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lunedì 17 novembre 2014

Binomio inscindibile

Molto opportunamente offriamo ai lettori la sintesi della relazione del prof. De Mattei su Il latino,la lingua liturgica della Chiesa e della Cattolicità, tenuta a Roma in occasione del Convegno "Summorum Pontificum" del 14-15 maggio 2011 



De Mattei: latino e Chiesa cattolica, binomio inscindibile.

Il prof. de Mattei ha affrontato un argomento che, potremmo dire, è coessenziale al nome stesso del nostro blog [http://blog.messainlatino.it/]Il latino, lingua liturgica della Chiesa e della Cattolicità.

La tesi dello storico, sostenuta con dovizia di riferimenti documentali  che qui, ovviamente, non possiamo riportare, è che la lingua latina sia costitutiva della stessa liturgia cristiana: non, quindi, elemento accidentale che può essere tranquillamente abrogato o modificato.

E' vero che la prima liturgia cristiana fu espressa nel greco dellakoiné, ma fin dai primi secoli a Roma l'utilizzo del latino si diffonde, secondo quanto possiamo ricostruire dai resti epigrafici.

Papa San Damaso, nel IV secolo, benché spagnolo di nascita, rafforzò la romanità, nelle sue due articolazioni: da un lato lapetrinitas, cioè il primato del romano pontefice, dall'altro lalatinitas, ossia la romanità della Chiesa . A lui si deve l'adozione della lingua latina come lingua universale della Chiesa, che esprime una rinnovata Weltanschauung della Chiesa.

Quando Teodosio il Grande vinse la battaglia del Frigido contro i pagani barbari, si saldò definitivamente l'unione tra il romano impero e la Fede cristiana. Fino alla riforma liturgica, si continuò quindi a pregare per il romanus imperator, anche se il Sacro Romano Impero era stato dissolto nel 1806 e la stessa casa di Asburgo, che aveva per secoli cinto il serto imperiale, era decaduta nel 1918.

La liturgia della Chiesa non nasce nel IV-V secolo, ma in quel tempo essa fu codificata in stretta aderenza al traditum: in un rescritto del 416 Innocenzo I attesta come la Liturgia romana rappresentava l'antico costume fedelmente conservato. E' la tradizione di sempre, però romanamente sfrondata delle ampollosità che in Oriente ebbero tanto successo.

Il latino arrivò con la fede là dove le legioni romane non misero mai piede, come in Irlanda: ecco la risposta migliore contro chi crede che la Fede si sia inculturata nella latinità, e non viceversa. Le genti irlandesi non parlavano affatto il latino, e l'evangelizzazione avvenne in gaelico, ma accolsero la liturgia nella sua pura forma latina, la fecero propria e la difesero nei secoli contro le più dure persecuzioni.

Lungi dall'inculturarsi nella (inesistente) latinità irlandese, la Fede trapiantò la latinità nell'Irlanda e da là, grazie ai 40 benedettini irlandesi, si diffuse alla Scozia e pure in Inghilterra a sud del Vallo di Adriano, dove era quasi estinto perfino il ricordo dell'Impero romano. Da lì, ulteriormente, in Germania, altro territorio ove le legioni erano state fermate nella selva di Teutoburgo e la latinità romana non era prima pervenuta.

Il greco ambì a divenire come il latino lingua universale, a causa del nazionalismo del patriarcato di Costantinopoli. Il patriarca ambiva a soppiantare il Papa, sul rilievo del primato politico della Seconda Roma (Costantinopoli) rispetto alla decaduta Roma che non aveva più imperatori. Ma in Oriente il Patriarca era soggetto al cesaropapismo imperiale e non valeva molto di un funzionario imperiale. Il greco scomparve gradualmente, poi, per effetto delle invasioni musulmane.

Quando l'Impero romano rinacque con Carlo Magno, la latinitasriassunse anche un ruolo politico di unificazione; e quando nel Basso Medioevo iniziarono a diffondersi le lingue nazionali, l'uso del latino non declinò, e restò la lingua internazionale fino al XVIII secolo, la lingua della Chiesa, della scienza, della diplomazia.

Vi è una necessità, sia pure storia e non metafisica, di relazione tra il cattolicesimo e la lingua latina. Quel binomio che il padre Chénu, alla vigilia del Concilio, si proponeva di spezzare eliminando il latino dalla vita della Chiesa. Il movimento liturgico pure auspicava un rinnovamento in tal senso in nome di una maggior partecipazione dei fedeli alla liturgia. Ma a questi aneliti rispondeva Giovanni XXIII con la Veterum Sapientia, promulgata con la massima solennità (il giorno della Cattedra di Pietro, in San Pietro, davanti a numerosi cardinali e vescovi), che alla vigilia del Concilio, e come ad orientarne gli esiti, chiedeva non solo di conservare l'uso del latino, ma di incrementarne e restaurarne l'utilizzo. Il documento riconosce che la Chiesa ha necessità di una sua lingua propria, non nazionale ma universale, sacra e non ordinaria e volgare, e dal significato univoco e non mutevole nel tempo, per trasmettere la medesima dottrina: unica, per il suo governo, e sacra, per il suo rito. La Chiesa, ontologicamente immutabile, non può affidare alla fluttuazione linguistica la trasmissione delle sue Verità.

E' significativo che anche il codice canonico per le chiese orientali sia sempre stato in lingua latina.

Nessun'altra lingua al mondo possiede del latino le caratteristiche di universalità e, al tempo stesso, di essere aliena ai nazionalismi. La massoneria internazionale da sempre ricerca una società perfetta che parli un'unica lingua ed ha escogitato l'esperanto, però miseramente fallito; mai ha pensato di utilizzare allo stesso fine il latino, per odio alla Chiesa.

L'uso della lingua volgare è una caratteristica di tutte le eresie di questo millennio, a cominciare da quella catara.


L'intervento del prof. de Mattei è stato interrotto a questo punto dall'arrivo dal card. Castrillòn Hoyos, che è stato accolto da un calorosissimo applauso.

Ricorda la Genesi che la divisione delle lingue è conseguenza del peccato degli uomini. Gli Apostoli necessariamente evangelizzarono in tutte le lingue, ma il giorno di Pentecoste lo Spirito riportò tutti alla compresione unitaria delle lingue: logico quindi che la Chiesa di Dio si serva di un'unica lingua per tutti. La lingua latina, ricordava Giovanni XXIII, fu scelta dalla Provvidenza come lingua della Chiesa, portata ovunque dalle antiche vie consolari. L'unità linguistica resta un modello e un ideale; e se nella predicazione è giocoforza utilizzare la lingua vernacola, il rito e la liturgia richiedono l'unica lingua sacra. Fu un grave errore del postconcilio che la Chiesa si facesse immanente al mondo rinunziando alla sua lingua, proprio quando l'incipiente mondializzazione avrebbe richiesto un gesto in senso esattamente contrario.

Oggi la Chiesa dovrebbe riaffermare la sua romanitas latinitas; e in esse trova pieno spazio il rito romano antico riportato alla Chiesa dal motu proprio Summorum Pontificum. Ricordando che Pio XII scriveva che il sacerdote che misconoscesse il latino era afflitto da una "deplorevole miseria intellettuale".

Lunga standing ovation finale.
Enrico

"San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia contro le insidie e la malvagità del demonio e sii nostro aiuto.

Te lo chiediamo supplici che il Signore lo comandi.

E tu, principe della milizia celeste, con la potenza che ti viene da Dio, ricaccia nell'inferno Satana e gli altri spiriti maligni, che si aggirano per il mondo a perdizione della anime. Amen."

lunedì 22 settembre 2014

PER CHI ANCORA FA IL SORDO AL LATINO NELLA LITURGIA

IL LATINO NELLA LITURGIA: SPUNTI DI RIFLESSIONE





IL LATINO NELLA LITURGIA: SPUNTI DI RIFLESSIONE

di Daniele Di Sorco 

Gli argomenti a favore dell'uso del latino (o comunque di una lingua non corrente) nella liturgia possono essere ridotti a tre:

1) L'universalità. La Chiesa cattolica è universale, non solo perché si trova effettivamente diffusa su tutta la terra, ma perché la rivelazione divina da essa custodita è identica per ogni uomo. Tutti i cattolici degni di questo nome professano una stessa fede, credono nelle stesse verità, obbediscono agli stessi pastori. È del tutto logico, quindi, che all'unità della fede faccia riscontro l'unità della preghiera, per lo meno di quella preghiera ufficiale che i cattolici svolgono in forma comunitaria e pubblica, cioè della liturgia (Messa, Ufficio divino o Breviario, Sacramenti). Per la maggior parte delle persone, infatti, la liturgia è scuola di fede, è il momento in cui si apprendono e si mettono in pratica le nozioni relative alle principali verità di religione: di qui l'antico proverbio legem credendi lex statuat supplicandi (la norma della fede sia determinata dalla norma della preghiera). Per esempio, adorando con atti esteriori (genuflessioni, preghiere, ecc.) la santa Eucaristia nella Messa, si comprende più in profondità e si manifesta in forma pubblica la fede interiore nella Presenza reale di nostro Signore nel Sacramento dell'altare. La liturgia, in poche parole, è segno visibile del vincolo di unità che lega tutti i membri della Chiesa. Ora, tale vincolo può forze prescindere dalla lingua e accontentarsi soltanto del contenuto dei testi e dell'apparato delle cerimonie? La risposta è negativa. Ben lungi dal costituire un semplice mezzo con cui esprimere dei concetti (come un abito che si può cambiare a proprio piacimento, mentre il corpo resta lo stesso), la lingua costituisce, per il parlante, una vera e propria forma mentis. Per dimostrarlo, basta l'esperienza: quando andiamo all'estero, anche se conosciamo la lingua del posto, ci sentiamo spaesati, a disagio, come se avessimo a che fare a qualcosa che non ci appartiene; mentre se, nello stesso contesto, incontriamo qualcuno che parla italiano, la sensazione è quella di trovarsi subito a casa. Ecco il vantaggio di avere una lingua comune per i riti: quello di realizzare l'unità nella facoltà propria degli esseri razionali e che caratterizza in modo diretto e intuitivo la loro psicologia: l'espressione linguistica. Quando il latino era la lingua comune della liturgia, il cattolico che entrava in chiesa si sentiva automaticamente a casa propria, all'estero così come nel proprio paese di origine. Questa unità di linguaggio e, diciamolo pure, di sensazione, di impressione, non era che un riflesso di un'altra unità, ben più profonda, quella della fede. Non stupisce, allora, che tutti i tentativi di eresia abbiano avuto, tra le loro pretese, quello della liturgia in lingua nazionale: si voleva fare della fede qualcosa di soggettivo, di personale, di locale; e anche l'espressione esteriore e pubblica della fede doveva andare nella medesima direzione



2) L'univocità. Si sente spesso dire che il latino è una lingua morta. Non è vero. Il latino è una lingua viva e vegeta, poiché c'è chi la parla (nella liturgia, nell'insegnamento di certi seminari) e chi la scrive (si pensi soltanto ai documenti ufficiali della Chiesa). Non è tuttavia una lingua di uso corrente, cioè una lingua che si usa per la conversazione quotidiana. Ma, a ben vedere, per la liturgia questo costituisce un indubbio vantaggio. La fede, infatti, è espressione di verità sempre uguali, che non mutano col passare del tempo e con l'evolversi della storia, poiché esse promanano da Dio, nel quale, come dice S. Giacomo nella sua epistola (1, 17), non c'è ombra né traccia di divenire. Ora, non c'è bisogno di essere un esperto di linguistica per rendersi conto di come il linguaggio corrente sia sottoposto a numerose e continue variazioni di significato. Basti pensare alla parola "salute", che nell'italiano di un tempo significava genericamente "salvezza (del corpo, quindi, ma soprattutto dell'anima = lat. salus), mentre oggi indica solamente la sanità fisica. Inoltre le parole del linguaggio corrente assumono per ciascuno una sfumatura particolare, sulla base del vissuto personale, dell'associazione spontanea di idee, della eccessiva familiarità dei concetti. Si capisce, dunque, che la lingua di uso corrente, per la sua eccessiva variabilità oggettiva e soggettiva, non è la più adatta per esprimere i contenuti della liturgia, che sono contenuti eterni, immutabili, come eterno e immutabile è l'oggetto cui si rivolgono, cioè Dio. Il latino, essendo uscito dall'uso quotidiano da più di un millennio, offre invece i requisiti richiesti, poiché il suo lessico, le sue formule, le sue modalità espressive sii sono cristallizzati in forme ben precise, dal significato univoco, che non possono essere in alcun modo travisate o alterate dalla percezione soggettiva.


3) La sacralità. Parliamo, naturalmente, non di una sacralità intrinseca (nessuna lingua di per sé è più sacra di altre), ma di una sacralità acquisita. Da secoli il latino, sottratto all'uso comune e impiegato principalmente in ambito ecclesiastico, viene percepito come lingua inscindibilmente legata al sacro, allo stesso modo in cui l'organo, pur essendo talvolta adoperato in altri contesti, viene automaticamente associato alla chiesa. Se la Chiesa ha conservato il latino (e, in oriente, il greco antico e il paleoslavo, tutte lingue fuori dall'uso), non è per ottuso immobilismo (lo dimostra il fatto che già nel IX secolo, quando il latino cominciava a non essere più compreso dalle masse, si ordinò ai sacerdoti di tenere l'omelia in volgare), ma per marcare, anche sul piano linguistico, la distinzione essenziale che separa il profano dal sacro. Anche a tale riguardo, è bene richiamare alla mente alcune nozioni di psicologia linguistica, che, per quanto elementari e scontate, sembrano essere trascurate da molti. L'uso di un tipo di linguaggio piuttosto che un altro è determinato dal contesto in cui ci si trova e dall'oggetto di cui si parla: altro è il modo con cui mi rivolgo a un parente o a un amico, altro è il modo con cui parlo a un superiore, altro ancora è il modo con cui interloquisco con un personaggio famoso. E, a parità di interlocutore, il mio modo di esprimermi sarà diverso a seconda che parli di una partita di calcio o della struttura interna dell'atomo. Ciascun registro linguistico è legato ad una situazione ben precisa. Sarebbe del tutto strano e fuori luogo parlare col proprio datore di lavoro impiegando lo stesso lessico e le stesse espressioni che si userebbero con un familiare. Non stupisce, dunque, che anche la liturgia, nella quale l'interlocutore è Dio stesso e l'oggetto sono le realtà soprannaturali, abbia un linguaggio proprio, radicalmente diverso da quello impiegato nella vita quotidiana e nelle attività profane. L'uso del latino serve per far comprendere meglio, anche sul piano dell'espressione verbale (che è uno dei piani più importanti della psicologia umana), che nell'azione liturgica siamo di fronte a qualcosa che, trascendendo la realtà immanente, non può essere espressa nello stesso linguaggio di quest'ultima. Del resto, anche ai tempi di Gesù, in Palestina la lingua corrente era l'aramaico, ma nelle sinagoghe il culto avveniva quasi interamente in ebraico antico, ad eccezione soltanto delle parti destinate all'istruzione del popolo.


Si potrebbe obiettare che l'uso del latino preclude la comprensione dei testi liturgici alla maggior parte del popolo e quindi ostacola uno dei fini del culto pubblico, che è l'edificazione dei fedeli. Tale rilievo ha il sapore delle contestazioni superficiali, che al primo impatto sembrano ovvie e scontate, ma che rivelano tutta la loro inconsistenza una volta che si esamini più approfonditamente la questione.

In primo luogo, la liturgia non è uno spettacolo teatrale, nel quale si debba ascoltare e comprendere ogni singola parola. La liturgia serve a farci penetratre, mediante il suo apparato di segni visibili, nelle realtà divine che in essa si celebrano. Per questo il sacerdote si spoglia dei suoi abiti quotidiani e si riveste dei sacri paramenti, per questo la celebrazione segue un rito codificato, per questo i cristiani si riuniscono in un luogo apposito e diverso da tutti gli altri, la chiesa. Si comprende facilmente, allora, come la partecipazione alla liturgia debba avvenire in primo luogo a livello interiore, con la comprensione profonda e personale del mistero che si celebra, con l'elevazione della mente a Dio, autore di tali misteri. Un rito che favorisce il senso esteriore del sacro, ne agevola la percezione interiore. Viceversa, un rito che, a causa dell'impiego di elementi troppo legati alla realtà quotidiana, non marca adeguatamente la differenza tra sacro e profano, non riesce a far penetrare adegutamente il fedele nella dimensione del mistero. Il risultato è una liturgia che ha per oggetto, non più Dio, ma la comunità stessa, che finisce per celebrare valori (o, talvolta, disvalori) esclusivamente umani, rispetto ai quali Dio o si trova in disparte (come i crocifissi nelle chiese moderne) o è del tutto escluso. In altre parole, celebrare la liturgia attingendo le sue principali caratteristiche dalla realtà profana (lingua corrente, canzonette, improvvisazioni, mortificazione del simbolismo) significa scadere nell'autoreferenzialità, e invogliare le persone ad abbandonare la pratica religiosa: infatti, se in chiesa trovo le stesse cose (o, meglio, un surrogato delle stesse cose) che mi offre il mondo, perché dovrei andarci?


Non è vero, poi, che la comprensione della liturgia tradizionale sia appannaggio di chi conosce la lingua latina. L'esperienza dimostra che il popolo aveva un'idea molto più chiara del valore della Messa e del significato dei riti quando essi venivano celebrati in una lingua ai più sconosciuta, che non oggi, quando tutto avviene in italiano e con un rito semplificato. Perché? Perché la liturgia è per lo più costituita da uno schema fisso, che si ripete sempre uguale in tutte le celebrazioni e che pertanto basta imparare una volta per tutte. Le parti variabili sono poche: nella Messa ve ne sono nove (antifona all'introito, orazione, epistola, versetti interlezionari, vangelo, antifona all'offertorio, secreta, antifona alla comunione, dopocomunione), di cui quattro sono canti, mentre soltanto due (epistola e vangelo, a cui si possono aggiungere, volendo, le tre orazioni) riguardano direttamente l'istruzione del popolo. Queste possono essere lette da chiunque su un messalino che riporta la traduzione del testo liturgico. E, in ogni caso, si è diffusa da molto tempo la consuetudine di leggere in volgare le letture scritturistiche. Riassumento: le parti fisse (ordinario della Messa) sono sempre uguali, ed è sufficiente memorizzarle una volta per tutte, non quanto alla singola parola, s'intende, ma quanto al significato; le parti mobili (proprio della Messa) possono essere consultate sul messalino bilingue, grazie al quale, peraltro, il fedele può usare i testi liturgici a casa propria, per sua meditazione personale. La difficoltà di imparare almeno i rudimenti della lingua liturgica non è poi così grande come sembra, specialmente se si pensa che anche i testi italiani, per essere adeguatamente compresi, hanno comunque bisogno di una spiegazione (l'uso del volgare non basta per rendere i concetti teologici contenuti nella Messa automaticamente intellegibili) e che, in passato, perfino le persone di bassa cultura conoscevano a memoria le principali parti della liturgia, magari storpiando qualche desinenza latina ma avendo ben chiaro il significato.



Si tenga conto, infine, che l'uso di una lingua diversa da quella corrente stimola la concentrazione dei fedeli. Sembra un paradosso, ma è così. Un rito interamente celebrato in volgare non richiede alcuno sforzo di comprensione. Si può benissimo andare a Messa (tutti, credo, abbiamo fatto almeno una volta questa esperienza), ascoltare tutto, rispondere a tutto, ma avere la mente altrove. Molto, certo, dipende dalla disposizione personale, ma una responsabilità non piccola va attribuita alla facilità di un rito in cui la lingua è quella di tutti giorni, le cerimonie semplificate, l'atmosfera da riunione profana. L'ostacolo linguistico(che poi, come abbiamo visto al paragrafo precedente, è un ostacolo soltanto relativo) costituisce per il fedele un incentivo a compiere quello sforzo mentale che gli consente di entrare nella dimensione propria della liturgia, che è una dimensione radicalmente diversa da quella quotidiana. 


In conclusione, possiamo affermare sulla base di solidi argomenti che i vantaggi derivanti dall'uso indiscriminato del volgare sono assai minori rispetto a quelli che si ottengono dall'uso del latino, e, in ogni caso, sono anch'essi subordinati alla spiegazione del significato dei riti e delle preghiere (catechesi liturgica). Per cui, a conti fatti, non c'è ragione per allontanarsi dalla pratica che non solo la Chiesa cattolica, ma anche le principali tra le false religioni hanno sempre e costantemente osservato.

Alle considerazioni di tipo teorico, se ne può aggiungere una, decisiva, di indole pratica. L'antico rito, grazie all'eminente sacralità che gli deriva dall'uso di una lingua diversa da quella corrente, ha prodotto, nel corso dei secoli, abbondantissimi frutti di spiritualità e santità, non solo nel clero e in coloro che conoscevano il latino, ma anche nel popolo illetterato e analfabeta, che non comprendeva le singole parole del rito, ma coglieva il senso ultimo della liturgia, il suo significato profondo. Oggi (ma potremmo fare un parallelo con la crisi religiosa conseguita all'introduzione del volgare e alla semplificazione dei riti nei paesi protestanti) assistiamo al fenomeno inverso: il rito in volgare e semplificato è materialmente intellegibile e i fedeli possono parteciparvi esteriormente con la massima comodità; ma ciò ha indotto la maggior parte dei cristiani (anche del clero, purtroppo) a ritenere che non fosse necessario andare oltre, che cioè lo spirito della liturgia consistesse nella comprensibilità stessa; il rito, quindi, ha valore non nella misura in cui avvicina a Dio, ma nella misura in cui esprime i bisogni e le aspettative della comunità: ecco il cerchio autoreferenziale, da cui Dio è praticamente escluso, e a creare il quale ha contribuito in misura non piccola una liturgia abbassata talmente a livello dell'uomo da essere divenuta interamente umana.


Con quale disposizione, dunque, bisogna riaccostarsi all'antica liturgia, se non la si è mai conosciuta o se non la si frequenta più da molti anni? Prima di tutto, senza la pretesa di restarne immediatamente affascinati. È vero che molti fedeli rimangono subito attratti dalla sacralità che promana dal rito antico, ma è anche vero che, per molti, la forza dell'abitudine, unita ad un'errata concezione della liturgia, che identifica il suo valore con la partecipazione e la comprensibilità esteriore), rende difficile l'immediata fruizione di un rito che si basa su presupposti nettamente diversi. Occorre, quindi, dare tempo al tempo: assistere al rito con mente sgombra da preconcetti, senza la smania di capire tutto subito, lasciandosi penetrare dalla sacralità del rito, riscoprendo il valore della preghiera personale (lasciata in disparte dalla moderna liturgia), apprezzando la funzione di una lingua che inizialmente si crede un ostacolo ma che poi si rivela chiave di accesso ad una dimensione ulteriore, quella del sacro e del divino, che molti probabilmente non hanno mai conosciuto nella preghiera liturgica.



sabato 8 febbraio 2014

ECCO I FATTI CHE MOLTI NON SANNO ANCORA O NON VOGLIONO SAPERE



Contro-rivoluzione liturgica 

Il caso “silenziato” di Padre Calmel

di Cristiana de Magistris

Articolo pubblicato sul sito Concilio Vaticano II



Religioso domenicano e teologo tomista di non comune spessore, direttore di anime apprezzato e ricercato su tutto il suolo francese, scrittore cattolico d’una logica stringente e d’una chiarezza inequivocabile, padre Roger-Thomas Calmel (1914-1975) negli anni ruggenti del Concilio e del post-concilio si distinse per la sua azione controrivoluzionaria esercitata – attraverso la predicazione, gli scritti e soprattutto l’esempio –  sia sul piano dottrinale sia su quello liturgico.

Ma su un punto ben preciso la resistenza di questo figlio di san Domenico raggiunse l’eroismo: la Messa, poiché è sulla redenzione operata da Cristo sul Calvario e perpetuata sugli altari che si fonda la Fede cattolica. Il 1969 fu l’anno fatidico della rivoluzione liturgica, lungamente preparata e infine imposta d’autorità ad un popolo che non l’aveva chiesta né la desiderava.

La nascita della nuova Messa non fu pacifica. A fronte dei canti di vittoria dei novatores, vi furono le voci di chi non voleva calpestare il passato quasi bimillenario di una Messa che risaliva alla tradizione apostolica. Questa opposizione ebbe il sostegno di due cardinali di Curia (Ottaviani e Bacci), ma rimase del tutto inascoltata.
L’entrata in vigore del nuovo Ordo Missae era fissata per il 30 novembre, prima domenica d’Avvento, e le opposizioni non tendevano a placarsi. Lo stesso Paolo VI, in due udienze generali (19 e 26 novembre 1969), intervenne presentando il nuovo rito della Messa come volontà del Concilio e come aiuto alla pietà cristiana. Il 26 novembre il Papa disse: 


Nuovo rito della Messa: è un cambiamento, che riguarda una venerabile tradizione secolare, e perciò tocca il nostro patrimonio religioso ereditario, che sembrava dover godere d’un’intangibile fissità, e dover portare sulle nostre labbra la preghiera dei nostri antenati e dei nostri Santi, e dare a noi il conforto di una fedeltà al nostro passato spirituale, che noi rendevamo attuale per trasmetterlo poi alle generazioni venture. Comprendiamo meglio in questa contingenza il valore della tradizione storica e della comunione dei Santi. Tocca questo cambiamento lo svolgimento cerimoniale della Messa; e noi avvertiremo, forse con qualche molestia, che le cose all’altare non si svolgono più con quella identità di parole e di gesti, alla quale eravamo tanto abituati, quasi a non farvi più attenzione. Questo cambiamento tocca anche i fedeli, e vorrebbe interessare ciascuno dei presenti, distogliendoli così dalle loro consuete devozioni personali, o dal loro assopimento abituale. …”.

E proseguiva dicendo che bisogna comprendere il significato positivo delle riforme e fare della Messa “una tranquilla ma impegnativa palestra di sociologia cristiana”.
Sarà bene – avvertiva Paolo VI nella medesima udienza – che ci rendiamo conto dei motivi, per i quali è introdotta questa grave mutazione: l’obbedienza al Concilio, la quale ora diviene obbedienza ai Vescovi che ne interpretano e ne eseguiscono le prescrizioni…”.

Per sedare le opposizioni al Papa non rimaneva che l’argomento di autorità. Ed è su questo argomento che si giocò tutta la partita della rivoluzione liturgica.

Padre Calmel, che con i suoi articoli fu assiduo collaboratore della rivista Itinéraires, aveva già affrontato il tema dell’obbedienza, divenuto nel post-concilio l’argomento di punta dei novatores. Ma, egli affermava, è esattamente in virtù dell’obbedienza che bisogna rifiutare ogni compromesso con la rivoluzione liturgica:

Non si tratta di fare uno scisma ma di conservare la tradizione”. 
Con sillogismo aristotelico faceva notare:
L’infallibilità del Papa è limitata, dunque la nostra obbedienza è limitata”,  indicando il principio della subordinazione dell’obbedienza alla verità, dell’autorità alla tradizione.

La storia della Chiesa ha casi di santi che furono in contrasto con l’autorità di papi che non furono santi. Pensiamo a sant’Atanasio scomunicato da papa Liberio, a san Tommaso Becket sospeso da papa Alessandro III. E soprattutto a santa Giovanna d’Arco.

Il 27 novembre 1969, tre giorni prima della data fatidica in cui entrò in vigore il Novus Ordo Missae, padre Calmel espresse il suo rifiuto con una dichiarazione d’eccezionale portata, resa pubblica sulla rivista Itinéraires.




Mi attengo alla Messa tradizionale – dichiarò –, quella che fu codificata, ma non fabbricata, da San Pio V, nel XVI secolo, conformemente ad un uso plurisecolare. Rifiuto dunque l’Ordo missae di Paolo VI.

Perché? Perché, in realtà, questo Ordo Missae non esiste. Ciò che esiste è una rivoluzione liturgica universale e permanente, permessa o voluta dal Papa attuale, e che riveste, per il momento, la maschera dell’Ordo Missae del 3 aprile 1969. È diritto di ogni sacerdote rifiutare di portare la maschera di questa rivoluzione liturgica. E stimo mio dovere di sacerdote rifiutare di celebrare la messa in un rito equivoco.

Se accettiamo questo nuovo rito, che favorisce la confusione tra la Messa cattolica e la cena protestante – come sostengono i due cardinali (Bacci e Ottaviani) e come dimostrano solide analisi teologiche – allora passeremmo senza tardare da una messa intercambiabile (come riconosce, del resto, un pastore protestante) ad una messa completamente eretica e quindi nulla. Iniziata dal Papa, poi da lui abbandonata alle Chiese nazionali, la riforma rivoluzionaria della messa porterà all’inferno. Come accettare di rendersene complici?


Mi chiederete: mantenendo, verso e contro tutto, la Messa di sempre, hai riflettuto a che cosa ti esponi? Certo. Io mi espongo, per così dire, a perseverare nella via della fedeltà al mio sacerdozio, e quindi a rendere al Sommo Sacerdote, che è il nostro Giudice supremo, l’umile testimonianza del mio ufficio sacerdotale. Io mi espongo altresì a rassicurare dei fedeli smarriti, tentati di scetticismo o di disperazione. Ogni sacerdote, in effetti, che si mantenga fedele al rito della Messa codificata da San Pio V, il grande Papa domenicano della controriforma, permette ai fedeli di partecipare al santo Sacrificio senza alcun possibile equivoco; di comunicarsi, senza rischio di essere ingannato, al Verbo di Dio incarnato e immolato, reso realmente presente sotto le sacre Specie. Al contrario, il sacerdote che si conforma al nuovo rito, composto di vari pezzi da Paolo VI, collabora per parte sua ad instaurare progressivamente una messa menzognera dove la Presenza di Cristo non sarà più autentica, ma sarà trasformata in un memoriale vuoto; perciò stesso, il Sacrificio della Croce non sarà altro che un pasto religioso dove si mangerà un po’ di pane e si berrà un po’ di vino. Nulla di più: come i protestanti. Il rifiuto di collaborare all’instaurazione rivoluzionaria di una messa equivoca, orientata verso la distruzione della Messa, a quali disavventure temporali, a quali guai potrà mai portare? Il Signore lo sa: quindi, basta la sua grazia. In verità, la grazia del Cuore di Gesù, derivata fino a noi dal santo Sacrificio e dai sacramenti, basta sempre. È perciò che il Signore ci dice così tranquillamente: “Colui che perde la sua vita in questo mondo per causa mia, la salverà per la vita eterna”.

Riconosco senza esitare l’autorità del Santo Padre. Affermo tuttavia che ogni Papa, nell’esercizio della sua autorità, può commettere degli abusi d’autorità. 

Sostengo che il papa Paolo VI ha commesso un abuso d’autorità di una gravità eccezionale quando ha costruito un nuovo rito della messa su una definizione della messa che ha cessato di essere cattolica. “La messa – ha scritto nel suo Ordo Missae – è il raduno del popolo di Dio, presieduto da un sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore”. Questa definizione insidiosa omette a priori ciò che fa la Messa cattolica, da sempre e per sempre irriducibile alla cena protestante. E ciò perché per la Messa cattolica non si tratta di qualunque memoriale; il memoriale è di tal natura che contiene realmente il sacrificio della Croce, perché il Corpo e il Sangue di Cristo sono resi realmente presenti in virtù della duplice consacrazione. Ora, mentre ciò appare così chiaro nel rito codificato da San Pio V da non poter esser tratti in inganno, in quello fabbricato da Paolo VI rimane fluttuante ed equivoco. Parimenti, nella Messa cattolica, il sacerdote non esercita una presidenza qualunque: segnato da un carattere divino che lo introduce nell’eternità, egli è il ministro di Cristo che fa la Messa per mezzo di lui; ben altra cosa è assimilare il sacerdote a un qualunque pastore, delegato dai fedeli a mantenere in buon ordine le loro assemblee. Orbene, mentre ciò è certamente evidente nel rito della Messa prescritta da San Pio V, è invece dissimulato se non addirittura eliminato nel nuovo rito.


La semplice onestà quindi, ma infinitamente di più l’onore sacerdotale, mi chiedono di non aver l’impudenza di trafficare la Messa cattolica, ricevuta nel giorno della mia ordinazione. Poiché si tratta di essere leale, e soprattutto in una materia di una gravità divina, non c’è autorità al mondo, fosse pure un’autorità pontificale, che possa fermarmi. D’altronde, la prima prova di fedeltà e d’amore che il sacerdote deve dare a Dio e agli uomini è quella di custodire intatto il deposito infinitamente prezioso che gli fu affidato quando il Vescovo gl’impose le mani. È anzitutto su questa prova di fedeltà e d’amore che io sarò giudicato dal Giudice supremo. Confido che la Vergine Maria, Madre del Sommo sacerdote, mi ottenga la grazia di rimanere fedele fino alla morte alla Messa cattolica, vera e senza equivoco. Tuus sum ego, salvum me fac (sono tutto vostro, salvatemi)”.

Di fronte a un testo di tale spessore e ad una presa di posizione così categorica, tutti gli amici e i sostenitori di padre Calmel tremarono, attendendo da Roma le più dure sanzioni. Tutti, tranne lui, il figlio di san Domenico, che continuava a ripetere: “Roma non farà niente, non farà niente…”. E difatti Roma non fece nulla. Le sanzioni non arrivarono. Roma tacque davanti a questo frate domenicano che non temeva nulla se non il Giudice supremo a cui doveva render conto del suo sacerdozio.

Altri sacerdoti, grazie alla dichiarazione di padre. Calmel, ebbero il coraggio di uscire allo scoperto e di resistere ai soprusi di una legge ingiusta e illegittima. Contro coloro che raccomandavano l’obbedienza cieca alle autorità, egli mostrava il dovere dell’insurrezione.

Tutta la condotta di santa Giovanna d’Arco mostra che ella ha pensato così: Certo, è Dio che lo permette; ma ciò che Dio vuole, almeno finché mi resterà un esercito, è che io faccia una buona battaglia e giustizia cristiana. Poi fu bruciata […]. Rimettersi alla grazia di Dio non significa non far nulla. 

Significa invece fare, rimanendo nell’amore, tutto ciò che è in nostro potere […]. A chi non abbia meditato sulle giuste insurrezioni della storia, come la guerra dei Maccabei, le cavalcate di santa  Giovanna d’Arco, la spedizione di Giovanni d’Austria, la rivolta di Budapest, a chiunque non sia entrato in sintonia con le nobili resistenze della storia […] io rifiuto il diritto di parlare di abbandono cristiano […] l’abbandono non consiste nel dire: Dio non vuole la crociata, lasciamo fare ai Mori. Questa è la voce della pigrizia”.

Non si può confondere l’abbandono soprannaturale con una supina obbedienza.

Il dilemma che si pone a tutti – avvertiva padre Calmel – non è di scegliere tra l’obbedienza e la fede, ma tra l’obbedienza della fede e la collaborazione con la distruzione della fede”. Tutti noi siamo invitati a fare “nei limiti che ci impone la rivoluzione, il massimo di ciò che possiamo fare per vivere della tradizione con intelligenza e fervore. Vigilate et orate”.

Padre Calmel aveva compreso perfettamente che la forma di violenza esercitata nella “Chiesa post-conciliare” è l’abuso di autorità, esplicato esigendo un’obbedienza incondizionata. Alla quale i chierici e molti laici si piegarono senza tentare alcuna forma di resistenza. “Questa assenza di reazione – notava Louis Salleron – mi pare tragica. Perché Dio non salva i cristiani senza di essi, né la sua Chiesa senza di essa”.

Il modernismo fa camminare le sue vittime sotto il vessillo dell’obbedienza – scriveva il religioso domenicano–, ponendo sotto sospetto di orgoglio qualunque critica delle riforme, in nome del rispetto che si deve al papa, in nome dello zelo missionario, della carità e dell’unità”. 

Quanto al problema dell’obbedienza in materia liturgica, padre Calmel osservava:
La questione dei nuovi riti consiste nel fatto che sono ambivalenti: essi perciò non esprimono in modo esplicito l’intenzione di Cristo e della Chiesa. La prova è data dal fatto che anche gli eretici l’usano con tranquillità di coscienza, mentre rigettano e hanno sempre rigettato il Messale di san Pio V”. “Bisogna essere o sciocchi o paurosi (o l’uno e l’altro insieme) per considerarsi legati in coscienza da leggi liturgiche che cambiano più spesso della moda femminile e che sono ancora più incerte”.

Nel 1974 in una conferenza diceva:

La Messa appartiene alla Chiesa. La nuova Messa non appartiene che al modernismo. Mi attengo alla Messa cattolica, tradizionale, gregoriana, poiché essa non appartiene al modernismo […]. Il modernismo è un virus. È contagioso e bisogna fuggirlo. La testimonianza è assoluta. Se rendo testimonianza alla Messa cattolica, occorre che io mi astenga dal celebrarne altre. È come l’incenso bruciato agli idoli: o un grano o nulla. Dunque, nulla”.

Nonostante l’aperta resistenza di padre Calmel contro le innovazioni liturgiche, da Roma non giunse mai alcuna sanzione. La logica del padre domenicano era troppo serrata, la sua dottrina troppo ortodossa, il suo amore alla Chiesa e alla sua perenne tradizione troppo leale perché lo si potesse attaccare. Non si intervenne contro di lui poiché non lo si poteva. Allora si avvolse il caso nel più omertoso silenzio, al punto che il teologo domenicano – noto, in parte, al mondo tradizionale francese – è pressoché sconosciuto nel resto dell’orbe cattolico.

Nel 1975, padre Calmel si spegneva prematuramente, coronando il suo desiderio di fedeltà e di resistenza. Nella sua Dichiarazione del 1969 aveva chiesto alla Santissima Vergine di “rimanere fedele fino alla morte alla Messa cattolica, vera e senza equivoco”. La Madre di Dio esaudì il desiderio di questo figlio prediletto che morì senza aver mai celebrato la Messa nuova per rimaner fedele al supremo Giudice al quale doveva rispondere del suo sacerdozio.

Suscipe, sancte Pater, 
Omnipotens aeterne Deus...

domenica 1 dicembre 2013

BINOMIO INSCINDIBILE

R. DE MATTEILATINO E CHIESA CATTOLICA, BINOMIO INSCINDIBILE.

Il prof. de Mattei  -al Convegno Summorum Pontificum- ha affrontato un argomento che, potremmo dire, è coessenziale al nome stesso del nostro blog (Messainlatino): Il latino, lingua liturgica della Chiesa e della Cattolicità.

La tesi dello storico, sostenuta con dovizia di riferimenti documentali  che qui, ovviamente, non possiamo riportare, è che la lingua latina sia costitutiva della stessa liturgia cristiana: non, quindi, elemento accidentale che possa essere tranquillamente abrogato o modificato.

E' vero che la prima liturgia cristiana fu espressa nel greco della koiné, ma fin dai primi secoli a Roma l'utilizzo del latino si diffonde, secondo quanto possiamo ricostruire dai resti epigrafici.

Papa San Damaso, nel IV secolo, benché spagnolo di nascita, rafforzò la romanità, nelle sue due articolazioni: da un lato la petrinitas, cioè il primato del romano pontefice, dall'altro la latinitas, ossia la romanità della Chiesa . A lui si deve l'adozione della lingua latina come lingua universale della Chiesa, che esprime una rinnovata Weltanschauung della Chiesa.

Quando Teodosio il Grande vinse la battaglia del Frigido contro i pagani barbari, si saldò definitivamente l'unione tra il romano impero e la Fede cristiana. Fino alla riforma liturgica (1970), si continuò quindi a pregare per il romanus imperator, anche se il Sacro Romano Impero era stato dissolto nel 1806 e la stessa casa di Asburgo, che aveva per secoli cinto il serto imperiale, era decaduta nel 1918.

La liturgia della Chiesa non nasce nel IV-V secolo, ma in quel tempo essa fu codificata in stretta aderenza al traditum: in un rescritto del 416 Innocenzo I attesta come la Liturgia romana rappresentava l'antico costume fedelmente conservato. E' la tradizione di sempre, però romanamente sfrondata delle ampollosità che in Oriente ebbero tanto successo.

Il latino arrivò con la fede là dove le legioni romane non misero mai piede, come in Irlanda: ecco la risposta migliore contro chi crede che la Fede si sia inculturata nella latinità, e non viceversa. Le genti irlandesi non parlavano affatto il latino, e l'evangelizzazione avvenne in gaelico, ma accolsero la liturgia nella sua pura forma latina, la fecero propria e la difesero nei secoli contro le più dure persecuzioni.

Lungi dall'inculturarsi nella (inesistente) latinità irlandese, la Fede trapiantò la latinità nell'Irlanda e da là, grazie ai 40 benedettini irlandesi, si diffuse alla Scozia e pure in Inghilterra a sud del Vallo di Adriano, dove era quasi estinto perfino il ricordo dell'Impero romano. Da lì, ulteriormente, in Germania, altro territorio ove le legioni erano state fermate nella selva di Teutoburgo e la latinità romana non era prima pervenuta.

Il greco ambì a divenire come il latino lingua universale, a causa del nazionalismo del patriarcato di Costantinopoli. Il patriarca ambiva a soppiantare il Papa, sul rilievo del primato politico della Seconda Roma (Costantinopoli) rispetto alla decaduta Roma che non aveva più imperatori. Ma in Oriente il Patriarca era soggetto al cesaropapismo imperiale e non valeva molto più di un funzionario imperiale. Il greco scomparve gradualmente, poi, per effetto delle invasioni musulmane.

Quando l'Impero romano rinacque con Carlo Magno, la latinitas riassunse anche un ruolo politico di unificazione; e quando nel Basso Medioevo iniziarono a diffondersi le lingue nazionali, l'uso del latino non declinò, e restò la lingua internazionale fino al XVIII secolo, la lingua della Chiesa, della scienza, della diplomazia.

Vi è una necessità, sia pure storica e non metafisica, di relazione tra il cattolicesimo e la lingua latina. Quel binomio che il padre Chénu, alla vigilia del Concilio, si proponeva di spezzare eliminando il latino dalla vita della Chiesa. Il movimento liturgico pure auspicava un rinnovamento in tal senso in nome di una maggior partecipazione dei fedeli alla liturgia. 
Ma a questi aneliti rispondeva Giovanni XXIII con la Veterum Sapientia, promulgata con la massima solennità (il giorno della Cattedra di Pietro, in San Pietro, davanti a numerosi cardinali e vescovi), che alla vigilia del Concilio, e come ad orientarne gli esiti, chiedeva non solo di conservare l'uso del latino, ma di incrementarne e restaurarne l'utilizzo. Il documento riconosce che la Chiesa ha necessità di una sua lingua propria, non nazionale ma universale, sacra e non ordinaria e volgare, e dal significato univoco e non mutevole nel tempo, per trasmettere la medesima dottrina: unica, per il suo governo, e sacra, per il suo rito. La Chiesa, ontologicamente immutabile, non può affidare alla fluttuazione linguistica la trasmissione delle sue Verità.

E' significativo che anche il codice canonico per le chiese orientali sia sempre stato in lingua latina.

Nessun'altra lingua al mondo possiede del latino le caratteristiche di universalità e, al tempo stesso, di essere aliena ai nazionalismi. La massoneria internazionale da sempre ricerca una società perfetta che parli un'unica lingua ed ha escogitato l'esperanto, però miseramente fallito; mai ha pensato di utilizzare allo stesso fine il latino, per odio alla Chiesa.

L'uso della lingua volgare è una caratteristica di tutte le eresie di questo millennio, a cominciare da quella catara.

*L'intervento del prof. de Mattei è stato interrotto a questo punto dall'arrivo dal card. Castrillòn Hoyos, che è stato accolto da un calorosissimo applauso.*

Ricorda la Genesi che la divisione delle lingue è conseguenza del peccato degli uomini. Gli Apostoli necessariamente evangelizzarono in tutte le lingue, ma il giorno di Pentecoste lo Spirito riportò tutti alla compresione unitaria delle lingue: logico quindi che la Chiesa di Dio si serva di un'unica lingua per tutti. 

La lingua latina, ricordava Giovanni XXIII, fu scelta dalla Provvidenza come lingua della Chiesa, portata ovunque dalle antiche vie consolari. L'unità linguistica resta un modello e un ideale; e se nella predicazione è giocoforza utilizzare la lingua vernacola, il rito e la liturgia richiedono l'unica lingua sacra. // Fu un grave errore del postconcilio che la Chiesa si facesse immanente al mondo rinunziando alla sua lingua, proprio quando l'incipiente mondializzazione avrebbe richiesto un gesto in senso esattamente contrario.

Oggi la Chiesa dovrebbe riaffermare la sua romanitas latinitas; e in esse trova pieno spazio il rito romano antico riportato alla Chiesa dal motu proprio Summorum Pontificum. Ricordando che Pio XII scriveva che il sacerdote che misconoscesse il latino era afflitto da una "deplorevole miseria intellettuale".
Lunga standing ovation finale.

SABATO 14 MAGGIO 2011                                           ENRICO

giovedì 28 novembre 2013

Una novità, una invenzione di Martin Lutero.


giovedì 28 novembre 2013

'Versus populum' non è neppure archeologismo liturgico

L'idea che il sacerdote stia di fronte alla comunità risale senza dubbio a Martin Lutero. […] Prima di Lutero l'idea che il sacerdote quando celebra la messa stia di fronte alla comunità non si trova in nessun testo letterario, né è possibile utilizzare per suffragarla i risultati della ricerca archeologica. […] Dal punto di vista cattolico, invero, carattere sacrificale e conviviale della messa non sono mai stati in contrasto. Cena e sacrificio sono due elementi della medesima celebrazione. Certo col mutare dei tempi non sempre essi sono stati espressi con pari forza. […] Se al giorno d'oggi si desidera dare un rilievo maggiore al carattere di convito della celebrazione eucaristica, va detto che nella celebrazioneversus populum questo non è che appaia con la forza che spesso si crede e si vorrebbe. Infatti soltanto il "presidente" della cena sta effettivamente al tavolo, mentre tutti gli altri convitati siedono giù nella navata, nei posti destinati agli "spettatori", senza poter avere alcun rapporto diretto col tavolo della Cena. Il modo migliore per rivendicare il carattere sacrificale della messa è dato dall'atto di volgersi tutti insieme col sacerdote (verso oriente, vale a dire) nella medesima direzione durante la preghiera eucaristica, nel corso della quale viene offerto realmente il santo sacrificio. Il carattere conviviale potrebbe essere invece sottolineato maggiormente nel rito della comunione […]. Secondo la concezione cattolica la messa è ben di più di una comunità riunita per la cena in memoria di Gesù di Nazareth: ciò che è determinante non è realizzare l'esperienza comunitaria, sebbene anche questa non sia da trascurare (cfr. 1Cor 10,17), ma è invece il culto che la comunità rende a Dio. Il punto di riferimento deve essere sempre Dio e non l'uomo, e per questa ragione fin dalle origini nella preghiera cristiana tutti si rivolgono verso di Lui, sacerdote e comunità non possono stare di fronte. Da tutto ciò dobbiamo trarre le dovute conseguenze: la celebrazione versus populum va considerata per quello che in realtà è, una novità, una invenzione di Martin Lutero. (Mons. Klaus Gamber, in "Instaurare omnia in Christo", 2/1990)
[FonteCordialiter]