VOLUME I CAPITOLO 20
XX. Partenza da Gerusalemme. L'aspetto beatifico di Maria. Importanza della preghiera per Maria e Giuseppe.
28 marzo 1944.
20.1Siamo a Gerusalemme. La conosco bene, ormai, con le sue strade e le sue porte.
I due sposi si dirigono verso il Tempio per prima cosa. Riconosco lo stallaggio dove Giuseppe ha lasciato il ciuchino il giorno della Presentazione al Tempio. Anche ora lascia lì i due ciuchi dopo averli pasturati, e con Maria va ad adorare il Signore.
Poi tornano fuori, e Maria con Giuseppe vanno in una casa di persone conosciute, a quanto pare. E lì si rifocillano, e Maria riposa finché torna Giuseppe con un vecchietto. «Questo uomo va per la tua stessa strada. Ben poco avrai da andare da sola per giungere dalla parente. Fìdati di lui, ché lo conosco».
20.2Rimontano sui ciuchini e Giuseppe accompagna Maria sino alla Porta (non quella per la quale sono entrati, un’altra) e là si salutano, e Maria va sola col vecchietto, che parla per quanto Giuseppe non parlava e si interessa di mille cose. Maria risponde pazientemente.
Ora ha sul davanti della sua sella il piccolo cofano che prima aveva portato sempre il ciuco di Giuseppe, e non ha più il mantellone. Non ha più neppure il suo scialle, che è piegato sul cofano, ed è tutta bella nella sua veste azzurro scura e nel velo bianco che la ripara dal sole. Come è bella!
Il vecchietto deve essere un poco sordo, perché per farsi udire Maria ha dovuto parlare ben forte, Lei che parla sempre a voce bassa. E ora si è stancato. Ha esaurito tutto il suo repertorio di domande e di notizie e sonnecchia sulla sella, lasciandosi guidare dal ciuco che conosce bene la strada.
Maria approfitta di questa tregua per raccogliersi nei suoi pensieri e per pregare. Deve essere una preghiera quella che Ella canta a bassa voce, guardando il cielo azzurro e tenendo le braccia sul seno, con un viso che un’interna emozione fa acceso e beato.
Non vedo altro.
20.3E anche ora che la visione mi si sospende, come ieri, resto con la Mamma presso a me, visibile alla mia interna vista così nitidamente che le posso descrivere il rosato tenue della guancia, così poco paffuta ma dolcemente morbida, il rosso vivo della piccola bocca e lo splendere dolce degli occhi azzurrini fra il biondo scuro delle ciglia.
Le posso dire come i capelli, bipartiti sul sommo del capo, scendano morbidi con tre ondulazioni per parte sino a coprire a metà le piccole orecchie rosate, e scompaiano col loro oro pallido e lucente dietro al velo che le copre il capo (poiché la vedo col manto sul capo, vestita della sua veste di seta paradisiaca e col suo manto, sottile come velo e pure opaco, della stessa stoffa della veste).
Le posso dire che la veste è come stretta al collo da una guaina, nella quale scorre un cordone i cui capi si annodano sul davanti alla radice del collo, come la veste è raccolta alla vita da un più grosso cordone, sempre di seta bianca, che scende con due nappe lungo il fianco.
Le posso persino dire che la veste, stretta come è al collo e alla vita, le fa sul petto sette pieghe rotonde e molli, unico ornamento del suo castissimo abito.
Le posso dire la castità che emana da tutto l’aspetto di Maria, dalle sue forme così delicate e armoniose, che la fanno tanto angelicamente donna.
20.4E più la guardo e più soffro pensando a quanto l’hanno fatta soffrire, e mi chiedo come hanno potuto non avere pietà di Lei, così mite e gentile, così delicata nell’aspetto anche fisico. La guardo e risento tutte le urla del Calvario anche contro di Lei, tutti gli scherni e i lazzi. Tutte le maledizioni a Lei per esser la Madre del Condannato. La vedo bella e tranquilla, ora. Ma il suo aspetto attuale non mi annulla il ricordo del suo tragico viso di quelle ore di agonia e quello del suo volto desolato nella casa di Gerusalemme, dopo la morte di Gesù. E vorrei poterla carezzare e baciare sulla guancia così delicatamente rosea e morbida, per levare col mio bacio quel ricordo di pianto, che certo è in Lei come è in me.
20.5Non può credere che pace mi dà l’averla vicina. Penso che morire vedendola sia dolce come e più della più dolce ora di vita. In questo tempo che non la vedevo così, tutta per me, ho sofferto della sua assenza come per quella di una mamma. Ora risento l’ineffabile gioia che mi fu compagna nel dicembre e nei primi tempi di gennaio. E sono felice. Felice, nonostante che l’aver visto lo strazio della Passione getti su ogni mia felicità un velo di dolore.
È difficile dire e far capire quello che provo e quello che è avvenuto dall’11 febbraio, dalla sera che ho visto soffrire Gesù nella sua Passione. È stata una vista che mi ha mutata radicalmente. Morissi ora o fra cent’anni, quella visione rimarrà sempre uguale di intensità e di effetti. Prima pensavo ai dolori di Cristo. Ora li vivo, perché mi basta una parola, un’occhiata su un’immagine, per risoffrire quanto ho sofferto quella sera e inorridire di quei supplizi e angosciarmi di quel desolato suo patire, e anche se nulla lo ricorda, il ricordo spasima in me.
Maria comincia a parlare e taccio io.
20.6Dice Maria:
«Poco parlerò perché sei molto stanca, povera figlia.
Richiamo unicamente la tua attenzione e quella di chi legge sulla abitudine costante di Giuseppe e mia di dare sempre il primo posto alla preghiera. Stanchezza, fretta, crucci, occupazioni erano cose che non impedivano la preghiera, ma anzi la aiutavano. Essa era sempre la regina delle nostre occupazioni. Il nostro ristoro, la nostra luce, la nostra speranza. Se nelle ore tristi era conforto, nelle ore felici era canto. Ma era sempre l’amica costante dell’anima nostra. Quella che ci staccava dalla Terra, dall’esilio, e che ci librava in alto verso il Cielo, la Patria.
Non io sola, che ormai avevo dentro a me Dio e non avevo che guardare il mio seno per adorare il Santo dei santi, ma anche Giuseppe si sentiva unito a Dio quando pregava, perché la nostra preghiera era adorazione vera di tutto l’essere, che si fondeva con Dio adorandolo ed essendone abbracciato.
E, guardate, neppure io, ormai avente in me l’Eterno, mi sono sentita esente dal riverente ossequio al Tempio. La santità più alta non esime dal sentirsi un nulla rispetto a Dio e dall’umiliare questo nulla, poiché Egli ce lo permette, in un continuo osanna alla sua gloria.
20.7Siete deboli, poveri, difettosi? Invocate la santità del Signore: “Santo, Santo, Santo!”. Chiamatelo, questo Santo benedetto, sulla vostra miseria. Egli verrà trasfondendovi la sua santità. Siete santi e ricchi di meriti ai suoi occhi? Invocate ugualmente la santità del Signore. Essa, infinita, accrescerà sempre più la vostra. Gli angeli, esseri superiori alle debolezze dell’umanità, non cessano un istante di cantare il loro “Sanctus”, e la loro bellezza soprannaturale si aumenta ad ogni invocare la santità del nostro Dio. Imitate gli angeli.
Non spogliatevi mai della protezione della preghiera, contro la quale si spuntano le armi di Satana, le malizie del mondo e gli appetiti della carne e le superbie della mente. Non deponete mai quest’arma, per la quale i Cieli si aprono e ne piovono grazie e benedizioni.
La Terra ha bisogno di un lavacro di preghiere per mondarsi dalle colpe che attirano i castighi di Dio. E, posto che pochi pregano, quei pochi devono pregare come fossero tanti. Moltiplicare le loro preghiere vive per fare di esse quella somma necessaria per ottenere grazia. Sono vive le preghiere quando sono condite di vero amore e di sacrificio.
20.8E che tu, figlia, soffra, oltre che per il tuo soffrire, per il soffrire mio e del mio Gesù, è cosa buona. Gradita a Dio e meritoria. Mi è tanto caro il tuo amore compassionevole. Ma mi vuoi baciare? Bacia le piaghe del mio Figlio. Imbalsamale col tuo amore. Io ho sentito spiritualmente lo spasimo dei flagelli e delle spine e la tortura dei chiodi e della croce. Ma ugualmente sento spiritualmente tutte le carezze date al mio Gesù, e sono tanti baci dati a me. E poi vieni. Sono la Regina del Cielo. Ma sono sempre la Mamma…».
E io sono beata.
AVE MARIA PURISSIMA!