giovedì 2 aprile 2015

2. PRENDETE IN MANO LA VOSTRA VITA. (SAN GIOVANNI PAOLO II)

IL MESSAGGIO DEI SANTI  VALE PER SEMPRE: 


INCONTRO DI  SAN GIOVANNI PAOLO II
CON I GIOVANI 

Carissimi giovani di Cagliari e dell’intera Sardegna!

1. Ritrovarmi stasera in mezzo a voi, mentre sta per concludersi la mia visita-pellegrinaggio nella vostra nobilissima Terra, è per me motivo di grande gioia, perché contiene - direi - una sorta di presentimento. Con voi, vicino a voi a me sembra non si possa parlare di conclusione, quanto piuttosto di continuazione della mia permanenza nell’Isola, perché son sicuro che conserverete a lungo il ricordo di questo nostro incontro, lo rievocherete anche con i vostri coetanei e amici, e soprattutto ripenserete alle mie parole ed esortazioni, studiandovi di approfondirle e di farne tesoro. Sono parole ed esortazioni che sgorgano dal profondo del mio cuore e che vi rivolgo con tanta fiducia - come ho già fatto in passato con altri gruppi di giovani come voi, in Italia e in altre Nazioni -,  perché conto sulla vostra generosità e sulla serietà del vostro impegno di vita.

2. C’è una parola specifica per voi, giovani figli di Sardegna? Sì, certamente in rapporto ai particolari problemi della società in cui vivete. Ma io vorrei, prima di tutto, riprendere idealmente il discorso che tenni circa un mese fa ai giovani di Genova e della Liguria.
Come le navi-traghetto che solcano nei due sensi l’azzurro Tirreno per collegare Genova e Cagliari, quasi per esprimere visivamente i vincoli storici che le collegavano pure in passato, così la mia parola intenzionalmente si rifà a quanto già dissi nel Capoluogo ligure per sviluppare coerentemente altri concetti (Giovanni Paolo II, Allocutio ad iuvenes in urbe “Genova” habita, 4, 22 settembre 1985:Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII/2 [1985] 740 ss.).

Dissi ai giovani in quella occasione di “non appiattirsi nella mediocrità”, di “non vivere solo a metà”, ma di “prendere nelle loro mani la propria vita”, per “farne un autentico e personale capolavoro”. Ciò naturalmente vale anche per voi, e ne ho avvertito l’eco nelle parole dei due vostri amici e interpreti, quando, accennando alle difficoltà e ai disagi dell’odierna realtà sociale, hanno denunciato il pericolo di adagiarsi nella provvisorietà come stile di vita, di cedere allo scoraggiamento e di cadere nell’emarginazione. Per questo anche a voi io ripeto: Giovani di Sardegna, a nessuno è lecito “abbandonarsi”; oggi è più che mai necessario, proprio per superare le difficoltà, che “prendiate in mano” la vostra vita!


3. Ma in concreto - voi potete chiedere - che cosa significa e cosa comporta tutto questo? Ecco, intendo dire che ciascuno di voi deve essere pienamente se stesso, sviluppando al meglio tutte le sue potenzialità, cercando di costruirsi compiutamente come persona. Sapete bene che nella formazione giovanile, quando si tratta di impostarla e soprattutto quando urge decidere, non sono possibili né evasioni né deleghe. Senza presunzione, certo, senza iattanza, ciascuno di voi deve fare appello coraggiosamente a quelle interiori risorse, deve avvalersi di quelle personali energie, che Dio creatore e provvidente ha posto in lui come altrettanti suoi doni. Il giovane che diventa uomo, pur se può usufruire dell’assistenza e dell’aiuto di altri - a cominciare dall’opera insostituibile dei genitori - dovrà in definitiva costruirsi con le sue forze. Non si tratta di sollecitudine e di chiusura egoistica in se stessi. Si tratta unicamente di fedeltà della propria verità di essere umani, portatori di un proprio irripetibile destino.

Sappiate, dunque, carissimi giovani, “prendere in mano” la vostra vita. Fatelo in nome di quel nucleo interno indistruttibile, che è la vostra libertà personale: un grande e prezioso dono, che Dio vi ha fatto e che Dio stesso rispetta. Quando si tratta delle scelte di fondo, quando - vi ripeto - urgono le decisioni, allora l’iniziativa spetta a voi: tocca a voi muovervi e camminare!

La vostra affollata presenza stasera mi conferma che la giusta direzione l’avete già presa: voi non sareste qui, se non ci fosse già stata una personale, libera e decisa presa di posizione. La vostra vita e la vostra libertà, tutto quanto voi avete - la salute, la giovinezza, la forza, l’apertura verso l’avvenire - tutto voi intendete utilizzare in vista di una vostra formazione completa: fisica e morale, civile e religiosa, umana e cristiana.
Senza smentire né rinnegare, senza sciupare né distruggere quello che vi è stato dato e vi è tuttora dato dai vostri genitori, dai vostri insegnanti, dai vostri sacerdoti - rappresentanti tutti e collaboratori di Dio - voi volete tracciare un vostro personale progetto di vita, che vi consenta di sentirvi pienamente voi stessi davanti ai coetanei e agli adulti, davanti a Cristo e alla sua Chiesa.

4. Qual è il contenuto di tale progetto? Giovani figli di Sardegna, se la sintesi finale è e resta fondamentalmente vostra, secondo l’impegno e la volontà di ciascuno, io non posso non richiamare quei valori fondamentali della vita, che debbono rientrarvi come componenti. Sono valori tuttora intatti e nobilmente presenti nelle tradizioni della vostra Terra. Ma badate bene che non basta averli ricevuti: bisogna assumerli in proprio, bisogna assimilarli e incarnarli nel quotidiano. Di questi valori voi dovete essere portatoriper costruire la nuova società.
Uno l’ho già nominato, quando ho parlato dei vostri genitori: come potrei tacere questo primario rapporto, che vi inserisce nellatipica dimensione della famiglia sarda? È un centro vitale di affetti, un nido geloso che al calore del sentimento unisce la probità, la laboriosità e la tenacia spinte non di raro fino al sacrificio e all’eroismo. Quante madri, quanti padri potrebbero parlare al mio posto! Custodite, cari giovani, questa antica e sacra eredità! Non la rinnegate mai! Abbiate il senso, anzi il culto e, direi, l’orgoglio di essere nati nelle vostre famiglie! E impegnatevi a maturare in voi stessi degli uomini e delle donne a cui un giorno i vostri figli possano a loro volta guardare con orgoglio.

Nel vostro progetto deve poi rientrare il valore di una vostra seria formazione intellettuale. È un valore fondamentale per il vostro futuro e per quello del vostro popolo: l’ignoranza è un freno, una molla del progresso. La qualità del vostro domani dipenderà dalla qualità della vostra preparazione culturale di oggi. Come non riconoscere, da questo punto di vista, l’importanza di quell’insieme di persone, di strutture, di attività, che va sotto il nome di scuola? Capitemi: io parlo della scuola non già come realtà separata e distinta, da accettare o subire nei suoi orari e programmi, ma come palestra che è “vostra” e vi appartiene, a voi e ai vostri insegnanti, in tutti i suoi ordini e gradi. Se così voi la concepite e in questa prospettiva ad essa partecipate, la scuola si rivelerà strumento validissimo per la vostra crescita umana e, di riflesso, strumento di crescita per la città e per l’Isola.
Un altro valore non può mancare nel vostro progetto. Non può mancare, perché da esso traggono senso e vigore tutti gli altri; il valore di una fede, sincera e profonda, divenuta sostanza della vostra vita. Una fede di questa tempra suppone l’inserimento vivo e partecipe nella comunità cristiana concreta. Il mio pensiero va in questo momento alle vostre Parrocchie, sparse non soltanto nei centri maggiori, ma nei piccoli paesi e nelle zone più remote. E ho presenti, altresì, tanti Sacerdoti generosi e sensibili, abituati da sempre a condividere con i propri fedeli, a cominciare dai più poveri, i disagi, i problemi, i pericoli. Con i sacerdoti sono i Vescovi delle diocesi sarde. So delle loro esortazioni anche a livello di Conferenza Regionale; so degli orientamenti pastorali indicati dal vostro Arcivescovo.

Ma che cosa c’è alla base di tutto questo? C’è l’ansia di contribuire efficacemente, con l’aiuto del Signore, a irrobustire la tradizionale religiosità dei sardi, ma come sottinteso c’è l’intenzione di far leva innanzitutto su voi giovani, per portarvi al contatto personale con Cristo. A voi giovani, dunque, la responsabilità di corrispondere alle sollecitudini dei vostri Pastori, Essi vi richiamano alla conversione del cuore, come condizione primaria per alimentare “dall’interno” la fede. Ebbene, a questa fondamentale via di crescita cristiana vi richiamo anch’io, ricordando che conversione significa anche riconciliazione e preghiera.
I vostri Pastori vi hanno indicato pure, come particolare impegno, la catechesi, da intendere non soltanto come sforzo per approfondire personalmente la dottrina del Vangelo, ma anche e simultaneamente come opportunità di testimonianza nei confronti degli altri. E io vi dico: siate i catechisti di voi stessi e dei vostri amici in tutti gli ambienti in cui operate. Vi è stata anche indicata la dimensione della carità, che va ben oltre - come sapete - il soccorso pur necessario per i poveri e gli emarginati: la carità, in effetti, ha un’estensione e un’applicazione molto più ampia, ed è la misura dell’autenticità del nostro essere cristiani. E anch’io insisto: vivete la carità in ogni sua dimensione e sarete veri seguaci di Cristo, testimoni credibili del suo Vangelo.

I vostri Pastori, infine, hanno posto il problema della vocazione come appello personale a cui ciascuno deve rispondere, perché le scelte decisive non si possono eludere. Anch’io dico che, come il cittadino ha un suo ruolo nella società, così ogni cristiano ha lasua vocazione nel corpo di Cristo che è la Chiesa. Ma, dicendo vocazione, intendo anche qualcosa di più: alla vocazione generale si può affiancare non di raro una vocazione speciale alla consacrazione sacerdotale o religiosa. All’una e all’altra bisogna rispondere!
Comprendete bene, cari giovani, come tutto ciò esiga un attento lavoro di discernimento, così che dalla famiglia alla scuola, dalla parrocchia alla pastorale diocesana e interdiocesana il progetto di vita abbia concretezza e attuazione. È possibile questo? Sta avvenendo nella vostra vita? Perché sia possibile e avvenga, vi è necessaria la luce dall’Alto: la luce di Cristo, personalmenteincontrato e personalmente presente. Se è lui che chiama, è a lui che bisogna rispondere.

5. Nella mia Lettera ai giovani e alle giovani per l’Anno Internazionale della Gioventù ho parlato a lungo dello sguardo rivolto da Cristo a quel giovane del Vangelo: “Gesù, fissatolo, lo amò” (Mc 10, 21). È uno sguardo misterioso e pieno d’amore, segno di personale incontro, anzi di contatto con lui; uno sguardo che vi auguro di scoprire e di sperimentare nella sua efficacia trascinatrice (cf. Giovanni Paolo II, Epistula Apostolica ad iuvenes, Internationali vertente Anno Iuventuti dicato, 7, 31 marzo 1985:Insegnamenti di Giovanni Paolo II, VIII/1 [1985] 769 s.). Da Gesù Cristo, infatti, viene l’orientamento esistenziale; da lui l’alimento vitale: egli è la via, la verità e la vita (cf. Gv 14, 6).

Non ignoro, carissimi, le difficoltà e le incertezze che, purtroppo, la realtà quotidiana può riservarvi. Non parlerò dei tanti pericoli e tentazioni che presenta oggi la vita; non posso, però, dimenticare la piaga della disoccupazione. So che al riguardo la vostra Regione detiene un ben triste primato, avendo la percentuale più alta di giovani disoccupati. È un problema, questo, che mi addolora profondamente, per una serie di motivi, a cominciare dal fatto che esso può frustrare sul nascere ogni serio impegno e far naufragare lo stesso progetto di vita. E anche l’esodo da questa Terra è un dissanguamento di tante fresche energie; non è solo perdita in termini economici, ma psicologicamente è uno sradicamento dall’ambiente, i cui danni morali, prima che sociali, son difficili da calcolare.
Per questo rivolgo un caldo e pressante appello a tutte le Autorità, a ogni livello, proprio in rapporto al diritto-dovere dei giovani a “prendere in mano” la propria vita. Penso infatti che, coordinandosi i vostri sforzi personali, cari giovani, con le iniziative che spettano ai pubblici poteri, sarà possibile dare all’annoso e dannoso problema l’auspicata e soddisfacente soluzione. A questo fine il mio augurio, la mia solidarietà, la mia preghiera.


6. Io invoco su di voi e per voi, a sostegno dei vostri progetti e a superamento delle presenti difficoltà, una speciale effusione della grazia di Nostro Signore. Per voi e su di voi invoco la materna protezione di Santa Maria di Bonaria. La vostra crescita - è questo il mio voto supremo - avvenga nella fedeltà a questi ideali e valori, che fin dalle origini del cristianesimo hanno impresso un inconfondibile profilo alle generazioni che si sono succedute in quest’Isola. La Sardegna cristiana oggi dev'essere rappresentata e impersonata, deve essere “fatta” dai giovani cristiani! Vorrei con Maria ripetere a ciascuno di voi: “Fate quello che egli vi dirà” (Gv . 2, 5). Cristo vi parla; Cristo vi chiama. Sappiate rispondere!

VISITA PASTORALE IN SARDEGNA, Cagliari - Domenica, 20 ottobre 1985
Copyright © Libreria Editrice Vaticana

2. "Vengo a rinfrescarvi nella mente la mia duplice figura di Dio e di Uomo ... "

603. Riflessioni sull'agonia nel Getsemani e premessa agli altri dolori della Passione 


Dice Gesù: 

«La sofferenza della mia agonia spirituale tu l'hai contemplata nella sera del Giovedì. 

Hai visto il tuo Gesù accasciarsi come uomo colpito a morte che sente fuggire la vita attraverso le ferite che lo svenano, o come creatura soverchiata da un trauma psichico superiore alle sue forze. Ne hai visto le fasi crescenti, di questo trauma, culminate nell'effusione sanguigna, provocata dallo squilibrio circolatorio causato dallo sforzo di vincermi e di resistere al peso che mi si era abbattuto sopra. 

Io ero, sono, il Figlio del Dio altissimo. Ma ero anche il Figlio dell'uomo. Da queste pagine voglio che sgorghi nitida questa mia duplice natura, ugualmente totale e perfetta. Della mia Divinità vi fa fede la mia parola, la quale ha accenti che solo un Dio può avere. 

Della mia Umanità i bisogni, le passioni, le sofferenze che vi presento e che patii nella mia carne di vero Uomo, proposta a modello della vostra umanità, così come vi istruisco lo spirito con la mia dottrina di vero Dio. 

Tanto la mia santissima Divinità come la mia perfettissima Umanità, nel corso dei secoli e per l'azione disgregante della "vostra" umanità imperfetta, sono risultate menomate, svisate nella loro illustrazione. Avete resa irreale la mia Umanità, l'avete resa inumana, così come avete resa piccola la mia figura divina, negandola in tante parti che non vi faceva comodo riconoscere o che non potevate più riconoscere con i vostri spiriti, menomati dalle tabi del vizio e dell'ateismo, dell'umanismo, del razionalismo. 
Io vengo, in quest'ora tragica, prodromo di universali sventure, vengo a rinfrescarvi nella mente la mia duplice figura di Dio e di Uomo, perché voi la conosciate quale Essa è, perché voi la riconosciate dopo tanto oscurantismo con cui l'avete coperta ai vostri spiriti, perché voi la amiate e torniate ad Essa e vi salviate per mezzo di Essa. 

È la figura del vostro Salvatore, e chi la conoscerà e l'amerà sarà salvo. In questi giorni ti ho fatto conoscere le mie sofferenze fisiche. Esse hanno torturato la mia Umanità. 

Ti ho fatto conoscere le mie sofferenze morali, connesse, intrecciate, fuse a quelle della Madre mia, così come sono le inestricabili liane delle foreste equatoriali, che non si possono separare per reciderne una sola, ma che si deve spezzarle con un unico colpo d'accetta per aprirsi il varco, uccidendole insieme; così come sono le vene di un corpo, che non se ne può privare di sangue una perché un unico umore le empie; così, meglio ancora, così come non si può impedire che nella creatura, che si forma nel seno della madre, entri la morte se la madre muore, perché è la vita, il calore, il nutrimento, il sangue della madre quello che, con ritmo sonante sul moto del materno cuore, penetra, attraverso le interne membrane, sino al nascituro e lo completa alla vita. 

Ella, oh! Ella, la pura Madre mia, mi ha portato non solo per i nove mesi con cui ogni femmina d'uomo porta il frutto dell'uomo, ma per tutta la vita. I nostri cuori erano uniti da spirituali fibre e hanno palpitato insieme sempre, e non c'era lacrima materna che cadesse senza rigarmi il cuore del suo salso, e non c'era mio interno lamento che non risuonasse in Lei svegliando il suo dolore. 

Vi fa pena la madre di un figlio destinato alla morte per morbo insanabile, la madre di un condannato al supplizio dal rigore dell'umana giustizia. 
Ma pensate a questa Madre mia, che dal momento in cui mi ha concepito ha tremato pensando che ero il Condannato, a questa Madre che quando m'ha dato il primo bacio sulle carni morbide e rosee di neonato ha sentito le future piaghe della sua Creatura, a questa Madre che avrebbe dato dieci, cento, mille volte la sua vita per impedirmi di divenire Uomo e di giungere al momento dell'Immolazione, a questa Madre che sapeva e che doveva desiderare quell'ora tremenda per accettare la volontà del Signore, per la gloria del Signore, per bontà verso l'Umanità. 


No, non vi è stata agonia più lunga, e finita in un dolore più grande, di quella della Madre mia. 
E non vi è stato un dolore più grande, più completo del mio. 
Ero Uno col Padre. Egli mi aveva dall'eternità amato come solo Dio può amare. Si era compiaciuto di Me ed aveva trovato in Me la sua divina gioia. Ed Io l'avevo amato come solo un Dio può amare, e trovato nell 'unione con Lui la mia gioia divina. 
Gli ineffabili rapporti che legano ab eterno il Padre col Figlio non possono esservi spiegati neppure dalla mia parola, perché, se essa è perfetta, la vostra intelligenza non lo è, e non potete comprendere e conoscere ciò che è Dio finché non siete seco Lui nel Cielo. 

Ebbene, Io sentivo, come acqua che monta e preme contro una diga, crescere, ora per ora, il rigore del Padre verso di Me. A testimonianza contro gli uomini-bruti, che non volevano comprendere chi ero, Egli aveva aperto, durante il tempo della mia vita pubblica, tre volte il Cielo: al Giordano (Vol 1 Cap 45), al Tabor (Vol 5 Cap 349) e in Gerusalemme (Vol 9 Cap 598) nella vigilia della Passione. 

Ma l'aveva fatto per gli uomini, non per dare sollievo a Me. Io ormai ero l'Espiatore. Molte volte, Maria, Dio fa conoscere agli uomini un suo servo perché essi ne siano scossi e trascinati, attraverso esso, a Lui, ma ciò avviene anche attraverso il dolore di quel servo. È desso che paga in proprio, mangiando il pane amaro del rigore di Dio, i conforti e la salvezza dei fratelli. Non è vero? Le vittime d'espiazione conoscono il rigore di Dio. Poi viene la gloria. Ma dopo che la Giustizia è placata. Non è come per il mio Amore, che alle sue vittime dà i suoi baci. Io sono Gesù, Io sono il Redentore, Colui che ha sofferto e sa, per personale esperienza, cosa sia il dolore d'esser guardato con severità da Dio ed essere abbandonato da Lui, e non sono mai severo, e non abbandono mai. Consumo ugualmente, ma in un incendio d'amore. 

Più l'ora dell'espiazione si avvicinava e più Io sentivo allontanarsi il Padre. Sempre più separato dal Padre, la mia Umanità si sentiva sempre meno sorretta dalla Divinità di Dio. E ne soffrivo in tutte le maniere. 
La separazione da Dio porta seco paura, porta seco attaccamento alla vita, porta seco languore, stanchezza, tedio. Più è profonda e più sono forti queste sue conseguenze. Quando è totale, porta disperazione. E quanto più chi, per un decreto di Dio, la prova senza averla meritata, più ne soffre, perché lo spirito vivo sente la recisione da Dio così come una carne viva sente la recisione di un arto. 

E uno stupore doloroso, accasciante, che chi non l'ha provato non intende. Io l'ho provato. Tutto ho dovuto conoscere per potere di tutto perorare presso il Padre in vostro favore. Anche le vostre disperazioni. Oh, Io l'ho provato cosa vuol dire: "Sono solo. Tutti mi hanno tradito, abbandonato. Anche il Padre, anche Dio non m'aiuta più". Ed è per questo che opero misteriosi prodigi di grazia presso i poveri cuori che la disperazione soverchia, e che chiedo ai miei prediletti di bere il mio calice così amaro di esperienza, perché essi, coloro che naufragano nel mare della disperazione, non ricusino la croce che offro per àncora e per salvezza, ma vi si afferrino ed Io li possa portare alla beata riva dove non vive che pace. 

Nella sera del Giovedì, Io solo so se avrei avuto bisogno del Padre! Ero uno spirito già agonizzante per lo sforzo di aver dovuto superare i due più grandi dolori di un uomo: l'addio ad una madre amatissima, la vicinanza dell'amico infedele. 
Erano due piaghe che mi bruciavano il cuore. 
Una col suo pianto, l'altra col suo odio. 

Avevo dovuto spezzare il mio pane col mio Caino. Avevo dovuto parlargli da amico per non accusarlo agli altri, della cui violenza non ero sicuro, e per impedire un delitto, inutile d'altronde poiché tutto era già segnato nel gran libro della vita: e la mia Morte santa, ed il suicidio di Giuda

Inutili altre morti riprovate da Dio. Nessuno altro sangue che non fosse il mio doveva esser sparso, e sparso non fu. Il capestro strozzò quella vita chiudendo nel sacco immondo del corpo del traditore il suo sangue impuro venduto a Satana, sangue che non doveva mescolarsi, cadendo sulla Terra, al Sangue purissimo dell'Innocente. 

Sarebbero bastate quelle due piaghe a fare di Me un agonizzante nel mio Io. 
Ma ero l'Espiatore, la Vittima, l'Agnello. 

L'agnello, prima d'esser immolato, conosce il marchio rovente, conosce le percosse, conosce lo spogliamento, conosce la vendita al beccaio. Solo per ultimo conosce il gelo del coltello che penetra nella gola e svena e uccide. Prima deve lasciare tutto: il pascolo dove è cresciuto, la madre al cui petto si è nutrito e scaldato, i compagni con cui ha vissuto. Tutto. 

Io ho conosciuto tutto: Io, Agnello di Dio. Perciò è venuto Satana, mentre il Padre si ritirava nei Cieli. Era già venuto all'inizio della mia missione, a tentarmi per sviarmi da essa. Ora tornava. Era la sua ora. L'ora della tregenda satanica. Torme e torme di demoni erano quella notte sulla Terra, per portare a termine la seduzione nei cuori e farli pronti a volere il domani l'uccisione del Cristo. 

Ogni sinedrista aveva il suo, e il suo Erode, e il suo Pilato, e il suo ogni singolo giudeo che avrebbe invocato su lui il mio Sangue. 
Anche gli apostoli avevano il loro tentatore al fianco, che li assopiva mentre Io languivo, che li preparava alla viltà. 

Osserva il potere della purezza. Giovanni, il puro, si liberò primo fra tutti della grinfia demoniaca e tornò subito presso il suo Gesù e lo comprese nel suo inespresso desiderio, e mi condusse Maria. 

Ma Giuda aveva Lucifero, ed Io avevo Lucifero. Egli nel cuore, Io al fianco. Eravamo i due principali personaggi della tragedia, e Satana si occupava personalmente di noi. 
Dopo aver condotto Giuda al punto di non potere più retrocedere, si volse a Me. Con la sua astuzia perfetta, mi presentò le torture della carne con un verismo insuperabile. Anche nel deserto aveva cominciato dalla carne. Lo vinsi pregando. Lo spirito signoreggiò le paure della carne. 

Mi presentò allora l'inutilità del mio morire, l'utilità di vivere per Me stesso senza occuparmi degli uomini ingrati. Vivere ricco, felice, amato. Vivere per la Madre mia, per non farla soffrire. Vivere per portare a Dio con un lungo apostolato tanti uomini, i quali, una volta Io morto, m'avrebbero dimenticato, mentre se fossi stato Maestro non per tre anni ma per lustri e lustri avrebbero finito ad immedesimarsi della mia dottrina. I suoi angeli mi avrebbero aiutato a sedurre gli uomini. Non vedevo che gli angeli di Dio non intervenivano nell'aiutarmi? Dopo, Dio mi avrebbe perdonato vedendo la messe di credenti che gli avrei portato. 

Anche nel deserto m'aveva indotto a tentare Iddio con l'imprudenza. Lo vinsi con la preghiera. Lo spirito signoreggiò la tentazione morale. Mi presentò l'abbandono di Dio. Egli, il Padre, non mi amava più. Ero carico dei peccati del mondo. Gli facevo ribrezzo. Era assente, mi lasciava solo. Mi abbandonava al ludibrio di una folla feroce. E non mi concedeva neppure il suo divino conforto. Solo, solo, solo. In quell'ora non c'era che Satana presso il Cristo. Dio e gli uomini erano assenti, perché non mi amavano. Mi odiavano o erano indifferenti. Io pregavo per coprire col mio orare le parole sataniche. Ma la preghiera non saliva più a Dio. Ricadeva su Me come le pietre della lapidazione e mi schiacciava sotto la sua macia. 
La preghiera, che per Me era sempre carezza data al Padre, voce che saliva, ed alla quale rispondeva carezza e parola paterna, ora era morta, pesante, invano lanciata contro i Cieli chiusi. 

Allora sentii l'amaro del fondo del calice. Il sapore della disperazione. 
Era questo che voleva Satana. Portarmi a disperare per fare di Me un suo schiavo. Ho vinto la disperazione e l'ho vinta con le sole mie forze, perché ho voluto vincerla. Con le sole mie forze di Uomo. Non ero più che l'Uomo. E non ero più che un uomo non più aiutato da Dio. 

Quando Dio aiuta è facile sollevare anche il mondo e sostenerlo come giocattolo di bimbo. Ma quando Dio non aiuta più, anche il peso di un fiore ci è faticoso. Ho vinto la disperazione, e Satana suo creatore, per servire Dio e voi dandovi la Vita.

Ma ho conosciuto la Morte. 
Non la morte fisica del crocifisso - quella fu meno atroce - ma la Morte totale, cosciente, del lottatore che cade, dopo aver trionfato, col cuore spezzato e il sangue che si stravasa nel trauma di uno sforzo superiore al possibile. 
Ed ho sudato sangue. 
Ho sudato sangue per essere fedele alla volontà di Dio. Ecco perché l'angelo del mio dolore mi ha prospettato la speranza di tutti i salvati per il mio sacrificio come medicina al mio morire. I vostri nomi! Ognuno m'è stato una stilla di farmaco infuso nelle vene per ridare loro tono e funzione, ognuno m'è stato vita che torna, luce che torna, forza che torna. Nelle inumane torture, per non urlare il mio dolore di Uomo, e per non disperare di Dio e dire che Egli era troppo severo e ingiusto verso la sua Vittima, Io mi sono ripetuto i vostri nomi. 
Io vi ho visti. 
Io vi ho benedetti da allora. 
Da allora vi ho portati nel cuore. 
E quando è per voi venuta la vostra ora di essere sulla Terra, Io mi sono proteso dai Cieli ad accompagnare la vostra venuta, giubilando al pensiero che un nuovo fiore di amore era nato nel mondo e che avrebbe vissuto per Me. 

Oh! miei benedetti! Conforto del Cristo morente! La Madre, il Discepolo, le Donne pietose erano intorno al mio morire, ma voi pure c'eravate. 
I miei occhi morenti vedevano, insieme al volto straziato della Mamma mia, i vostri visi amorosi, e si sono chiusi così, beati di chiudersi perché vi avevano salvati, o voi che meritate il Sacrificio di un Dio». 


«Hai conosciuto ormai tutti i dolori che hanno preceduto la Passione propriamente detta. 

Ora ti farò conoscere i dolori della Passione in atto. 
Quei dolori che più colpiscono la vostra mente quando li meditate. Ma li meditate molto poco. Troppo poco. Non riflettete a quanto mi siete costati e di quale tortura è fatta la vostra salvezza. 

Voi che vi lamentate di una scorticatura, di un urto contro uno spigolo, di un male di capo, non pensate che Io ero tutto una piaga, che quelle piaghe erano invelenite da molte cose, che le cose stesse servivano a tormento del loro Creatore, perché torturavano il già torturato Dio-Figlio senza rispetto a Colui che, Padre del creato, le aveva formate. 

Ma le cose non erano colpevoli. Era ancora e sempre l'uomo il colpevole. Il colpevole dal giorno che ascoltò Satana nel Paradiso terrestre. Non spine, non tossico, non ferocia avevano sino a quel momento le cose del creato per l'uomo creatura eletta. Dio lo aveva fatto re, questo uomo, fatto a sua immagine e somiglianza, e nel suo paterno amore non aveva voluto che le cose potessero essere insidiose all'uomo. Satana mise l'insidia. Nel cuore dell'uomo per prima. Poi essa partorì all'uomo, colla punizione del peccato, triboli e spine. 

Ed ecco che Io, l'Uomo, ho dovuto soffrire anche per le cose e dalle cose, oltre che dalle persone. Queste mi dettero insulti e sevizie; quelle ne furono arma. 

La mano che Dio aveva fatto all'uomo per distinguerlo dai bruti, la mano che Dio aveva insegnato all'uomo ad usare, la mano che Dio aveva messo in rapporto con la mente rendendola esecutrice dei comandi della mente, questa parte di voi così perfetta e che avrebbe dovuto aver solo carezze per il Figlio di Dio, dal quale aveva avuto solo carezze e guarigione se era malata, si rivoltò contro il Figlio di Dio e lo colpì di guanciate, di pugni, si armò di flagelli, si fece tenaglia per strappare capelli e barba, e maglio per conficcare i chiodi. 

I piedi dell'uomo, che avrebbero dovuto unicamente correre solerti ad adorare il Figlio di Dio, furono veloci per venire a catturarmi, a sospingermi e trascinarmi per le vie dai miei carnefici, e per colpirmi di calci come non è lecito fare con un mulo restio. 

La bocca dell'uomo, che avrebbe dovuto usare della parola, la parola che è dote data unicamente all'uomo su tutti gli animali creati, per lodare e benedire il Figlio di Dio, si empi di bestemmie e menzogne e gettò queste, insieme con la sua bava, contro la mia persona. 

La mente dell'uomo, quella che è la prova della sua origine celeste, stancò se stessa per escogitare tormenti di un raffinato rigore. 

L'uomo, tutto l'uomo usò di se stesso, nelle sue singole parti, per torturare il Figlio di Dio. E chiamò la terra, con le sue forme, ad aiuto nel torturare. 
Fece, delle pietre dei torrenti, proiettili per ferirmi; 
dei rami delle piante, randelli per percuotermi; 
della ritorta canapa, laccio per trascinarmi, segandomi le carni; 
delle spine, una corona di pungente fuoco al mio capo stanco; 
dei minerali, un esasperato flagello; 
della canna, uno strumento di tortura; 
delle pietre delle vie, un'insidia al piede vacillante di Colui che saliva, morendo, per morire crocifisso. 

E alle cose della terra si unirono le cose del cielo. 
Il freddo dell'alba al mio corpo già esausto dell'agonia dell'orto, il vento che esaspera le ferite, il sole che aumenta arsione e febbre e porta mosche e polvere, che abbacina gli occhi stanchi a cui le mani prigioniere non possono far riparo. 

E alle cose del cielo si uniscono le fibre concesse all'uomo per rivestire la sua nudità: nel cuoio che diviene flagello, nella lana della veste che si attacca alle aperte piaghe dei flagelli e dà tortura di confricamento e di lacerazione ad ogni mossa. 

Tutto, tutto, tutto ha servito per tormentare il Figlio di Dio. Egli, per cui tutte le cose sono state create, nell'ora in cui era l'Ostia offerta a Dio ebbe tutte le cose nemiche. Non ha avuto sollievo, Maria, il tuo Gesù da nessuna cosa. Come vipere inferocite, tutto quanto è si volse a mordermi le carni e ad accrescere il patire. Questo occorrerebbe pensare quando soffrite e, paragonando le vostre imperfezioni alla mia perfezione e il  mio dolore al vostro, riconoscere che il Padre ama voi come non amò Me in quell'ora, ed amarlo perciò con tutti voi stessi, come Io l'ho amato nonostante il suo rigore».

mercoledì 1 aprile 2015

IL POTERE DELLE PAROLE

IL POTERE DELLE PAROLE
*Le parole
curano o feriscono
una persona.

*Perciò,
i greci dicevano che
la parola era divina
i filosofi elogiavano
il silenzio.

1. Manteniamoci sulla loro scia

Dai «Trattati su Giovanni» di sant'Agostino, vescovo
(Tratt. 84, 1-2; CCL 36, 536-538)

La pienezza dell'amore



    Il Signore, o fratelli carissimi, ha definito la pienezza dell'amore con cui dobbiamo amarci gli uni gli altri con queste parole: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15, 13). Ne consegue ciò che il medesimo evangelista Giovanni dice nella sua lettera: Cristo «ha dato la sua vita per noi, quindi anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli», (1 Gv 3, 16) amandoci davvero gli uni gli altri, come egli ci ha amato, fino a dare la sua vita per noi.
    Questo appunto si legge nei Proverbi di Salomone: Quando siedi a mensa col potente, considera bene che cosa hai davanti; e poni mano a far le medesime cose che fa lui (cfr. Pro 23, 1-2).




    Ora qual è la mensa del grande e del potente, se non quella in cui si riceve il corpo e il sangue di colui che ha dato la vita per noi? 


E che significa assidersi a questa mensa, se non accostarvisi con umiltà? 

E che vuol dire considerare bene che cosa si ha davanti, se non riflettere, come si conviene, a una grazia sì grande? 

E che cosa è questo porre mano a far le medesime cose se non ciò che ho detto sopra e cioè: come Cristo ha dato la sua vita per noi, così anche noi dobbiamo essere disposti a dare la nostra vita per i fratelli? 

È quello che dice anche l'apostolo Pietro: «Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme» (1 Pt 2, 21). Questo significa fare le medesime cose. 

Così hanno fatto con ardente amore i santi martiri e, se non vogliamo celebrare inutilmente la loro memoria, se non vogliamo accostarci infruttuosamente alla mensa del Signore, a quel banchetto in cui anch'essi si sono saziati, bisogna che anche noi, come loro, siamo pronti a ricambiare il dono ricevuto.



    A questa mensa del Signore, perciò, noi non commemoriamo i martiri come facciamo con gli altri che ora riposano in pace, cioè non preghiamo per loro, ma chiediamo piuttosto che essi preghino per noi, per ottenerci di seguire le loro orme. 
Essi, infatti, hanno toccato il vertice di quell'amore che il Signore ha definito come il più grande possibile. 
Hanno presentato ai loro fratelli quella stessa testimonianza di amore, che essi medesimi avevano ricevuto alla mensa del Signore.


    Non vogliamo dire con questo di poter essere pari a Cristo Signore, qualora giungessimo a rendergli testimonianza fino allo spargimento del sangue. Egli aveva il potere di dare la sua vita e di riprenderla, mentre noi non possiamo vivere finché vogliamo, e dobbiamo morire anche contro nostra voglia. 

Egli, morendo, uccise subito in sé la morte, mentre noi veniamo liberati dalla morte solo mediante la sua morte. La sua carne non conobbe la corruzione, mentre la nostra, solo dopo aver subito la corruzione, rivestirà per mezzo di lui l'incorruttibilità alla fine del mondo. Egli non ebbe bisogno di noi per salvarci, ma noi, senza di lui, non possiamo far nulla. Egli si è mostrato come vite a noi che siamo i tralci, a noi che, senza di lui, non possiamo avere la vita.


    In fine, anche se i fratelli arrivano a dare la vita per i fratelli, il sangue di un martire non viene sparso per la remissione dei peccati dei fratelli, cosa che invece egli ha fatto per noi. E con questo ci ha dato non un esempio da imitare, ma un dono di cui essergli grati.
    I martiri dunque, in quanto versarono il loro sangue per i fratelli, hanno ricambiato solo quanto hanno ricevuto dalla mensa del Signore.
    Manteniamoci sulla loro scia e amiamoci gli uni gli altri, come Cristo ha amato noi, dando se stesso per noi.

RESPONSORIO         Cfr. 1 Gv 4, 9. 11. 10
R. In questo si è manifestato l'amore di Dio per noi: egli ha mandato il suo unico Figlio nel mondo, perché avessimo la vita per mezzo di lui. * Se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri.
V. Dio ci ha amato per primo e ha mandato il suo Figlio come vittima di espiazione per i nostri peccati.
R. Se Dio ci ha amato, anche noi dobbiamo amarci gli uni gli altri.

ORAZIONE

    O Padre misericordioso, che hai voluto che il tuo Figlio subisse per noi il supplizio della croce per liberarci dal potere del nemico; donaci di giungere alla gloria della risurrezione. Per il nostro Signore Gesù Cristo. 

Benediciamo il Signore.
R. Rendiamo grazie a Dio.

1. ULTIMA CENA: quattro ammaestramenti principali.

Dice Gesù: 

«Dall'episodio della Cena, oltre la considerazione della carità di un Dio che si fa Cibo agli uomini, risaltano quattro ammaestramenti principali.

Primo
la necessità per tutti i figli di Dio di ubbidire alla Legge. 

La Legge diceva che si doveva per Pasqua consumare l'agnello secondo il rituale dato dall'Altissimo a Mosè, ed Io, Figlio vero del Dio vero, non mi sono riputato, per la mia qualità divina, esente dalla Legge. Ero sulla Terra: Uomo fra gli uomini e Maestro degli uomini. Dovevo perciò fare il mio dovere di uomo verso Dio come e meglio degli altri. I favori divini non esimono dall'ubbidienza e dallo sforzo verso una sempre maggiore santità. Se paragonate la santità più eccelsa alla perfezione divina, la trovate sempre piena di mende, e perciò obbligata a sforzare se stessa per eliminarle e raggiungere un grado di perfezione per quanto più è possibile simile a quello di Dio. 

Secondo: 
la potenza della preghiera di Maria. 

Io ero Dio fatto Carne. Una Carne che, per essere senza macchia, possedeva la forza spirituale per signoreggiare la carne. Eppure non ricuso, anzi invoco l'aiuto della Piena di Grazia, la quale anche in quell'ora di espiazione avrebbe trovato, è vero, sul suo capo il Cielo chiuso, ma non tanto che non riuscisse a strapparne un angelo, Lei, Regina degli angeli, per il conforto del suo Figlio. Oh! non per Lei, povera Mamma! Anche Lei ha assaporato l'amaro dell'abbandono del Padre, ma per questo suo dolore offerto alla Redenzione m'ha ottenuto di potere superare l'angoscia dell'orto degli Ulivi e di portare a termine la Passione in tutta la sua multiforme asprezza, di cui ognuna era volta a lavare una forma e un mezzo di peccato. 


Terzo: 
il dominio su se stessi e la sopportazione dell'offesa, carità sublime su tutte, la possono avere unicamente quelli che fanno vita della loro vita la legge di carità che Io avevo bandita. 

E non bandita solo, ma praticata realmente. Cosa sia stato per Me aver meco alla mia tavola il mio Traditore, il dovere darmi ad esso, il dovere umiliarmi ad esso, il dovere dividere con esso il calice di rito e posare le labbra là dove egli le aveva posate, e farle posare a mia Madre, voi non potete pensare. I vostri medici hanno discusso e discutono sulla mia rapida fine e le dànno origine in una lesione cardiaca dovuta alle percosse della flagellazione. Sì, anche per queste il mio cuore divenne malato. Ma lo era già dalla Cena. Spezzato, spezzato nello sforzo di dover subire al mio fianco il mio Traditore. Ho cominciato a morire allora, fisicamente. Il resto non è stato che aumento della già esistente agonia. Quanto ho potuto fare l'ho fatto perché ero uno con la Carità. Anche nell'ora in cui Dio-Carità si ritirava da Me, ho saputo esser carità, perché ero vissuto, nei miei trentatré anni, di carità. Non si può giungere ad una perfezione, quale si richiede per perdonare e sopportare il nostro offensore, se non si ha l'abito della carità. Io l'avevo, e ho potuto perdonare e sopportare questo capolavoro di Offensore che fu Giuda. 

Quarto: 
il Sacramento opera quanto più uno è degno di riceverlo. Se ne è fatto degno con una costante volontà, che spezza la carne e fa signore lo spirito, vincendo le concupiscenze, piegando l'essere alle virtù, tendendolo come arco verso la perfezione delle virtù e soprattutto della carità. 

Perché, quando uno ama, tende a far lieto chi ama. Giovanni, che mi amava come nessuno e che era puro, ebbe dal Sacramento il massimo della trasformazione. Cominciò da quel momento ad essere l'aquila, a cui è familiare e facile l'altezza nel Cielo di Dio e l'affissare il Sole eterno. 

Ma guai a chi riceve il Sacramento senza esserne affatto degno, ma anzi avendo accresciuto la sua sempre umana indegnità con le colpe mortali. Allora esso diviene non germe di preservazione e di vita ma di corruzione e di morte. Morte dello spirito e putrefazione della carne, per cui essa "crepa", come dice Pietro di quella di Giuda. (Atti 1, 18). Non sparge il sangue, liquido sempre vitale e bello nella sua porpora, ma le sue interiora, nere di tutte le libidini, marciume che si riversa fuori dalla carne marcita come da carogna di animale immondo, oggetto di ribrezzo per i passanti. 


La morte del profanatore del Sacramento è sempre la morte di un disperato, e perciò non conosce il placido trapasso proprio di chi è in grazia, né l'eroico trapasso della vittima che soffre acutamente ma con lo sguardo fisso al Cielo e l'anima sicura della pace
La morte del disperato è atroce di contorsioni e di terrori, è una convulsione orrenda dell'anima già ghermita dalla mano di Satana, che la strozza per svellerla dalla carne e che la soffoca col suo nauseabondo fiato. Questa la differenza fra chi trapassa all'altra vita dopo essersi nutrito in essa di carità, fede, speranza e d'ogni altra virtù e dottrina celeste e del Pane angelico che l'accompagna coi suoi frutti - meglio se con la sua reale presenza - nel viaggio estremo, e chi trapassa dopo una vita di bruto con morte da bruto che la Grazia e il Sacramento non confortano.

La prima è la serena fine del santo, a cui la morte apre il Regno eterno. 
La seconda è la spaventosa caduta del dannato, che si sente precipitare nella morte eterna e conosce in un attimo ciò che ha voluto perdere, né più può riparare. 
Per uno acquisto, per l'altro spogliamento. 
Per uno gioia, per l'altro terrore. 

Questo è quanto vi date a seconda del vostro credere ed amare, o non credere e deridere il dono mio. E questo è l'insegnamento di questa contemplazione».


AVE MARIA PURISSIMA!