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venerdì 7 marzo 2014

Giuda Iscariota racconta come ha venduto i gioielli di Aglae


Gesù arriva da una strada e si guarda intorno. Non vede ancora nessuno. 
Pazientemente si addossa ad un tronco e aspetta, trovando modo di parlare 
ai monelli sulla carità che si inizia da Dio e scende dal Creatore a tutte le creature. 

«Non siate crudeli. Perché volete turbare gli uccelli dell'aria? Hanno nidi lassù. 
Hanno i loro piccoli figli. Non fanno del male a nessuno. Ci danno canti e pulizia, 
mangiando i rifiuti dell'uomo e gli insetti che nuocciono alle messi e alle frutta. 
Perché ferirli e ucciderli, privando i piccoli dei padri e delle madri, o 
questi dei piccoli? Sareste contenti che un malvagio entrasse nella vostra 
casa e ve la distruggesse, o che vi uccidesse i genitori o vi portasse lontano 
da loro? No, che non lo sareste. E allora perché fare a questi 
innocenti quello che non vorreste vi fosse fatto? Come potrete un giorno 
non fare del male all'uomo, se da bambini vi indurite il cuore su creaturine 
inermi e gentili quali gli uccellini? E non sapete che la Legge dice: 
"Ama il tuo prossimo come te stesso"? Chi non ama il prossimo non può 
neppure amare Dio. E chi non ama Dio, come può andare nella sua Casa e 
pregarlo? Dio potrebbe dirgli, e lo dice nei Cieli: "Va' via. Non ti 
conosco. Figlio tu? No. Non ami i fratelli, non rispetti in loro il Padre che 
li fece, perciò non sei fratello e figlio, ma un bastardo: figliastro a Dio, 
fratellastro ai fratelli". 
Vedete come ama Lui, il Signore eterno? Nei mesi più freddi fa trovare 
colmi i fienili perché in essi si annidino i suoi uccellini. In quelli caldi dà ombre 
di foglie per proteggerli dal sole. Nell'inverno nei campi è 
il grano appena coperto di terra e facile è scovare il seme e nutrirsene. 
Nell'estate la sete si allevia colle frutta succose, e i nidi possono farsi ben 
solidi e caldi coi fili dei fieni e la lana che le pecore lasciano ai rovi. Ed è 
il Signore. Voi, piccoli uomini, creati come gli uccelli da Lui, fratelli 
perciò in creazione ad essi, perché volete esser diversi da Lui, credendovi 
lecito incrudelire su questi piccoli animali? 
Siate a tutti misericordiosi, non privando del giusto nessuno, né fra gli uomini 
fratelli, né fra gli animali, vostri servi e amici, e Dio...». 

«Maestro?», chiama Simone. 
«Giuda sta venendo». 
«…e Dio sarà con voi misericorde, dandovi tutto quanto vi occorre come 
lo dà a questi innocenti. Andate e portate con voi la pace di Dio». 
Gesù fende il cerchio dei ragazzi, al quale si erano uniti degli adulti, e va 
verso Giuda e Giovanni che vengono svelti da un'altra via. 
Giuda è gongolante. Giovanni sorride a Gesù...ma non pare proprio felice. 

«Vieni, vieni, Maestro. Credo di aver fatto bene. Però vieni con me. 
Sulla via non si può parlare». 
«Dove, Giuda?». 
«All'albergo. Ho già fissato quattro stanze... oh! roba modesta, non 
temere. Tanto per potere riposare in un letto dopo tanto disagio in questo 
calore, e mangiare da uomini e non da uccelli sulla frasca, e parlare anche 
in pace. Ho venduto molto bene. Vero, Giovanni?». 
Giovanni annuisce senza molto entusiasmo. Ma Giuda è talmente contento 
della sua opera che non nota né la 
poca contentezza di Gesù, per la prospettiva di un alloggio comodo, 
né l'ancor meno entusiastico atteggiamento di Giovanni. 
E prosegue: «Avendo venduto a più di quanto avevo stimato, ho detto: 
"É giusto ne levi una piccola somma, cento denari, per i nostri letti e 
per i nostri pasti. Se siamo sfiniti noi che abbiamo sempre mangiato, Gesù 
deve essere sfinito del tutto". 

Ho il dovere di guardare che non si ammali, il mio Maestro! 
Dovere d'amore, perché Tu mi ami ed io ti amo... C'è posto anche per 
voi e per le pecore», dice ai pastori. «Ho pensato a tutto». 
Gesù non dice una parola. Lo segue insieme agli altri. Giungono 
ad una piazzetta secondaria. 

Giuda dice: «Vedi quella casa senza finestre sulla via e con quella 
porticina così stretta da parere una fessura? É la casa del battiloro Diomede. 
Sembra una povera casa, vero? Ma là dentro è tant'oro da comprare 
Gerico e... ah! ah!…», Giuda ride maligno..., «e in quell'oro si possono 
trovare anche molti monili e vasellami e... e anche altre cose di tutte le 
persone più influenti in Israele. 
Diomede... oh! tutti fingono di non conoscerlo ma tutti lo conoscono: 
dagli erodei a... a tutti, ecco. Su quel muro liscio, povero, si potrebbe 
scrivere: "Mistero e Segreto". Se parlassero quelle mura! Altro che 
scandalizzarsi del modo come ho trattato l'affare, Giovanni!... Tu... 
tu moriresti affogato dallo stupore e dallo scrupolo. Anzi, senti Maestro. 
Non mi mandare più con Giovanni a certi negozi. Per poco mi fa fallire 
tutto. Non sa capire a volo, non sa negare, e con un furbo come Diomede 
bisogna esser svelti e franchi». 
Giovanni mormora: «Dicevi certe cose! Così impensate e... e così... 
Sì, Maestro. Non mi mandare più. Non sono capace che di amare io ». 
«Difficilmente avremo ancora bisogno di simili vendite», risponde Gesù, 
che è serio. 
«Ecco là l'albergo. Vieni, Maestro. Parlo io perché... ho fatto tutto io». 
Entrano e Giuda parla col padrone, che fa condurre le pecore in una stalla, 
e poi conduce personalmente gli ospiti in una stanzetta dove sono due 
stuoie a letto, dei sedili e un tavolo pronto. 
Poi si ritira. «Parliamo subito, Maestro, mentre i pastori sono intenti a 
sistemare le pecore». 
«Ti ascolto». 
«Giovanni può dire se sono sincero». 
«Non ne dubito. Fra uomini onesti non deve esser necessario 
giuramento e testimonianza. Parla». 

«Siamo arrivati a Gerico a sesta. Eravamo sudati come bestie da soma. 
Non ho voluto dare impressione a Diomede di avere urgente bisogno. 
E prima sono venuto qui, e mi sono tutto rinfrescato e ho messo veste 
monda, e così ho voluto facesse lui. Oh! non voleva saperne di farsi 
ungere e accomodare i capelli... Ma io avevo fatto il mio piano, 
mentre venivo per via!... Quando era prossimo il vespero ho detto: "Andiamo". 
Ormai eravamo riposati e freschi come due ricconi in viaggio di piacere. 
Quando siamo stati per arrivare da Diomede, ho detto a Giovanni: 
"Tu assecondami. Non negare e sii svelto a capire". Ma era meglio se lo 
lasciavo fuori! Non mi ha aiutato per nulla. Anzi... Per buona sorte 
io sono svelto per due e ho riparato a tutto. Dalla casa usciva il gabelliere. 
"Bene!", ho detto. "Se esce quello lì, troveremo denari e quel che voglio 
per fare paragone". Perché il gabelliere, usuraio e ladro come tutti i 
suoi pari, ha sempre monili strappati con minacce e strozzinaggio a 
quei disgraziati che egli tassa più del lecito, per avere poi molto da godere in 
crapule e donne. Ed è molto amico di Diomede, che compra e 
vende oro e carne... 
Siamo entrati dopo che mi sono fatto conoscere. Dico: entrati. Perché 
altro è andare nell'androne dove lui finge di lavorare onestamente l'oro, 
e altro è scendere nel sotterraneo dove egli fa i veri affari. Bisogna esser 
molto conosciuti da lui per potere ciò. 
Quando mi ha visto, mi ha detto: "Ancora vuoi vendere oro? 
Sono momenti brutti e ho poco denaro". 
La sua solita canzone. Gli ho risposto: "Non vengo a vendere. 
Ma a comperare. Hai gioielli per donna? Ma belli, ricchi, preziosi e pesanti, 
d'oro puro?". Diomede è rimasto stupito. E ha chiesto: "Vuoi una donna?". 
"Non te ne occupare", gli ho risposto. "Non è per me. É per questo mio 
amico che è sposo e vuole comperare l'oro per la sua amata". E qui 
Giovanni ha cominciato a fare il bambino. Diomede, che lo guardava, lo ha 
visto diventare una porpora e ha detto, da quel vecchio lurido che è: 
"Eh! il ragazzo, solo a sentire nominare 
la sposa, va in febbre d'amore. E molto bella la tua donna?", ha chiesto. 
Ho dato un calcio a Giovanni per svegliarlo e fargli capire di non fare 
lo stolto. Ma ha risposto un "sì" così strangolato che Diomede si è 
insospettito. Allora ho parlato io: "Se bella o meno non ti deve interessare, 
vecchio. Non sarà mai del numero delle femmine per cui l'inferno ti avrà. 
É vergine onesta, e presto onesta sposa. Fuori il tuo oro. Io sono il 
paraninfo ed ho l'incarico di aiutare il giovane... lo giudeo e cittadino". 
"Lui è galileo, vero?". Sempre per quei capelli vi tradite! "É ricco?". 
"Molto". Allora siamo andati abbasso e 
Diomede ha aperto cofani e forzieri. Ma di' il vero, Giovanni! 
Non pareva d'esser in Cielo davanti a tutte 
quelle gemme e ori? Collane, serti, bracciali, orecchini, reticelle di 
oro e pietre preziose per i capelli, forcine, fibbie, anelli... ah! che splendori! 
Con molto sussiego ho scelto una collana su per giù come quella di Aglae, 
e anelli, fibbie, bracciali... tutto come quello che avevo nella borsa e in 
numero uguale. 
Diomede stupiva e chiedeva: "Ancora? Ma chi è costui? E la sposa chi è? 
Una principessa?". 
Quando ho avuto tutto quel che volevo, ho detto: "Il prezzo?". 
Oh! che litania di lamenti preparatori sui tempi, sulle tasse, sui rischi, sui 
ladri! Oh! che altra litania di assicurazioni di onestà! 
Poi ecco la risposta: "Proprio perché sei te, ti dirò il vero. Senza esagerazioni. 
Ma meno di questo neppure una dramma. Chiedo dodici talenti d'argento". 


"Ladro!", ho detto. Ho detto: "Andiamo, Giovanni. A Gerusalemme 
troveremo qualcuno meno ladro di costui". E ho fatto finta d'uscire. Mi è corso 
dietro. "Mio alto amico, mio diletto amico, vieni, senti il povero tuo servo. 
Meno non posso. Non posso proprio. Guarda. Faccio proprio uno 
sforzo e mi rovino. Lo faccio perché tu mi hai sempre dato la tua amicizia 
e mi hai fatto fare affari. Undici talenti, ecco. É quello che darei se dovessi 
comperare questo oro da un che ha fame. Non uno spicciolo meno. Sarebbe 
come levare il sangue dalle mie vecchie vene". Vero che diceva così? 
Faceva ridere e faceva nausea. Quando l'ho visto ben fermo sul prezzo 
ho fatto il colpo. "Vecchio sporco, sappi che non comperare, ma vendere 
voglio. Questo voglio vendere. Guarda: è bello come il tuo. Oro di Roma 
e di foggia nuova. Ti andrà a ruba. É tuo per undici talenti. Quanto hai chiesto 
per questo. Tu ne hai fatto la stima e tu paga". Uh! allora!... 
"E’ un tradimento! Hai tradito la mia stima in te! Tu sei la mia rovina! 
Non posso dare tanto!". 
"L'hai stimato tu. Paga". 
"Non posso". 
"Guarda che lo porto ad altri". 
"No, amico e allungava le mani adunche sul mucchio di Aglae. "E allora paga: 
dodici talenti dovrei volere. Ma mi accontento della tua ultima richiesta". 
"Non posso". "Usuraio! Guarda che qui ho un testimone e ti posso 
denunciare come ladro...", e gli ho detto anche altre virtù che non ripeto 
per questo ragazzo... 
Infine, poiché mi premeva vendere e fare presto, gli ho detto una cosetta, 
fra me e lui, che non manterrò... Ma che valore ha promessa fatta a un ladro? 
E ho concluso con dieci talenti e mezzo. 
Siamo venuti via fra pianti e profferte di amicizia e... di donne. 
E Giovanni per poco ci piange. Ma che ti importa che ti credano un vizioso? 
Basta che tu non lo sia. Non sai che il mondo è così e tu sei un aborto 
del mondo? Un giovane che non sa il sapore della donna? Chi vuoi che ti creda? 
O se ti credono... oh! io non vorrei pensassero di me ciò che può 
pensare di te chi ti crede non desideroso di donna. Ecco, Maestro. 
Conta Tu stesso. Avevo un mucchio di denari. Ma sono passato dal 
gabelliere e gli ho detto: 
"Riprenditi questa zavorra e rendimi i talenti che ti ha dato Isacco". 
Perché avevo saputo anche questo per ultima notizia, ad affare fatto. 
Però, per ultima cosa, ho detto a Isacco-Diomede: 
"Ricordati che il Giuda del Tempio non esiste più. Ora sono discepolo di 
un santo. Fingi perciò di non avermi mai conosciuto, se ti preme il collo". 
E per poco glielo torco subito, perché mi ha risposto male». 
«Che ti ha detto?», chiede con indifferenza Simone. 
«Mi ha detto: "Tu discepolo di un santo? Non lo crederò mai, o presto 
vedrò anche qui il santo a chiedermi una donna. Mi ha detto: 
"Diomede è una vecchia sciagura del mondo. Ma tu ne sei quella nuova. 
Ed io potrei ancora cambiare, perché sono diventato quel che sono 
da vecchio. Ma tu non cambi. Sei nato così". 
Vecchio lurido! Nega il tuo potere, capisci?». 
«E, da buon greco, dice molte verità». 
«Che vuoi dire, Simone? Per me parli?». 
«No. Per tutti. E uno che conosce l'oro e i cuori nella stessa maniera. 
É un ladro, un lurido di tutti i più luridi commerci. Ma si sente in lui la 
filosofia dei grandi greci. Conosce l'uomo, animale dalle sette branche di 
peccato, polipo che strozza il bene, l'onestà, l'amore e tante altre 
cose, in sé e negli altri». 
«Ma non conosce Dio». 
«E tu glielo vorresti insegnare?». 
«Io. Sì. Perché? Sono i peccatori che hanno bisogno di conoscere Dio». 
«Vero. Però... il maestro deve conoscerlo per insegnarlo». 
«E non lo conosco?». 
«Pace, amici. Vengono i pastori. Non turbiamo il loro animo con 
querele fra noi. Hai contato il denaro tu? Basta. Porta a termine bene ogni 
tua azione come hai portato questa e, te lo ripeto, se puoi, in futuro, non 
mentire neppure per raggiungere una azione buona...». 

Entrano i pastori. «Amici. Qui sono dieci talenti e mezzo. Mancano solo 
cento denari che Giuda ha tenuto per le spese di alloggio. Prendete». 
«Tutti li dai?», chiede Giuda. 
«Tutti. Non voglio uno spicciolo di quel denaro. Noi abbiamo l'obolo 
di Dio e di coloro che onestamente cercano Dio... e non ci mancherà mai 
l'indispensabile. Credilo. Prendete e siate felici, come Io lo sono, per il 
Battista. Domani andrete verso la sua prigione. Due, ossia Giovanni e Mattia. 
Simeone con Giuseppe andrà da Elia a riferire e ad istruirsi per il futuro. 
Elia sa. Poi Giuseppe tornerà con Levi. Il luogo di ritrovo, fra 
dieci giorni, presso la porta dei Pesci a Gerusalemme, all'ora di prima. 
E ora mangiamo e prendiamo riposo. 
Domani, a mattutino, Io parto coi miei. Altro non ho da dirvi per ora. 
Più tardi saprete di Me». 

E tutto si offusca sulla frazione del pane fatta da Gesù. 





venerdì 29 marzo 2013

M.Valtorta: Ultima Cena: quattro ammaestramenti principali.


Dice Gesù:

«Dall'episodio della Cena, oltre la considerazione della carità di un Dio che si fa Cibo agli uomini, risaltano quattro ammaestramenti principali.

.


Primo:la necessità per tutti i figli di Dio di ubbidire alla Legge.
La Legge diceva che si doveva per Pasqua consumare l'agnello secondo il rituale dato dall'Altissimo a Mosè, ed Io, Figlio vero del Dio vero, non mi sono riputato, per la mia qualità divina, esente dalla Legge. Ero sulla Terra: Uomo fra gli uomini e Maestro degli uomini. Dovevo perciò fare il mio dovere di uomo verso Dio
come e meglio degli altri. I favori divini non esimono dall'ubbidienza e dallo sforzo verso una sempre maggiore santità. Se paragonate la santità più eccelsa alla perfezione divina, la trovate sempre piena di mende, e perciò obbligata a sforzare se stessa per eliminarle e raggiungere un grado di perfezione per quanto più è possibile simile a quello di Dio.



Secondo: la potenza della preghiera di Maria.
Io ero Dio fatto Carne. Una Carne che, per essere senza macchia, possedeva la forza spirituale per
signoreggiare la carne. Eppure non ricuso, anzi invoco l'aiuto della Piena di Grazia, la quale anche in quell'ora di espiazione avrebbe trovato, è vero, sul suo capo il Cielo chiuso, ma non tanto che non riuscisse a strapparne un angelo, Lei, Regina degli angeli, per il conforto del suo Figlio.
Oh! non per Lei, povera Mamma! Anche Lei ha assaporato l'amaro dell'abbandono del Padre, ma per questo suo dolore offerto alla Redenzione m'ha ottenuto di potere superare l'angoscia dell'orto degli Ulivi e di portare a termine la Passione in tutta la sua multiforme asprezza, di cui ognuna era volta a lavare una forma e un mezzo di peccato.




Terzo: il dominio su se stessi e la sopportazione dell'offesa, carità sublime su tutte, la possono avere unicamente quelli che fanno vita della loro vita la legge di carità che Io avevo bandita. E non bandita solo, ma praticata realmente.

Cosa sia stato per Me aver meco alla mia tavola il mio Traditore, il dovere darmi ad esso, il dovere umiliarmi ad esso, il dovere dividere con esso il calice di rito e posare le labbra là dove egli le aveva posate, e farle posare a mia Madre, voi non potete pensare. 


I vostri medici hanno discusso e discutono sulla mia rapida fine e le dànno origine in una lesione cardiaca dovuta alle percosse della flagellazione. Sì, anche per queste il mio cuore divenne malato. Ma lo era già dalla Cena. Spezzato, spezzato nello sforzo di dover subire al mio fianco il mio Traditore. Ho cominciato a morire allora, fisicamente. Il resto non è stato che aumento della già esistente agonia.

Quanto ho potuto fare l'ho fatto perché ero uno con la Carità. Anche nell'ora in cui Dio-Carità si ritirava da
Me, ho saputo esser carità, perché ero vissuto, nei miei trentatré anni, di carità. Non si può giungere ad una perfezione, quale si richiede per perdonare e sopportare il nostro offensore, se non si ha l'abito della carità. Io l'avevo, e ho potuto perdonare e sopportare questo capolavoro di Offensore che fu Giuda.

Quarto: il Sacramento opera quanto più uno è degno di riceverlo. Se ne è fatto degno con una costante volontà, che spezza la carne e fa signore lo spirito, vincendo le concupiscenze, piegando l'essere alle virtù, tendendolo come arco verso la perfezione delle virtù e soprattutto della carità.

Perché, quando uno ama, tende a far lieto chi ama. Giovanni, che mi amava come nessuno e che era puro, ebbe dal Sacramento il massimo della trasformazione. Cominciò da quel momento ad essere l'aquila, a cui è familiare e facile l'altezza nel Cielo di Dio e l'affissare il Sole eterno. 

Ma guai a chi riceve il Sacramento senza esserne affatto degno, ma anzi avendo accresciuto la sua sempre umana indegnità con le colpe mortali.
Allora esso diviene non germe di preservazione e di vita ma di corruzione e di morte. Morte dello spirito e putrefazione della carne, per cui essa "crepa", come dice Pietro di quella di Giuda. (Atti 1, 18). Non sparge il sangue, liquido sempre vitale e bello nella sua porpora, ma le sue interiora, nere di tutte le libidini, marciume che si riversa fuori dalla carne marcita come da carogna di animale immondo, oggetto di ribrezzo per i passanti.
La morte del profanatore del Sacramento è sempre la morte di un disperato, e perciò non conosce il placido trapasso proprio di chi è in grazia, né l'eroico trapasso della vittima che soffre acutamente ma con lo sguardo fisso al Cielo e l'anima sicura della pace. La morte del disperato è atroce di contorsioni e di terrori, è una
convulsione orrenda dell'anima già ghermita dalla mano di Satana, che la strozza per svellerla dalla carne e che la soffoca col suo nauseabondo fiato.

Questa la differenza fra chi trapassa all'altra vita dopo essersi nutrito in essa di carità, fede, speranza e d'ogni altra virtù e dottrina celeste e del Pane angelico che l'accompagna coi suoi frutti - meglio se con la sua reale presenza - nel viaggio estremo, e chi trapassa dopo una vita di bruto con morte da bruto che la Grazia e il Sacramento non confortano. 

La prima è la serena fine del santo, a cui la morte apre il Regno eterno.
La seconda è la spaventosa caduta del dannato, che si sente precipitare nella morte eterna e conosce in un attimo ciò che ha voluto perdere, né più può riparare. Per uno acquisto, per l'altro spogliamento. Per uno gioia, per l'altro terrore.
Questo è quanto vi date a seconda del vostro credere ed amare, o non credere e deridere il dono mio. questo è l'insegnamento di questa contemplazione».


Refugium est in tribulationibus
Mariae Nomen
omnibus illud invocantibus

giovedì 22 novembre 2012

"Il mio Regno non viene da questo mondo". San Giovanni 18, 33-37; Domenica di Cristo RE , 25 nov. 2012


...«Noi non possiamo dar morte ad alcuno. Dotti non siamo. Il Diritto ebraico è un pargolo deficiente rispetto al perfetto Diritto di Roma. Come ignoranti e come soggetti di Roma, maestra, abbiamo bisogno...».

«Da quando siete miele e burro?... Ma avete detto una verità, o maestri del mendacio! Di Roma avete bisogno! Sì. Per sbarazzarvi di costui che vi dà noia. Ho compreso». E Pilato ride, guardando il cielo sereno
che si inquadra come una rettangolare lastra di cupa turchese fra le marmoree e candide pareti dell'atrio.

«Dite: in che ha commesso delitto contro le vostre leggi?».
«Noi abbiamo trovato che costui metteva il disordine nella nostra nazione e che impediva di pagare il tributo a Cesare, dicendosi il Cristo, re dei giudei».
Pilato ritorna presso Gesù, che è al centro dell'atrio, lasciato là dai soldati, legato ma senza scorta tanto appare netta la sua mansuetudine. E gli chiede: «Sei Tu il re dei giudei?».
«Per te lo chiedi o per insinuazione d'altri?».
«E che vuoi che me ne importi del tuo regno? Son forse io giudeo? La tua nazione e i capi di essa miti hanno consegnato perché io giudichi. Che hai fatto? Ti so leale. Parla. È vero che aspiri al regno?».

«Il mio Regno non viene da questo mondo. Se fosse un regno del mondo, i miei ministri e i miei soldati avrebbero combattuto perché i giudei non mi pigliassero. Ma il mio Regno non è della Terra. E tu lo sai che
al potere Io non tendo».
«Ciò è vero. Lo so. Mi fu detto. Ma però Tu non neghi d'essere re?».
«Tu lo dici. Io sono Re. Per questo sono venuto al mondo: per rendere testimonianza alla Verità. Chi è amico della Verità ascolta la mia voce».

«E che cosa è la Verità? Sei filosofo? Non serve di fronte alla morte. Socrate morì lo stesso».
«Ma gli servì di fronte alla vita, a ben vivere. E anche a ben morire. E ad andare nella vita seconda senza nome di traditore delle civiche virtù».
«Per Giove!». Pilato lo guarda ammirato qualche momento. Poi lo riprende il sarcasmo scettico. Fa un atto di noia, gli volge le spalle, torna verso i giudei.
«Io non trovo in Lui alcuna colpa».

La folla tumultua, presa dal panico di perdere la preda e lo spettacolo del supplizio. E urla: «È un ribelle!», «Un bestemmiatore», «Incoraggia il libertinaggio», «Eccita alla ribellione», «Nega rispetto a Cesare», «Si finge profeta senza esserlo», «Compie magie», «È un satana», «Solleva il popolo con le sue dottrine insegnando in tutta la Giudea, alla quale è venuto dalla Galilea insegnando», «A morte!», «A morte!».

«Galileo è? Galileo sei?». Pilato torna da Gesù: «Lo senti come ti accusano? Discolpati».
Ma Gesù tace. Pilato pensa... E decide. «Una centuria, e da Erode costui. Lo giudichi. È suo suddito. Riconosco il diritto del Tetrarca e al suo verdetto sottoscrivo in anticipo. Gli sia detto. Andate».

E Gesù, inquadrato come un manigoldo da cento soldati, riattraversa la città e torna ad incontrare Giuda Iscariota, che già aveva incontrato una volta presso un mercato. Prima mi ero dimenticata di dirlo, presa dal
disgusto della zuffa popolana. Lo stesso sguardo di pietà sul traditore...
Ora è più difficile colpirlo con calci e bastoni, ma le pietre e le immondezze non mancano e, se i sassi cadono sonando senza ferire sugli elmi e le corazze romane, ben lasciano un segno colpendo Gesù, che
procede col solo vestito, avendo lasciato il mantello nel Getsemani. (Maria Valt. : L'Evang. come mi è stato riv., n. 604)



LAUDETUR  JESUS  CHRISTUS!
LAUDETUR  CUM  MARIA!
SEMPER  LAUDENTUR!

lunedì 16 luglio 2012

L' "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta



"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’, ma leggetela e fatela leggere"
Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
"Evangelo come mi è stato rivelato"
di Maria Valtorta



Domenica 22 Luglio 2012, XVI Domenica del Tempo Ordinario - Anno B


Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 6,30-34.
Gli apostoli si riunirono attorno a Gesù e gli riferirono tutto quello che avevano fatto e insegnato.
Ed egli disse loro: «Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un pò». Era infatti molta la folla che andava e veniva e non avevano più neanche il tempo di mangiare.
Allora partirono sulla barca verso un luogo solitario, in disparte.
Molti però li videro partire e capirono, e da tutte le città cominciarono ad accorrere là a piedi e li precedettero.
Sbarcando, vide molta folla e si commosse per loro, perché erano come pecore senza pastore, e si mise a insegnare loro molte cose.
Traduzione liturgica della Bibbia



Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 4 Capitolo 271 pagina 319.
1È notte fatta quando Gesù torna a casa. Entra senza rumore nell’orto, si affaccia un attimo alla cucina buia. La vede vuota. Si affaccia alle due stanze dove sono le stuoie e i letti. Vuote esse pure. Solo le vesti mutate, ammucchiate per terra, dicono che gli apostoli hanno fatto ritorno. La casa sembra disabitata tanto è silenziosa.
Gesù, facendo meno rumore di un’ombra, sale la scaletta, candore nel candore della luna piena, e giunge sulla terrazza. La percorre. Pare uno spettro che si muova senza rumore. Un luminoso spettro. Nell’incandescenza bianca della luna pare affinarsi, alzarsi più ancora. Alza con la mano la tenda che è alla porta della stanza alta. Essa era rimasta calata da quando i discepoli di Giovanni vi erano entrati con Gesù. Dentro, seduti qua e là, a gruppi, o soli, sono gli apostoli coi discepoli di Giovanni e Mannaen, e, addormentato col capo sui ginocchi di Pietro, è Marziam. La luna si incarica di illuminare la stanza entrando coi suoi fiotti fosforici dalle finestre aperte. Nessuno parla. E nessuno, tolto il bambino seduto per terra su una stuoia, dorme.

2Gesù entra piano e il primo che lo vede è Tommaso. «Oh! Maestro!» dice facendo un sobbalzo.
Gli altri si scuotono tutti. Pietro, nel suo impeto, fa per alzarsi di scatto, ma si sovviene del bambino e lo fa dolcemente, adagiando il capo bruno di Marziam sul suo sedile, di modo che giunge da Gesù per ultimo, mentre il Maestro, con voce stanca di chi ha molto sofferto, risponde a Giovanni, Giacomo e Andrea che gli dicono il loro dolore: «Lo comprendo. Ma solo chi non crede ha da sentirsi desolato di una morte. Non noi che sappiamo e crediamo. Giovanni non ci è più separato. Lo era prima. Prima ci separava, anzi. O con Me, o con lui. Ora non più. Dove è lui Io sono. Presso a Me lui è».
Pietro insinua la sua testa brizzolata fra le teste giovanili e Gesù lo vede: «Anche tu hai pianto, Simone di Giona?»; e Pietro con voce più rauca del solito: «Sì, Signore. Perché anche io ero stato di Giovanni… E poi… e poi… E pensare che il venerdì scorso io mi rammaricavo che la presenza dei farisei ci avesse ad amareggiare il sabato! Questo sì che è un sabato d’amarezza! Avevo portato il bambino… per avere un sabato anche più bello… Invece…».
«Non ti accasciare, Simone di Giona. Giovanni non è perduto. Lo dico anche a te. E in cambio abbiamo tre discepoli ben formati. Dove è il bambino?».
«Là, Maestro. Dorme…».
«Lascialo dormire» dice Gesù curvandosi sulla testolina bruna che dorme tranquilla. E poi chiede ancora: «Avete cenato?».
«No, Maestro. Ti aspettavamo ed eravamo in pensiero, ormai, per il ritardo, non sapendo dove cercarti… e parendoci di avere perduto anche Te».
«Abbiamo ancora tempo da stare insieme. Su, preparate la cena, perché dopo ce ne andremo altrove. Ho bisogno di isolarmi fra amici, e domani, qui stando, saremmo sempre circondati di persone».
«E io ti giuro che non li sopporterei, specie quelle serpentesse delle anime farisee. E sarebbe un brutto fatto se sfuggisse loro anche un sorriso a nostro riguardo, nella sinagoga».
«Buono, Simone!… Ma Io ho calcolato anche questo. Perciò sono tornato a prendervi con Me».
Alla luce delle lucernette accese ai due lati della tavola, si vedono meglio le alterazioni dei loro visi. Solo Gesù è di una maestà solenne, e Marziam sorride nel sonno.
«Il bambino ha mangiato prima» spiega Simone.
«È meglio lasciarlo dormire, allora» dice Gesù.
E in mezzo ai suoi offre e distribuisce il parco cibo che viene mangiato senza volontà. E presto la cena è finita.

3«Ditemi ora che avete fatto…» incoraggia Gesù.
«Io sono stato con Filippo nelle campagne di Betsaida e abbiamo evangelizzato e curato un bambino malato» dice Pietro.
«Veramente è stato Simone che lo ha guarito» dice Filippo, che non vuole prendersi una gloria non sua.
«Oh! Signore! Non so come ho fatto. Ho pregato molto, con tutto il cuore, perché mi faceva pietà il malatino. Poi l’ho unto con l’olio e l’ho soffregato con le mie mani rozze… ed è guarito. Quando l’ho visto colorirsi in viso e aprire gli occhi, rivevere insomma, ho avuto quasi paura».
Gesù gli posa la mano sul capo, senza parlare.
«Giovanni ha stupito molto per aver cacciato un demonio. Ma a parlare è toccato a me» dice Tommaso.
«Anche tuo fratello Giuda lo ha fatto» dice Matteo.
«Allora anche Andrea» dice Giacomo d’Alfeo.
«Invece Simone Zelote ha guarito un lebbroso. Oh! non ha avuto paura di toccarlo! E mi ha detto poi: “Ma non temere. A noi non si apprende nessun male fisico per volontà di Dio”» dice Bartolomeo.
«Hai detto bene, Simone. E voi due?» chiede Gesù a Giacomo di Zebedeo e all’Iscariota, che stanno un poco lontani, il primo parlando con i tre discepoli di Giovanni, il secondo solo e immusonito.
«Oh! Io non ho fatto nulla» dice Giacomo. «Ma Giuda ha fatto tre miracoli potenti: un cieco, un paralitico, un indemoniato. A me pareva un lunatico. Ma la gente diceva così…».
«E te ne stai con quel viso se Dio ti ha tanto aiutato?» chiede Pietro.
«So essere umile anche io» risponde l’Iscariota.
«E poi siamo stati ospitati da un fariseo. Io mi ci trovavo a disagio. Ma Giuda sa fare meglio e lo ha ammansito. Il primo giorno era sostenuto, ma poi… Vero, Giuda?».
Giuda assente senza parlare.
«Molto bene. E farete sempre meglio. La prossima settimana staremo insieme. Intanto… Simone, vai a preparare le barche. Anche tu, Giacomo».
«Per tutti, Maestro? Non vi staremo».
«Non puoi averne un’altra?».
«Chiedendola a mio cognato, sì. Vado».
«Va’. E appena fatto torna. E non dare molte spiegazioni».
I quattro pescatori partono. Gli altri scendono a prendere sacchi e mantelli.

4Resta Mannaen con Gesù. Il bambino continua a dormire.
«Maestro, vai lontano?».
«Non so ancora… Essi sono stanchi e addolorati. Io pure. Conto di andare a Tarichea, nelle campagne, per isolarci in pace…».
«Io ho il cavallo, Maestro. Ma, se permetti, vengo seguendo il lago. Vi starai molto?».
«Forse tutta la settimana e non oltre».
«Allora verrò. Maestro, benedicimi in questo primo commiato. E levami un peso dal cuore».
«Quale, Mannaen?».
«Ho il rimorso di avere lasciato Giovanni. Forse se c’ero…»
«No. Era la sua ora. Ed egli certo è stato contento di vederti venire a Me. Non avere questo peso. Cerca anzi di liberarti presto e bene dell’unico peso che hai: il gusto di essere uomo. Divieni spirito, Mannaen. Lo puoi. C’è in te la capacità di esserlo. Addio, Mannaen. La mia pace sia con te. Presto ci rivedremo in Giudea».
Mannaen si inginocchia e Gesù lo benedice. Poi lo alza e lo bacia. Rientrano gli altri e si salutano fra di loro, sia gli apostoli che i discepoli di Giovanni. Vengono per ultimi i pescatori.
«È fatto, Maestro. Possiamo andare».
«Va bene. Salutate Mannaen che resta qui fino al tramonto di domani. Raccogliete le cibarie, prendete l’acqua e andiamo. Fate poco rumore».
Pietro si curva a svegliare Marziam.
«No, lascia. Potrebbe piangere. Lo prendo in braccio Io» dice Gesù e dolcemente solleva il bambino, che mugola un poco ma si accomoda istintivamente fra le braccia di Gesù.

5Spengono le lampade. Escono. Chiudono la porta. Scendono. Sulla soglia dell’orto salutano nuovamente Mannaen e poi, in fila, per la via piena di luna vanno al lago: un enorme specchio d’argento sotto la luna allo zenit. Tre gocce rosse sullo specchio quieto sembrano i tre fanaletti delle prore già immersi nell’acqua. Salgono distribuendosi per le barche, ultimi salgono i pescatori. Pietro e un garzone dove è Gesù, Giovanni e Andrea nell’altra, Giacomo e un garzone nella terza.
«Dove, Maestro?» chiede Pietro.
«A Tarichea. Dove sbarcammo dopo il miracolo dei geraseni. Ora non ci sarà pantano. E vi sarà quiete».
Pietro prende il largo e gli altri, con le barche, dietro, una scia nell’altra. Nessuno parla. Soltanto quando sono al largo e Cafarnao svanisce nel chiarore di luna che uniforma tutto col suo pulviscolo d’argento, Pietro, quasi parlasse alla barra del timone, dice: «E ci ho gusto. Domani ci cercheranno, vecchia mia, e grazie a te non ci troveranno».
«A chi parli, Simone?» chiede Bartolomeo.
«Alla barca. Non sai che per i pescatori è come una sposa? Quanto ho parlato con lei! Più che con Porfirea. Maestro!… È ben coperto il bambino? C’è guazza sul lago di notte…».
«Sì. Senti, Simone. Vieni qui. Ti devo parlare…».
Pietro affida la barra del timone al mozzo e viene da Gesù.
«Ho detto Tarichea. Ma basterà esserci dopo il sabato per salutare di nuovo Mannaen. Non potresti trovare un luogo lì vicino dove stare in pace?».
«Oh! Maestro! In pace noi o anche le barche? Per quelle ci vuole Tarichea oppure i porti dell’altra sponda. Ma se è per noi, basta che Tu ti inselvi al di là del Giordano, che solo le bestie ti scoveranno… e forse qualche pescatore che sorveglia le tese dei pesci. Potremmo lasciare le barche a Tarichea. Vi giungeremo all’alba e noi fileremo svelti oltre il guado. Si passa bene di questi tempi».
«Va bene. Faremo così…»
«Fa schifo anche a Te il mondo, eh? Preferisci i pesci e le zanzare, eh? Hai ragione».
«Non ho schifo. Non bisogna averlo. Ma voglio evitare che voi facciate degli scandali e voglio consolarmi in voi in queste ore del sabato».
«Maestro mio!…». Pietro lo bacia sulla fronte e se ne va asciugandosi un lacrimone, che vuole proprio rotolare fuori e scendere verso la barba.
Torna al suo timone e punta a sud, fermamente, mentre la luce lunare decresce nel tramonto del pianeta che si abbassa oltre un colle, levando il suo faccione dalla vista degli uomini, ma lasciando ancora il cielo bianco della sua luce, e d’argento il lago nella spiaggia di oriente. Il resto è indaco cupo che appena si distingue al lume del fanale di prora.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

Cor Iesu, fòrnax àrdens charitàtis

"miserère nobis"