Visualizzazione post con etichetta Concilio Vaticano II. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Concilio Vaticano II. Mostra tutti i post

lunedì 15 giugno 2015

Manomissioni! Sì! Manomissioni.

"Mediator Dei"? Mai sentita nominare. Note sparite dal testo finale della Sacrosanctum Concilium

Dopo i recenti riferimenti del cardinal Sarah alla Costituzione Sacrosanctum Concilium, esaminati ieri, riprendo e traduco dal blog New Liturgical Movement.

L'idea che il concilio fosse una continuazione del lavoro già iniziato è stata oscurata da numerosi commenti che considerano la SC una presa di distanza dal passato, l'inizio di una "nuova" liturgia per la "nuova" chiesa postconciliare.
È quel che afferma Susan Benofy all'inizio del suo recente articolo «Note per una ermeneutica della continuità: citazioni sparite dalla Sacrosanctum Concilium» (Adoremus Bulletin 21.1 [2015] , 8-9). Naturalmente, questa non è una dichiarazione particolarmente nuova o rivoluzionaria; i lettori di questo blog sono senza dubbio a conoscenza di vari commenti sulla SC dalla fine del 1960 e 1970 che hanno assunto un approccio di rottura e di discontinuità nei confronti della tradizione liturgica.[1]
Tuttavia, la Dr.sa Benofy lo sostiene con un'osservazione particolarmente interessante e unica, qualcosa di mai visto in alcun altro avviso o commento: le drastiche differenze nelle note tra il progetto definitivo della SC e il testo definitivo promulgato da Papa Paolo VI.
Nelle varie bozze della SC discusse dai Padri conciliari nella prima e nella seconda sessione del Concilio Vaticano II, sono stati citati spesso nelle note documenti comeTra le sollecitudiniDivini cultus, e soprattutto Mediator Dei; ma tutto di questi riferimenti ha finito per essere rimosso dal testo finale della SC. In effetti, quasi i due terzi delle note presenti nelle bozze precedenti (circa 115) sono stati tagliati fuori dal testo definitivo della SC (che consta di 42 note). Gli unici riferimenti lasciati sono: alla Bibbia (23), a testi liturgici (8), ai Padri della Chiesa primitiva (6), e ai concili precedenti (5).
Perché sono state rimosse così tante note dal testo finale? La Dr.sa Benofy cita Pierre-Marie Gy, OP, un liturgista influente e membro della Commissione del concilio per la Liturgia, il quale sostiene che fosse solo una questione di "stile proprio" per un documento di un Concilio ecumenico il fatto di citare solo citazioni bibliche, liturgiche e fonti patristiche - anche quando le altre fonti fossero quotate o autorevoli[2]. È curioso, però, che siano state rimosse dalla SC tutte le note si riferiscono a San Pio X, Pio XI e Pio XII quando le altre costituzioni dogmatiche del Concilio Vaticano II recano varie citazioni dal magistero pontificio recente e da testi curiali[3]. Tutto questo potrebbe in un primo momento apparire abbastanza irrilevante. Dopo tutto, qui stiamo parlando solo di note! Tuttavia, come la Dr.sa Benofy ci dice:
I lettori di SC che non hanno familiarità con gli insegnamenti liturgici dei papi precedenti il XX secolo e non sono guidati da note ai documenti che li spiegano, quasi certamente vedono,SC come un documento senza alcun legame con il recente passato. Possono dunque vedere SC - come hanno fatto i Padri del Concilio - come la continuazione della riforma iniziata da San Pio X.
A corredo dell'articolo è stato posto un pratico elenco di citazioni rimosse durante la revisione finale di SC[4]. Mantenendo alcuni di questi riferimenti a documenti qualiTra le sollecitudini e Mediator Dei, sicuramente sarebbe stato più difficile interpretare SC con una ermeneutica della rottura e discontinuità. Stando così le cose, la Commissione per la Liturgia del Vaticano II - inavvertitamente o di proposito [5] - ha reso molto più facile per varie persone interpretare la SC nel senso di una sorta di 'anno zero' della riforma liturgica, scollegata dalle riforme dei precedenti papi del 20° secolo. La Dr.sa Benofy merita le nostre congratulazioni per aver portato alla luce queste importanti informazioni. È ora di andare a leggere il suo articolo illuminante su Adoremus Bulletin! [pagine 8 e 9]
MATTHEW HAZELL
Perdonatemi se non ho fatto la traduzione dell'interessante articolo cui si rinvia; ma non posso contare sul nostro traduttore e se dedico tutto il mio tempo alle traduzioni mi blocco lì. Spero che, dopo aver colto il succo dal testo qui su, siate in molti a riuscire a leggere il seguito e rendervi conto appieno del serio vulnus per una effettiva 'continuità che ne viene fuori.
____________________
NOTE
[1] Un buon esempio è quello di Joseph Gelineau, SJ, nel suo libro La liturgia: Oggi e Domani(New York: Paulist Press, 1978): "il rito romano, come lo conosciamo non esiste più. Si è andati oltre. Alcune pareti della struttura sono cadute, altre sono stati modificate; possiamo guardare ad esso come ad una rovina o come al fondamento parziale di un nuovo edificio... La liturgia è un laboratorio permanente"(p. 11).
[2] Per esempio, SC 22 dipende in larga misura da Mediator Dei 58-59 (per inciso, il ragionamento che sta dietro la condanna di Pio XII di archeologismo in materia liturgica si trova in MD 61-62). Tuttavia, a meno che non sia letta la MD, si potrebbe non necessariamente essere a conoscenza di questo, dal momento che non essendo MD una fonte biblica, liturgica e patristica, la nota in calce a SC 22 è stata rimossa dalla Commissione per la liturgia del Concilio.
[3 ] Ad esempio, la Dei Verbum cita Leone XIII, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, e vari uffici curiali e commissioni; Gaudium et spes cita Leone XIII, Pio XI, Pio XII, San Giovanni XXIII e Paolo VI,Lumen gentium cita (anche se nelle "nota integrativa") Benedetto XIV, Pio IX, Leone XIII, San Pio X, Benedetto XV, Pio XI, Pio XII, e Paolo VI. GS soprattutto non è parca di citazioni di san Giovanni XXIII, in particolare, - è così che la Commissione per la liturgia era preoccupata per "lo stile proprio"?
[4] Per coloro che non hanno accesso alla sinossi molto utile (ma piuttosto costosa!) di SC a cura di Francisco Gil Hellín (nella Concilii Vaticani II Synopsis serie pubblicata dalla Libreria Editrice Vaticana), che affianca le varie bozze lungo il testo finale, il primo progetto presentato ai Padri del Concilio con le sue note si trova negli Acta Synodalia della prima sessione del Concilio Vaticano II (Congregazione Generale IV, 22 ottobre 1962; cfr AS I/1, pp 262-303).. Disponibile per il download gratuito - si veda questo articolo su NLM per i collegamenti.
[5] Occorrerebbero molte ricerche per cominciare a scoprire le intenzioni dei singoli membri della Commissione. Immagino che, proprio come con il verbale del Consilium, c'è una montagna di nascosto, dietro le quinte del materiale che starà agli storici futuri scoprire!

sabato 8 febbraio 2014

ECCO I FATTI CHE MOLTI NON SANNO ANCORA O NON VOGLIONO SAPERE



Contro-rivoluzione liturgica 

Il caso “silenziato” di Padre Calmel

di Cristiana de Magistris

Articolo pubblicato sul sito Concilio Vaticano II



Religioso domenicano e teologo tomista di non comune spessore, direttore di anime apprezzato e ricercato su tutto il suolo francese, scrittore cattolico d’una logica stringente e d’una chiarezza inequivocabile, padre Roger-Thomas Calmel (1914-1975) negli anni ruggenti del Concilio e del post-concilio si distinse per la sua azione controrivoluzionaria esercitata – attraverso la predicazione, gli scritti e soprattutto l’esempio –  sia sul piano dottrinale sia su quello liturgico.

Ma su un punto ben preciso la resistenza di questo figlio di san Domenico raggiunse l’eroismo: la Messa, poiché è sulla redenzione operata da Cristo sul Calvario e perpetuata sugli altari che si fonda la Fede cattolica. Il 1969 fu l’anno fatidico della rivoluzione liturgica, lungamente preparata e infine imposta d’autorità ad un popolo che non l’aveva chiesta né la desiderava.

La nascita della nuova Messa non fu pacifica. A fronte dei canti di vittoria dei novatores, vi furono le voci di chi non voleva calpestare il passato quasi bimillenario di una Messa che risaliva alla tradizione apostolica. Questa opposizione ebbe il sostegno di due cardinali di Curia (Ottaviani e Bacci), ma rimase del tutto inascoltata.
L’entrata in vigore del nuovo Ordo Missae era fissata per il 30 novembre, prima domenica d’Avvento, e le opposizioni non tendevano a placarsi. Lo stesso Paolo VI, in due udienze generali (19 e 26 novembre 1969), intervenne presentando il nuovo rito della Messa come volontà del Concilio e come aiuto alla pietà cristiana. Il 26 novembre il Papa disse: 


Nuovo rito della Messa: è un cambiamento, che riguarda una venerabile tradizione secolare, e perciò tocca il nostro patrimonio religioso ereditario, che sembrava dover godere d’un’intangibile fissità, e dover portare sulle nostre labbra la preghiera dei nostri antenati e dei nostri Santi, e dare a noi il conforto di una fedeltà al nostro passato spirituale, che noi rendevamo attuale per trasmetterlo poi alle generazioni venture. Comprendiamo meglio in questa contingenza il valore della tradizione storica e della comunione dei Santi. Tocca questo cambiamento lo svolgimento cerimoniale della Messa; e noi avvertiremo, forse con qualche molestia, che le cose all’altare non si svolgono più con quella identità di parole e di gesti, alla quale eravamo tanto abituati, quasi a non farvi più attenzione. Questo cambiamento tocca anche i fedeli, e vorrebbe interessare ciascuno dei presenti, distogliendoli così dalle loro consuete devozioni personali, o dal loro assopimento abituale. …”.

E proseguiva dicendo che bisogna comprendere il significato positivo delle riforme e fare della Messa “una tranquilla ma impegnativa palestra di sociologia cristiana”.
Sarà bene – avvertiva Paolo VI nella medesima udienza – che ci rendiamo conto dei motivi, per i quali è introdotta questa grave mutazione: l’obbedienza al Concilio, la quale ora diviene obbedienza ai Vescovi che ne interpretano e ne eseguiscono le prescrizioni…”.

Per sedare le opposizioni al Papa non rimaneva che l’argomento di autorità. Ed è su questo argomento che si giocò tutta la partita della rivoluzione liturgica.

Padre Calmel, che con i suoi articoli fu assiduo collaboratore della rivista Itinéraires, aveva già affrontato il tema dell’obbedienza, divenuto nel post-concilio l’argomento di punta dei novatores. Ma, egli affermava, è esattamente in virtù dell’obbedienza che bisogna rifiutare ogni compromesso con la rivoluzione liturgica:

Non si tratta di fare uno scisma ma di conservare la tradizione”. 
Con sillogismo aristotelico faceva notare:
L’infallibilità del Papa è limitata, dunque la nostra obbedienza è limitata”,  indicando il principio della subordinazione dell’obbedienza alla verità, dell’autorità alla tradizione.

La storia della Chiesa ha casi di santi che furono in contrasto con l’autorità di papi che non furono santi. Pensiamo a sant’Atanasio scomunicato da papa Liberio, a san Tommaso Becket sospeso da papa Alessandro III. E soprattutto a santa Giovanna d’Arco.

Il 27 novembre 1969, tre giorni prima della data fatidica in cui entrò in vigore il Novus Ordo Missae, padre Calmel espresse il suo rifiuto con una dichiarazione d’eccezionale portata, resa pubblica sulla rivista Itinéraires.




Mi attengo alla Messa tradizionale – dichiarò –, quella che fu codificata, ma non fabbricata, da San Pio V, nel XVI secolo, conformemente ad un uso plurisecolare. Rifiuto dunque l’Ordo missae di Paolo VI.

Perché? Perché, in realtà, questo Ordo Missae non esiste. Ciò che esiste è una rivoluzione liturgica universale e permanente, permessa o voluta dal Papa attuale, e che riveste, per il momento, la maschera dell’Ordo Missae del 3 aprile 1969. È diritto di ogni sacerdote rifiutare di portare la maschera di questa rivoluzione liturgica. E stimo mio dovere di sacerdote rifiutare di celebrare la messa in un rito equivoco.

Se accettiamo questo nuovo rito, che favorisce la confusione tra la Messa cattolica e la cena protestante – come sostengono i due cardinali (Bacci e Ottaviani) e come dimostrano solide analisi teologiche – allora passeremmo senza tardare da una messa intercambiabile (come riconosce, del resto, un pastore protestante) ad una messa completamente eretica e quindi nulla. Iniziata dal Papa, poi da lui abbandonata alle Chiese nazionali, la riforma rivoluzionaria della messa porterà all’inferno. Come accettare di rendersene complici?


Mi chiederete: mantenendo, verso e contro tutto, la Messa di sempre, hai riflettuto a che cosa ti esponi? Certo. Io mi espongo, per così dire, a perseverare nella via della fedeltà al mio sacerdozio, e quindi a rendere al Sommo Sacerdote, che è il nostro Giudice supremo, l’umile testimonianza del mio ufficio sacerdotale. Io mi espongo altresì a rassicurare dei fedeli smarriti, tentati di scetticismo o di disperazione. Ogni sacerdote, in effetti, che si mantenga fedele al rito della Messa codificata da San Pio V, il grande Papa domenicano della controriforma, permette ai fedeli di partecipare al santo Sacrificio senza alcun possibile equivoco; di comunicarsi, senza rischio di essere ingannato, al Verbo di Dio incarnato e immolato, reso realmente presente sotto le sacre Specie. Al contrario, il sacerdote che si conforma al nuovo rito, composto di vari pezzi da Paolo VI, collabora per parte sua ad instaurare progressivamente una messa menzognera dove la Presenza di Cristo non sarà più autentica, ma sarà trasformata in un memoriale vuoto; perciò stesso, il Sacrificio della Croce non sarà altro che un pasto religioso dove si mangerà un po’ di pane e si berrà un po’ di vino. Nulla di più: come i protestanti. Il rifiuto di collaborare all’instaurazione rivoluzionaria di una messa equivoca, orientata verso la distruzione della Messa, a quali disavventure temporali, a quali guai potrà mai portare? Il Signore lo sa: quindi, basta la sua grazia. In verità, la grazia del Cuore di Gesù, derivata fino a noi dal santo Sacrificio e dai sacramenti, basta sempre. È perciò che il Signore ci dice così tranquillamente: “Colui che perde la sua vita in questo mondo per causa mia, la salverà per la vita eterna”.

Riconosco senza esitare l’autorità del Santo Padre. Affermo tuttavia che ogni Papa, nell’esercizio della sua autorità, può commettere degli abusi d’autorità. 

Sostengo che il papa Paolo VI ha commesso un abuso d’autorità di una gravità eccezionale quando ha costruito un nuovo rito della messa su una definizione della messa che ha cessato di essere cattolica. “La messa – ha scritto nel suo Ordo Missae – è il raduno del popolo di Dio, presieduto da un sacerdote, per celebrare il memoriale del Signore”. Questa definizione insidiosa omette a priori ciò che fa la Messa cattolica, da sempre e per sempre irriducibile alla cena protestante. E ciò perché per la Messa cattolica non si tratta di qualunque memoriale; il memoriale è di tal natura che contiene realmente il sacrificio della Croce, perché il Corpo e il Sangue di Cristo sono resi realmente presenti in virtù della duplice consacrazione. Ora, mentre ciò appare così chiaro nel rito codificato da San Pio V da non poter esser tratti in inganno, in quello fabbricato da Paolo VI rimane fluttuante ed equivoco. Parimenti, nella Messa cattolica, il sacerdote non esercita una presidenza qualunque: segnato da un carattere divino che lo introduce nell’eternità, egli è il ministro di Cristo che fa la Messa per mezzo di lui; ben altra cosa è assimilare il sacerdote a un qualunque pastore, delegato dai fedeli a mantenere in buon ordine le loro assemblee. Orbene, mentre ciò è certamente evidente nel rito della Messa prescritta da San Pio V, è invece dissimulato se non addirittura eliminato nel nuovo rito.


La semplice onestà quindi, ma infinitamente di più l’onore sacerdotale, mi chiedono di non aver l’impudenza di trafficare la Messa cattolica, ricevuta nel giorno della mia ordinazione. Poiché si tratta di essere leale, e soprattutto in una materia di una gravità divina, non c’è autorità al mondo, fosse pure un’autorità pontificale, che possa fermarmi. D’altronde, la prima prova di fedeltà e d’amore che il sacerdote deve dare a Dio e agli uomini è quella di custodire intatto il deposito infinitamente prezioso che gli fu affidato quando il Vescovo gl’impose le mani. È anzitutto su questa prova di fedeltà e d’amore che io sarò giudicato dal Giudice supremo. Confido che la Vergine Maria, Madre del Sommo sacerdote, mi ottenga la grazia di rimanere fedele fino alla morte alla Messa cattolica, vera e senza equivoco. Tuus sum ego, salvum me fac (sono tutto vostro, salvatemi)”.

Di fronte a un testo di tale spessore e ad una presa di posizione così categorica, tutti gli amici e i sostenitori di padre Calmel tremarono, attendendo da Roma le più dure sanzioni. Tutti, tranne lui, il figlio di san Domenico, che continuava a ripetere: “Roma non farà niente, non farà niente…”. E difatti Roma non fece nulla. Le sanzioni non arrivarono. Roma tacque davanti a questo frate domenicano che non temeva nulla se non il Giudice supremo a cui doveva render conto del suo sacerdozio.

Altri sacerdoti, grazie alla dichiarazione di padre. Calmel, ebbero il coraggio di uscire allo scoperto e di resistere ai soprusi di una legge ingiusta e illegittima. Contro coloro che raccomandavano l’obbedienza cieca alle autorità, egli mostrava il dovere dell’insurrezione.

Tutta la condotta di santa Giovanna d’Arco mostra che ella ha pensato così: Certo, è Dio che lo permette; ma ciò che Dio vuole, almeno finché mi resterà un esercito, è che io faccia una buona battaglia e giustizia cristiana. Poi fu bruciata […]. Rimettersi alla grazia di Dio non significa non far nulla. 

Significa invece fare, rimanendo nell’amore, tutto ciò che è in nostro potere […]. A chi non abbia meditato sulle giuste insurrezioni della storia, come la guerra dei Maccabei, le cavalcate di santa  Giovanna d’Arco, la spedizione di Giovanni d’Austria, la rivolta di Budapest, a chiunque non sia entrato in sintonia con le nobili resistenze della storia […] io rifiuto il diritto di parlare di abbandono cristiano […] l’abbandono non consiste nel dire: Dio non vuole la crociata, lasciamo fare ai Mori. Questa è la voce della pigrizia”.

Non si può confondere l’abbandono soprannaturale con una supina obbedienza.

Il dilemma che si pone a tutti – avvertiva padre Calmel – non è di scegliere tra l’obbedienza e la fede, ma tra l’obbedienza della fede e la collaborazione con la distruzione della fede”. Tutti noi siamo invitati a fare “nei limiti che ci impone la rivoluzione, il massimo di ciò che possiamo fare per vivere della tradizione con intelligenza e fervore. Vigilate et orate”.

Padre Calmel aveva compreso perfettamente che la forma di violenza esercitata nella “Chiesa post-conciliare” è l’abuso di autorità, esplicato esigendo un’obbedienza incondizionata. Alla quale i chierici e molti laici si piegarono senza tentare alcuna forma di resistenza. “Questa assenza di reazione – notava Louis Salleron – mi pare tragica. Perché Dio non salva i cristiani senza di essi, né la sua Chiesa senza di essa”.

Il modernismo fa camminare le sue vittime sotto il vessillo dell’obbedienza – scriveva il religioso domenicano–, ponendo sotto sospetto di orgoglio qualunque critica delle riforme, in nome del rispetto che si deve al papa, in nome dello zelo missionario, della carità e dell’unità”. 

Quanto al problema dell’obbedienza in materia liturgica, padre Calmel osservava:
La questione dei nuovi riti consiste nel fatto che sono ambivalenti: essi perciò non esprimono in modo esplicito l’intenzione di Cristo e della Chiesa. La prova è data dal fatto che anche gli eretici l’usano con tranquillità di coscienza, mentre rigettano e hanno sempre rigettato il Messale di san Pio V”. “Bisogna essere o sciocchi o paurosi (o l’uno e l’altro insieme) per considerarsi legati in coscienza da leggi liturgiche che cambiano più spesso della moda femminile e che sono ancora più incerte”.

Nel 1974 in una conferenza diceva:

La Messa appartiene alla Chiesa. La nuova Messa non appartiene che al modernismo. Mi attengo alla Messa cattolica, tradizionale, gregoriana, poiché essa non appartiene al modernismo […]. Il modernismo è un virus. È contagioso e bisogna fuggirlo. La testimonianza è assoluta. Se rendo testimonianza alla Messa cattolica, occorre che io mi astenga dal celebrarne altre. È come l’incenso bruciato agli idoli: o un grano o nulla. Dunque, nulla”.

Nonostante l’aperta resistenza di padre Calmel contro le innovazioni liturgiche, da Roma non giunse mai alcuna sanzione. La logica del padre domenicano era troppo serrata, la sua dottrina troppo ortodossa, il suo amore alla Chiesa e alla sua perenne tradizione troppo leale perché lo si potesse attaccare. Non si intervenne contro di lui poiché non lo si poteva. Allora si avvolse il caso nel più omertoso silenzio, al punto che il teologo domenicano – noto, in parte, al mondo tradizionale francese – è pressoché sconosciuto nel resto dell’orbe cattolico.

Nel 1975, padre Calmel si spegneva prematuramente, coronando il suo desiderio di fedeltà e di resistenza. Nella sua Dichiarazione del 1969 aveva chiesto alla Santissima Vergine di “rimanere fedele fino alla morte alla Messa cattolica, vera e senza equivoco”. La Madre di Dio esaudì il desiderio di questo figlio prediletto che morì senza aver mai celebrato la Messa nuova per rimaner fedele al supremo Giudice al quale doveva rispondere del suo sacerdozio.

Suscipe, sancte Pater, 
Omnipotens aeterne Deus...