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venerdì 17 ottobre 2014

"La Vergine Santa ci difende”. Dunque, che cosa fare?




IL PAPA È SOLO IL VICARIO Strategie di sopravvivenza in tempi di “eclissi del Papato” secondo il pensiero di padre Calmel


Padre-Roger-Thomas-Calmel(di Cristiana de Magistris) Quando, negli anni del Concilio Vaticano II e dell’immediato post-Concilio, venti rivoluzionari soffiavano sulla Chiesa di Cristo, un teologo domenicano, padre Roger-Thomas Calmel, levò il suo vessillo contro-rivoluzionario e, con la sua penna e con la sua parola, fece sentire la sua voce che invitava i fedeli alla resistenza nella fedeltà inflessibile alla Tradizione di sempre con un atteggiamento spirituale di pace e finanche di gioia nella prova.
Il messaggio di padre Calmel non ha mai cessato di essere attuale. Ma torna di particolare interesse quando – ed è il nostro caso – su verità “sempre, ovunque e da tutti” affermate inizia ad aleggiare il soffio funesto del dubbio, a partire dai vertici della gerarchia cattolica.
Padre Calmel, spirito profetico come pochi negli ultimi 50 anni, aveva previsto questa tragica possibilità ed aveva messo in guardia i fedeli fornendo loro le armi per rimanere fedeli alla Chiesa di sempre ed evitare in tal modo la tentazione del sedevacantismo o quella ancor più funesta della disperazione.
Poiché si tratta di una crisi dell’autorità, dal momento che gli errori vengono propugnati da chi avrebbe il compito di condannarli, il punto di partenza, fondamentale ed imprescindibile, è comprendere a fondo fin dove arrivi il potere dell’Autorità, a partire dal suo vertice, il Papa.
Padre Calmel precisa anzitutto che il Capo della Chiesa è uno solo, Nostro Signore Gesù Cristo, che “è sempre infallibile, sempre senza peccato, sempre santo […]. È lui il solo Capo, perché tutti gli altri, compreso il più alto, non hanno autorità se non da Lui e per Lui”. Salendo al cielo, questo Capo invisibile ha lasciato alla sua Chiesa un Capo visibile come suo Vicario, il Papa, “che solo gode della giurisdizione suprema”. “Se però il Papa è il Vicario di Gesù, […], egli è soltanto il Vicario: vicens regens, tiene il posto di Gesù Cristo, ma resta altro da Lui”. Evidentemente il Papa ha prerogative del tutto eccezionali, custodendo i mezzi della grazia, i sacramenti, e la Verità rivelata. Gode, in certi casi ben circoscritti e determinati, dell’infallibilità. Per il resto, “può mancare in molti casi”. La storia della Chiesa – a parte un manipolo di Papi santi e un numero ridotto di papi indegni – è piena di Papi mediocri e manchevoli. Ciò non deve né spaventare né sorprendere. Al contrario, è proprio nella debolezza, e talvolta anche nell’indegnità, dei papi che risalta la signoria del nostro Salvatore, il Quale rimane il solo Capo della Chiesa, sulla quale esercita il suo governo “tenendo in mano anche i Papi insufficienti e contenendo la loro insufficienza in limiti invalicabili”.
            Ora, avverte padre Calmel, perché questa fiducia nel Capo invisibile della Chiesa sia così profonda da superare tutte le possibili deficienze del suo Vicario in terra, occorre che la nostra vita spirituale “sia riferita a Gesù Cristo e non al Papa; che la nostra vita interiore, la quale abbraccia – non serve dirlo – anche il Papa e la gerarchia, sia fondata non sulla gerarchia e sul Papa, ma sul divino Pontefice […] dal Quale il Vicario visibile supremo dipende ancor più degli altri sacerdoti”.
            E ciò per una ragione a tutti evidente e quanto mai elementare: “La Chiesa – scrive quest’illustre figlio di san Domenico – non è il corpo mistico del Papa. La Chiesa, col Papa, è il corpo mistico di Cristo. Quando la vita interiore dei cristiani è sempre più orientata a Gesù Cristo, essi non cadono nella disperazione, anche quando soffrono fino all’agonia delle manchevolezze d’un papa, sia egli un Onorio I o i papi antagonisti della fine del Medio Evo; sia egli, nel caso limite, un papa che manca secondo le nuove possibilità offerte dal modernismo”. Quand’anche un papa giungesse al limite estremo di cambiare la Fede “o per accecamento o per spirito di chimera o per un’illusione mortale” (tra le tante offerte dal modernismo), ebbene “il papa che arrivasse a questo punto non toglierebbe al Signore Gesù il suo governo infallibile, che tiene in mano anche lui, papa sviato, e gli impedisce di impegnare fino alla perversione della fede l’autorità ricevuta dall’alto”.
            Ma anche in questi sventurati casi, la vita interiore dei cristiani non può escludere il Papa, senza con ciò cessare di essere cristiana. Un’autentica vita interore, centrata necessariamente su Gesù Cristo, include sempre il suo Vicario e l’obbedienza a lui dovuta, ma “questa obbedienza, lungi dall’essere incondizionata, è sempre praticata alla luce della fede teologale e della legge naturale”.
E qui entra in gioco lo spinoso problema dell’obbedienza al Vicario di Cristo. Spinoso, nota ancora una volta padre Calmel, solo per chi ignori o voglia ignorare gli articoli della Fede cattolica riguardanti il Sommo Pontefice. Occorre anzitutto ricordare che ogni cristiano vive “per mezzo di Gesù Cristo e per Gesù Cristo, grazie alla sua Chiesa, che è governata dal Papa, al quale obbediamo in tutto ciò che è di sua competenza. Non viviamo affatto per mezzo e per il Papa, quasi ci avesse lui acquistato la redenzione eterna; ecco perché l’obbedienza cristiana non può né sempre né in tutto identificare il papa con Gesù Cristo”.
Un cristiano che voglia incondizionatamente esser gradito al Papa, in tutto e sempre “è necessariamente abbandonato al rispetto umano” e si “espone a molte superficialità e complicità”. È pur vero, riconosce il teologo domenicano, che si è spesso predicato un’obbedienza al Vicario di Cristo che ha più il lezzo del servilismo che il profumo della virtù, talvolta per far carriera, o per preparare la propria testa al cappello cardinalizio, o per dare lustro al proprio Ordine o alla propria Congregazione. Ma, notiamo bene, “né Dio né il servizio del Papa hanno bisogno della nostra menzogna: Deus non eget nostro mendacio”. Occorre sempre ricordare la subordinazione dell’obbedienza alla Verità e dell’autorità alla Tradizione. Il Papa, come tutti gli uomini di Chiesa, non può usare legittimamente della sua autorità se non per definire o chiarire verità che sono sempre state insegnate. Se si allontanasse da questo sentiero, cesserebbe il dovere della nostra obbedienza e varrebbe il monito di san Pietro: “Bisogna obbedire a Dio invece che agli uomini” (At 5,29)[1].
Il Papa – in quanto papa – non è sempre infallibile e – come uomo – non è mai impeccabile. “Non bisogna scandalizzarsi se prove, talvolta molto crudeli, sopraggiungono alla Chiesa proprio da parte del suo capo visibile. Non bisogna scandalizzarsi se, benché soggetti al Papa, non possiamo tuttavia seguirlo ciecamente, incondizionatamente, in tutto e sempre”. Ma che fare allora se una situazione di tal genere divenisse la triste e sventurata realtà? In tal caso bisogna ancor più fortemente orientare la propria vita interiore all’unico Redentore e Signore del mondo, nutrendosi della Tradizione apostolica, con i suoi dogmi, del suo immortale Messale e del Catechismo, oltre che della preghiera e della penitenza.
D’altro canto, la Rivelazione non ha mai insegnato che il Vicario di Cristo è immune dall’infliggere alla Chiesa prove di tal genere. Ed il modernismo, imperante da cinquant’anni, certamente è un terreno fertile per farle germogliare. Ma, se ciò avvenisse – come pare stia avvenendo –, benché una sorta di smarrimento e di vertigine assalga l’anima dei fedeli, bisogna ricordare che la Chiesa è la Sposa di Cristo ed è Lui che – nonostante gli umani cedimenti – la guida nella sua ineffabile e spesso a noi incomprensibile provvidenza. Padre Calmel paragona lo stato della nostra vita interiore sopraffatta da una simile prova alla preghiera del Signore Gesù nel Getsemani, quando disse agli apostoli mentre avanzava la soldataglia: Sinite usque huc (Lc 22,51). “È come se il Signore dicesse: Lo scandalo può arrivare fino a questo punto; ma lasciate e, secondo la mia raccomandazione, vegliate e pregate… Col mio consenso a bere il calice, vi ho meritato ogni grazia, mentre eravate addormentati e mi avete lasciato solo; vi ho ottenuto in particolare una grazia di forza soprannaturale, che sia a misura di tutte le prove, anche della prova che può venire alla Santa Chiesa da parte del Papa. Io vi ho reso capaci di sfuggire a questa vertigine”.
L’anima cristiana che fondi la propria vita interiore sulla Tradizione perenne non ha da temere, anche in quella che padre Calmel ritiene la peggiore delle prove per la Chiesa: il tradimento del suo Vicario.
Con l’ottimismo proprio delle anime sante, pur riconoscendo l’immane tragedia che attanaglia la Sposa di Cristo, egli ritiene tuttavia una grazia vivere in questi tempi di prova, nei quali la sofferenza più grande dei figli della Chiesa è esattamente quella di non poter seguire il Papa come desidererebbero. “Noi siamo figli docili del Papa, ma ci rifiutiamo di entrare in complicità con le direttive papali che inducono al peccato”. Il cardinal Caietano non esita ad affermare che “Bisogna resistere al Papa che pubblicamente distrugge la Chiesa”. Si tratta, in questi casi, di una sorta di “eclissi del Papato”. Questa prova però, nota padre Calmel, non potrà essere “né totale né troppo lunga” e – soprattutto – “noi abbiamo la grazia di santificarci” in questa eclissi nella quale la Chiesa resta la Sposa di Cristo, nonostante tutto. Com’era sua abitudine, elevava lo sguardo verso il Cielo e diceva: “Abbiamo la grazia di soffrire e di resistere senza farne una tragedia. La Vergine Santa ci difende”.
Dunque, che cosa fare? I veri figli della Chiesa, quanto più desiderano rivedere la loro Madre rivestita del suo glorioso splendore, a partire dal suo Capo visibile, tanto più devono mettere la loro vita, con la grazia di Dio e conservando la Tradizione, sul solco dei Santi. “Allora il Signore Gesù finirà con l’accordare al gregge il pastore di cui esso si sarà sforzato di rendersi degno. All’insufficienza o alla defezione del Capo non aggiungiamo la nostra negligenza personale. Che la Tradizione apostolica viva almeno nel cuore dei fedeli anche se, sul momento, languisce nel cuore e nelle decisioni di chi ne è il responsabile a livello di Chiesa. Allora certamente il Signore ci userà misericordia”. Quella vera.

[1] Il 15 aprile 2010, Benedetto XVI, commentando questo passo degli Atti, nell’omelia ha detto: “San Pietro sta davanti alla suprema istituzione religiosa, alla quale normalmente si dovrebbe obbedire, ma Dio sta al di sopra di questa istituzione e Dio gli ha dato un altro “ordinamento”: deve obbedire a Dio.  L’obbedienza a Dio è la libertà, l’obbedienza a Dio gli dà la libertà di opporsi all’istituzione”.

sabato 8 febbraio 2014

ECCO I FATTI CHE MOLTI NON SANNO ANCORA O NON VOGLIONO SAPERE



Contro-rivoluzione liturgica 

Il caso “silenziato” di Padre Calmel

di Cristiana de Magistris

Articolo pubblicato sul sito Concilio Vaticano II



Religioso domenicano e teologo tomista di non comune spessore, direttore di anime apprezzato e ricercato su tutto il suolo francese, scrittore cattolico d’una logica stringente e d’una chiarezza inequivocabile, padre Roger-Thomas Calmel (1914-1975) negli anni ruggenti del Concilio e del post-concilio si distinse per la sua azione controrivoluzionaria esercitata – attraverso la predicazione, gli scritti e soprattutto l’esempio –  sia sul piano dottrinale sia su quello liturgico.

Ma su un punto ben preciso la resistenza di questo figlio di san Domenico raggiunse l’eroismo: la Messa, poiché è sulla redenzione operata da Cristo sul Calvario e perpetuata sugli altari che si fonda la Fede cattolica. Il 1969 fu l’anno fatidico della rivoluzione liturgica, lungamente preparata e infine imposta d’autorità ad un popolo che non l’aveva chiesta né la desiderava.

La nascita della nuova Messa non fu pacifica. A fronte dei canti di vittoria dei novatores, vi furono le voci di chi non voleva calpestare il passato quasi bimillenario di una Messa che risaliva alla tradizione apostolica. Questa opposizione ebbe il sostegno di due cardinali di Curia (Ottaviani e Bacci), ma rimase del tutto inascoltata.
L’entrata in vigore del nuovo Ordo Missae era fissata per il 30 novembre, prima domenica d’Avvento, e le opposizioni non tendevano a placarsi. Lo stesso Paolo VI, in due udienze generali (19 e 26 novembre 1969), intervenne presentando il nuovo rito della Messa come volontà del Concilio e come aiuto alla pietà cristiana. Il 26 novembre il Papa disse: 


Nuovo rito della Messa: è un cambiamento, che riguarda una venerabile tradizione secolare, e perciò tocca il nostro patrimonio religioso ereditario, che sembrava dover godere d’un’intangibile fissità, e dover portare sulle nostre labbra la preghiera dei nostri antenati e dei nostri Santi, e dare a noi il conforto di una fedeltà al nostro passato spirituale, che noi rendevamo attuale per trasmetterlo poi alle generazioni venture. Comprendiamo meglio in questa contingenza il valore della tradizione storica e della comunione dei Santi. Tocca questo cambiamento lo svolgimento cerimoniale della Messa; e noi avvertiremo, forse con qualche molestia, che le cose all’altare non si svolgono più con quella identità di parole e di gesti, alla quale eravamo tanto abituati, quasi a non farvi più attenzione. Questo cambiamento tocca anche i fedeli, e vorrebbe interessare ciascuno dei presenti, distogliendoli così dalle loro consuete devozioni personali, o dal loro assopimento abituale. …”.

E proseguiva dicendo che bisogna comprendere il significato positivo delle riforme e fare della Messa “una tranquilla ma impegnativa palestra di sociologia cristiana”.
Sarà bene – avvertiva Paolo VI nella medesima udienza – che ci rendiamo conto dei motivi, per i quali è introdotta questa grave mutazione: l’obbedienza al Concilio, la quale ora diviene obbedienza ai Vescovi che ne interpretano e ne eseguiscono le prescrizioni…”.

Per sedare le opposizioni al Papa non rimaneva che l’argomento di autorità. Ed è su questo argomento che si giocò tutta la partita della rivoluzione liturgica.

Padre Calmel, che con i suoi articoli fu assiduo collaboratore della rivista Itinéraires, aveva già affrontato il tema dell’obbedienza, divenuto nel post-concilio l’argomento di punta dei novatores. Ma, egli affermava, è esattamente in virtù dell’obbedienza che bisogna rifiutare ogni compromesso con la rivoluzione liturgica:

Non si tratta di fare uno scisma ma di conservare la tradizione”. 
Con sillogismo aristotelico faceva notare:
L’infallibilità del Papa è limitata, dunque la nostra obbedienza è limitata”,  indicando il principio della subordinazione dell’obbedienza alla verità, dell’autorità alla tradizione.

La storia della Chiesa ha casi di santi che furono in contrasto con l’autorità di papi che non furono santi. Pensiamo a sant’Atanasio scomunicato da papa Liberio, a san Tommaso Becket sospeso da papa Alessandro III. E soprattutto a santa Giovanna d’Arco.

Il 27 novembre 1969, tre giorni prima della data fatidica in cui entrò in vigore il Novus Ordo Missae, padre Calmel espresse il suo rifiuto con una dichiarazione d’eccezionale portata, resa pubblica sulla rivista Itinéraires.




Mi attengo alla Messa tradizionale – dichiarò –, quella che fu codificata, ma non fabbricata, da San Pio V, nel XVI secolo, conformemente ad un uso plurisecolare. Rifiuto dunque l’Ordo missae di Paolo VI.

Perché? Perché, in realtà, questo Ordo Missae non esiste. Ciò che esiste è una rivoluzione liturgica universale e permanente, permessa o voluta dal Papa attuale, e che riveste, per il momento, la maschera dell’Ordo Missae del 3 aprile 1969. È diritto di ogni sacerdote rifiutare di portare la maschera di questa rivoluzione liturgica. E stimo mio dovere di sacerdote rifiutare di celebrare la messa in un rito equivoco.

Se accettiamo questo nuovo rito, che favorisce la confusione tra la Messa cattolica e la cena protestante – come sostengono i due cardinali (Bacci e Ottaviani) e come dimostrano solide analisi teologiche – allora passeremmo senza tardare da una messa intercambiabile (come riconosce, del resto, un pastore protestante) ad una messa completamente eretica e quindi nulla. Iniziata dal Papa, poi da lui abbandonata alle Chiese nazionali, la riforma rivoluzionaria della messa porterà all’inferno. Come accettare di rendersene complici?


Mi chiederete: mantenendo, verso e contro tutto, la Messa di sempre, hai riflettuto a che cosa ti esponi? Certo. Io mi espongo, per così dire, a perseverare nella via della fedeltà al mio sacerdozio, e quindi a rendere al Sommo Sacerdote, che è il nostro Giudice supremo, l’umile testimonianza del mio ufficio sacerdotale. Io mi espongo altresì a rassicurare dei fedeli smarriti, tentati di scetticismo o di disperazione. Ogni sacerdote, in effetti, che si mantenga fedele al rito della Messa codificata da San Pio V, il grande Papa domenicano della controriforma, permette ai fedeli di partecipare al santo Sacrificio senza alcun possibile equivoco; di comunicarsi, senza rischio di essere ingannato, al Verbo di Dio incarnato e immolato, reso realmente presente sotto le sacre Specie. Al contrario, il sacerdote che si conforma al nuovo rito, composto di vari pezzi da Paolo VI, collabora per parte sua ad instaurare progressivamente una messa menzognera dove la Presenza di Cristo non sarà più autentica, ma sarà trasformata in un memoriale vuoto; perciò stesso, il Sacrificio della Croce non sarà altro che un pasto religioso dove si mangerà un po’ di pane e si berrà un po’ di vino. Nulla di più: come i protestanti. Il rifiuto di collaborare all’instaurazione rivoluzionaria di una messa equivoca, orientata verso la distruzione della Messa, a quali disavventure temporali, a quali guai potrà mai portare? Il Signore lo sa: quindi, basta la sua grazia. In verità, la grazia del Cuore di Gesù, derivata fino a noi dal santo Sacrificio e dai sacramenti, basta sempre. È perciò che il Signore ci dice così tranquillamente: “Colui che perde la sua vita in questo mondo per causa mia, la salverà per la vita eterna”.

Riconosco senza esitare l’autorità del Santo Padre. Affermo tuttavia che ogni Papa, nell’esercizio della sua autorità, può commettere degli abusi d’autorità. 

Sostengo che il papa Paolo VI ha commesso un abuso d’autorità di una gravità eccezionale quando ha costruito un nuovo rito della messa su una definizione della messa che ha cessato di essere cattolica. “La messa – ha scritto nel suo Ordo Missae – è il raduno del popolo di Dio, presieduto da un sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore”. Questa definizione insidiosa omette a priori ciò che fa la Messa cattolica, da sempre e per sempre irriducibile alla cena protestante. E ciò perché per la Messa cattolica non si tratta di qualunque memoriale; il memoriale è di tal natura che contiene realmente il sacrificio della Croce, perché il Corpo e il Sangue di Cristo sono resi realmente presenti in virtù della duplice consacrazione. Ora, mentre ciò appare così chiaro nel rito codificato da San Pio V da non poter esser tratti in inganno, in quello fabbricato da Paolo VI rimane fluttuante ed equivoco. Parimenti, nella Messa cattolica, il sacerdote non esercita una presidenza qualunque: segnato da un carattere divino che lo introduce nell’eternità, egli è il ministro di Cristo che fa la Messa per mezzo di lui; ben altra cosa è assimilare il sacerdote a un qualunque pastore, delegato dai fedeli a mantenere in buon ordine le loro assemblee. Orbene, mentre ciò è certamente evidente nel rito della Messa prescritta da San Pio V, è invece dissimulato se non addirittura eliminato nel nuovo rito.


La semplice onestà quindi, ma infinitamente di più l’onore sacerdotale, mi chiedono di non aver l’impudenza di trafficare la Messa cattolica, ricevuta nel giorno della mia ordinazione. Poiché si tratta di essere leale, e soprattutto in una materia di una gravità divina, non c’è autorità al mondo, fosse pure un’autorità pontificale, che possa fermarmi. D’altronde, la prima prova di fedeltà e d’amore che il sacerdote deve dare a Dio e agli uomini è quella di custodire intatto il deposito infinitamente prezioso che gli fu affidato quando il Vescovo gl’impose le mani. È anzitutto su questa prova di fedeltà e d’amore che io sarò giudicato dal Giudice supremo. Confido che la Vergine Maria, Madre del Sommo sacerdote, mi ottenga la grazia di rimanere fedele fino alla morte alla Messa cattolica, vera e senza equivoco. Tuus sum ego, salvum me fac (sono tutto vostro, salvatemi)”.

Di fronte a un testo di tale spessore e ad una presa di posizione così categorica, tutti gli amici e i sostenitori di padre Calmel tremarono, attendendo da Roma le più dure sanzioni. Tutti, tranne lui, il figlio di san Domenico, che continuava a ripetere: “Roma non farà niente, non farà niente…”. E difatti Roma non fece nulla. Le sanzioni non arrivarono. Roma tacque davanti a questo frate domenicano che non temeva nulla se non il Giudice supremo a cui doveva render conto del suo sacerdozio.

Altri sacerdoti, grazie alla dichiarazione di padre. Calmel, ebbero il coraggio di uscire allo scoperto e di resistere ai soprusi di una legge ingiusta e illegittima. Contro coloro che raccomandavano l’obbedienza cieca alle autorità, egli mostrava il dovere dell’insurrezione.

Tutta la condotta di santa Giovanna d’Arco mostra che ella ha pensato così: Certo, è Dio che lo permette; ma ciò che Dio vuole, almeno finché mi resterà un esercito, è che io faccia una buona battaglia e giustizia cristiana. Poi fu bruciata […]. Rimettersi alla grazia di Dio non significa non far nulla. 

Significa invece fare, rimanendo nell’amore, tutto ciò che è in nostro potere […]. A chi non abbia meditato sulle giuste insurrezioni della storia, come la guerra dei Maccabei, le cavalcate di santa  Giovanna d’Arco, la spedizione di Giovanni d’Austria, la rivolta di Budapest, a chiunque non sia entrato in sintonia con le nobili resistenze della storia […] io rifiuto il diritto di parlare di abbandono cristiano […] l’abbandono non consiste nel dire: Dio non vuole la crociata, lasciamo fare ai Mori. Questa è la voce della pigrizia”.

Non si può confondere l’abbandono soprannaturale con una supina obbedienza.

Il dilemma che si pone a tutti – avvertiva padre Calmel – non è di scegliere tra l’obbedienza e la fede, ma tra l’obbedienza della fede e la collaborazione con la distruzione della fede”. Tutti noi siamo invitati a fare “nei limiti che ci impone la rivoluzione, il massimo di ciò che possiamo fare per vivere della tradizione con intelligenza e fervore. Vigilate et orate”.

Padre Calmel aveva compreso perfettamente che la forma di violenza esercitata nella “Chiesa post-conciliare” è l’abuso di autorità, esplicato esigendo un’obbedienza incondizionata. Alla quale i chierici e molti laici si piegarono senza tentare alcuna forma di resistenza. “Questa assenza di reazione – notava Louis Salleron – mi pare tragica. Perché Dio non salva i cristiani senza di essi, né la sua Chiesa senza di essa”.

Il modernismo fa camminare le sue vittime sotto il vessillo dell’obbedienza – scriveva il religioso domenicano–, ponendo sotto sospetto di orgoglio qualunque critica delle riforme, in nome del rispetto che si deve al papa, in nome dello zelo missionario, della carità e dell’unità”. 

Quanto al problema dell’obbedienza in materia liturgica, padre Calmel osservava:
La questione dei nuovi riti consiste nel fatto che sono ambivalenti: essi perciò non esprimono in modo esplicito l’intenzione di Cristo e della Chiesa. La prova è data dal fatto che anche gli eretici l’usano con tranquillità di coscienza, mentre rigettano e hanno sempre rigettato il Messale di san Pio V”. “Bisogna essere o sciocchi o paurosi (o l’uno e l’altro insieme) per considerarsi legati in coscienza da leggi liturgiche che cambiano più spesso della moda femminile e che sono ancora più incerte”.

Nel 1974 in una conferenza diceva:

La Messa appartiene alla Chiesa. La nuova Messa non appartiene che al modernismo. Mi attengo alla Messa cattolica, tradizionale, gregoriana, poiché essa non appartiene al modernismo […]. Il modernismo è un virus. È contagioso e bisogna fuggirlo. La testimonianza è assoluta. Se rendo testimonianza alla Messa cattolica, occorre che io mi astenga dal celebrarne altre. È come l’incenso bruciato agli idoli: o un grano o nulla. Dunque, nulla”.

Nonostante l’aperta resistenza di padre Calmel contro le innovazioni liturgiche, da Roma non giunse mai alcuna sanzione. La logica del padre domenicano era troppo serrata, la sua dottrina troppo ortodossa, il suo amore alla Chiesa e alla sua perenne tradizione troppo leale perché lo si potesse attaccare. Non si intervenne contro di lui poiché non lo si poteva. Allora si avvolse il caso nel più omertoso silenzio, al punto che il teologo domenicano – noto, in parte, al mondo tradizionale francese – è pressoché sconosciuto nel resto dell’orbe cattolico.

Nel 1975, padre Calmel si spegneva prematuramente, coronando il suo desiderio di fedeltà e di resistenza. Nella sua Dichiarazione del 1969 aveva chiesto alla Santissima Vergine di “rimanere fedele fino alla morte alla Messa cattolica, vera e senza equivoco”. La Madre di Dio esaudì il desiderio di questo figlio prediletto che morì senza aver mai celebrato la Messa nuova per rimaner fedele al supremo Giudice al quale doveva rispondere del suo sacerdozio.

Suscipe, sancte Pater, 
Omnipotens aeterne Deus...