giovedì 25 novembre 2021

7. Verso Ain Karim

 7

Verso Ain Karim

 

“Maria corse con fretta a la montagna”

Dante, Purg. 18, 100

 

Qualche settimana dopo la visita dell’arcangelo Gabriele, con il permesso dello sposo Giuseppe, la Vergine Maria si prepara e lascia Nazareth per recarsi in Giudea, ad Ain Karìm, dove abita la cugina Elisabetta.


Dall’angelo ha saputo che 1’anziana parente, già da tutti detta sterile, ora attende un bimbo, e mancano solo poche settimane, una dozzina circa. Maria, che è tutta incendio d’amore per Dio, non ritarda, ma dà la precedenza a questo soccorso umano.


A quei tempi si viaggiava a piedi, sul cammello o a schiena d’asino. Non sappiamo come e con chi percorse i 180 km circa, non era un viaggio facile, durava quattro, cinque giorni, e generalmente si faceva in carovana.

Intanto in casa di Elisabetta si accelerano i preparativi per la nascita del bimbo. Il sacerdote Zaccaria, muto e meditabondo, si dibatte tra fede e speranza, mentre la sposa assapora già pur nella naturale preoccupazione del parto le gioie della maternità. 

Si conosce come il bimbo sarà chiamato, ma nessuno sa la grande visita, o meglio le grandi visite che questa casa benedetta sta per ricevere. Maria, cantando nel suo Cuore al suo Signore, si avvicina alla meta.

La Vergine, appena giunse al paesello di montagna Ain Karim, a sei km a sud di Gerusalemme si portò premurosamente alla casa di Zaccaria. 

Elisabetta Le andò incontro festante. Maria “entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta” (Lc 1, 40) con il consueto e santo augurio di pace (shalòm!). 

A quel saluto mariano successero fenomeni meravigliosi che l’evangelista così ci descrive: “Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino le sussultò nel grembo.

Elisabetta fu piena di Spirito santo ed esclamò a gran voce: Benedetta Tu fra le donne! e benedetto il frutto del Tuo grembo! A che debbo che la Madre del mio Signore venga a me? Ecco, appena la voce del tuo saluto è giunta ai miei orecchi, il bambino ha esultato di gioia nel mio grembo. E beata Colei che ha creduto nell’adempimento delle parole del Signore (Lc 1, 41-45)”.

Sono versi in cui risuona la melodia di tutte le grandezze che Dio opera per mezzo di Maria.


 


Lo Spirito Santo L’ha riempita di sé e quel grembo di fanciulla ha potuto concepire il Figlio di Dio. Non solo. Ma ora lo stesso Spirito attraverso Maria sua Sposa pre-santifica colui che è chiamato dal Signore a compiere la particolare missione di Precursore dell’Agnello di Dio.

Gesù nel seno di Maria esultò, e da quel trono verginale fissò il piccolo    Giovanni nel seno della Madre Elisabetta e si fece conoscere rivelandosi qual era: il Figlio di Dio.

E Giovanni pronunziò il suo primo discorso di annunciatore del Verbo. Sussultò e sobbalzò così fortemente di amore e gioia che Elisabetta si sentì   scossa e come colpita anch’essa dalla luce della Divinità del Figlio di Maria; e riconobbe in quella fanciulla la Madre del Messia. Piena di spirito profetico, tutta amore e gratitudine, glorificò Maria e il frutto benedetto del suo seno:

“Alzò la voce con un gran grido” dice il testo greco. 

Disse: “BENEDETTA TU FRA LE DONNE E BENEDETTO È IL FRUTTO DEL TUO SENO!”. aggiunse, nello splendore de1l’umiltà e della gioia, lodi e lodi a Maria: 

“A che debbo che la Madre del mio Signore venga a me? Beata Colei che ha creduto al compimento delle cose che Le sono state dette dal Signore!”.

Maria Santissima non nega l’altissimo mistero di Nazareth e, inabissandosi ancor più nell’umiltà, sfogo alle fiamme d’amore che la consumavano.

È questa la sua seconda grande gioia. E canta:

“L’anima mia magnifica il Signore

e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore perché ha guardato l’umiltà della sua serva.

D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata.  

Grandi cose ha fatto in me l’Onnipotente

E Santo è il suo nome:

di generazione in generazione la sua misericordia

si stende su quelli che lo temono.

Ha spiegato la potenza del suo braccio,

ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore, 

ha rovesciato i potenti dai troni,

ha innalzato gli umili;

ha ricolmato di beni gli affamati, 

ha rimandato i ricchi a mani vuote. 

Ha soccorso Israele, suo servo,

ricordandosi della sua misericordia, come aveva promesso ai nostri padri,

ad Abramo e alla sua discendenza, per sempre” (Lc 1, 46-55).


È questo il Magnificat di Maria, il più santo e degno di tutti i Cantici per la dignità e santità  di Colei che l'ha fatto e per i grandi misteri che vi sono compresi, come anche per i miracoli che Dio ha operato per mezzo di esso.


Dice il Montfort: “È il più grande sacrificio di lode rivolto a Dio, nella legge della grazia. Tra tutti i cantici, il Magnificat è il più umile, il più riconoscente, è anche il più sublime e il più elevato. Racchiude misteri così grandi e così profondi che neppure gli angeli li conoscono tutti. . .”, e Papa Giovanni Paolo II aggiunge:


“Nelle parole del Magnificat si manifesta tutto il cuore della nostra Madre. Sono, oggi, il suo testamento spirituale. Ognuno ...deve guardare la vita ... con gli occhi di Maria”. Perciò è un cantico tutto divino che esalta la grandezza di Dio, la sua fedeltà alle promesse e l’infinità del suo amore, e nello stesso tempo dandoci il senso della pochezza della creatura, scopre il nostro inserimento nel piano di Dio, grazie al1’amore operante e trasformante di Lui”.


È bello sapere che la Vergine iniziò l’umile servizio presso la santa cugina cantando le misericordie di Dio. Servizio beato il suo, che nasceva dalla letizia di un cuore pieno di Dio e produceva letizia.

San Luca ci dice che “Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua” (1,56). Tre mesi di grazia, di luce, di benedizione. Per Giovanni, Zaccaria ed Elisabetta. 

Il nascituro ricevette tutte le grazie che gli erano necessarie per essere un degno precursore del Messia.

La casa di Zaccaria visse i suoi giorni più belli; lo stesso Zaccaria sembrò trasformarsi per la fede, la speranza e l’amore che Maria accese ancor più nel suo cuore di padre anziano. Soprattutto Elisabetta, nei suoi dolori e paure, fu confortata e sorretta dalla dolce presenza e potente preghiera di Maria.

La Vergine aveva perfezionato ogni preparativo per il felice evento, e ormai tutto era pronto.




Così il bimbo nacque bello e forte, e per Zaccaria fu il giorno più felice della sua vita, come anche lo fu per Elisabetta ricolma delle gioie della maternità.

Quando poi circoncisero il bambino gli posero quel nome  <<Giovanni>> (che significa: pieno di grazia, pio, misericordioso) e il vecchio sacerdote Zaccaria riacquistando la loquela, tutto ispirato, cantò la bontà luminosa di Dio e la missione del figlio, insieme alla divina bontà di Maria, piena di grazia; e prostrato adorò il Messia nella beata Maria. 

In Lei di ora in ora cresceva il dolore. Pur nella pace di quella casa la Vergine pensando al prossimo incontro con lo sposo Giuseppe, sentiva sempre più viva una spina nel cuore.


AMDG et DVM

Cerca di riflettere...


 

Cerca di riflettere

con sincerità di coscienza

affettuosamente e

con calma – almeno una volta al giorno –

queste cinque cose:

·      quanto breve è la nostra vita

·      quanto scivoloso il cammino

·      quanto incerta la morte

·      quanto grande il premio dei buoni

·      quanto terribile il castigo dei  malvagi

(San Bonaventura)


AMDG et DVM


mercoledì 24 novembre 2021

Il più duro digiuno è acqua e pane >>



 Sesta virtù

Sobrietà e castità angelica

Digiuno prudente

69. I. Paolo in mezzo a tanta povertà visse necessariamente sobrio. Così

vediamo campare sobriamente gli operai, che vivono col lavoro delle loro

mani, e devono procurare gli alimenti per sé e per la loro famiglia.

Sapientemente san Girolamo (119) prescrive ad Eustochio questa dieta di

sobrietà: «Prendi moderato cibo, e non riempir mai lo stomaco. Vi sono

parecchie che pur essendo sobrie nel bere vino, hanno l’ubbriachezza del

troppo mangiare. Digiuna quotidianamente, e rifuggi dal mangiare a

sazietà. Non giova a nulla portare lo stomaco vuoto per due, tre o più

giorni, se poi si rimpinza, e si ripaga il digiuno con la sazietà. La mente

sazia si intorpidisce subito, e la terra irrigata germina le spine della

libidine». Il medesimo Santo, scrivendo a Paolino (120), dice: «Cibati con

cose vili, e verso sera tuo cibo siano verdure e legumi; talvolta aggiungi

qualche pesciolino, per somma delizia. Chi desidera Cristo e si ciba di quel

pane, non cerca con tanta accuratezza la preziosità dei cibi. Qualunque

cosa che dopo mangiata più non si sente, sia tuo cibo, come il pane ed i

legumi».

Gli Apostoli si astenevano comunemente dalla carne e dal vino


70. II. Paolo digiunava di frequente, come egli stesso asserisce (2 Corinti

11, 27). Si asteneva dalle delizie del vino e della carne. Difatti, come

scrive san Girolamo a Nepoziano (121): «Il più duro digiuno è acqua e

pane; ma perché non ha gloria alcuna, dato che tutti viviamo di pane e di

acqua, diventa una cosa pubblica e comune, e non è creduta un digiuno».

Lo stesso, ad Eliodoro (122): «Nepoziano, dice, temperava secondo la

stanchezza e le forze i digiuni, come fa l’auriga». E, a Rustico (123): «I

digiuni siano moderati, dice, onde non abbiano ad indebolire troppo lo

stomaco, e le esigenze poi di maggior cibo non portino ad indigestioni, che

sono parenti della libidine. Poco e temperato cibo è utile al corpo ed

all’anima».

Lo stesso facevano gli altri Apostoli, se non dovevano partecipare a

qualche banchetto, per invito di altri. In tal caso, per lo stesso comando di

Cristo, mangiavano tutto quello che veniva loro offerto: ciò facevano per

urbanità, per evitare le singolarità, e per non essere molesti a chi li

ospitava.

E’ chiaro l’esempio di Timoteo, al quale Paolo scrisse: «Non continuare a

bere soltanto acqua, ma fa uso d’un po’di vino, a causa del tuo stomaco e

delle tue frequenti malattie» (l Timoteo 5, 23). Altro esempio ci viene dal

voto del nazareato, fatto da Paolo (Cfr.: Atti 21, 26), e soddisfatto subito il

giorno dopo. I Nazarei si astenevano dal vino, dalla sicera e da altre

golosità. «Se dunque, scrive, un cibo serve di scandalo al mio fratello, non

mangerò carne in eterno» (l Corinti 8, 13). E: «Bene è non mangiar carne e

non bere vino» (Romani 14, 21). Quello che Paolo consigliava agli altri,

praticava lui stesso.

Anche san Pietro, secondo la testimonianza di san Gregorio Nazianzeno

(De cura pauperum) campicchiava di lupini. Così san Giacomo, cugino del

Signore, si astenne dalla carne, dal vino e dalla sicera, e visse di pane ed

acqua. Così scrive il Baronio nei suoi Annali (all’anno 36 dopo Cristo),

seguendo Eusebio (124), Niceforo (125) ed altri. Così anche scrivono altri

nella Vita dello stesso san Giacomo. Clemente Alessandrino (126)

asserisce che san Matteo si astenne dalle carni. Il motivo è che gli Apostoli

dovevano dare esempio di sobrietà e di ogni virtù a tutta la Chiesa, ad ogni

stato di persone, e per tutti i secoli; essi erano dati al mondo come

esemplari di santità, di perfezione e di vita celeste, alla quale dovevano

incitare tutti con la parola ma assai più con l’esempio. Sarebbe cosa

veramente grottesca che un rimpinzato esortasse gli altri al digiuno, uno

soddisfatto all’astinenza, un incestuoso alla castità, uno pieno di vino a

bere acqua.

San Francesco Saverio, l’apostolo dell’India, si asteneva dal vino e dalla

carne; eccetto quando era ospite di qualcheduno, si cibava una volta sola al

giorno, e con cibi volgari e scarsi, e neanche satollava la fame col pane,

scrive Tursilio nella di lui Vita (Lib. 6, c. 7). Possidio (127) scrive che

sant’Agostino, Vescovo di Ippona, «usava una mensa frugale e parca;

qualche volta univa alla verdura ad ai legumi, anche della carne, per

riguardo ad ospiti, o ad infermi».



71. III. Paolo era parco nel dormire, e passava gran parte della notte

vegliando, sia pregando, sia lavorando, sia curando con sollecitudine la

salute di tutte le Chiese. Egli stesso confessò di aver vissuto in molte

vigilie (Cfr. 2 Corinti 11, 27).

La vigilanza è una virtù propria del pastore che deve vigilare il suo gregge.

Pertanto sembra poco conforme a verità quella distribuzione di tempo e di

ore che alcuni assegnano a san Paolo come fa la Glossa (ML 114, 462)

sugli Atti (19, 9), citando, Beda (ma ciò non si trova in Beda): «Alcuni

dicono, scrive, che Paolo protraesse le dispute dall’ora quinta fino all’ora

nona e decima; così che impiegava cinque ore nel fabbricare i tappeti,

altre cinque nell’insegnamento, due nel prender cibo e nel fare orazione».

Aggiunge però: «Nessuna autorità conferma ciò», e giustamente, dicono

Ugo e Lorino, nel medesimo luogo. Che cosa faceva Paolo nelle altre

rimanenti dodici ore del giorno? Certamente non le passava nel letto, ma

dopo un breve riposo attendeva alla preghiera ed al lavoro. Difatti a

mezzanotte fu trovato nel carcere pregante (Cfr. Atti 16, 25). Con verità

scrive san Girolamo (128) ad Eustochio: «Il sonno stesso è preghiera per i

santi. Sii una cicala notturna: salmeggia in ispirito, salmeggia anche con la

mente; lava durante la notte il tuo letto, bagna il tuo giaciglio con le tue

lacrime».

Paolo vittima di castità

72. IV. Paolo fu di castità angelica. Visse celibe, anzi vergine, per tutta la

vita. E proponendo ai fedeli il consiglio della verginità e della castità

evangelica, diceva: «Voglio, (vorrei, bramerei) che voi foste qual son io»

(l Corinti 7, 7). Così dice sant’Ambrogio (129) commentando questo

passo, san Girolamo (130) ed altri qua e là.

Paolo fece mirabili progressi nella castità, mediante una continua lotta

contro lo stimolo della carne, comprimendolo e soggiogandolo (131) senza

interruzione (Cfr. 2 Corinti 12, 7).

Conversava con le giovanette e le matrone come un angelo, e le conduceva

non solo alla fede, ma anche alla castità. Strappò le drude da Nerone,

inducendole alla castità; per questo venne ucciso da Nerone, e divenne

vittima di castità, come insegna san G. Crisostomo (132).

Fuggiva le donne

73. V.   Paolo, sebbene avesse il dono della castità, e giustamente fosse da

Dio confermato in essa e nella grazia, tuttavia, non solo si studiava di

evitare le tentazioni ed i pericoli, ma anche macerava severamente la sua

carne e la castigava austeramente (133). Senza di che è difficile, e quasi

impossibile conservare la castità, come asseriva san Carlo Borromeo. Non

volle per questo essere accompagnato da pie donne che lo sostentassero:

«Non abbiamo diritto di portare con noi una donna sorella, dice, come

fanno gli altri Apostoli?»; «io però non ho mai fatto uso di uno di questi

diritti» (1 Corinti 9, 5. 15).

A santa Tecla, che pendeva dal suo labbro e lo voleva seguire, Paolo lo

proibì, e la rimandò a casa sua; così è scritto nella Vita di santa Tecla.

Ugualmente fece con altre; appena le aveva convertite, andava altrove, e le

lasciava dietro.

Dalla frequente conversazione con donne, anche pie e devote, sorge un

grave pericolo per la castità e per la buona fama. Leggasi quanto scrive san

Cipriano (134).

San Francesco Saverio, ancorché fosse un uomo celeste, «non mai parlò

con una donna, se non al chiaro ed in presenza di testimoni, anche se si

trattava di cose necessarie; persuaso che le visite a donne sono più di

pericolo che di utilità»; così scrive Turselio, nella di lui Vita (Lib, 6, c. 6).

San Girolamo (135) prescrive al chierico Nepoziano le seguenti cautele:

«Mai, o ben di rado, i piedi di una donna calpestino il pavimento della tua

cameretta; o ignora nello stesso modo tutte le fanciulle e le vergini di

Cristo, o amale tutte egualmente. Non fare frequenti soggiorni sotto lo

stesso tetto; non fare affidamento sulla castità della vita passata. Non puoi

essere né più santo di Davide, né più forte di Sansone, né più sapiente di

Salomone. Ricordati sempre che la donna [non la madre di Abele] cacciò il colono del paradiso dai suoi possedimenti».

Lo stesso Santo scrive a Rustico (136): «Quando vai a trovare la madre, fa

in modo di non essere costretto a vedere altre donne, perché la loro

fisionomia non aderisca al tuo cuore, e una occulta ferita resti viva nel tuo

petto. Sappi che le serve che sono ad essa di ossequio sono per te di

insidia; poiché quanto più è vile la loro condizione, altrettanto è più facile

la rovina. Giovanni Battista ebbe una santa madre, ed un pontefice per

padre, tuttavia né l’affetto della madre, né l’opulenza del padre lo

persuasero a vivere nella casa paterna, con pericolo per la castità. Viveva

nell’eremo, e quegli occhi che anelavano a Cristo non si degnavano di

guardare altra cosa. Le rudi vesti, la cintura di pelle, le locuste ed il miele

selvatico come cibo, tutto contribuiva a fomentare la virtù e la castità. Per

tutto il tempo che rimani a casa, ritieni la tua cella come un paradiso;

raccogli i vari frutti della Scrittura; usa di tali delizie. Se l’occhio, il piede,

la mano ti sono di scandalo, tagliali via. Non risparmiare nessuno, onde

solamente risparmiare l’anima», ecc. «Il vaso di elezione, nella cui bocca

risuonava Cristo, macera il suo corpo, e lo riduce in servitù; e tuttavia vede

che il naturale ardore della carne ripugna alla sua mente; ed è sforzato a

fare ciò che non vuole, e come un violentato grida e dice: Oh, infelice

uomo ch’io sono! Chi mi libererà da questo corpo di morte? E tu crederai

di potertela svignare senza cadute né ferite, anche senza custodire bene il

tuo cuore, e ripetere col Salvatore: Quelli che fanno la volontà del Padre

mio sono mia madre e miei fratelli? Questa crudeltà (verso i parenti) è vera

pietà», ecc. «La città è per me una prigione, la solitudine è per me un

paradiso». E più sotto: «Voglio che tu non dimori con la madre, per non

avvicinare l’olio al fuoco, e per non vedere nel giorno, nel via vai delle

fanciulle, ciò cui penserai poi la notte».


Possidio (137) scrive di sant’Agostino: «Nessuna donna abitò mai nella

sua casa, nessuna vi rimase, neppure sua sorella germana; la quale, rimasta

vedova, servì a Dio per molto tempo e visse, fino al giorno della sua

morte, in qualità di superiora delle serve di Dio; né le figlie dello zio, né le

figlie del fratello, che servivano pure a Dio». E ne dà subito la

spiegazione: «Non devono mai le donne rimanere in una medesima casa

coi servi di Dio, anche castissimi, per non dare scandalo o motivo di male,

con tale esempio, ai più deboli. Se per caso veniva chiamato da qualche

donna per una visita o per saluto, non entrava mai da esse senza avere con

sé dei chierici come testimoni. Non si fermò mai a parlare da solo con

donne sole, eccetto si fosse trattato di qualche cosa segreta».

((( Alla chiusura di questi tempi malvagi la Parola creatrice di Dio opererà l'inimmaginabile per il riscatto e il rinnovamento  della vita su questa Terra)))


AMDG et DVM


AVE MARIA PURISSIMA!

"VADO A CANTARE IL MATTUTINO IN CIELO!"

  

SAN GIOVANNI DELLA CROCE

1542 - 1591

Dottore della Chiesa

Padre Riformatore dei Carmelitani Scalzi

Patrono della Provincia Veneta dei Carmelitani Scalzi

 Solennità, 14 dicembre [dal 24 nov.]

 

La nascita

99473184copiSan Giovanni della CroceS. Giovanni della Croce, universalmente conosciuto come “Dottore mistico”nacque nel 1542 a Fontiveros, una cittadina della Castiglia. Già la tenera vicenda umana dei suoi genitori fu per Giovanni quasi un presagio: il papà, Gonzalo de Yepes, di nobile origine toledana, aveva sposato, contro la volontà dei suoi ricchi parenti, Caterina Alvarez, una povera tessitrice, di cui s’era innamorato. 

Era stato diseredato e, così, era stata Caterina a doverlo accogliere nella sua umile casetta e ad insegnargli il mestiere di tessitore. Erano nati tre bambini, ma il papà li aveva lasciati troppo presto, vittima di una epidemia mortale. Anche uno dei bambini morì di stenti. Giovanni, il più piccolo – che porterà per tutta la vita i segni della denutrizione patita – fu ospitato in un collegio per orfani, dove gli fu almeno concesso di studiare. Contemporaneamente, per mantenersi, faceva l’inserviente in un ospedale per sifilitici a Medina del Campo. Una infanzia “infelice”, si direbbe, e una adolescenza aggravata dagli stenti. E invece, proprio dal clima povero, ma dolce e intenso, che respirò in famiglia, Giovanni trasse quella certezza che avrebbe rischiarato tutta la sua esistenza: comprese, cioè, che la vita può essere una sublime avventura d’amore, benché sia così spesso impregnata di sofferenze. Pur senza disprezzare l’amore umano, egli si sentiva inclinato a scoprire le meraviglie dell’amore che Cristo ha rivelato e promesso a chi Lo segue.

L’ingresso in convento

49807092copiUniversità di Salamanca (Spagna)

A 21 anni chiese, dunque, di entrare nel convento carmelitano di Medina, iniziandovi gli studi che l’avrebbero condotto fino al sacerdozio. Poté così frequentare la prestigiosa Università di Salamanca. Lo studio affascinava la sua intelligenza acuta e argomentativa, mentre la preghiera e l’ascesi lo affinavano interiormente e fisicamente. A tale scopo aveva scelto per sè una cella piccola e buia, solo perché aveva una finestrella che guardava sul presbiterio della Chiesa: là passava lunghe ore, assorto nella contemplazione del tabernacolo.

Quando fu ordinato sacerdote, aveva quasi deciso di dedicarsi a una forma di vita ancora più austera e solitaria (quella dei Certosini), ma fu proprio in occasione della sua Prima Messa, celebrata a Medina, che gli accadde di incontrare Santa Teresa d’Avila. Fu lei, col prestigio della sua santità e della sua maturità, a coinvolgerlo nella sua missione di Riformatrice dell’antico Ordine Carmelitano.

Fu Teresa stessa a tagliare e cucire per lui un umile abito di lana grezza, e ad aiutarlo nella prima organizzazione di un poverissimo conventino a Durvelo, tra un gruppetto di case coloniche, sperduto nella campagna. Qui cominciò la storia dei primi “carmelitani scalzi” (cioè “riformati”), che vivevano in una solitudine quasi eremitica, interrompendo la preghiera solo per prendere un po’ di cibo e per andare nelle borgate vicine a predicare ai contadini, privi di ogni assistenza religiosa. Ma Giovanni non poté restare a lungo in quella beata solitudine. Presto fu necessario fondare altri conventi (e a lui veniva sempre affidato l’incarico di educatore dei giovani religiosi).

 

Alla scuola di Teresa d’Avila

Poi Teresa lo volle con sé ad Avila, per farsi aiutare nella formazione delle monache, di cui era priora. Ma l’attività dei due Riformatori non era ben vista da tanti altri frati e monache che si ritenevano quasi offesi dalla loro azione, e c’era chi li accusava di ribellione e di disobbedienza ai Superiori dell’Ordine. Allora le comunicazioni erano difficili e le notizie tendenziose si diffondevano facilmente. Così proprio il mite ed umile Giovanni della Croce fu accusato ingiustamente d’essere un ribelle e “incarcerato” nel grande convento di Toledo, dove fu rinchiuso in un bugigattolo umido e buio. Vi restò quasi nove mesi: trattato a pane e acqua, con una sola tonaca che gli marciva addosso, mentre i pidocchi lo divoravano e la febbre lo consumava. Ma in quella terribile “notte oscura” Dio lo avvolse di luce e di amore.

 

Scrittore mistico e teologo

San Giovanni della CroceSan Giovanni della Croce (disegno a matita)

Dal cuore straziato di Giovanni della Croce nacquero, così, le più calde e luminose poesie d’amore che siano mai state scritte in lingua spagnola. Egli le componeva a memoria, per esprimere il grido dell’anima che cerca Dio, come una fidanzata cerca il suo Amato, dal quale si è sentita improvvisamente abbandonata. Nella notte del carcere, lungo quei terribili mesi, Giovanni iniziò così il suo cammino verso il cuore della Sacra Scrittura, dove si trova incastonato il Cantico dei Cantici: la parola d’amore che Dio ha rivelato al suo popolo e alla sua Chiesa. Anche il nostro prigioniero compose, dunque, il suo Cantico Spirituale: quasi un commento poetico del testo biblico, ricreato con ricchezza di immagini, di colori, di suoni, di paesaggi, di ricordi, di appassionate invocazioni. 

Quando, dopo nove mesi, riuscì a fuggire dal carcere, portò con sé un quadernetto dove aveva trascritto quei versi che l’avevano aiutato a credere, a sperare, e ad amare… Passò gli anni successivi, ricoprendo quasi sempre l’ufficio di Superiore, generalmente amato e stimato, anche se tenuto un po’ in secondo piano, ricercato da coloro che volevano essere guidati nel cammino verso Dio. A loro (soprattutto alle monache, ma anche a dei laici), Giovanni della Croce spiegava le esigenze ardenti dell’amore di Dio, e lo faceva con lo stile che aveva imparato in prigione: scrivendo delle poesie e commentandole, rifacendosi continuamente agli insegnamenti della Sacra Scrittura e alla sua personalissima esperienza. «L’anima innamorata – insegnava Giovanni – è un’anima dolce, mite, umile e paziente». A tutti egli ricordava che «un pensiero dell’uomo vale più del mondo intero e perciò soltanto Dio ne è degno!». Insegnava con decisione l’esigente cammino della “nuda fede” che non vuole null’altro se non Dio. Soprattutto i monasteri fondati da Teresa si protendevano connaturalmente ad accogliere e desiderare la guida di Giovanni della Croce e alle anime contemplative egli ripeteva le sue bellissime poesie (e ne componeva di nuove) e poi tentava di darne una spiegazione, un commento, utilizzando tutta la teologia che aveva studiato, (e Giovanni aveva un’intelligenza e una forza argomentativa straordinarie) nel tentativo di spiegare l’indicibile. Al Cantico spirituale si aggiunsero prima la Notte oscura, poi la Fiamma viva d’Amore, con i relativi commenti, che lasciò quasi tutti incompleti. Sul finire della vita si trovò nuovamente avvolto dalle tenebre della sofferenza e dell’abbandono. Non tutti riuscivano a capire quella sua incredibile dolcezza pur mescolata a tanta inflessibilità, quando ne andavano di mezzo i diritti di Dio e il rispetto dovuto alla verità. Così qualcuno si spinse fino a calunniarlo, nel tentativo di screditarlo presso i superiori. Ad una monaca che voleva prendere le sue difese, Giovanni disse: «Non pensi ad altro se non che tutto è disposto da Dio. E dove non c’è amore, metta amore e ne riceverà amore».

Proprio in quei tristi anni egli stava commentando la sua ultima opera, quella Fiamma viva d’Amore, che è tutto un divampare di carità. Nonostante le sofferenze fisiche e morali in cui era immerso, egli poteva cantare l’amore di Dio e per Dio, divenuto un possesso totale e ardente e descrivere, per esperienza, l’abbraccio di amore più intenso che sia possibile in questa terra, quando solo un ultimo, leggerissimo velo che sta per lacerarsi separa la creatura dalla vita eterna.

La morte

Il Crocifisso e S. GiovanniIl Crocifisso e S. GiovanniA 49 anni si ammalò gravemente: nel collo del piede gli si aprì una piaga tumorale che non si riusciva a curare. Giovanni visse la sua malattia nel desiderio di diventare sempre più simile al suo Signore Crocifisso. L’immedesimazione era così piena che egli arrivava a commuoversi, durante le medicazioni, nel guardare il suo povero piede piagato, perché gli sembrava di vedere quello trafitto di Cristo. Intanto la morte si avvicinava: nella tarda sera del 13 dicembre 1591, quando i confratelli riuniti attorno al suo letto iniziarono le preghiere per gli agonizzanti, Giovanni chiese che le interrompessero e disse: «Non ho bisogno di questo. Leggetemi qualcosa del Cantico dei Cantici». E mentre quei versetti d’amore risuonavano nella cella del morente, egli sembrava incantato e sospirò: «Che perle preziose!». Poi sentì suonare le campane di mezzanotte e disse: «Vado a cantare il Mattutino in cielo».

di P. Antonio Maria Sicari ocd


"Multae tribulationes iustorum", cioè: 

Molte sono le sventure dei giusti, 

ma li libera da tutte il Signore 

(Sal 33,20).


"Cantico spirituale" (A): di San Giovanni della Croce: tra i libri più belli del mondo

http://www.cristinacampo.it/public/san%20giovanni%20della%20croce,%20cantico%20spirituale.%20testo%20integrale.pdf



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