venerdì 4 gennaio 2019

È "vangelo della fede".

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XXXIV. 
Adorazione dei Magi. È "vangelo della fede". 

   28 febbraio 1944

  1Il mio interno ammonitore mi dice:
 «Chiama queste contemplazioni, che avrai e che ti dirò, “i vangeli della fede”, perché a te e agli altri verranno ad illustrare la potenza della fede e dei suoi frutti e a confermarvi nella fede in Dio».


  2Vedo Betlemme piccola e bianca, raccolta come una chiocciata sotto al lume delle stelle. Due vie principali la tagliano a croce, l’una venendo da oltre il paese, ed è la via maestra che poi prosegue oltre il paese, l’altra andando da un’estremità all’altra dello stesso, ma non oltre. Altre viuzze lo segmentano, questo piccolo paese, senza la più piccola norma di piano stradale come noi lo concepiamo, ma anzi adattandosi al suolo che è a dislivelli ed alle case sorte qua e là, secondo i capricci del suolo e del loro costruttore. Volte quali a destra e quali a manca, chi messa per spigolo, rispetto alla via che le costeggia, obbligano questa ad essere come un nastro che si sgomitola sinuosamente e non un rettilineo che va da qua a là senza deviare. Ogni tanto una piazzetta, sia per un mercato, sia per una fontana, sia perché, costruito qui e là senza regola, è rimasto uno scampolo di suolo sghimbescio su cui non è possibile costruire più nulla.
  Nel punto dove mi pare di sostare particolarmente è proprio una di queste piazzette irregolari. Dovrebbe essere quadrata o quanto meno rettangolare. Invece è venuta un trapezio tanto strano da parere un triangolo acuto smusso nel vertice. Nel lato più lungo — la base del triangolo — vi è un fabbricato largo e basso. Il più largo del paese. Di fuori è un muraglione liscio e nudo, sul quale si aprono appena due portoni, ora ben serrati. Dentro invece, nel suo largo quadrato, si aprono molte finestre al primo piano, mentre sotto vi sono porticati che cingono cortili sparsi di paglia e detriti, con delle vasche per abbeverare cavalli e altri animali. Alle rustiche colonne dei portici sono anelli per tenere legate le bestie, e su un lato vi è una vasta tettoia per ricoverare mandre e cavalcature. Comprendo che è l’albergo di Betlemme.
  Sugli altri due lati uguali sono case e casette, quali precedute e quali no da un poco d’orto, perché fra esse vi è quella che è con la facciata sulla piazza, e quella col retro della casa sulla piazza. Sull’altro lato più stretto, fronteggiante il caravanserraglio, un’unica casetta dalla scaletta esterna che entra a metà facciata nelle camere del piano abitato. Sono tutte chiuse perché è notte. Non vi è nessuno per le vie, data l’ora.

  3Vedo aumentare la luce notturna piovente dal cielo pieno di stelle, così belle nel cielo orientale, così vive e grandi che paiono vicine e che sia facile raggiungerle e toccare quei fiori splendenti nel velluto del firmamento. Alzo lo sguardo per comprendere la fonte di questo aumento di luce. Una stella, di insolita grandezza che la fa parere una piccola luna, si avanza nel cielo di Betlemme. E le altre paiono eclissarsi e farle largo come ancelle al passare della regina, tanto il suo splendore le soverchia e annulla. Dal globo, che pare un enorme zaffiro pallido, acceso internamente da un sole, parte una scia nella quale, al predominante colore dello zaffiro chiaro, si fondono i biondi dei topazi, i verdi degli smeraldi, gli opalescenti degli opali, i sanguigni bagliori dei rubini e i dolci scintillii delle ametiste. Tutte le pietre preziose della Terra sono in quella scia, che spazza il cielo con un moto veloce e ondulante come fosse viva. Ma il colore che predomina è quello piovente dal globo della stella: il paradisiaco colore di pallido zaffiro che scende a fare di argento azzurro le case, le vie, il suolo di Betlemme, culla del Salvatore. Non è più la povera città, per noi meno di un paese rurale. È una fantastica città di fiaba in cui tutto è d’argento. E l’acqua delle fonti e delle vasche è di liquido diamante.
  Con un più vivo raggiare di splendori la stella si ferma sulla piccola casa che è sul lato più stretto della piazzetta. Né i suoi abitanti, né i betlemmiti la vedono, perché dormono nelle chiuse case, ma essa accelera i suoi palpiti di luce, e la sua coda vibra e ondeggia più forte tracciando quasi dei semicerchi nel cielo, che si accende tutto per questa rete d’astri che essa trascina, per questa rete piena di preziosi che splendono tingendo dei più vaghi colori le altre stelle, quasi a comunicare loro una parola di gioia.
  La casetta è tutta bagnata da questo fuoco liquido di gemme. Il tetto della breve terrazza, la scaletta di pietra scura, la piccola porta, tutto è come un blocco di puro argento sparso di polvere di diamanti e perle. Nessuna reggia della Terra ha mai avuto od avrà una scala simile a questa, fatta per ricevere il passo degli angeli, fatta per esser usata dalla Madre che è Madre di Dio. I suoi piccoli piedi di Vergine Immacolata possono posarsi su quel candido splendore, i suoi piccoli piedi destinati a posarsi sui gradini del trono di Dio. Ma la Vergine non sa. Essa veglia presso la cuna del Figlio e prega. Nell’anima ha splendori che superano gli splendori di cui la stella decora le cose.

   4Dalla via maestra si avanza una cavalcata. Cavalli bardati ed altri condotti a mano, dromedari e cammelli cavalcati o portanti il loro carico. Il suono degli zoccoli fa un rumore di acqua che frusci e schiaffeggi le pietre di un torrente. Giunti sulla piazza, tutti si fermano. La cavalcata, sotto il raggio della stella, è fantastica di splendore. I finimenti delle ricchissime cavalcature, gli abiti dei loro cavalcatori, i volti, i bagagli, tutto splende unendo e ravvivando il suo splendore di metallo, di cuoio, di seta, di gemma, di pelame, al brillio stellare. E gli occhi raggiano e ridono le bocche, perché un altro splendore si è acceso nei cuori, quello di una gioia soprannaturale.
  Mentre i servi si avviano verso il caravanserraglio con gli animali, tre della carovana smontano dalle rispettive cavalcature, che un servo subito conduce altrove, e a piedi vanno verso la casa. E si prostrano, fronte a terra, a baciare la polvere. Sono tre potenti. Lo dicono le vesti ricchissime. Uno, di pelle molto scura, sceso da un cammello, si avvolge tutto in uno sciamma di candida seta splendente, stretto alla fronte ed alla vita da un cerchio prezioso, da cui pende un pugnale o una spada dall’elsa tempestata di gemme. Gli altri, scesi da due splendidi cavalli, sono vestiti l’uno di una stoffa rigata, bellissima, in cui predomina il color giallo, fatto quest’abito come un lungo domino ornato di cappuccio e di cordone, che paiono un sol lavoro di filigrana d’oro tanto sono trapunti di ricami in oro. Il terzo ha una camicia setosa, che sbuffa da larghe e lunghe brache strette al piede, e si avvolge in uno scialle finissimo, che pare un giardino fiorito tanto sono vivi i fiori che lo decorano tutto. In testa ha un turbante trattenuto da una catenella tutta a castoni di diamanti.
  Dopo avere venerato la casa dove è il Salvatore, si rialzano e vanno al caravanserraglio, dove i servi hanno bussato e fatto aprire.
  E qui cessa la visione. 

  5Che riprende, tre ore dopo, con la scena dell’adorazione dei Magi a Gesù.
  È giorno, ora. Un bel sole splende nel cielo pomeridiano. Un servo dei tre traversa la piazza e sale la scaletta della piccola casa. Entra. Esce. Torna all’albergo.
  Escono i tre Savi, seguiti ognuno dal proprio servo. Traversano la piazza. I rari passanti si volgono a guardare i pomposi personaggi che passano molto lentamente, con solennità. Fra l’entrata del servo e quella dei tre è passato un buon quarto d’ora, che ha dato modo agli abitanti della casetta di prepararsi a ricevere gli ospiti.
  Questi sono ancor più riccamente vestiti della sera avanti. Le sete splendono, le gemme brillano, un gran pennacchio di penne preziose, sparse di scaglie ancor più preziose, tremola e sfavilla sul capo di colui che ha il turbante.
  I servi portano l’uno un cofano tutto intarsiato, le cui rinforzature metalliche sono in oro bulinato; il secondo un lavoratissimo calice, coperto da un ancor più lavorato coperchio tutto d’oro; il terzo una specie di anfora larga e bassa, pure in oro, e tappata da una chiusura fatta a piramide, che al vertice porta un brillante. Devono essere pesanti, perché i servi li portano con fatica, specie quello del cofano.
  I tre montano la scala ed entrano. Entrano in una stanza che va dalla strada al dietro della casa. Si vede l’orticello posteriore da una finestra aperta al sole. Delle porte si aprono nelle due altre pareti, e da queste sbirciano coloro che sono i proprietari: un uomo, una donna e tre o quattro fra giovinetti e bimbi.

  6Maria è seduta col Bambino in grembo ed ha vicino Giuseppe in piedi. Però si alza Ella pure e si inchina quando vede entrare i tre Magi. È tutta vestita di bianco. Così bella nella sua semplice veste candida che la copre dalla radice del collo ai piedi, dalle spalle ai polsi sottili, così bella nella testina coronata di trecce bionde, nel viso che l’emozione fa più vivamente roseo, negli occhi che sorridono con dolcezza, nella bocca che s’apre al saluto: «Dio sia con voi», che i tre si arrestano un istante colpiti. Poi procedono e le si prostrano ai piedi. E la pregano di sedere.
  Essi no, non siedono, per quanto Ella li preghi di farlo. Essi restano in ginocchio, rilassati sui calcagni. Dietro a loro, pure in ginocchio, sono i tre servi. Essi sono subito dopo il limitare. Hanno posato davanti a loro i tre oggetti che portavano, e attendono.
  I tre Savi contemplano il Bambino, che mi pare possa avere dai nove mesi ad un anno, tanto è vispo e robusto. Egli sta seduto in grembo alla Mamma, e sorride e cinguetta con una vocina di uccellino. È vestito tutto di bianco come la Mamma, con sandaletti ai piedini minuscoli. Una vestina molto semplice: una tunichella da cui escono i bei piedini irrequieti, le manine grassottelle che vorrebbero afferrare tutto, e soprattutto la bellissima faccina nella quale splendono gli occhi azzurro cupi, e la bocca fa le fossette ai lati ridendo e scoprendo i primi dentini minuti. I ricciolini sembrano una polvere d’oro tanto sono splendenti e vaporosi.

  7Il più vecchio dei Savi parla per tutti. Spiega a Maria che essi hanno visto, una notte del passato dicembre, accendersi una nuova stella nel cielo, di inusitato splendore. Mai le carte del cielo avevano portato quell’astro e parlato di esso. Il suo nome non era conosciuto, perché essa non aveva nome. Nata allora dal seno di Dio, essa era fiorita per dire agli uomini una verità benedetta, un segreto di Dio. Ma gli uomini non le avevano fatto caso, perché avevano l’anima confitta nel fango. Non alzavano lo sguardo a Dio e non sapevano leggere le parole che Egli traccia, ne sia in eterno benedetto, con astri di fuoco sulla volta dei cieli.
  Essi l’avevano vista e si erano sforzati a capirne la voce. Perdendo contenti il poco sonno che concedevano alle loro membra, dimenticando il cibo, s’erano sprofondati nello studio dello zodiaco. E le congiunzioni degli astri, il tempo, la stagione, il calcolo delle ore passate e delle combinazioni astronomiche avevano a loro detto il nome e il segreto della stella. Il suo nome: «Messia». Il suo segreto: «Essere il Messia venuto al mondo». E si erano partiti per adorarlo. Ognuno all’insaputa dell’altro. Per monti e deserti, per valli e fiumi, viaggiando la notte, erano venuti verso la Palestina, perché la stella andava in tal senso. Per ognuno, da tre punti diversi della Terra, andava in tal senso. E si erano trovati poi oltre il mar Morto. Il volere di Dio li aveva riuniti là, ed insieme avevano proceduto, intendendosi, nonostante ognuno parlasse la sua lingua, e intendendo e potendo parlare la lingua del Paese per un miracolo dell’Eterno.
  E insieme erano andati a Gerusalemme, poiché il Messia doveva essere il Re di Gerusalemme, il Re dei giudei. Ma la stella si era celata, sul cielo di quella città, ed essi avevano sentito frangersi di dolore il loro cuore e si erano esaminati per sapere se avevano demeritato di Dio. Ma avendoli rassicurati la coscienza, si erano rivolti a re Erode per chiedergli in quale reggia era il nato Re dei giudei che essi erano venuti ad adorare. E il re, convocati i principi dei sacerdoti e gli scribi, aveva chiesto dove poteva nascere il Messia. Ed essi avevano risposto: «A Betlemme di Giuda».
  Ed essi erano venuti verso Betlemme e la stella era riapparsa ai loro occhi, lasciata la Città santa, e la sera avanti aveva aumentato gli splendori — il cielo era tutto un incendio — e poi si era fermata, adunando tutta la luce delle altre stelle nel suo raggio, sopra questa casa. Ed essi avevano compreso esser lì il Nato divino. Ed ora lo adoravano, offrendo i loro poveri doni e più che altro offrendo il loro cuore, che mai avrebbe cessato di benedire Iddio della grazia concessa e di amare il suo Nato, di cui vedevano la santa Umanità. Dopo sarebbero tornati a riferire al re Erode, perché egli desiderava adorarlo esso pure.

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  8«Ecco intanto l’oro come a re si conviene possedere, ecco l’incenso come a Dio si conviene, ed ecco, o Madre, ecco la mirra, poiché il tuo Nato è Uomo oltre che Dio, e della carne e della vita umana conoscerà l’amarezza e la legge inevitabile del morire. Il nostro amore vorrebbe non dirle, queste parole, e pensarlo eterno anche con la carne come eterno è lo Spirito suo. Ma, o Donna, se le nostre carte, e più le nostre anime, non errano, Egli è, il Figlio tuo, il Salvatore, il Cristo di Dio, e perciò dovrà, per salvare la Terra, levare su Sé il male della Terra, di cui uno dei castighi è la morte. Questa resina è per quell’ora. Perché le carni, che son sante, non conoscano putredine di corruzione e conservino integrità sino alla loro risurrezione. E per questo nostro dono Egli di noi si ricordi, e salvi i suoi servi dando loro il suo Regno». 
Per intanto, per esserne santificati, Ella, la Madre, dia il suo Pargolo «al nostro amore. Che baciando i suoi piedi scenda in noi benedizione celeste».

 Maria, che ha superato lo sgomento suscitato dalle parole del Sapiente e ha celato la tristezza della funebre evocazione sotto un sorriso, offre il Bambino. Lo pone sulle braccia del più vecchio, che lo bacia e ne è accarezzato, poi lo passa agli altri due.
  Gesù sorride e scherza colle catenelle e le frange dei tre, e guarda curiosamente lo scrigno aperto pieno di una cosa gialla che luccica, e ride vedendo che il sole fa un arcobaleno battendo sul brillante del coperchio della mirra.

  9Poi i tre rendono a Maria il Bambino e si alzano. Si alza anche Maria. Si inchinano a vicenda, dopo che il più giovane ha dato un ordine al servo, che esce. I tre parlano ancora un poco. Non sanno decidersi a staccarsi da quella casa. Lacrime di emozione sono negli occhi. Infine si dirigono all’uscita, accompagnati da Maria e Giuseppe.
  Il Bambino ha voluto scendere e dare la manina al più vecchio dei tre, e cammina così, tenuto per mano da Maria e dal Savio, che si curvano per tenerlo per mano. Gesù ha il passetto ancora incerto dell’infante e ride picchiando i piedini sulla striscia che il sole fa sul pavimento.
  Giunti alla soglia — non si deve dimenticare che la stanza era lunga quanto la casa — i tre si accomiatano inginocchiandosi ancora una volta e baciando i piedini di Gesù. Maria, curva sul Piccino, gli prende la manina e la guida, facendole fare un gesto di benedizione sul capo di ogni singolo Mago. È già un segno di croce(Ez 9,4-6) tracciato dalle ditine di Gesù, guidate da Maria.
  Poi i tre scendono la scala. La carovana è già lì pronta che attende. Le borchie dei cavalli splendono al sole del tramonto. La gente si è affollata sulla piazzetta a vedere l’insolito spettacolo.
  Gesù ride battendo le manine. La Mamma lo ha sollevato e appoggiato al largo parapetto che limita il pianerottolo e lo tiene con un braccio contro il suo petto perché non caschi. Giuseppe è sceso con i tre e regge ad ognuno la staffa mentre salgono sui cavalli e sul cammello.
  Ora servi e padroni sono tutti a cavallo. L’ordine di marcia viene dato. I tre si curvano fin sul collo della cavalcatura in un ultimo saluto. Giuseppe si inchina, Maria pure e torna a guidare la manina di Gesù in un gesto di addio e di benedizione.



10Dice Gesù:
   «Ed ora? Che dirvi ora, o anime che sentite morire la fede? Quei Savi d’oriente non avevano nulla che li assicurasse della verità. Nulla di soprannaturale. Solo il calcolo astronomico e la loro riflessione che una vita integra faceva perfetta. Eppure hanno avuto fede. Fede in tutto: fede nella scienza, fede nella coscienza, fede nella bontà divina.
  Per la scienza hanno creduto al segno della stella nuova, che non poteva che esser “quella”, attesa da secoli dall’umanità: il Messia. Per la coscienza hanno avuto fede nella voce della stessa che, ricevendo “voci” celesti, diceva loro: “È quella stella che segna l’avvento del Messia”. Per la bontà hanno avuto fede che Dio non li avrebbe ingannati e, poiché la loro intenzione era retta, li avrebbe aiutati in ogni modo per giungere allo scopo.

  E sono riusciti. Essi soli, fra tanti studiosi dei segni, hanno compreso quel segno, perché essi soli avevano nell’anima l’ansia di conoscere le parole di Dio con un fine retto, che aveva a principale pensiero quello di dare subito a Dio lode ed onore.

 11Non cercavano un utile proprio. Anzi vanno incontro a fatiche e spese, e nulla chiedono di compenso che sia umano. Chiedono soltanto che Dio di loro si ricordi e li salvi per l’eternità.
  Come non hanno nessun pensiero di futuro compenso umano, così non hanno, quando decidono il viaggio, nessuna umana preoccupazione. Voi vi sareste messi mille cavilli: “Come farò a fare tanto viaggio in paesi e fra popoli di lingua diversa? Mi crederanno o mi imprigioneranno come spia? Che aiuto mi daranno nel passare deserti e fiumi e monti? E il caldo? E il vento degli altipiani? E le febbri stagnanti lungo le zone paludose? E le fiumane gonfiate dalle piogge? E il cibo diverso? E il diverso linguaggio? E… e… e”. Così ragionate voi. Essi non ragionano così. Dicono con sincera e santa audacia: “Tu, o Dio, ci leggi nel cuore e vedi che fine perseguiamo. Nelle tue mani ci affidiamo. Concedici la gioia sovrumana di adorare la tua Seconda Persona fatta Carne per la salute del mondo”.
  Basta. E si mettono in cammino dalle Indie lontane. Dalle catene mongoliche sulle quali spaziano unicamente le aquile e gli avvoltoi e Dio parla col rombo dei venti e dei torrenti e scrive parole di mistero sulle pagine sterminate dei nevai. Dalle terre in cui nasce il Nilo e procede, vena verde azzurra, incontro all’azzurro cuore del Mediterraneo, né picchi, né selve, né arene, oceani asciutti e più pericolosi di quelli marini, fermano il loro andare. E la stella brilla sulle loro notti, negando loro di dormire. Quando si cerca Dio, le abitudini animali devono cedere alle impazienze e alle necessità sopraumane.
  La stella li prende da settentrione, da oriente e da meridione, e per un miracolo di Dio procede per tutti e tre verso un punto, come, per un altro miracolo, li riunisce dopo tante miglia in quel punto, e per un altro dà loro, anticipando la sapienza pentecostale, il dono di intendersi e di farsi intendere così come è nel Paradiso, dove si parla un’unica lingua, quella di Dio.

 12Un unico momento di sgomento li assale quando la stella scompare e, umili perché sono realmente grandi, non pensano che sia per la malvagità altrui che ciò avviene, non meritando i corrotti di Gerusalemme di vedere la stella di Dio. Ma pensano di avere demeritato di Dio loro stessi, e si esaminano con tremore e contrizione già pronta a chiedere perdono.
  Ma la loro coscienza li rassicura. Anime use alla meditazione, hanno una coscienza sensibilissima, affinata da una attenzione costante, da una introspezione acuta, che ha fatto del loro interno uno specchio su cui si riflettono le più piccole larve degli avvenimenti giornalieri. Ne hanno fatto una maestra, una voce che avverte e grida al più piccolo, non dico errore, ma sguardo all’errore, a ciò che è umano, al compiacimento di ciò che è io. Perciò, quando essi si pongono di fronte a questa maestra, a questo specchio severo e nitido, sanno che esso non mentirà. Ora li rassicura ed essi riprendono lena.
  “Oh! dolce cosa sentire che nulla è in noi di contrario a Dio! Sentire che Egli guarda con compiacenza l’animo del figlio fedele e lo benedice. Da questo sentire viene aumento di fede e fiducia, e speranza, e fortezza, e pazienza. Ora è tempesta. Ma passerà, poiché Dio mi ama e sa che lo amo, e non mancherà di aiutarmi ancora”. Così parlano coloro che hanno la pace che viene da una coscienza retta, che è regina di ogni loro azione.

 13 Ho detto che erano “umili perché erano realmente grandi”. Nella vostra vita, invece, che avviene? Che uno, non perché è grande, ma perché è più prepotente, e si fa potente per la sua prepotenza e per la vostra idolatria sciocca, non è mai umile. Ci sono dei disgraziati che, solo per essere maggiordomi di un prepotente, uscieri di un ufficio, funzionari in una frazione, servi insomma di chi li ha fatti tali, si dànno delle pose da semidei. E fanno pietà!…
  Essi, i tre Savi, erano realmente grandi. Per virtù soprannaturali per prima cosa, per scienza per seconda cosa, per ricchezza per ultima cosa. Ma si sentono un nulla, polvere sulla polvere della Terra, rispetto al Dio altissimo, che crea i mondi con un suo sorriso e li sparge come chicchi di grano per saziare gli occhi degli angeli coi monili delle stelle.
  Ma si sentono nulla rispetto al Dio altissimo, che ha creato il pianeta su cui vivono e lo ha fatto variato mettendo, Scultore infinito d’opere sconfinate, qua, con una ditata del suo pollice, una corona di dolci colline, e là un’ossatura di gioghi e di picchi, simili a vertebre della Terra, di questo corpo smisurato a cui sono vene i fiumi, bacini i laghi, cuori gli oceani, veste le foreste, veli le nubi, decorazioni i ghiacciai di cristallo, gemme le turchesi e gli smeraldi, gli opali e i berilli di tutte le acque che cantano, con le selve e i venti, il grande coro di laude al loro Signore.
  Ma si sentono nulla nella loro sapienza rispetto al Dio altissimo, da cui la loro sapienza viene e che ha dato loro occhi più potenti di quelle due pupille per cui vedono le cose: occhi dell’anima, che sanno leggere nelle cose la parola non scritta da mano umana, ma incisa dal pensiero di Dio.
  Ma si sentono nulla nella loro ricchezza: atomo rispetto alla ricchezza del Possessore dell’universo, che sparge metalli e gemme negli astri e pianeti e soprannaturali dovizie, inesauste dovizie, nel cuore di chi l’ama.

 14E, giunti davanti ad una povera casa, nella più meschina delle città di Giuda, essi non crollano il capo dicendo: “Impossibile”, ma curvano la schiena, le ginocchia, e specie il cuore, e adorano. Là, dietro quel povero muro, è Dio. Quel Dio che essi hanno sempre invocato, non osando mai, neppur lontanamente, sperare di averlo a vedere. Ma invocato per il bene di tutta l’umanità, per il “loro” bene eterno. Oh! questo solo si auguravano. Di poterlo vedere, conoscere, possedere nella vita che non conosce più albe e tramonti!
  Egli è là, dietro quel povero muro. Chissà se il suo cuore di Bambino, che è pur sempre il cuore di un Dio, non sente questi tre cuori che, proni nella polvere della via, squillano: “Santo, Santo, Santo. Benedetto il Signore Iddio nostro. Gloria a Lui nei Cieli altissimi e pace ai suoi servi. Gloria, gloria, gloria e benedizione”? Essi se lo chiedono con tremore di amore. E per tutta la notte e la seguente mattina preparano con la preghiera più viva lo spirito alla comunione con il Dio-Bambino.
  Non vanno a questo altare, che è un grembo verginale portante l’Ostia divina, come voi vi andate con l’anima piena di sollecitudini umane. Essi dimenticano sonno e cibo e, se prendono le vesti più belle, non è per sfoggio umano ma per fare onore al Re dei re. Nelle regge dei sovrani i dignitari entrano con le vesti più belle. E non dovrebbero essi andare da questo Re con le loro vesti di festa? E quale festa più grande di questa per loro?
  Oh! nelle loro terre lontane, più e più volte si sono dovuti ornare per degli uomini pari a loro. Per far loro festa e onore. Giusto dunque umiliare ai piedi del Re supremo porpore e gioielli, sete e preziose piume. Mettergli ai piedi, ai dolci piccoli piedi, le fibre della Terra, le gemme della Terra, le piume della Terra, i metalli della Terra — sono ancora opera sua — perché esse pure, queste cose della Terra, adorino il loro Creatore. E sarebbero felici se la Creaturina ordinasse loro di stendersi al suolo e fare un vivo tappeto ai suoi passetti di Bambino, e li calpestasse, Egli che ha lasciato le stelle per loro, polvere, polvere, polvere.

 15Umili e generosi. E ubbidienti alle “voci” dell’Alto. Esse comandano di portare doni al Re neonato. Ed essi portano doni. Non dicono: “Egli è ricco e non ne ha bisogno. È Dio e non conoscerà la morte”. Ubbidiscono. E sono coloro che per primi sovvengono la povertà del Salvatore. Come provvido quell’oro per chi domani sarà fuggiasco! Come significativa quella resina a chi presto sarà ucciso! Come pio quell’incenso a chi dovrà sentire il lezzo delle lussurie umane ribollenti intorno alla sua purezza infinita!
  Umili, generosi, ubbidienti e rispettosi l’uno dell’altro. Le virtù generano sempre altre virtù. Dalle virtù volte a Dio, ecco le virtù volte al prossimo. Rispetto, che è poi carità. Al più vecchio è deferito di parlare per tutti, di ricevere per primo il bacio del Salvatore, di sorreggerlo per la manina. Gli altri potranno vederlo ancora. Ma egli no. È vecchio, e prossimo è il suo giorno di ritorno a Dio. Lo vedrà, questo Cristo, dopo la sua straziante morte e lo seguirà, nella scia dei salvati, nel ritorno al Cielo. Ma non lo vedrà più su questa Terra. E allora per suo viatico gli rimanga il tepore della piccola mano, che si affida alla sua già rugosa.
  Nessuna invidia negli altri. Ma anzi un aumento di venerazione per il vecchio sapiente. Ha meritato certo più di loro e per più lungo tempo. Il Dio-Infante lo sa. Ancora non parla, la Parola del Padre, ma il suo atto è parola. E sia benedetta la sua innocente parola, che designa costui come il suo prediletto.

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 16Ma, o figli, vi sono altri due insegnamenti da questa visione.

 Il contegno di Giuseppe che sa stare al “suo” posto. Presente come custode e tutore della Purezza e della Santità. Ma non usurpatore dei diritti di queste. È Maria col suo Gesù che riceve omaggi e parole. Giuseppe ne giubila per Lei e non si accora d’esser figura secondaria. Giuseppe è un giusto, è il Giusto. Ed è giusto sempre. Anche in quest’ora. I fumi della festa non gli salgono al capo. Resta umile e giusto.
  È felice di quei doni. Non per sé. Ma perché pensa che con essi potrà fare più comoda la vita alla Sposa e al dolce Bambino. Non vi è avidità in Giuseppe. Egli è un lavoratore e continuerà a lavorare. Ma che “Loro”, i suoi due amori, abbiano agio e conforto. Né lui né i Magi sanno che quei doni serviranno ad una fuga e ad una vita d’esilio, nelle quali le sostanze dileguano come nube percossa dai venti, e ad un ritorno in patria dopo aver tutto perduto, clienti e suppellettili, e salvate solo le mura della casa, protetta da Dio perché là Egli si è congiunto alla Vergine e si è fatto Carne.
  Giuseppe è umile, egli, custode di Dio e della Madre di Dio e Sposa dell’Altissimo, sino a reggere la staffa a questi vassalli di Dio. È un povero legnaiuolo, perché la prepotenza umana ha spogliato gli eredi di Davide dei loro averi regali. Ma è sempre stirpe di re ed ha tratti di re. Anche per lui va detto: “Era umile perché era realmente grande”.

 17 Ultimo, soave, indicatore insegnamento.
  È Maria che prende la mano di Gesù, che non sa ancora benedire, e la guida nel gesto santo.
  È sempre Maria che prende la mano di Gesù e la guida. Anche ora. Ora Gesù sa benedire. Ma delle volte la sua mano trafitta cade stanca e sfiduciata, perché sa che è inutile benedire. Voi distruggete la mia benedizione. Cade anche sdegnata, perché voi mi maledite. E allora è Maria che leva lo sdegno a questa mano col baciarla. Oh! il bacio di mia Madre! Chi resiste a quel bacio? E poi prende con le sue dita sottili, ma così amorosamente imperiose, il mio polso e mi forza a benedire.
  Non posso respingere mia Madre. Ma bisogna andare da Lei per farla Avvocata vostra. Essa è la mia Regina prima d’esser la vostra, ed il suo amore per voi ha indulgenze che neppure il mio conosce. Ed Essa, anche senza parole ma con le perle del suo pianto e col ricordo della mia Croce, il cui segno mi fa tracciare nell’aria, perora la vostra causa e mi ammonisce: “Sei il Salvatore. Salva”.

 18 Ecco, figli, il “vangelo della fede” nell’apparizione della scena dei Magi. Meditate e imitate. Per il vostro bene».
***
http://www.valtortamaria.com/operamaggiore/volume/1/xxxiv-adorazione-dei-magi-e-vangelo-della-fede

AVE MARIA PURISSIMA!

mercoledì 2 gennaio 2019

Stupenda visione. Oggi festa del Santissimo Nome di GESU'


 Dice Maria:

   «Il primo pianto del mio Bambino ha tremato nell’aria otto giorni dopo la Nascita. Era il primo dolore del mio Gesù. 
   Egli era l’Agnello e come agnello fu marcato col segno del Signore perché fosse a Lui consacrato: Primogenito, secondo la legge divina e secondo la legge umana, fra tutti i viventi. 

   Già la sua consacrazione a Dio Padre era avvenuta in Cielo quando Egli si era offerto Riparatore della colpa e Redentore dell’uomo, cangiando la sua spirituale natura in quella di Uomo, Verbo fatto Carne per desiderio d’amore. 

   Vittima già deposta sulla pietra del celeste altare, Vittima santa e senza difetto, Egli non aveva bisogno d’altre consacrazioni sempre imperfette a paragone della sua sublime. Ma tale era la Legge e nessuno, fuorché quelli ai quali Dio aveva rivelato la natura del Figlio mio, conosceva come il Bambino della donna galilea fosse il Santo, l’Unto del Signore, il Pontefice eterno, il Redentore e Re. Perciò la Legge doveva compiersi per questo maschio primogenito, nato al Signore e a Lui offerto secondo il suo Volere.

   Circoncisi tutti, i figli di Abramo, ma il segno sui primogeniti era veramente l’anello che li univa a Dio e li consacrava all’altare. Presso al nostro altare non potevano essere offerti coloro che prima non avessero già sofferto per il Signore questi sponsali mistici. Due volte santi i primogeniti ebrei e per la circoncisione e per l’offerta al Tempio. infinitamente santo l’innocente che piangeva sul mio seno dopo aver sparso le prime stille di quel Sangue che è perdono.
  
   Se i presenti al rito avessero avuto lo spirito vivo, avrebbero compreso quale Maestà si celava dietro quelle Carni infantili e avrebbero adorato iddio apparso fra gli uomini per portare gli uomini a Dio. Ma allora, come ora, gli uomini avevano il cuore ingombro da quanto è pratica e non religione, interesse e non distacco dal mondo, egoismo e non carità, superbia e non umiltà. il volto di Dio non apparve dunque ai loro occhi tralucendo dalle Carni dell’innocente.

   Per conoscere Iddio bisogna fare scopo della vita la ricerca di Dio. Allora Egli si svela senza più mistero, ossia con quel tanto di mistero che Egli, nella sua Sapienza, giudica esser bontà serbarvi per non incenerirvi col suo Fulgore, poiché - sappilo, Maria - la visione di Dio quale è - e come solo in Cielo è concesso vedere, poiché in Cielo sono già spiriti che la santità ha reso atti a contemplare iddio - è di una tale potenza che solo la nostra natura fatta a somiglianza di Dio può sopportarla, così come un figlio può sempre vedere la potenza e la bellezza del padre suo senza sentirsene sgomento e avvilito.
   È nel Cielo, oltre la vita umana, che l’uomo prende la vera somiglianza di Dio è allora che può affissarlo ed accrescere il suo fulgore col Fulgore divino, la sua beatitudine contemplando l’Amore che vi1 ama.
   Il Sangue del mio Figlio chiese, nel suo gocciare, purpureo corteo di altro sangue innocente.
  
 I piedi del Cristo avrebbero corporalmente calpestato il terreno aspro della Palestina, reso ancor più nemico al suo andare dal malvagio volere umano che ai rovi e alle pietre del cammino univa il suo livore, l’insidia, il tradimento e il delitto.
   Il Re dei Giudei e il Re del mondo non ha avuto molli e preziosi tappeti sotto il suo piede. Anche nell’ora del breve trionfo umano - così umano che, essendo frutto di esaltazione di folla per il presunto re dei Giudei, per colui che avrebbe ridato lustro al popolo ebreo, cadde come ala di vento che più non gonfia la vela a si mutò in bufera - anche allora Egli non ebbe che povere vesti e rami di ulivo, omaggio dei poveri, sotto alla sua ancor più povera cavalcatura.
   Ma quanto gli uomini non vedevano, vedeva l’Uomo-Dio sulla terra e vedeva Dio in Cielo; e quando il mio Cristo tornò al Cielo, dopo il martirio, per ricevere l’abbraccio del Padre, i suoi Piedi trafitti volarono rapidi su un prezioso tappeto di porpora viva, che era rimasto come scia santa dalla terra al Cielo quando i primi martiri del Figlio mio - i piccoli innocenti - erano caduti come manipoli di spighe falciate dal mietitore e come prati di fiori in boccio tagliati a divenire fieno, imporporando del loro sangue la via del Cielo.
   Ogni redenzione ha bisogno di precursori che la preparino. E non tanto con la parola quanto col sacrificio. La Redenzione, ormai iniziata, ebbe alla sua alba il sacrificio dell’innocenza spenta dalla ferocia e al suo meriggio il sacrificio della penitenza uccisa dalla lussuria a cui la penitenza è rimprovero.
   Il Sangue del Golgota cadde fra questi due eroici sangui per insegnarvi che è tra l’innocenza e la penitenza che il Redentore si posa, e che il Sangue del Cristo chiama il vostro sangue alla gloria del dolore per santificarlo e per santificare il mondo unendosi al Sangue santissimo del Figlio mio.»

   1 vi è lettura incerta; potrebbe leggersi anche si
http://www.valtortamaria.com/operaminore/quaderno/1/manoscritto/13/28-dicembre-1943

***

XXXI. 
Visita di Zaccaria. La santità di Giuseppe e l'ubbidienza ai sacerdoti 

  8 giugno 1944


  1 Vedo il lungo stanzone dove ho visto l’incontro dei Magi con Gesù e la loro adorazione. Comprendo di essere nella casa ospitale dove è stata accolta la sacra Famiglia. E assisto all’arrivo di Zaccaria. Elisabetta non c’è.
  La padrona di casa corre fuori, sul ballatoio, incontro all’ospite che arriva, e lo conduce presso una porta e bussa. Poi si ritira discreta.
  Giuseppe apre ed ha una esclamazione di giubilo vedendo Zaccaria. Lo fa entrare in una stanzetta piccola come un corridoio. «Maria sta dando il latte al Bambino. Attendi un poco. Siedi, ché sarai stanco». E fa posto all’ospite sul suo giaciglio sedendosi al suo fianco.
  Odo che Giuseppe chiede del piccolo Giovanni, e Zaccaria risponde: «Cresce florido come un puledrino. Ma ora soffre un poco per i denti. Non abbiamo voluto portarlo per questo. Fa molto freddo. Perciò non è venuta neanche Elisabetta. Non lo poteva lasciare senza latte. Se ne è accorata. Ma è così rigida la stagione!».
  «È molto rigida infatti», risponde Giuseppe.
  «Mi ha detto l’uomo che mi avete mandato che eravate senza una casa quando Egli nacque. Chissà quanto avrete dovuto soffrire».
  «Sì, molto davvero. Ma la paura nostra era più grande del disagio. Avevamo paura che nuocesse al Bambino. E per i primi giorni dovemmo stare lì. Non mancavamo di nulla, per noi, perché i pastori portarono la buona novella ai betlemiti e molti vennero con doni. Ma mancava una casa, mancava una camera riparata, un letto… e Gesù piangeva tanto, specie di notte, per il vento che entrava da ogni dove. Facevo un poco di fuoco. Ma poco, perché il fumo faceva tossire il Bambino… e il freddo restava. Due animali scaldano poco, specie là dove l’aria entra da tutte le parti! Mancava acqua calda per lavarlo, mancava biancheria asciutta per cambiarlo. Oh! ha sofferto molto! E Maria soffriva nel vederlo soffrire. Soffrivo io… puoi pensare Lei che gli è Madre. Gli dava latte e lacrime, latte e amore… Ora qui si sta meglio. Avevo preparato una così comoda cuna e Maria l’aveva empita di un morbido materassino. Ma è a Nazareth! Ah! se fosse nato là, sarebbe stato diverso!».
  «Ma il Cristo doveva nascere a Betlem. Era profetizzato».

  2 Entra Maria, che ha udito le voci. È tutta vestita di lana bianca. Si è levato l’abito scuro che aveva nel viaggio e nella grotta, ed è tutta bianca nella sua veste, come già l’ho vista altre volte. Non ha nulla sul capo, e nelle braccia ha Gesù che dorme, sazio di latte, nelle sue candide fasce.
  Zaccaria si alza riverente e si inchina con venerazione. Poi si accosta e guarda Gesù con i segni del più grande rispetto. Sta curvo non tanto per vederlo meglio, quanto per dargli omaggio. Maria glielo offre e Zaccaria lo prende con una tale adorazione, che pare sollevi un ostensorio. È infatti l’Ostia quella che egli prende sulle braccia, l’Ostia già offerta e che sarà consumata dopo che si sarà data agli uomini in cibo d’amore e di redenzione. Zaccaria rende Gesù a Maria.

  3 Si siedono tutti e Zaccaria ripete a Maria il motivo per cui Elisabetta non è venuta e il suo dolore. «Aveva preparato in questi mesi delle tele per il tuo benedetto Figlio. Te le ho portate. Sono sul carro, da basso».
  Si alza e va fuori, e torna con un involto grosso e uno più piccino. Sia da quello grosso, di cui viene liberato subito da Giuseppe, come dall’altro, trae subito i suoi doni: una morbida coltre di lana tessuta a mano e dei lini e delle piccole vesti. Dall’altro, del miele, della candidissima farina e burro e mele per Maria, e focacce impastate e cotte da Elisabetta e tante altre cosette, che dicono l’affetto materno della riconoscente cugina per la giovane Madre.
  «Dirai a Elisabetta che le sono grata, e a te pure sono grata. L’avrei vista tanto volentieri, ma comprendo le ragioni. E anche avrei voluto rivedere il piccolo Giovanni…».
  «Ma lo vedrete in primavera. Verremo a trovarvi».
  «Nazareth è troppo lontana», dice Giuseppe.

  4 «Nazareth? Ma dovete rimanere qui. Il Messia deve crescere a Betlemme. È la città di Davide. L’Altissimo l’ha condotto, attraverso la volontà di Cesare, a nascere nella terra di Davide, la terra santa della Giudea. Perché portarlo a Nazareth? Voi sapete come presso i giudei sono giudicati i nazareni. Domani questo Bambino dovrà essere il Salvatore del suo popolo. Non bisogna che la città capitale sprezzi il suo Re perché viene da una terra che essa disprezza. Voi sapete quanto me come è cavilloso il Sinedrio e come sprezzanti le tre caste principali… E poi, qui, vicino ancora a me, potrò aiutarvi alquanto e mettere tutto quanto ho, non tanto di cose materiali ma di doni morali, a servizio di questo Neonato. E quando sarà in età di capire, sarò beato di essergli maestro come al mio bambino, per ottenere poi che, fatto grande, mi benedica. Dobbiamo pensare che Egli è destinato a tanta sorte e che perciò deve potersi presentare al mondo con tutte le carte per vincere facilmente la sua partita. Egli, certo, possederà la Sapienza. Ma anche solo il fatto che un sacerdote gli sia stato maestro lo renderà più accetto ai difficili farisei e agli scribi e gli spianerà la missione».

  5 Maria guarda Giuseppe e Giuseppe guarda Maria. Sopra il capo innocente del Bambino, che dorme roseo e ignaro, si intreccia un muto scambio di domande. E sono domande velate di tristezza. Maria pensa alla sua casetta. Giuseppe pensa al suo lavoro. Qui tutto è da rifare, in un luogo dove solo pochi giorni prima erano degli sconosciuti. Qui non c’è niente di quelle cose care lasciate là e preparate con tanto amore per il Bambino.
  E Maria lo dice: «Ma come facciamo? Là abbiamo lasciato tutto. Giuseppe aveva tanto lavorato per il mio Gesù, senza risparmio di fatica e di denaro. Aveva lavorato di notte, per poter lavorare per gli altri di giorno e guadagnare così tanto da poter comperare i legni più belli, la lana più soffice, il lino più candido per preparare tutto per Gesù. Aveva costruito alveari e aveva perfino lavorato da muratore per dare un’altra sistemazione alla casa, perché la cuna potesse essere nella mia stanza e starvi sinché Gesù fosse più grande, e poi potesse dar posto al letto, perché Gesù starà con me sinché non sarà giovinetto».
  «Giuseppe può andare a prendere ciò che avete lasciato».
  «E dove metterlo? Tu lo sai, Zaccaria, che noi siamo poveri. Non abbiamo che il lavoro e la casa. Questa e quello ci dànno di che andare avanti senza fame. Ma qui… lavoro ne troveremo, forse. Ma avremo sempre da pensare ad una casa. Questa buona donna non può ospitarci continuamente. Ed io non posso sacrificare Giuseppe più di quanto già non lo sia per me!».
  «Oh! io! Per me non è nulla! Penso al dolore di Maria, io. Al dolore di non vivere nella sua casa…».
  Maria ha due lacrimoni.
  «Penso che quella casa le deve esser cara come il Paradiso, per il prodigio che ivi le si è compito… Parlo poco, ma capisco tanto. Non fosse per questo, non mi cruccerei. Lavorerò il doppio, ecco tutto. Sono forte e giovane per lavorare il doppio di quanto usavo e provvedere a tutto. E se Maria non soffre troppo… e se tu dici che è bene fare così… per me… eccomi. Faccio quello che vi pare più giusto. Basta che a Gesù ciò sia utile».
  «E utile sarà certo. Pensateci e ne vedrete le ragioni».
  «Si dice anche che il Messia sarà chiamato Nazareno(Matteo 2, 23)…», obbietta Maria.
  «Vero. Ma almeno, sinché non è adulto, fate che cresca in Giudea. Dice il Profeta: “E tu, Betlem Efrata, sarai la più grande perché da te uscirà il Salvatore”. Non parla di Nazareth. Forse quell’appellativo gli sarà dato per non sappiamo che motivo. Ma la sua terra è questa».
  «Lo dici tu, sacerdote, e noi… e noi… con dolore ti ascoltiamo… e ti diamo retta. Ma che dolore!… Quando vedrò quella casa dove divenni Madre?». Maria piange piano. E io capisco questo suo pianto. Oh! se lo capisco!
  La visione mi cessa su questo pianto di Maria.



  6 Dice, poi, Maria:
   «Lo capisci. Lo so. Ma mi vedrai piangere più forte ancora.
 Per ora ti sollevo lo spirito mostrandoti la santità di Giuseppe, che era uomo, ossia che non aveva altro aiuto al suo spirito che la sua santità. Io avevo tutti i doni di Dio nella mia condizione di Immacolata. Non sapevo d’esserlo. Ma nell’anima mia essi erano attivi e mi davano spirituali forze. Ma egli non era immacolato. L’umanità era in lui con tutto il suo peso greve, ed egli doveva innalzarsi verso la perfezione con tutto quel peso, a costo della continua fatica di tutte le sue facoltà per volere raggiungere la perfezione ed esser gradito a Dio.
  Oh! santo mio sposo! Santo in tutte le cose, anche nelle più umili cose della vita. Santo per la sua castità d’angelo. Santo per la sua onestà d’uomo. Santo per la sua pazienza, per la sua operosità, per la sua serenità sempre uguale, per la sua modestia, per tutto.
  Essa santità brilla anche in questo avvenimento. Un sacerdote gli dice: “È bene che tu ti stabilisca qui”, ed egli, pur sapendo a quanta maggior fatica va incontro, dice: “Per me non è nulla. Penso al dolore di Maria. Non fosse per questo, non mi cruccerei per me. Basta che ciò sia utile a Gesù”. Gesù, Maria: i suoi angelici amori. Non ha amato altro sulla Terra, questo mio santo sposo. E a questo amore ha fatto servo se stesso.
  Lo hanno fatto protettore delle famiglie cristiane e dei lavoratori e di tante categorie. Ma non solo degli agonizzanti, degli sposi, degli operai, sibbene anche dei consacrati si dovrebbe farlo. Quale fra i consacrati della Terra, al servizio di Dio, quale che sia, che si sia consacrato come lui al servizio del suo Dio, accettando tutto, rinunciando a tutto, sopportando tutto, compiendo tutto con prontezza, con spirito ilare, con umore costante, come egli fece? No, non ve n’è.

  7 E un’altra cosa ti faccio osservare, anzi due.
  Zaccaria è un sacerdote. Giuseppe non lo è. Ma pure osserva come colui che non lo è ha lo spirito in Cielo più del sacerdote. Zaccaria pensa umanamente e umanamente interpreta le Scritture perché, non è la prima volta che lo fa, si fa troppo guidare dal buon senso umano. Ne è stato punito. Ma ci ricasca ancora, benché meno gravemente. Aveva detto per la nascita di Giovanni: “Come può avvenire se io sono vecchio e mia moglie è sterile?”. Dice ora: “Per spianarsi la via, il Cristo deve crescere qui” e, con quella radichetta di orgoglio che persiste anche nei migliori, pensa di poter essere lui utile a Gesù. Non utile come vuol esserlo Giuseppe servendolo, ma utile facendogli da maestro… Dio lo ha perdonato per la buona intenzione. Ma aveva mai bisogno il “Maestro” di avere maestri?
  Io cercai di fargli vedere la luce nelle profezie. Ma egli si sentiva più dotto di me e usava questo suo sentire a suo modo. Avrei potuto insistere e vincere. Ma — ecco la seconda osservazione che ti faccio fare — ma ho rispettato il sacerdote per la sua dignità, non per il suo sapere.

  8 Il sacerdote è, generalmente, sempre illuminato da Dio. Ho detto “generalmente”. Lo è quando è un vero sacerdote. Non è la veste quella che consacra, è l’anima. Per giudicare se uno è un vero sacerdote bisogna giudicare ciò che esce dalla sua anima. Come ha detto il mio Gesù, è dall’anima che escono le cose che santificano o che contaminano, quelle che informano tutto il modo di agire di un individuo. Orbene, quando uno è un vero sacerdote, è generalmente sempre ispirato da Dio. Degli altri, che tali non sono, occorre avere soprannaturale carità e pregare per loro.
  Ma mio Figlio ti ha già messa al servizio di questa redenzione e non dico di più. Sii lieta di soffrire perché aumentino i veri sacerdoti. E tu riposa sulla parola di chi ti guida. E credi e ubbidisci al suo consiglio. 

  9 Ubbidire salva sempre. Anche se non è in tutto perfetto il consiglio che si riceve.
  Tu vedi. Noi ubbidimmo. E fu bene. Vero che Erode si limitò a fare sterminare i bambini di Betlemme e dintorni. Ma Satana non avrebbe potuto spingere e propagare queste onde di livore ben oltre, e persuadere a uguale delitto tutti i potenti di Palestina per far sopprimere il futuro Re dei giudei? Avrebbe potuto. E sarebbe avvenuto nei primi tempi del Cristo, quando il ripetersi dei prodigi aveva destato l’attenzione delle folle e l’occhio dei potenti. Come avremmo potuto, se ciò fosse avvenuto, attraversare tutta la Palestina per venire dalla lontana Nazareth in Egitto, terra ospitale agli ebrei perseguitati, e farlo con un piccolo bambino e mentre infuriava una persecuzione? Più facile la fuga da Betlem, anche se ugualmente dolorosa.
  L’ubbidienza salva sempre. Ricordalo.

 10 E il rispetto al sacerdote è sempre segno di formazione cristiana. Guai — e Gesù l’ha detto — guai ai sacerdoti che perdono la loro fiamma apostolica! Ma guai anche a chi si crede lecito sprezzarli! Perché essi consacrano e distribuiscono il Pane vero che dal Cielo discende. E quel contatto li rende santi come un calice sacro, anche se santi non sono. A Dio ne risponderanno. Voi considerateli tali e non vi curate d’altro. Non siate più intransigenti del vostro Signore Gesù, il quale al loro comando lascia il Cielo e scende per essere elevato dalle loro mani. Imparate da Lui. E se sono ciechi, se sono sordi, dall’anima paralitica e il pensiero malato, se sono lebbrosi di colpe troppo in contrasto con la loro missione, se sono dei Lazzari in un sepolcro, chiamate Gesù che li risani, che li risusciti.
  Chiamatelo col vostro orare e col vostro soffrire, o anime vittime. Salvare un’anima è predestinare al Cielo la propria. Ma salvare un’anima sacerdotale è salvare un numero grande di anime, perché ogni sacerdote santo è una rete che trascina anime a Dio. E salvare un sacerdote, ossia santificare, risantificare, è creare questa mistica rete. Ogni sua preda è una luce che si aggiunge alla vostra eterna corona.
  Va’ in pace».


AMDG et DVM

martedì 1 gennaio 2019

Vi imploro di ritornare a Dio,


1 gennaio 1981. 
Festa della Maternità divina di Maria Santissima.


L'unica possibilità di salvezza.

«Iniziate questo nuovo anno nella luce della mia divina maternità. Io sono la strada su cui
verrà a voi la pace.

La incapacità di costruire la pace, per gli uomini di oggi, dipende dalla loro ostinata negazione
di Dio. Finché l'umanità continua a percorrere la strada del rifiuto di Dio e della ribellione alla
sua legge, non vi sarà la pace. Anzi l'egoismo e la violenza aumenteranno e si succederanno
guerre sempre più crudeli e sanguinose.

Si potrà giungere alla, molte volte prevista, possibilità di una terza guerra mondiale, che avrà
la terribile capacità di distruggere grande parte dell'umanità, se gli uomini non si propongono
seriamente di ritornare a Dio.

Il Signore è pronto a riversare anche sulla vostra smarrita e così minacciata generazione il
fiume della sua misericordia, solo alla condizione che questa generazione ritorni pentita fra le
braccia del suo Padre Celeste.

Io stessa ho cantato la sua divina misericordia, che si estende a tutte le generazioni degli
uomini che temono il Signore, e in questo ritorno all'amore e al timore di Dio è per voi l'unica
possibilità di salvezza.

Nel primo giorno del nuovo anno, in cui venerate il mistero gioioso della mia divina Maternità,
rivolgo su voi, miei poveri figli, i miei occhi misericordiosi. Con animo accorato e con voce
angosciata, vi imploro di ritornare a Dio, che vi attende con quell'amore con cui il padre, ogni
giorno, attendeva il ritorno del figliol prodigo. (...).

Vi invito ad una amorosa crociata di preghiera riparatrice e ad opere di penitenza. Insieme
con Me implorate da Dio la grazia del ritorno di tanti miei figli lontani.

Moltiplicate ovunque i Cenacoli di preghiera per forzare la misericordia di Dio a scendere,
come rugiada, sull'immenso deserto di questo mondo. E preparatevi a vedere ciò che occhi
umani non hanno mai visto.

Io sono la via della Pace. Attraverso di Me, tutta l'umanità è chiamata a tornare a Dio, poiché
solo in questo suo completo ritorno può trionfare il mio Cuore di Mamma (...)».

AVE MARIA PURISSIMA!

Autobiografia, di Maria Valtorta


Il primo Incontro


Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani.
 Accosta la tua mano e mettila nel mio costato!
 (S. Giovanni cap: 20 n° 27 7, 47-48)
  
   Giunti a Milano nel settembre, prima cura di mamma fu di cercare un istituto per me. Avevo quattro anni e mezzo, ero molto timida. Lo ero divenuta a furia d'aver paura di sbagliare e di incontrare il «guai» materno. Ero sana ma molto soffrivo del clima rigido e umido di Milano. Sarebbe stato bene tenermi ancora per casa, molto più che ero sola e perciò… davo poca noia. Ma mamma, che sognava di fare di me un Pico della Mirandola in gonnella, mi portò a scuola. All'asilo, naturalmente, e precisamente presso le Suore Orsoline di Via Lanzone.
   All'asilo ero… un'aquila rispetto alle altre più vecchie di me. Sfido io! Sapevo già leggere tutto l'abecedario e scrivere vocali e consonanti, senza contare che parevo una cocorita col mio ciangottare il francese pieno di erre che allora mi piacevano tanto!!…
   Le Suore erano molto buone e anche… molto belle. Non rida. Ora ammiro più l'interno che l'involucro e di una persona guardo solo il suo sguardo e la sua anima che, del resto, balena dallo sguardo, e mi basta siano belli l'anima e lo sguardo che ne è specchio. Ma da piccina e anche fino ai miei vent'anni ero un po' tanto pagana e volevo bene solo alle cose belle, alle persone belle. Ero una grande originale, non le pare?

   Le Suore erano molto belle e perciò le amai subito. Suor Bianca, la Superiora, pareva un vaso di alabastro acceso da una interna luce d'amore. Suor Fulgenzia, la mia Suora, era fulgida come il suo nome. E buone, buone, buone!…
   Andavo dunque all'asilo molto volentieri… meno il primo giorno però, perché nonostante i suoi paurosi «guai» io amavo intensamente ed amo mia mamma4 e sono sempre stata una mendica alla porta del suo cuore in attesa di carezze… Perciò il primo giorno, quando la dovetti lasciare, feci… il diavolo a quattro. Strilli, calci, pugni, morsi, sgraffi… distribuii di tutto in larga misura. Teresa, la nutrice pazza, risorgeva in me con le sue furie paurose. Ma a sera mi ero già affezionata alle buone Suore e le baciai con amore. Il giorno dopo tornai serena all'asilo. Era una festa per me andare là, trovare carezze, lodi, premi e tante bimbe con le quali poter giocare.
   Giocare! Con delle quasi sorelline! Che gioia! Bisogna esser stati figli unici e tenuti come lo fui io per capire cosa sia la maledizione d'esser «unici figli». Ma lasciamo questo argomento che non è importante nella mia narrazione.
   Le Suore erano dunque belle e buone. Ma l'Istituto era brutto, tetro, antico. Oppresso fra le case della vecchia Milano e la Basilica di S. Ambrogio, aveva poca luce, un piccolo giardino verdognolo fin nelle pietre, cortili da monastero, scuri corridoi e una cappella… da tempo di catacombe. Pure andavo volentieri all'Istituto.
   Fra l'altro mi accompagnava spesso mia nonna. Che festa camminare con lei, sola con lei che mi amava tanto e che ogni volta mi lasciava all'Istituto con tanti baci d'addio e con il contentino di un frutto, di un confettone, dati oltre alla refezione portata da casa e, quello che me li rendeva ancor più buoni, senza che mamma lo sapesse e lo proibisse. Povera nonna! Non l'ho mai tradita dicendo a mamma le sue… disubbidienze agli ordini di sua figlia! Lei, la nonna, non mi diceva nulla, ma io capivo istintivamente che se avessi parlato nonna avrebbe avuto dei rimproveri, e serbavo il segreto. Ho imparato molto presto a serbare i segreti, a riflettere su quel che è prudente tacere!…

   Nell'Istituto trovai Dio. Papà e la nonna mi parlavano di Lui, mi facevano pregare, mi portavano in chiesa. Ma io incontrai il volto di Dio e il suo amore nell'Istituto. Il primo incontro vero e proprio e incancellabile.
   Le buone Suore, e specie la nostra Suor Fulgenzia, ci parlavano di Dio con parole atte alle nostre piccole menti. Ci narravano «di Dio l'opre stupende», ci descrivevano gli attributi della divinità e infondevano in noi il santo timore di Dio. «Dio ci vede sempre, Dio è sempre presente, nulla gli è nascosto, Egli è dapertutto». Quante volte ho udito queste parole!
   Avevamo, nella nostra scuoletta di lavoro — e il lavoro era imparare la maglia facendo certe… corde dure e sudicie che parevano aver servito ad accalappiare mille cani randagi — avevamo delle seggioline di paglia e colla spalliera di legno che terminava in due specie di pigne. Mi par di vederle ancora! Io, con la mia fede assoluta nelle parole della Suora, credevo fermamente che Dio… fosse dentro a quelle due pigne e gli chiedevo scusa di voltargli le spalle… Santa semplicità dell'infanzia, che fa scorrere un sorriso nei Cieli e davanti alla quale angeli e patriarchi s'inchinano riverenti. Almeno lo penso io.

   E l'Angelo custode? Nel giardino, così tetro e verdognolo, vi era una grotta con dentro l'Arcangelo S. Michele, credo, perché aveva la spada in mano. Un angelone gigante per noi così piccine!… E la Suora ci portava là davanti e ci diceva che un angelo così, ma ancor più bello, era sempre al nostro fianco e bisognava esser buone se no lui si copriva il volto con le sue belle ali e piangeva…
  Ma poi, più di queste due prime conoscenze col soprannaturale, quello che più di tutto mi faceva palpitare il cuore davanti all'ineffabile mistero della bontà divina era il Cristo deposto della Cappella. Era sotto l'altare maggiore. Doveva essere un'opera d'arte molto antica e certo meritevole, perché aveva un verismo fin troppo impressionante. Così e non diversamente doveva essere il Cristo quando le mani pietose di Giuseppe e Nicodemo lo schiodarono dalla croce per deporlo nel grembo della Madre. Grande al naturale, aveva i tratti stanchi di chi morì fra mille spasimi e, nelle membra rilasciate nell'abbandono della morte, tutte le piaghe, le sferzate, le trafitture, le contusioni di uno seviziato come lo fu il Salvatore prima della crocifissione.
   Impressionante dico e ripeto, e molte mie compagne piangevano di paura quando ci portavano là a vederlo e a pregarlo. Io non piangevo di paura ma tremavo di compassione. Io che fin da allora non potevo veder soffrire nessuno, neppure un pollo, e che mi sentivo ripetere che quel povero corpo era quello di Gesù e che così l'avevano ridotto i nostri peccati. Non so se era in tutto giusto far fare certe meditazioni a creature non ancora cinquenni; quello che so di certo è che io, all'opposto delle altre che piangevano per paura di quel cadavere, e soprattutto per paura del castigo di Dio per i nostri peccati, tremavo di pena solo per Lui e sentivo che era l'amore, il suo amore per noi, più dei giudei crocifissori, che l'aveva ridotto così e avrei voluto consolarlo… Vincendo il ribrezzo naturale per quel corpo impiagato in una maniera paurosa, lo guardavo, lo guardavo e avrei voluto che l'urna fosse aperta per potergli andare vicino, carezzargli la testa coronata di spine, baciarlo anche, far sì che sentisse che gli volevo bene. Quante volte avrei voluto mettere in quella mano trafitta il bel confettone tutto bergnoccoluto o quello dorato, o rosso o verdolino, che la nonna mi comperava nel condurmi a scuola e che mi piacevano tanto perché erano buoni e poi perché mi dicevano l'amore della nonna!
   Le parranno sciocchezze queste, Padre. Ma pensi alla mia età di allora… Più tardi, molto più tardi, nella mano trafitta di Gesù ho messo l'offerta della mia vita ma, se ci penso bene, sento che… mi sarebbe costato di più, allora, dargli il mio confetto che non ora la mia vita e il mio soffrire.
Tornata a casa io, che già avevo raccontato tutto a nonna, ripetevo la mia… scienza a mamma, a papà, alla donna di servizio, al soldato, e poi andavo a nanna pensando a Gesù che era là solo e… malato, dicevo io. Ed era tanta la forza di questo pensiero che delle volte di notte mi svegliavo piangendo, e a nonna che dormiva con me o a mamma che accorreva sentendomi piangere dicevo che vedevo Gesù tutto malato che piangeva perché era solo. I miei si impressionarono di questo e pensarono di farmi cambiare Istituto per mandarmi in uno meno… medioevale, nella tema che io mi ammalassi di paura. No, mi ammalavo di amore.
   Il primo contatto era avvenuto e Gesù e Maria non si sarebbero più persi di vista anche se, a periodi, vi fu da mia parte una colpevole freddezza. Ma proprio staccata da Lui non mi staccai più e da Lui sofferente, da Lui Redentore, da Lui Re del dolore. Non ho mai compreso Cristo che sotto questa vesta imporporata del suo sangue ed ho sempre avuto ansia di consolarlo facendomi simile a Lui nel dolore volontariamente patito per amore.

   Mentre i miei stavano decidendo sulla scelta del nuovo Istituto, io venni colpita dalla tosse canina in forma improvvisa e gravissima. Ero andata a scuola come al solito, pure sentendomi tutta indolenzita. Ma mi hanno abituata per tempo a non ascoltare tutti i malannucci e sono grata ai miei di ciò. Se non mi avessero temprata virilmente come avrei potuto sopportare la mia vita? Ero dunque andata a scuola. Ma verso il mezzogiorno cominciai a tossire in modo che non lasciava dubbi sul genere di quella tosse e mi venne subito un febbrone. Fui immediatamente separata dalle compagnette e stetti tutto il resto del tempo, ossia fino alle 17, nello studio della Superiora e in braccio a lei. In braccio! Oh! ci stavo ad aver tutto quel male nel petto pur di stare in braccio a quella Suora così bianca e buona. Fuor che la nonna e mio papà, nessuno mi pigliava in collo ed io avevo una così acuta smania di essere coccolata!!
   Non tornai più dalle Orsoline. La malattia durò dei mesi e si vinse solo nell'estate venendo in Toscana per la villeggiatura.
   Nell'ottobre 1904 venni iscritta all'Istituto delle Marcelline.
 
   amavo intensamente ed amo mia mamma: è la prima delle 28 attestazioni che si troveranno richiamate nella voce 
"Fioravanzi Iside, amata ecc." dell'indice analitico in fondo al volume. Maria Valtorta, sincera anche sul conto della 
propria madre, della quale riferisce incomprensioni e vessazioni, mostra di averla sempre amata, perdonata, onorata e 
servita.



AMDG et DVM

VIENI SPIRITO SANTO, VIENI





Chiediamo insistentemente
[ ossia come ad ogni respiro ]
il Dono dello Spirito Santo:

Vieni, Spirito Santo, vieni:  per mezzo della potente intercessione del Cuore Immacolato di Maria, tua Sposa amatissima”