giovedì 23 dicembre 2021

Partenza da Gerusalemme. L'aspetto beatifico di Maria. Importanza della preghiera per Maria e Giuseppe.

 


VOLUME I CAPITOLO 20



XX. Partenza da Gerusalemme. L'aspetto beatifico di Maria. Importanza della preghiera per Maria e Giuseppe.

   28 marzo 1944.


   20.1Siamo a Gerusalemme. La conosco bene, ormai, con le sue strade e le sue porte.
   I due sposi si dirigono verso il Tempio per prima cosa. Riconosco lo stallaggio dove Giuseppe ha lasciato il ciuchino il giorno della Presentazione al Tempio. Anche ora lascia lì i due ciuchi dopo averli pasturati, e con Maria va ad adorare il Signore.
   Poi tornano fuori, e Maria con Giuseppe vanno in una casa di persone conosciute, a quanto pare. E lì si rifocillano, e Maria riposa finché torna Giuseppe con un vecchietto. «Questo uomo va per la tua stessa strada. Ben poco avrai da andare da sola per giungere dalla parente. Fìdati di lui, ché lo conosco».


   20.2Rimontano sui ciuchini e Giuseppe accompagna Maria sino alla Porta (non quella per la quale sono entrati, un’altra) e là si salutano, e Maria va sola col vecchietto, che parla per quanto Giuseppe non parlava e si interessa di mille cose. Maria risponde pazientemente.
Ora ha sul davanti della sua sella il piccolo cofano che prima aveva portato sempre il ciuco di Giuseppe, e non ha più il mantellone. Non ha più neppure il suo scialle, che è piegato sul cofano, ed è tutta bella nella sua veste azzurro scura e nel velo bianco che la ripara dal sole. Come è bella!
   Il vecchietto deve essere un poco sordo, perché per farsi udire Maria ha dovuto parlare ben forte, Lei che parla sempre a voce bassa. E ora si è stancato. Ha esaurito tutto il suo repertorio di domande e di notizie e sonnecchia sulla sella, lasciandosi guidare dal ciuco che conosce bene la strada.
   Maria approfitta di questa tregua per raccogliersi nei suoi pensieri e per pregare. Deve essere una preghiera quella che Ella canta a bassa voce, guardando il cielo azzurro e tenendo le braccia sul seno, con un viso che un’interna emozione fa acceso e beato.
Non vedo altro.


   20.3E anche ora che la visione mi si sospende, come ieri, resto con la Mamma presso a me, visibile alla mia interna vista così nitidamente che le posso descrivere il rosato tenue della guancia, così poco paffuta ma dolcemente morbida, il rosso vivo della piccola bocca e lo splendere dolce degli occhi azzurrini fra il biondo scuro delle ciglia.
   Le posso dire come i capelli, bipartiti sul sommo del capo, scendano morbidi con tre ondulazioni per parte sino a coprire a metà le piccole orecchie rosate, e scompaiano col loro oro pallido e lucente dietro al velo che le copre il capo (poiché la vedo col manto sul capo, vestita della sua veste di seta paradisiaca e col suo manto, sottile come velo e pure opaco, della stessa stoffa della veste).
   Le posso dire che la veste è come stretta al collo da una guaina, nella quale scorre un cordone i cui capi si annodano sul davanti alla radice del collo, come la veste è raccolta alla vita da un più grosso cordone, sempre di seta bianca, che scende con due nappe lungo il fianco.
   Le posso persino dire che la veste, stretta come è al collo e alla vita, le fa sul petto sette pieghe rotonde e molli, unico ornamento del suo castissimo abito.
   Le posso dire la castità che emana da tutto l’aspetto di Maria, dalle sue forme così delicate e armoniose, che la fanno tanto angelicamente donna.


   20.4E più la guardo e più soffro pensando a quanto l’hanno fatta soffrire, e mi chiedo come hanno potuto non avere pietà di Lei, così mite e gentile, così delicata nell’aspetto anche fisico. La guardo e risento tutte le urla del Calvario anche contro di Lei, tutti gli scherni e i lazzi. Tutte le maledizioni a Lei per esser la Madre del Condannato. La vedo bella e tranquilla, ora. Ma il suo aspetto attuale non mi annulla il ricordo del suo tragico viso di quelle ore di agonia e quello del suo volto desolato nella casa di Gerusalemme, dopo la morte di Gesù. E vorrei poterla carezzare e baciare sulla guancia così delicatamente rosea e morbida, per levare col mio bacio quel ricordo di pianto, che certo è in Lei come è in me.


   20.5Non può credere che pace mi dà l’averla vicina. Penso che morire vedendola sia dolce come e più della più dolce ora di vita. In questo tempo che non la vedevo così, tutta per me, ho sofferto della sua assenza come per quella di una mamma. Ora risento l’ineffabile gioia che mi fu compagna nel dicembre e nei primi tempi di gennaio. E sono felice. Felice, nonostante che l’aver visto lo strazio della Passione getti su ogni mia felicità un velo di dolore.
   È difficile dire e far capire quello che provo e quello che è avvenuto dall’11 febbraio, dalla sera che ho visto soffrire Gesù nella sua Passione. È stata una vista che mi ha mutata radicalmente. Morissi ora o fra cent’anni, quella visione rimarrà sempre uguale di intensità e di effetti. Prima pensavo ai dolori di Cristo. Ora li vivo, perché mi basta una parola, un’occhiata su un’immagine, per risoffrire quanto ho sofferto quella sera e inorridire di quei supplizi e angosciarmi di quel desolato suo patire, e anche se nulla lo ricorda, il ricordo spasima in me.
   Maria comincia a parlare e taccio io.


   20.6Dice Maria:
   «Poco parlerò perché sei molto stanca, povera figlia.
   Richiamo unicamente la tua attenzione e quella di chi legge sulla abitudine costante di Giuseppe e mia di dare sempre il primo posto alla preghiera. Stanchezza, fretta, crucci, occupazioni erano cose che non impedivano la preghiera, ma anzi la aiutavano. Essa era sempre la regina delle nostre occupazioni. Il nostro ristoro, la nostra luce, la nostra speranza. Se nelle ore tristi era conforto, nelle ore felici era canto. Ma era sempre l’amica costante dell’anima nostra. Quella che ci staccava dalla Terra, dall’esilio, e che ci librava in alto verso il Cielo, la Patria.
   Non io sola, che ormai avevo dentro a me Dio e non avevo che guardare il mio seno per adorare il Santo dei santi, ma anche Giuseppe si sentiva unito a Dio quando pregava, perché la nostra preghiera era adorazione vera di tutto l’essere, che si fondeva con Dio adorandolo ed essendone abbracciato.
   E, guardate, neppure io, ormai avente in me l’Eterno, mi sono sentita esente dal riverente ossequio al Tempio. La santità più alta non esime dal sentirsi un nulla rispetto a Dio e dal­l’umiliare questo nulla, poiché Egli ce lo permette, in un continuo osanna alla sua gloria.


   20.7Siete deboli, poveri, difettosi? Invocate la santità del Signore: “Santo, Santo, Santo!”. Chiamatelo, questo Santo benedetto, sulla vostra miseria. Egli verrà trasfondendovi la sua santità. Siete santi e ricchi di meriti ai suoi occhi? Invocate ugualmente la santità del Signore. Essa, infinita, accrescerà sempre più la vostra. Gli angeli, esseri superiori alle debolezze dell’umanità, non cessano un istante di cantare il loro “Sanctus”, e la loro bellezza soprannaturale si aumenta ad ogni invocare la santità del nostro Dio. Imitate gli angeli.
   Non spogliatevi mai della protezione della preghiera, contro la quale si spuntano le armi di Satana, le malizie del mondo e gli appetiti della carne e le superbie della mente. Non deponete mai quest’arma, per la quale i Cieli si aprono e ne piovono grazie e benedizioni.
   La Terra ha bisogno di un lavacro di preghiere per mondarsi dalle colpe che attirano i castighi di Dio. E, posto che pochi pregano, quei pochi devono pregare come fossero tanti. Moltiplicare le loro preghiere vive per fare di esse quella somma necessaria per ottenere grazia. Sono vive le preghiere quando sono condite di vero amore e di sacrificio.


   20.8E che tu, figlia, soffra, oltre che per il tuo soffrire, per il soffrire mio e del mio Gesù, è cosa buona. Gradita a Dio e meritoria. Mi è tanto caro il tuo amore compassionevole. Ma mi vuoi baciare? Bacia le piaghe del mio Figlio. Imbalsamale col tuo amore. Io ho sentito spiritualmente lo spasimo dei flagelli e delle spine e la tortura dei chiodi e della croce. Ma ugualmente sento spiritualmente tutte le carezze date al mio Gesù, e sono tanti baci dati a me. E poi vieni. Sono la Regina del Cielo. Ma sono sempre la Mamma…».
   E io sono beata.

AVE MARIA PURISSIMA!

Assistiamo alla partenza

 


VOLUME I CAPITOLO 19



XIX. Maria e Giuseppe alla volta di Gerusalemme.

   27 marzo 1944.

   19.1Assisto alla partenza per andare da S. Elisabetta.
   Giuseppe è venuto a prendere Maria con due ciuchini grigi: uno per sé, uno per Maria. Le due bestiole hanno la sella abituale, ma una è aumentata[54] da un bizzarro arnese, che poi comprendo essere fatto per portare il carico: una specie di portabagagli sul quale Giuseppe assicura un piccolo cofano di legno — un bauletto, diremmo ora — che ha portato a Maria per riporvi i suoi indumenti senza che l’acqua possa bagnarli.


   Sento Maria che ringrazia molto Giuseppe per questo dono previdente, nel quale sistema quanto leva da un fagotto che aveva prima preparato.



   19.2Chiudono la porta di casa e si mettono in cammino. È lo spuntare del giorno, perché vedo l’aurora rosare appena ad oriente. Nazareth dorme ancora. I due mattinieri viaggiatori incontrano unicamente un mandriano, che spinge avanti le sue pecorelle trotterellanti l’una contro l’altra, incastrate l’una fra le altre come tanti cunei, e belanti. Gli agnellini belano più di tutti con voce acuta e sottile, e vorrebbero cercare, anche camminando, la poppa materna. Ma le madri si affrettano al pascolo e li invitano a trottare loro pure col loro belato più forte.
   Maria guarda e sorride e, posto che si è fermata per lasciar passare la mandra, si curva sulla sua sella e carezza le miti bestiole, che passano rasente al ciuchino. Quando giunge il pastore con un agnellino appena nato fra le braccia e si ferma a salutare, Maria ride carezzando sul musetto roseo l’agnellino belante disperatamente, e dice: «Cerca la mamma. Eccola la mamma. Non ti lascia, no, piccolino». Infatti la pecora madre si strofina al pastore e si alza in piedi per leccare sul musetto il suo nato.


   La mandra passa con rumore di acqua sulle fronde, e lascia dietro a sé la polvere sollevata dagli zoccoletti in corsa e tutto un ricamo di pedate sulla terra della via.


   Giuseppe e Maria riprendono il cammino. Giuseppe ha il suo mantellone, Maria è avvolta in una specie di scialle a righe, perché la mattina è molto fresca.


   Ormai sono in campagna e vanno l’una vicino all’altro. Parlano raramente. Giuseppe pensa ai suoi affari e Maria segue i suoi pensieri e, raccolta come è in essi, sorride ad essi e sorride alle cose quando, uscendo dalla sua concentrazione, gira lo sguardo su quanto la circonda. Di tanto in tanto guarda Giuseppe, e un velo di serietà mesta le oscura il viso; poi le torna il sorriso anche nel guardare questo suo sposo previdente, che poco parla, ma che se parla è per chiederle se è comoda e se non ha bisogno di nulla.


   19.3Ora le strade si sono popolate di altre persone, specie nelle vicinanze di qualche paese o dentro allo stesso. Ma i due non fanno molto caso alle persone che incontrano. Vanno sui loro ciuchini trotterellanti in un gran suonare di bubboli, e si fermano solo una volta, all’ombra di un boschetto, per mangiare un poco di pane e ulive e bere ad una fonte che scende da una grotticella, e un’altra per ripararsi da un acquazzone violento che si abbatte all’improvviso fuori da un nuvolone scuro scuro.


   Si sono messi al riparo del monte, contro una sporgenza del masso che li copre dal più forte dell’acqua. Ma Giuseppe vuole assolutamente che Maria si metta il suo mantellone di lana impermeabile, sul quale l’acqua scivola via senza bagnare, e Maria deve cedere alla premurosa insistenza dello sposo che, per rassicurarla sulla sua propria immunità, si mette sulla testa e sulle spalle una piccola coperta bigia, che era sulla sella. La coperta del ciuchino, probabilmente. Ora Maria pare un fraticello, col cappuccio che le incornicia il volto e il mantello marrone che le si chiude alla gola e la copre tutta.


   L’acquazzone rallenta, ma si muta in pioggia noiosa e fina. I due riprendono ad andare per la strada già tutta fangosa. Ma è primavera, e dopo qualche tempo torna il sole a fare più comodo il cammino. I due ciuchini zampettano più volentieri sulla via.
   Non vedo altro, perché la visione cessa qui.



[54] Le due bestiole hanno la sella abituale, ma una è aumentata… è forma ripresa dalla trascrizione dattiloscritta, che migliora la forma

 dell’autografo originale: Le due bestiole hanno, una, la sella abituale aumentata…





AMDG et DVM


L Arca di Noè

Noe' vero figlio di Dio





 

Attuale

 





QUADERNI DEL 1943 CAPITOLO 4


1 maggio 1943

   Sabato, ore 11

   Dice Gesù:
   «Te ne addolori? Io pure. Poveri bimbi! I pargoli che Io amavo tanto e che devono morire così! Ed Io che li carezzavo con una tenerezza di Padre e di Dio che vede nel pargolo il capolavoro, non ancora profanato, della sua creazione! I bambini che muoiono, uccisi dall’odio e fra un coro di odio.


   Oh! i padri e le madri non profanino, con le loro imprecazioni, l’olocausto innocente dei loro fiori stroncati! Sappiano i padri e le madri che non una lacrima dei loro piccini, non un gemito di questi innocenti immolati resta senza eco nel Cuore mio. A loro si apre il Cielo, ché non differiscono per nulla dai loro lontani fratellini, uccisi da Erode[7] in odio a Me. Anche questi sono uccisi dai biechi Erodi, custodi di un potere che Io ho dato loro perché lo usassero in bene e di cui mi dovranno rendere conto.


   Per tutti Io verrei. Ma specie per questi, testé nati alla vita, dono di Dio, e già strappati alla vita dalla ferocia, dono del demonio. Però sappiate che per lavare il sangue contaminato che insozza la Terra, che è versato con astio e maledizione in astio e maledizione di Me che sono l’Amore, ci vuole questa rugiada di sangue innocente, l’unico che ancora sappia sgorgare senza maledire, senza odiare, così come Io, l’Agnello, versai il mio sangue per voi. Gli innocenti sono i piccoli agnelli dell’èra nuova, gli unici il cui sacrificio, raccolto dagli angeli, sia completamente gradito al Padre mio.


   Dopo vengono i penitenti. Ma dopo. Poiché anche il più perfetto fra essi trascina nel suo sacrificio scorie d’imperfezioni umane, di odii, di egoismi. I primi nella schiera dei nuovi redentori sono i pargoli i cui occhi si chiudono fra un orrore per riaprirsi sul mio Cuore in Cielo.»


[7] uccisi da Erode, come si narra in Matteo 2, 16-18.