giovedì 3 dicembre 2020

LA VIA CRUCIS CON ALEXANDRINA MARIA DA COSTA

 LA VIA CRUCIS CON ALEXANDRINA MARIA DA COSTA

 PRIMA STAZIONE: Gesù è condannato a morte. "Pilato lo diede nelle loro mani perché fosse crocifisso; presero dunque Gesù e lo condussero via" (Gv 19,16). Vedo e odo la grande moltitudine che a una voce senza pietà per me grida chiedendo la mia crocifissione. Le mie orecchie odono scandire: Muoia! Muoia! Sia crocifisso! Muoia! Sia crocifisso! Quali urla, quelle della folla! Ricevo la sentenza di morte. Gloria al Padre.

SECONDA STAZIONE: Gesù è caricato della croce. "Ed egli, portando su di sé la croce, uscì verso il luogo detto Cranio, in ebraico Golgota" (Gv 19,17). E' tale il peso che mi sento sprofondare sotto terra. Non porto solo la croce, ma il mondo intero: pochi amici, quasi solo nemici, quasi solo nemici! Gloria al Padre.

TERZA STAZIONE: Gesù cade per la prima volta. "Guardai attorno e nessuno che mi aiutasse; attesi ansioso e nessuno che mi sostenesse" (Is 63,5).  Cado sotto il peso della croce. Mi sembra di perdere la vita. Perderla per dare la vita a tutti mi dà tanta forza: riprendo a camminare. Gloria al Padre.

 QUARTA STAZIONE: Gesù incontra sua Madre. "Gesù vide la Madre lì presente" (GV 19,26). Mi viene incontro la mamma, ci guardiamo intensamente. Io cammino sempre. Con me ella pure cammina, guidata dal mio sguardo che le ha ferito il cuore e l'anima... Non trascino solo la croce, ma anche il dolore di lei. Gloria al Padre.

QUINTA STAZIONE: Gesù è aiutato dal Cireneo. "Or mentre lo conducevano al patibolo, presero un certo Simone di Cirene e gli posero addosso la Croce" (Lc 23,26). Ad ogni passo mi sembra di spirare. Vogliono qualcuno che porti la Croce. C'è chi la porta, non per amore, ma forzato. Ma io gli dispenso tanto amore. Mi viene tolta la Croce, ma io sento come se ne portassi il peso. Gloria al Padre.   

 SESTA STAZIONE: La Veronica asciuga il Volto di Cristo. "In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno dei più piccoli, l'avete fatta a me" (Mt 25,40). Mi viene incontro una donna che ha compassione del mio dolore. Con quale delicatezza e amore mi pulisce il volto intriso di sudore, di sangue, di polvere! Il mio volto e l'amore del mio cuore restano impressi nella tela. Gloria al Padre.

 SETTIMA STAZIONE: Gesù cade per la seconda volta. "Consegnò la sua vita alla morte, e fu annoverato tra i malfattori" (Is 52,12). A metà del cammino grave è la caduta. Le labbra mi si aprono sanguinanti e baciano la terra che, ingrata, mi ferisce. Gli sguardi dell'anima mia si estendono sull'umanità. Gloria al Padre.

OTTAVA STAZIONE: Gesù parla alle donne piangenti. "Figlie di Gerusalemme, non piangete per me, ma piangete per voi stesse e per i vostri figli" (Lc 23,28). Mi seguono alcune donne. Piangono amaramente. Le guardo con compassione e mormoro loro: "Non piangete per me, ma per voi. Le vostre colpe sono la causa dei miei dolori". Gloria al Padre.

NONA STAZIONE: Gesù cade per la terza volta. "Quasi esanime a terra mi ha ridotto; già mi vanno accerchiando i cani in frotta" (Sal 22,17). E' il mondo, è il cielo contro di me: cado. Di nuovo il furore degli aguzzini mi strascina con forza. Ma dal mio cuore, sgorga solo amore e solo compassione per loro. Gloria al Padre.

 DECIMA STAZIONE: Gesù viene spogliato delle vesti. "Divisero le sue vesti, tirarono a sorte la sua veste per sapere a chi di loro dovesse toccare" (Mt 15,24). Mi spogliano con tanta furia da strapparmi brandelli di carne: quali dolori violenti! Esser spogliato in pubblico! Sono molte le risate di scherno! La mamma vuole coprirmi col suo manto. Gloria al Padre.

UNDICESIMA STAZIONE: Gesù viene crocifisso. "Fu crocifisso insieme ai malfattori, uno alla sua destra e uno alla sua sinistra" (Lc 23,33). Mi distendono sulla Croce. Porgo io mani e piedi per essere crocifisso. E' un abbraccio eterno alla Croce, all'opera della redenzione. Gloria al Padrte.

 DODICESIMA STAZIONE: Gesù muore sulla Croce. "Quando Gesù ebbe preso l'aceto esclamò: Tutto è compiuto! Poi, chinato il capo, rese lo spirito" (Gv 19,30). Si fa buio sul Calvario. "Padre, pedona loro, che non sanno ciò che fanno". "Padre, Padre mio, persino Tu mi hai abbandonato? !" "Figli miei, ho sete di voi!""Madre mia, accetta il mondo, è tuo: è figlio del mio sangue, è figlio del tuo dolore". "Tutto è compiuto" "Padre, a te consegno il mio spirito, è per te il mio ultimo sospiro". Gloria al Padre.

TREDICESIMA STAZIONE: Gesù viene deposto dalla Croce. "E Giuseppe d'Arimatea prese il corpo e lo avvolse in un bianco lenzuolo" (Mt 27,59). La Madre, con Gesù morto tra le braccia! L'amore portò Gesù a dare la vita. La Mamma continua la missione, la stessa missione d'amore: amare noi come Gesù. Gloria al Padre.

 QUATTORDICESIMA STAZIONE: Gesù viene deposto nel sepolcro. "Giuseppe lo mise in un sepolcro scavato nella pietra, dove nessuno ancora era stato messo" (Lc 23,53). L'amore unito alla grazia, unito alla vita divina, trionfò sul dolore e sulla morte. Fu un essere umano che soffrì, una vita divina che vinse. Gloria al Padre. Preghiamo: sopra il popolo che ha commemorato la morte di Cristo tuo Figlio, nella speranza di risorgere con lui, scenda, Signore, l'abbondanza dei tuoi doni: venga il perdono e la consolazione, si accresca la fede e l'intima certezza della redenzione eterna. Per Cristo nostro Signore. Amen.  Preghiamo anche per le intenzioni del Papa: Pater, Ave, Gloria. AMDG et DVM

Chiesa e post concilio: “Non sono vaccini, ma modificatori genetici”



Chiesa e post concilio: “Non sono vaccini, ma modificatori genetici”
: Sostanzialmente da quel che leggiamo in questi giorni c'è il rischio che impongano il vaccino senza adeguata sperimentazione, mentre qu...

mercoledì 2 dicembre 2020

LO STATO SACERDOTALE - da VITA SACERDOTALE di Claudio Arvisenet


Un cammino ardimentoso



Un cammino ardimentoso

Un cammino ardimentoso. La mattina in cui, salutata la famiglia e... Montà d'Alba, Francescuccio infilava la strada per Torino aveva nove anni, ed è probabile che la simpatia per i libri e un pizzico di entusiasmo per la novità della cosa impedissero al ragazzo di rendersi conto sia del distacco che dei sacrifici che l'attendevano. Un senso di vuoto lo prese quando si trovò in mezzo a tante facce nuove, che gli nascondevano per così dire i volti cari di papà e mamma... La lontananza dalla sua casa gli parve incolmabile: chi avrebbe mai potuto sostituire quelle persone? Riuscì ad inghiottire non poche lacrime, ma alla prima visita della mamma esplose in un pianto così irrefrenabile che la buona Teresa si credette in dovere di riportarlo con sé a Montà. Per certi pesi, pensò, ci vogliono spalle più mature. E confidò nel buon Dio. 

In casa e tra i vicini quel ritorno non convinceva. Il meno convinto di tutti era proprio lui, il protagonista della fuga; e appena qualche giorno dopo sbottò in famiglia: + Se volete, vado in collegio, sono pronto! Nessuno fece le meraviglie, quasi tutti fossero stati lì col fiato sospeso, in attesa. + Mamma, tu lo sai: voglio studiare per fare il prete. – Francesco, te l'avevo detto che stavi scegliendo una strada delle più difficili; non te lo ricordi? + Sì, è vero, verissimo; e per questo voglio ritornare. Papà Lorenzo non ebbe nulla da ridire; e... si ripartì alla volta di Torino. Non a caso abbiamo ricordato che in quel turno di tempo il Chiesa aveva ricevuto il sacramento della Cresima, che comunica i doni del Paraclito divino al battezzato, affinché sia reso forte della fortezza del Signore e possa far onore al nome di cristiano ogni qualvolta il Maligno, o le male voglie, o il mondo dei cattivi, mettessero a dura prova la fedeltà al dono di Dio. 

Una sottolineatura, questa, che dovremo ripetere altre volte, ammirando il resistere e il perseverare e il ricominciare senza indugio del chierico Francesco, fatto prete, insegnante, parroco e canonico... in ogni situazione votato alla santità evangelica. Il Maestro aveva detto: «Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi si volge indietro, è adatto per il regno di Dio» (Lc 9, 62); e poco oltre: «Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito Santo a coloro che glielo chiedono!» (Lc 11, 13). 

Degli anni passati nel collegio di don Pavia rende testimonianza un maresciallo maggiore degli Alpini, certo cav. Nizza Giuseppe, che ricorda con commozione quanto fosse aperto alla preghiera l'amico. «Conobbi il Servo di Dio fin dall'infanzia: siamo venuti a Torino insieme nel collegio di don Pavia e siamo rimasti per circa tre anni. Mi ha lasciato l'impressione di un santo compagno sempre pronto a dividere con me qualunque cosa ricevesse da casa. Amava soffermarsi in chiesa: invitato ad uscire per prendere un po' d'aria buona, egli usciva con noi in cortile e poi rientrava tosto in chiesa. Non l'ho mai visto in lite con i compagni e quando succedevano screzi tra di noi egli metteva tosto la pace. Era sempre ossequiente e rispettoso verso i superiori. Svolgeva l'ufficio di padre spirituale il can. Richelmy, che fu poi vescovo di Ivrea e cardinale di Torino. Egli amava il Chiesa di un amore speciale e so che il Servo di Dio lo seguiva con particolare venerazione. 

Si distingueva tra tutti i compagni nell'applicazione allo studio...». Altri sacrifici concorsero a irrobustire lo spirito di Francesco, come ad esempio il freddo intenso, il nutrimento scarso, la penuria di testi e di cancelleria...; seppe trar profitto da cattiva sorte, imparò per tempo ad adattarsi e a trovarsi bene all'ultimo posto. Tutto gli servì a stare umile umile, basso basso, malgrado i singolari talenti di cui natura e Grazia lo privilegiavano. 

Fu in questo periodo che Francesco poté conoscere l'Opera di don Bosco e apprendere la devozione a Maria Ausiliatrice; per un'inezia non poté incontrarsi con il Santo venuto in visita al collegio. Egli stava giocando con un compagno che lo dissuase dal correre assieme agli altri a salutare don Bosco: «Che cosa vuoi andare a vedere, un prete vecchio? Stiamo qui». Il Chiesa ne rimase spiaciuto per sempre. Assalito da un'orda di demoni. Non aveva ancora superato il valico della pre-adolescenza quando gli toccò subire una dura prova, una lotta, stando alle parole del Servo di Dio riferite da un teste che ebbe familiarità con lui. Questo il fatto: «Il primo maggio 1933, il Servo di Dio, allora amministratore apostolico della diocesi di Alba, si recava in macchina a Moncalieri; e proprio percorrendo la salita di Montà d'Alba, ai margini della quale si aprono, qua e là, ombrati da canne, sentieri e straducole campestri, il can. Chiesa ad un tratto toccò sulla spalla il confratello che gli era accanto e disse precisamente: ‘Ecco, quello è il posto. Lì, quando avevo otto anni, io fui assalito da un'orda di demoni impuri. Ho lottato, ho pregato, ho pianto, ed ho vinto’. E disse questo come fosse la cosa più naturale del mondo, e si ricompose in quell'abituale silenzio con cui nascondeva le profondità spirituali delle sue mattinate». Fu una battaglia definitiva? C'è chi lo pensa; c'è chi la ritiene come una specie di conversione, uno scatto che lo getta di colpo oltre il valico delle tentazioni proprie dell'età ingrata. Sicuramente quelle righe fanno bene; abbiamo bisogno di santi che, come noi, non sono nati tali, ma lo sono diventati lottando, pregando, gemendo e... riprendendo da capo le mille volte l'arduo sentiero della ascesi. L'apostolo Paolo scrive a Timoteo: «Noi ci affatichiamo e combattiamo perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono» (1 Tm 4, 10). Non stiamo qui a discutere se quella fosse stata una tentazione furiosa e insistente, o un assalto fuori dell'ordinario, o un'impressione immaginosa. 

Un fatto è certo: la sequela di Cristo è esigente, richiede abnegazione, il coraggio dei forti e, talvolta, il rischio dei martiri. E’ ancora l'Apostolo che scrive di sé ai battezzati di Corinto: «Non sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque corro, ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi batte l'aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in schiavitù perché non succeda che dopo aver predicato agli altri, venga io stesso squalificato» (1 Cor 9, 24-27). Fu definitiva quella battaglia? Può darsi che un certo tipo di combattimento possa segnare una rotta decisiva e determinante; ma non sempre è così. Il più delle volte le nostre sono scaramucce, vittorie provvisorie; il nemico il nostro punto dolente o difetto predominante darà filo da torcere anche domani e dopodomani. «E’ necessario attraversare molte tribolazioni per entrare nel regno di Dio» (At 14, 22). Ma se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? (cf. Rm 8, 31). 

Quello che conta, oggi e domani, è di non cedere allo scoraggiamento, come insegna il Siracide: * «Sta' fermo al tuo impegno e fanne la tua vita, invecchia compiendo il tuo lavoro» (Sir 11, 20). Potessimo affermare anche noi quanto leggiamo nella Lettera agli Ebrei: «Non siamo di quelli che indietreggiano a loro perdizione, bensì uomini di fede per la salvezza della nostra anima» (Eb 10, 39). Nel seminario di Alba 7 Al termine dei tre anni passati presso don Pavia, il babbo era deciso di trattenerlo in famiglia: Francesco che la pensava ben diversamente si rivolse alla mamma, ma lei non ottenne nulla; ricorse allora ad una zia paterna perché il padre concedesse il permesso di entrare nel seminario di Alba, e alla fine le due brave donne sfondarono, e il consenso venne. Il Servo di Dio lo attribuiva ad una speciale grazia del Signore, e poteva cantare con gioia: * «Signore, mio padre tu sei e campione della mia salvezza... La mia supplica fu esaudita; tu mi salvasti infatti dalla rovina e mi strappasti da una cattiva situazione. Per questo ti ringrazierò e ti loderò, benedirò il nome del Signore» (Sir 51, 10-12). 

Ancora una volta il parroco, don Giovanni, vi seppe fare la sua parte bellamente; si felicitò con la famiglia e... si affrettò a svolgere le pratiche del caso presso il seminario diocesano; così all'inizio dell'anno scolastico Francesco è nuovamente alle prese con i libri. In quell'oasi di pace tutto era ordinato a puntino perché gli alunni si trovassero a loro agio in ogni senso, intercalando allo studio e alla preghiera le dovute ricreazioni. La monotonia di un orario prestabilito fino ai dettagli, offriva dei vantaggi indubbi: educava all'ordine, alla disciplina, alla costanza, e lasciava spazio allo svago e alla competitività; il tutto studiato e seguito da superiori e insegnanti degni. «Nel momento in cui il giovane Chiesa vi entrò per la prima volta, il seminario albese godeva giustamente di un grande prestigio in tutto il Piemonte e anche presso i Dicasteri romani per la solidità e l'austerità con cui formava il giovane clero diocesano» (L. Rolfo). Qui Francesco vi rimase per dieci anni di studio, per altri diciassette come insegnante, e come tale vi ritornò fino alla morte, alternando alle cure pastorali della parrocchia l'insegnamento ai chierici. 

Don Mosca non ebbe mai a ricredersi della fiducia riposta nel Chiesa, e il seminarista montatese porterà con sé un patrimonio di esempi e di insegnamenti affidatogli dal buon parroco, utilissimo per tutta la vita. Ne parlerà sempre come di un vero pastore d'anime, sottolineando due particolari interessanti: che il parroco aveva saputo educare i fedeli con la continua meditazione dell'Apparecchio alla morte di s. Alfonso M. de' Liguori, tanto che alcuni parrocchiani lo conoscevano a memoria. 

Raccontava inoltre che quando si faceva la festa del paese, a Montà si piantava pure il ballo; don Mosca non parlò mai direttamente contro questo divertimento, ma nella istruzione pomeridiana era solito fare la predica dei Novissimi. Ed era tanta l'impressione della gente, che usciva di chiesa quasi in silenzio, e ben pochi parrocchiani si permettevano di avvicinarsi al ballo.

 A tale formazione `ignaziana' il Servo di Dio attinse per tutta la vita la sua spiritualità e il metodo pastorale. Degli anni trascorsi sui banchi del seminario vi fu chi pronunziò questa sintesi in occasione del XXV di parrocchiato: «Il can. Chiesa da giovane non era di eccezionale ingegno... Ma studiava intensamente e con forte volontà, riuscendo sempre il primo della classe. Noi e i superiori lo ammiravamo per il suo aspetto veramente angelico... Uno studio continuo, metodico e profondo ha dato a lui un patrimonio di dottrina vissuta che io non esito a dire sbalorditivo» (can. G. Pozzetti). 

AMDG et DVM

P. Stefano Igino Silvestrelli

 


Padre Stefano Igino Silvestrelli e la segnaletica dell’abito ecclesiastico

 Padre Stefano Igino Silvestrelli nasce a Porcino (provincia di Verona), piccola frazione della parrocchia di Pazzon nel comune di Caprino Veronese il 1 gennaio 1921 dai genitori Luigi Silvestrelli e Regina Giacomazzi. Don Francesco Silvestrelli fratello del papà tiene con sé nella canonica di Gargagnano di cui è parroco il suo nipotino “Gino” (così verrà sempre chiamato Igino mentre Stefano sarà per i documenti). 

All’età di 5 anni il piccolo si improvvisa un buon predicatore esibendosi con audacia dall’alto pulpito della chiesa parrocchiale. Lo zio lo manderà un quinta elementare dai salesiani di Trento nella loro scuola apostolica. Qui verrà educato allo spirito di don Bosco e ne rimarrà per sempre segnato acquisendo una fede ardente, una gioia contagiosa, un amore grande per la categoria adolescenti che caratterizzerà la sua vita sacerdotale. 

Per ragioni di salute esce dai Salesiani dopo aver quasi concluso il noviziato. Dopo varie peripezie approda al Seminario di Verona e verrà ordinato sacerdote da mons. Girolamo cardinale il 7 luglio 1946. Viceparroco a Bosco Chiesanuova e poi a Bordolino, lascia una traccia indelebile della sua santità in queste parrocchie che poi l’aiuteranno nella Fondazione dell’Opera. 

Il 28 gennaio 1956 Mons. Giovanni Urbani , Vescovo di Verona, darà inizio autorevolmente alla nuova congregazione dei Servi e delle Serve di Nazareth per la salvezza spirituale degli Adolescenti. Il 29 gennaio 1957 padre Igino farà benedire da parte di mons. Urbani una statua dell’angelo custode in bronzo posta a difesa sui tetti appena completati della casa della nuova casa Oasi Sacra Famiglia a Bosco. Negli anni seguenti Padre Igino svilupperà ulteriormente l’Opera aggiungendo i due rami degli Aggregati Sacerdoti e Sposi in cammino. Carico di meriti il fondatore si addormenta nel Signore attorniato dai suoi Figli e Figlie spirituali l8 febbraio 2012, nella Casa di Nazareth di Solane. L’11 febbraio, memoria della Madonna di Lourdes vengono celebrati dal vescovo Mons. Giuseppe Zenti solenni funerali nel duomo di Verona con 153 sacerdoti concelebranti e numerosi fedeli in gran parte giovani. 

Riguardo all’abito ecclesiastico dei sacerdoti e dei religiosi in una delle sue meditazioni intitolata “ Non possiamo tacere” così scriverà: “  sta bene affrontare in questo contesto l’argomento dedicato e stimolante dell’abbigliamento ecclesiastico. Ci introduciamo con una domanda seria e impegnativa: predichiamo noi sacerdoti e religiosi, persone totalmente consacrate al regno di Dio, al vangelo, alla redenzione universale anche con l’abito, segno visibile della nostra appartenenza al Cristo? Se siamo costituiti per essere la rappresentazione e il prolungamento sacramentale di Gesù Cristo buon pastore, capo e sposo della chiesa, se siamo profeti che testimoniano come Gesù ha vissuto su questa terra, non possiamo misconoscere il dono di Dio, svilire la nostra vocazione-missione, nascondere la nostra identità e camuffarci come fedifraghi.

“ Non può restare nascosta una città che sta sopra un monte, né si accende una lampada per metterla sotto il moggio, ma sul candelabro, e così fa la luce a tutti quelli che sono nella casa” ( Mt 5,14-15).

Se la nostra testimonianza si rivela ogni giorno più necessaria, non sarà altrettanto importante e urgente che la nostra persona parli, significhi e illumini anche con la foggia del vestire? Noi siamo noi, per così dire, ufficialmente abilitati e autorevolmente inviati ad annunziare Cristo Gesù? Che cosa potremo offrire alla Chiesa in sostituzione dell’evangelizzazione che va compiuta “ factis et verbis”? Non sempre avremo modo di parlare, ma sempre abbiamo la possibilità di esibire una buona segnaletica di Cristo nello stesso nostro vestito. Accogliamo l’invito materno della Chiesa come risulta dal Codice di diritto Canonico e riluce nel Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri:

“ I chierici portino un abito ecclesiastico decoroso secondo le norme emanate dalla Conferenza Episcopale e secondo le legittime consuetudini locali” ( Codice di diritto canonico, can. 284)”.

“ In una società secolarizzata  e tendenzialmente materialista, dove anche i segni esterni delle realtà sacre e soprannaturali tendono a scomparire, è particolarmente sentita la necessità che il presbitero uomo di Dio, dispensatore dei suoi misteri sia riconoscibile agli occhi della comunità, anche per l’abito che porta come segno inequivocabile della sua dedizione e della sua identità di detentore di un ministero pubblico. 

Il presbitero, ma anche per il suo vestire in modo da rendere immediatamente percepibile ad ogni fedele, anzi ad ogni uomo, la sua identità e la sua appartenenza a Dio e alla Chiesa. L’abito ecclesiastico è il segno esteriore di una realtà interiore: “ infatti, il sacerdote non appartiene più a se stesso, ma, per il sigillo sacramentale ricevuto ( cf. catechismo della Chiesa Cattolica, nn. 1563, 15829), è proprietà di Dio. Questo suo essere di un altro deve diventare riconoscibile da tutti, attraverso una limpida testimonianza. Nel modo di pensare, di parlare, di guidare i fatti del mondo, di servire ed amare, di relazionarsi con le persone, anche nell’abito, il sacerdote deve trarre forza profetica dalla sua appartenenza sacramentale”. 

Indossare l’abito clericale funge inoltre da salvaguardia della povertà e della castità” (CONGREGAZIONE PER IL CLERO, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, 11.II.2013, n. 61). Anche il vestito può richiamare l’attenzione a realtà trascendenti, come una fredda segnaletica può salvare da incidenti mortali.

AMDG et DVM