco come avvenne la nascita di Gesù Cristo: sua madre Maria, essendo promessa sposa di Giuseppe, prima che andassero a vivere insieme si trovò incinta per opera dello Spirito Santo.
Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva ripudiarla, decise di licenziarla in segreto. 
Mentre però stava pensando a queste cose, ecco che gli apparve in sogno un angelo del Signore e gli disse: «Giuseppe, figlio di Davide, non temere di prendere con te Maria, tua sposa, perché quel che è generato in lei viene dallo Spirito Santo. 
Essa partorirà un figlio e tu lo chiamerai Gesù: egli infatti salverà il suo popolo dai suoi peccati». 
Tutto questo avvenne perché si adempisse ciò che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: 
Ecco, la vergine concepirà e partorirà un figlio che sarà chiamato Emmanuele, che significa Dio con noi. 
Destatosi dal sonno, Giuseppe fece come gli aveva ordinato l'angelo del Signore e prese con sé la sua sposa.
Traduzione liturgica della Bibbia 


Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" 
di Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 26 pagina 152.
Dopo cinquantatre giorni riprende la Mamma a mostrarsi con questa visione che mi dice di segnare in questo libro. La gioia si rinnova in me. Perché vedere Maria è possedere la Gioia.
Vedo dunque l’orticello di Nazareth. Maria fila all’ombra di un foltissimo melo stracarico di frutta, che cominciano ad arrossare e sembrano tante guance di bambino nel loro roseo e tondo aspetto. 
Ma Maria non è per nulla rosea. Il bel colore, che le avvivava le guance a Ebron, è scomparso. Il viso è di un pallore di avorio, in cui soltanto le labbra segnano una curva di pallido corallo. Sotto le palpebre calate stanno due ombre scure e i bordi dell’occhio sono gonfi come chi ha pianto. Non vedo gli occhi, perché Ella sta col capo piuttosto chino, intenta al suo lavoro e più ancora ad un suo pensiero che la deve affliggere, perché l’odo sospirare come chi ha un dolore nel cuore. 
E’ tutta vestita di bianco, di lino bianco, perché fa molto caldo nonostante che la freschezza ancora intatta dei fiori mi dica che è mattina. E’ a capo scoperto e il sole, che scherza con le fronde del melo mosse da un lievissimo vento e filtra con aghi di luce fin sulla terra bruna delle aiuole, le mette dei cerchiolini di luce sul capo biondo, e là i capelli sembrano di un oro zecchino. 
Dalla casa non viene nessun rumore, né dai luoghi vicini. Si sente solo il mormorio del filo d’acqua che scende in una vasca in fondo all’orto. 
Maria sobbalza per un picchio dato risolutamente all’uscio di casa. Posa conocchia e fuso e si alza per andare ad aprire. Per quanto l’abito sia sciolto ed ampio, non riesce a nascondere completamente la rotondità del suo bacino. 

Si trova di fronte Giuseppe. Maria impallidisce anche nelle labbra. Ora il suo viso pare un’ostia, tanto è esangue. Maria guarda con occhio che interroga mestamente. Giuseppe guarda con occhio che pare supplichi. Tacciono, guardandosi. Poi Maria apre la bocca: “A quest’ora, Giuseppe? Hai bisogno di qualche cosa? Che vuoi dirmi? Vieni.” 
Giuseppe entra e chiude la porta. Non parla ancora. 
“Parla, Giuseppe. Che cosa vuoi da me?” 
“Il tuo perdono.” Giuseppe si curva come volesse inginocchiarsi. Ma Maria, sempre così riservata nel toccarlo, lo afferra per le spalle risolutamente e glielo impedisce. 
Il colore va e viene dal volto di Maria, che ora è tutta rossa e ora di neve come prima. “Il mio perdono? Non ho nulla da perdonarti, Giuseppe. Non devo che ringraziarti ancora per tutto quanto hai fatto qui dentro in mia assenza e per l’amore che mi porti.” 
Giuseppe la guarda, e vedo due grossi goccioloni formarsi nell’incavo del suo occhio profondo, stare lì come sull’orlo di un vaso e poi rotolare giù sulle guance e sulla barba. “Perdono, Maria. Ho diffidato di te. Ora so. Sono indegno di avere tanto tesoro. Ho mancato di carità, ti ho accusata nel mio cuore, ti ho accusata senza giustizia perché non ti avevo chiesto la verità. Ho mancato verso la legge di Dio non amandoti come mi sarei amato...” 
“Oh! no! Non hai mancato!” 
“Sì, Maria. Se fossi stato accusato di un tal delitto, mi sarei difeso. Tu... Non concedevo a te di difenderti, perché stavo per prendere delle decisioni senza interrogarti. Ho mancato verso te recandoti l’offesa di un sospetto. Anche se solo un sospetto è offesa, Maria. Chi sospetta non conosce. Io non ti ho conosciuta come dovevo. Ma per il dolore che ho patito... tre giorni di supplizio, perdonami, Maria.” 
“Non ho nulla da perdonarti. Ma anzi, io ti chiedo perdono per il dolore che ti ho dato.” 
“Oh! sì, che fu dolore! Che dolore! Guarda, stamane mi hanno detto che sulle tempie sono canuto e sul viso ho rughe. Più di dieci anni di vita sono stati questi giorni! Ma perché, Maria, sei stata tanto umile da tacere, a me, tuo sposo, la tua gloria, e permettere che io sospettassi di te?” 
Giuseppe non è in ginocchio, ma sta così curvo che è come lo fosse, e Maria gli posa la manina sul capo e sorride. Pare lo assolva. E dice: “Se non lo fossi stata in maniera perfetta, non avrei meritato di concepire l’Atteso, che viene ad annullare la colpa di superbia che ha rovinato l’uomo. E poi ho ubbidito... Dio mi ha chiesto questa ubbidienza. Mi è costata tanto.... per te, per il dolore che te ne sarebbe venuto. Ma non dovevo che ubbidire. Sono l’Ancella di Dio, e i servi non discutono gli ordini che ricevono. Li eseguiscono, Giuseppe, anche se fanno piangere sangue.” 

Maria piange quietamente mentre dice questo. Tanto quietamente che Giuseppe, curvo come è, non se ne avvede sinché una lacrima non cade al suolo. Allora alza il capo e -è la prima volta che gli vedo fare questo- stringe le manine di Maria nelle sue brune e forti e bacia la punta di quelle rosee dita sottili che spuntano come tanti bocci di pesco dall’anello delle mani di Giuseppe. 
“Ora bisognerà provvedere perché...” Giuseppe non dice di più, ma guarda il corpo di Maria, e Lei diviene di porpora e si siede di colpo per non rimanere così esposta, nelle sue forme, allo sguardo che l’osserva. “Bisognerà fare presto. Io verrò qui... Compiremo il matrimonio.... Nell’entrante settimana. Va bene?” 
“Tutto quanto tu fai va bene, Giuseppe. Tu sei il capo di casa, io la tua serva.” 
“No. Io sono il tuo servo. Io sono il beato servo del mio Signore che ti cresce in seno. Tu benedetta fra tutte le donne d’Israele. Questa sera avviserò i parenti. E dopo... quando sarò qui lavoreremo per preparare tutto a ricevere.... Oh! come potrò ricevere nella mia casa Dio? Nelle mie braccia Dio? Io ne morrò di gioia!... Io non potrò mai osare di toccarlo.!...” 
“Tu lo potrai, come io lo potrò, per grazia di Dio!... ”. 
“Ma tu sei tu. Io sono un povero uomo, il più povero dei figli di Dio!...” 

“Gesù viene per noi, poveri, per farci ricchi in Dio, viene a noi due perché siamo i più poveri e riconosciamo di esserlo. Giubila, Giuseppe. La stirpe di Davide ha il Re atteso e la nostra casa diviene più fastosa della reggia di Salomone, perché qui sarà il Cielo e noi divideremo con Dio il segreto di pace che più tardi gli uomini sapranno. Crescerà fra noi, e le nostre braccia saranno cuna al Redentore che cresce, e le nostre fatiche gli daranno un pane... Oh! Giuseppe! Sentiremo la voce di Dio chiamarci ‘padre e Madre’ Oh!”. 
Maria piange di gioia. Un pianto così felice! E Giuseppe inginocchiato, ora, ai suoi piedi, piange col capo quasi nascosto nell’ampia veste di Maria, che le fa una caduta di pieghe sui poveri mattoni della stanzetta.
La visione cessa qui. 


Dice Maria SS.ma
“Nessuno interpreti in modo errato il mio pallore. Non era dato da paura umana. Umanamente mi sarei dovuta attendere la lapidazione. Ma non temevo per questo. Soffrivo per il dolore di Giuseppe. Anche il pensiero che egli mi accusasse, non mi turbava per me stessa. Soltanto mi spiaceva che egli potesse, insistendo nell’accusa, mancare alla carità. Quando lo vidi, il sangue mi andò tutto al cuore per questo. Era il momento in cui un giusto avrebbe potuto offendere la Giustizia, offendendo la Carità. E che un giusto mancasse, egli che non mancava mai, mi avrebbe dato dolore sommo. 
Se io non fossi stata umile sino al limite estremo, come ho detto a Giuseppe, non avrei meritato di portare in me Colui che, per cancellare la superbia nella razza, annichiliva Sé, Dio, all’umiliazione d’esser uomo. 
Ti ho mostrato questa scena, che nessun Vangelo riporta, perché voglio richiamare l’attenzione troppo sviata degli uomini sulle condizioni essenziali per piacere a Dio e ricevere la sua continua venuta in cuore. 
Fede: Giuseppe ha creduto ciecamente alle parole del messo celeste. Non chiedeva che di credere, perché era in lui convinzione sincera che Dio è buono e che a lui, che aveva sperato nel Signore, il Signore non avrebbe serbato il dolore d’esser un tradito, un deluso, uno schernito dal suo prossimo. Non chiedeva che di credere in me perché, onesto come era, non poteva pensare che con dolore che altri non lo fosse. Egli viveva la Legge e la Legge dice: ‘Ama il tuo prossimo come te stesso’. Noi ci amiamo tanto che ci crediamo perfetti anche quando non lo siamo. Perché allora disamare il prossimo pensandolo imperfetto? 
Carità assoluta. Carità che sa perdonare, che vuole perdonare. Perdonare in anticipo, scusando in cuor proprio le manchevolezze del prossimo. Perdonare al momento, concedendo tutte le attenuanti al colpevole. 
Umiltà assoluta come la carità. Sapere riconoscere che si è mancato anche col semplice pensiero, e non aver l’orgoglio, più nocivo ancora della colpa antecedente, di non voler dire: ‘Ho errato’. Meno Dio, tutti errano. Chi è colui che può dire: ‘Io non sbaglio mai’? E l’ancor più difficile umiltà: quella che sa tacere le meraviglie di Dio in noi, quando non è necessario proclamarle per dargliene lode, per non avvilire il prossimo che non ha tali doni speciali da Dio. Se vuole, oh! se vuole, Dio disvela Se stesso nel suo servo! Elisabetta mi ‘vide’ quale ero, lo sposo mio mi conobbe per quel che ero quando fu l’ora di conoscerlo per lui. 
Lasciate al Signore la cura di proclamarvi suoi servi. Egli ne ha un’amorosa fretta, perché ogni creatura che assurga a particolare missione è una nuova gloria aggiunta all’infinita sua, perché è testimonianza di quanto è l’uomo così come Dio lo voleva: una minore perfezione che rispecchia il suo Autore. Rimanete nell’ombra e nel silenzio, o prediletti della Grazia, per poter udire le uniche parole che sono di ‘vita’, per potere meritare di avere su voi e in voi il Sole che eterno splende. 
Oh! Luce Beatissima che sei Dio, che sei la gioia dei tuoi servi, splendi su questi servi tuoi e ne esultino nella loro umiltà, lodando Te, Te solo, che sperdi i superbi ma elevi gli umili, che ti amano, agli splendori del tuo Regno.”
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/ 

giovedì 7 novembre 2013

«Povero fanciullo! ... Torna qui, Giovanni, al fianco del tuo Maestro e ascolta la lezione.




....................
Oh! ieri notte poco ho dormito per fame e freddo, e questa notte mai ho dormito... 
e non ho saputo resistere più questa mattina... e sono venuto perché ho avuto 
paura di morire d’inedia... ed è questo quello che più mi fa male: di non avere 
saputo vegliare per pregare e vegliare su Te, ma di averlo saputo fare per i 
morsi della fame... Sono un servo sciocco e vile. Castigami, Gesù!».

«Povero fanciullo! Vorrei che tutto il mondo avesse a gridare queste tue
colpe! Ma ascolta, alzati e ascoltami, ed il tuo cuore tornerà in pace. Hai 
disubbidito anche a Simone di Giona?».

«No, Maestro. Non lo avrei mai fatto, perché Tu hai detto che dovevamo 
stare a lui soggetti come a fratello maggiore. Ma egli, quando io gli ho 
detto: “Il mio cuore non sta tranquillo a vederlo andar solo”, ha risposto:
“Hai ragione. Ma io non posso andare perché ho l’ubbidienza di guidare 
voi tutti. Vai tu, e Dio sia teco”. Gli altri hanno alzato la voce e Giuda 
più degli altri. Hanno ricordato l’ubbidienza e hanno anche rimproverato 
Simone Pietro».

«Hanno? Sii sincero, Giovanni».
«È vero, Maestro. È stato Giuda che ha rimproverato Simone e trattato 
male me. Gli altri hanno soltanto detto:
“Il Maestro ha ordinato di stare insieme”. E a me, non al capo nostro, 
lo dicevano. Ma Simone ha risposto: “Dio vede il fine dell’atto e perdonerà. 
E il Maestro perdonerà, perché questo è amore”, e mi ha benedetto e 
baciato e mandato dietro di Te, come quel giorno che Tu andasti con 
Cusa oltre il lago». (Vedi Vol 7 Cap 464)

«E allora Io di questa colpa non ho da assolverti...».
«Perché è troppo grave?».

«No. Perché non esiste. Torna qui, Giovanni, al fianco del tuo Maestro e 
ascolta la lezione. Bisogna saper applicare gli ordini con giustizia e 
discernimento, sapendo comprendere lo spirito dell’ordine, non soltanto le
lettere che compongono l’ordine. Io ho detto: “Non dividetevi”. Ti sei 
diviso e perciò avresti peccato. Ma prima Io avevo detto: “State uniti 
di corpo e di spirito, soggetti a Pietro”. Con quelle parole Io ho eletto lui mio
legittimo rappresentante fra voi, con facoltà piena di giudicare e di comandare 
su voi. Perciò, quanto Pietro ha fatto o farà in mia assenza, sarà ben fatto. 
Perché, avendolo Io investito del potere di guidarvi, lo Spirito del
Signore, che è in Me, sarà anche con lui e lo guiderà nel dare quegli ordini 
che le circostanze impongono e che la Sapienza suggerirà all’Apostolo capo 
per il bene di tutti. Se Pietro ti avesse detto: “Non andare” e se tu fossi
ugualmente venuto, neppure il movente buono del tuo atto - il volermi seguire 
per amore che vuol difendere ed essere con Me nei pericoli - sarebbe stato 
sufficiente ad annullare la tua colpa. Ci sarebbe proprio voluto il mio
perdono. Ma Pietro, il tuo Capo, ti ha detto: “Va”. L’ubbidienza a lui ti 
giustifica completamente. Ne sei persuaso?».
«Sì, Maestro».


«Devo assolverti dalla colpa di presunzione? Dimmi, senza riflettere se 
Io vedo il tuo cuore. Hai tu presunto con superbia di volermi imitare per 
poter dire: “Colla mia volontà ho abolito le necessità della carne, perché io 
posso ciò che voglio”? Pensaci bene...».

Giovanni riflette. Poi dice: «No, Signore. Esaminandomi bene no, non l’ho 
fatto per questo. Speravo poterlo fare perché ho capito che la penitenza è 
sofferenza della carne, ma è luce dello spirito. Ho capito che è un mezzo 
di fortificare la nostra debolezza e ottenere tanto da Dio. Tu lo fai per questo. 
Io per questo lo volevo fare. E credo di non errare dicendo che, se lo fai Tu 
forte, Tu potente, Tu santo, io, noi, lo dovremmo fare sempre, se sempre
fosse possibile farlo, per essere meno deboli e materiali. Ma non l’ho potuto 
fare. Ho sempre fame io, e sonno tanto...», e il pianto riprende a gocciare 
lento,  umile, vera confessione della limitatezza delle capacità umane.

«Ebbene, anche questa piccola miseria della carne credi tu che sia stata inutile? 
Oh! come te la ricorderai in futuro, quando sarai tentato ad essere severo ed 
esigente coi tuoi discepoli e fedeli! Essa ti riaffiorerà alla mente dicendoti: 
“Ricordati che tu pure hai ceduto alla stanchezza, alla fame. Non volere gli 
altri più forti di te. Sii padre dei tuoi fedeli come il tuo Maestro fu un padre 
per te quella mattina”. Tu avresti potuto benissimo vegliare e non sentire poi 
questa gran fame. Ma il Signore ha permesso che tu soggiacessi a questi bisogni 
della carne per farti umile, sempre più umile e sempre più compassionevole ai 
tuoi simili. 
Molti non sanno distinguere fra tentazione e colpa consumata. La prima è una 
prova che dà merito e non leva grazia, la seconda è caduta che leva merito e 
grazia. Altri non sanno distinguere fra eventi naturali e colpe, e si fanno scrupolo 
di aver peccato mentre, ed è il tuo caso, non hanno che ubbidito a leggi naturali 
buone. Distinguo, dicendo “buone”, le leggi naturali dagli istinti sfrenati. Perché 
non tutto ciò che ora si dice “legge di natura” è tale ed è buona. Buone erano
tutte le leggi connesse alla natura umana, che Dio aveva date ai progenitori: 
il bisogno del cibo, del riposo, della bevanda. Poi, col peccato, sono subentrati 
e si sono mescolati alle leggi naturali, inquinando con la smoderatezza
ciò che era buono, gli istinti animali, le sregolatezze, le sensualità d’ogni specie. 
E Satana ha tenuto vivo il fuoco, il fomite dei vizi col suo tentare. 
Ora lo vedi che, se non è peccato cedere al bisogno di riposo e di cibo, è
invece peccato la gozzoviglia, l’ebrietà, l’ozio prolungato. Anche il bisogno 
di coniugarsi e procreare non è peccato, anzi Dio ha dato l’ordine di farlo 
per popolare la Terra di uomini. Ma non è più buono l’atto del
congiungimento per sola soddisfazione del senso. Sei persuaso anche 
di questo?».

«Sì, Maestro. Ma allora dimmi una cosa. Coloro che non vogliono 
procreare, peccano ad un ordine di Dio? Tu dicesti una volta che lo stato 
di vergine è buono».

«È il più perfetto. Come è il più perfetto quello di chi, non pago di fare 
buon uso delle ricchezze, se ne spoglia del tutto. Sono le perfezioni 
alle quali può giungere una creatura. E gran premio avranno. Tre sono 
le cose più perfette: la povertà volontaria, la castità perpetua, l’ubbidienza 
assoluta in tutto ciò che non è peccato. 
Queste tre cose rendono l’uomo simile agli angeli. E una è 
perfettissima:  dare la propria vita per amore di Dio e dei fratelli.
Questa cosa rende la creatura simile a Me, perché la porta all’assoluto 
amore. E chi ama perfettamente è simile a Dio, è assorbito e fuso con Dio. 
Sta’ dunque in pace, mio diletto. Non c’è colpa in te. Io te lo dico. Perché
dunque aumenti il tuo pianto?».

«Perché una colpa c’è sempre. Quella di aver saputo venire da Te per 
bisogno e aver saputo vegliare per fame, e non per amore. Non me lo 
perdonerò mai. Non mi accadrà più. Non dormirò più mentre Tu soffri. 
Non ti dimenticherò dormendo mentre Tu piangi».

«Non impegnare il futuro, Giovanni. La tua volontà è pronta, ma ancora 
potrebbe essere sopraffatta dalla carne.
E ne avresti profondo e inutile avvilimento se poi ti sovvenissi di questa 
promessa fatta a te stesso, non mantenuta poi per fralezza di carne. Guarda. 
Io ti dico ciò che devi dire per essere in pace, qualunque cosa ti avvenga. 
Di’ con Me: “Io, con l’aiuto di Dio, propongo, per quanto mi sarà possibile, 
di non più cedere alle pesantezze della carne”. E sta’ fermo in questo volere. 
Se poi un giorno, pur non volendolo, la carne stanca e afflitta vincerà la 
tua volontà, ebbene, allora come ora dirai: “Riconosco di essere un povero 
uomo come tutti i miei fratelli, e ciò mi serva per tener mozzo il mio orgoglio”. 
Oh! Giovanni, Giovanni! Non è il tuo sonno innocente quel che può darmi 
dolore! Tieni. Queste ti riconforteranno del tutto. Le dividiamo insieme,
benedicendo chi me le ha offerte», e prende le mele ormai cotte e bollenti, 
e ne dà tre a Giovanni e tre le tiene per Sé.

«Chi te le ha date, Signore? Chi è venuto da Te? Chi sapeva che qui eri? 
Io non ho sentito voci né passi. Eppure, dopo la prima notte, ho sempre 
vegliato...».
«Sono uscito alla prima luce. Vi erano fasci di legna davanti l’entrata e 
sopra pane, formaggi e mele. Non ho visto nessuno. Ma solo alcuni 
possono aver avuto desiderio di ripetere un pellegrinaggio e un gesto 
d’amore...», dice lentamente Gesù.

«È vero! I pastori! Lo avevano detto: “Andremo nella terra di Davide... 
Sono giorni di ricordi...”. Ma perché non si sono fermati?».
«Perché! Hanno adorato e...».
«E hanno compatito. Adorato Te e compatito me... Sono migliori 
di noi quegli uomini».
«Sì. Hanno serbato buona, sempre più buona la loro volontà. Per loro 
non fu danno il dono che Dio ha loro dato...». Gesù non sorride più. 
Pensa e si fa triste.
Poi si scuote. Guarda Giovanni, che lo guarda, e dice: «Ebbene? 
Vogliamo andare? Non sei più sfinito?».
«No, Maestro. Non sarò molto resistente, credo, perché ho le 
membra indolenzite. Ma credo che posso camminare».
«E allora andiamo. Va’ a prendere la tua sacca, mentre Io raccolgo 
gli avanzi nella mia, e andiamo. Prenderemo la via che va verso il 
Giordano per evitare Gerusalemme».
E al ritorno di Giovanni si rimettono in cammino, rifacendo la via fatta 
nel venire e allontanandosi per la campagna che si riscalda al mite sole 
decembrino.  
(M.Valt. 539: La perfezione spiegata a Giovanni di Zebedeo 
che si è accusato di colpe inesistenti.)

MANE NOBISCUM, DOMINE