giovedì 3 gennaio 2013

SANTA FAMIGLIA DI NAZARETH



"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’, ma leggetela e fatela leggere"
Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
"Evangelo come mi è stato rivelato"
di Maria Valtorta

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 2,41-52.
I suoi genitori si recavano tutti gli anni a Gerusalemme per la festa di Pasqua.
Quando egli ebbe dodici anni, vi salirono di nuovo secondo l'usanza;
ma trascorsi i giorni della festa, mentre riprendevano la via del ritorno, il fanciullo Gesù rimase a Gerusalemme, senza che i genitori se ne accorgessero.
Credendolo nella carovana, fecero una giornata di viaggio, e poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti;
non avendolo trovato, tornarono in cerca di lui a Gerusalemme.
Dopo tre giorni lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai dottori, mentre li ascoltava e li interrogava.
E tutti quelli che l'udivano erano pieni di stupore per la sua intelligenza e le sue risposte.
Al vederlo restarono stupiti e sua madre gli disse: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io, angosciati, ti cercavamo».
Ed egli rispose: «Perché mi cercavate? Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio?».
Ma essi non compresero le sue parole.
Partì dunque con loro e tornò a Nazaret e stava loro sottomesso. Sua madre serbava tutte queste cose nel suo cuore.
E Gesù cresceva in sapienza, età e grazia davanti a Dio e agli uomini.
Traduzione liturgica della Bibbia

Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 1 Capitolo 40 pagina 246.

<<Il Tempio in giorni di festa. Folla che entra ed esce dalle porte di cinta, che traversa cortili, atri e portici, che scompare in questa o quella costruzione sita nei diversi ripiani su cui è disseminato l’ag­glomerato del Tempio.
Entra anche, cantando sommessamente dei salmi, la comitiva della famiglia di Gesù. Tutti gli uomini prima, poi le donne. A loro si sono uniti anche altri, forse di Nazaret, forse amici di Gerusa­lemme. Non so.
Giuseppe si separa, dopo aver con tutti adorato l’Altissimo dal punto in cui, si capisce, gli uomini potevano farlo (le donne si sono fermate un ripiano più basso) e col Figlio riattraversa, retroceden­do, dei cortili, poi piega da una parte ed entra in una vasta stanza che ha l’aspetto di una sinagoga. Non so come mai. C’erano anche nel Tempio le sinagoghe? Parla con un levita e questo scompare dietro una tenda a righe per tornare poi con dei sacerdoti anziani, credo siano sacerdoti, certo sono maestri nella conoscenza della Legge e destinati perciò ad esaminare i fedeli.
Giuseppe presenta Gesù. Prima si sono ambedue profondamente inchinati ai dieci dottori, che si sono seduti dignitosamente su dei bassi sgabelli di legno. «Ecco», dice. «Questo è mio figlio. Da tre lune e dodici giorni è entrato nel tempo che la Legge destina per esser maggiorenni. Ma io voglio che lo sia secondo i precetti d’Israele. Vi prego osservare che per la sua complessione Egli mostra di es­sere uscito dalla puerizia e dall’età minore. E vi prego esaminarlo benignamente e giustamente per giudicare che quanto qui io, suo padre, asserisco è verità. Io l’ho preparato per quest’ora e per que­sta sua dignità di figlio della Legge. Egli sa i precetti, le tradizioni, le decisioni, le consuetudini delle fimbrie e delle filatterie, sa recitare le preghiere e le benedizioni quotidiane. Può quindi, conoscendo la Legge in se stessa e nei suoi tre rami dell’Halascia, Midrasc e Aggada, condursi da uomo. Perciò io desidero esser liberato dalla responsabilità delle sue azioni e dei suoi peccati. D’ora in poi Egli sia soggetto ai precetti e sconti di suo le pene per i mancamenti verso di essi. Esaminatelo».
«Lo faremo. Vieni avanti, fanciullo. Il tuo nome?».
«Gesù di Giuseppe, di Nazareth».
«Nazareno… Sai dunque leggere?».
«Sì, rabbi. So leggere le parole scritte e quelle che sono chiuse nelle parole stesse».
«Come vorresti dire?».
«Voglio dire che comprendo anche il significato dell’allegoria o del simbolo che si cela sotto l’ap­parenza, così come la perla non appare ma è nella conchiglia brutta e serrata».
«Risposta non comune e molto saggia. Raramente si ode ciò su labbra adulte; in un bambino, poi, e nazareno per giunta!…».
L’attenzione dei dieci si è fatta sveglia. I loro occhi non perdono un istante di vista il bel fanciullo biondo che li guarda sicuro, senza spavalderia, ma senza paura.
«Tu fai onore al tuo maestro, che, per certo, era assai dotto».
«La Sapienza di Dio era raccolta nel suo cuore giusto».
«Ma udite! Te felice, padre di tal figlio!».
Giuseppe, che è in fondo alla sala, sorride e si inchina.
Dànno a Gesù tre rotoli diversi, dicendo: «Leggi quello serrato da nastro d’oro».
Gesù apre il rotolo e legge. È il Decalogo. Ma, dopo le prime parole, un giudice gli leva il rotolo dicendo: «Presegui a memoria». Gesù lo dice così sicuro che pare che legga. Ogni volta che nomina il Signore si inchina profondamente.
«Chi ti ha insegnato ciò? Perché lo fai?».
«Perché santo è quel Nome e va pronunciato con segno interno ed esterno di rispetto. Al re, che è re per breve tempo, si inchinano i sudditi, e polvere egli è. Al Re dei re, all’altissimo Signore d’Israe­le, presente anche se non visibile che allo spirito, non si dovrà inchinare ogni creatura, che da Lui dipende con sudditanza eterna?».
«Bravo! Uomo, noi ti consigliamo di fare istruire il figlio tuo da Hillel o Gamaliele. È nazareno… ma le sue risposte fanno sperare da Esso un nuovo grande dottore».
«Il figlio è maggiorenne. Farà secondo il suo volere. Io, se sarà volere onesto, non lo contraste­rò».
«Fanciullo, ascolta. Hai detto: “Ricordati di santificare le feste. Ma non solo per te, ma per tuo figlio e figlia e servo e serva, ma persino per il giumento è detto di non fare, il sabato, lavoro”. Or dimmi, se una gallina depone un uovo in sabato od una pecora figlia, sarà lecito usare quel frutto del suo ventre, oppure sarà considerato obbrobrio?».
«So che molti rabbi, ultimo il vivente Sciammai, dicono che l’uovo deposto in sabato è contrario al precetto. Ma Io penso che altro è l’uomo e altro è l’animale o chi compie atto animale come è il par­torire. Se io obbligo il giumento a lavorare, io compio anche il suo peccato, perché io mi impongo con la sferza a farlo lavorare. Ma se una gallina depone l’uovo maturatosi nella sua ovaia, o una pecora genera il figlio in sabato perché ormai maturo al nascere, no, che tale opera non è peccato, né peccato è, agli occhi di Dio, l’uovo e l’agnello in sabato deposti».
«Perché mai, se tutto ed ogni lavoro in sabato è peccato?».
«Perché il concepire e generare corrisponde al volere del Creatore ed è regolato da leggi da Lui da­te ad ogni creato. Or la gallina non fa che ubbidire a quella legge che dice che, dopo tante ore di for­mazione, l’uovo è completo e va deposto, e la pecora pure non fa che ubbidire a quelle leggi messe da Colui che tutto fece, il quale stabilì che due volte l’anno, quando ride primavera sui prati in fiore, e quando si spoglia il bosco delle sue fronde e gelo stringe il petto dell’uomo, le pecore andassero ai loro connubi per dar poi, all’opposto tempo, latte, carne e formaggi sostanziosi, nei mesi di più aspra fatica per le messi, o di più sofferente squallore per i geli. Se dunque una pecora, giunto il suo tem­po, depone il suo nato, oh! questo ben può esser sacro anche all’altare, perché è frutto di ubbidienza al Creatore».
«Io non lo esaminerei oltre. La sua sapienza supera le adulte e stupisce».
«No. Si è detto capace di comprendere anche i simboli. Udiamolo».
«Prima dica un salmo, le benedizioni e le preghiere».
«Anche i precetti».
«Sì. Di’ i midrasciot».
Gesù dice sicuro una litania di «non fare questo… non fare quello…». Se noi dovessimo avere an­cora tutte queste limitazioni, ribelli come siamo, le assicuro che non si salverebbe più nessuno…
«Basta. Apri il rotolo dal nastro verde».
Gesù apre e fa per leggere.
«Più avanti, più ancora».
Gesù ubbidisce.
«Basta. Leggi e spiega, se ti pare che ci sia simbolo».
«Nella Parola santa raramente manca. Siamo noi che non lo sappiamo vedere e applicare. Leggo: 4° libro dei Re, capo 22°, versetto 10: “Safan, scriba, continuando a riferire al re, disse: ‘Il sommo sacerdote Elcia m’ha dato un libro’. Avendolo Safan letto alla presenza del re, il re, udite le parole della Legge del Signore, si stracciò le vesti e poi diede…”».
«Vai oltre i nomi».
«“…quest’ordine: ‘Andate a consultare il Signore per me, per il popolo, per tutto Giuda, riguardo alle parole di questo libro che si è trovato, perché la grande ira di Dio s’è accesa contro di noi perché i padri nostri non ascoltarono le parole di questo libro, in modo da seguirne le prescrizioni’…”».
«Basta. Il fatto avviene molti secoli lontano da noi. Quale simbolo trovi in un fatto di cronaca an­tica?».
«Trovo che non vi è tempo per ciò che è eterno. E eterno è Dio e l’anima nostra, eterni i rapporti fra Dio e l’anima. Perciò, ciò che aveva provocato il castigo allora è la stessa cosa che provoca i ca­stighi ora, e uguali sono gli effetti della colpa».
«Cioè?».
«Israele più non sa la Sapienza, la quale viene da Dio. È a Lui, e non ai poveri uomini, che occor­re chiedere luce, e luce non si ha se non si ha giustizia e fedeltà a Dio. Perciò si pecca, e Dio, nella sua ira, punisce».
«Noi non sappiamo più? Ma che dici, fanciullo? E i 613 precetti?».
«I precetti sono, ma son parole. Li sappiamo ma non li mettiamo in pratica. Perciò non sappiamo. Il simbolo è questo: ogni uomo, in ogni tempo, ha bisogno di consultare il Signore per conoscerne il volere e ad esso attenersi per non attirarne l’ira».
«Il fanciullo è perfetto. Neppure il tranello della domanda insidiosa ha turbato la sua risposta. Sia condotto nella vera sinagoga».
Passano in una stanza più vasta e pomposa. Qui, per prima cosa, gli raccorciano i capelli. I riccio­loni vengono raccolti da Giuseppe. Poi gli stringono la veste rossa con una lunga cintura girata a più giri intorno alla vita, gli legano delle striscioline alla fronte, al braccio e al mantello. Le fissano con delle specie di borchie. Poi cantano salmi e Giuseppe loda con una lunga preghiera il Signore e invo­ca sul Figlio ogni bene.
La cerimonia ha termine. Gesù esce con Giuseppe. Tornano da dove erano venuti, si riuniscono ai parenti maschi, comperano e offrono un agnello; poi, con la vittima sgozzata, raggiungono le donne.
Maria bacia il suo Gesù. Pare sia degli anni che non lo vede. Lo guarda, fatto più uomo nella veste e nei capelli, lo carezza…
Escono e tutto finisce.>>
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/

AVE MARIA!
AVE GIGLIO BIANCO DELLA TRINITA'!

martedì 1 gennaio 2013

Due giardini, visti dal Piccolo Nulla


I
«Ho visto, ella raccontava il primo giorno, un giardino a forma di cuore, que­sto giardino era secco, arido. Gli alberi erano disseccati, non avevano foglie; l'er­ba era bruciata. Mancavano l'acqua per dissetarsi, e l'aria per respirare. In segui­to, ho visto in lontananza Gesù, triste, sofferente, piangente, coperto di polvere, nella più grande angoscia. Mi è sembrato che io stessa, al vederlo, fossi caduta nella tristezza, nella sofferenza, nell'angoscia. In una parola, ho provato tutti i sen­timenti, tutte le impressioni che vedevo in Gesù. Mi sono prosternata ai suoi pie­di, ed ho asciugato le sue lacrime con le mie, mi sembrava almeno che fosse così. Dal profondo del cuore avrei voluto asciugare la polvere dei suoi piedi e quella che lo copriva. Gesù è entrato in questo giardino inaridito, ma non vi ha trovato ne aria, né acqua, né ombra, ed è divenuto ancora più triste, più oppresso, più soffe­rente. Non vi è rimasto a lungo, uscito quasi subito da questo giardino è entrato in un altro, accanto. In questo, ha trovato del verde, fiori, alberi da frutto e frutti ma­turi. Tutti gli alberi erano verdi, coperti da un fogliame folto e ombroso. C'erano aria ed acqua in abbondanza, la terra era lì ben lavorata e umidificata. In questo giardino; Gesù è parso ritornare in salute, è diventato giovane, sorridente, ed ha detto: Qui fa bel tempo: c'è aria per respirare, acqua per dissetarsi, frutta per mangiare, ombra per riposarsi. Ed è rimasto a lungo in questo giardino e vi stava molto bene. Non comprendendo il senso di ciò che vedevo, mi sono rivolta a un giovane che mi guidava a Gesù, e gli ho chiesto quello che ciò significasse. Egli mi ha detto: Il secondo giardino rappresenta l'anima fedele e umile che riceve e conserva le acque della grazia, mentre il primo giardino, che non è lavorato, è il simbolo delle anime orgogliose, le quali non conservano per loro l'acqua della grazia, vittime delle lo­ro passioni che le bruciano. L'aria che si respira nel buon giardino è il simbolo del­le aspirazioni dell'anima verso Gesù: queste aspirazioni sono la sua vita. I fiori rappresentano le virtù dell'anima; i frutti, sono le buone opere, la mortificazione, la penitenza, con le quali essa guadagna altre anime a Gesù. Le foglie degli albe­ri raffigurano la carità con l'ombra che esse danno. La aridità e la durezza della terra del cattivo giardino rappresentano un cuore indurito».

31.536.000 secondi: li vivo tutti per Dio?





Auguri per un nuovo anno 2013 davvero Santo,
di Fede e di Carità...

... 365 giorni,
8.760 ore,
525.600 minuti,
31.536.000 secondi:

li vivo tutti per Dio?
Che sia santo il tempo speso per Colui che me lo dona!

"dunque, come si presenta l'occasione, facciamo del bene a tutti" (Gal 6, 10), conviene affrettarci finché abbiamo tempo, perché poi "viene  la notte, quando nessuno può operare(Gv 9,4)




...il Figlio di Dio è mandato a noi 'sotto sembianza di uomo peccatore' per trasformare noi peccatori in figli di Dio.
...otto giorni dopo la sua nascita, scorrono dalla sue carni immacolate le prime gocce del suo prezioso sangue; Egli inizia così la sua missione cruenta di Redentore: non è conosciuto dal mondo e già versa il suo Sangue per la salvezza del mondo.
Guardando Lui impariamo che le opere valgono più delle parole, che quanto più le opere costano sacrificio, tanto più sono prova di amore verace e che, per essere feconda, ogni opera deve avere il suo battesimo di sangue.
...la circoncisione del Signore coincide con l'inizio dell'anno civile...quelle gocce di Sangue divino ne fanno l'anno del Signore! Il tempo è di Dio, la nostra vita è di Dio ed è di Cristo, che tutto ha ricomprato e santificato col suo Sangue.
Iniziamo l'anno circoncidendo i nostri cuori perché, secondo quanto insegna Sant' Ambrogio, "colui che si circoncide nei vizi è giudicato degno dello sguardo del Signore..."
Anno nuovo, vita nuova; vita nuova perché, circoncidendo in noi 'l'uomo vecchio' con i suoi vizi e le sue passioni, crescerà in noi il 'cristiano': creatura nuova purificata dal Sangue di Cristo, vivificata e alimentata dalla sua grazia.
...Gesù si sottomette alla volontà del Padre suo manifestata attraverso la legge: vediamo in ciò un invito ad aderire docilmente alla Volontà di Dio, qualunque essa sia. Nessuno di noi sa che cosa ci attende in quest'anno nuovo; ma Dio lo sa: la sua volontà ha già preparato il nostro cammino. Ogni particolare della nostra vita è già deciso nella sua mente. Disponiamoci ad accettare, ad abbracciare con coraggio e prontezza ogni volere divino, ogni divina permissione, sicuri che solo nella santa e santificante volontà di Dio troveremo la nostra pace e la nostra santificazione.
Preghiera.
"O Verbo, appena sei di otto giorni, che mi dai il tuo Sangue: e che cosa mi prepari col Sangue?...l'obbedienza. Tre cose mi mostri in questa tua circoncisione: obbedienza verso Dio, mansuetudine con Maria, giustizia con noi" (S. M.Maddalena de' Pazzi)

O mio Signore, insegnami ad essere umile ed obbediente. Tu, Agnello innocente che togli i peccati del mondo, non hai disdegnato il taglio della circoncisione; ed io, che sono peccatore, mi vorrò forse atteggiare a giusto? Mi risentirò se verrò giudicato imperfetto, e cercherò di celare il miei difetti sotto il manto di false scuse?
Oh, Tu m'insegni che in nessuna manierà potrò essere tuo seguace, né potrò diventare simile a te, se non accetto di umiliarmi con te umilissimo!
M'insegni a sottomettermi alla volontà di Dio 
qualunque essa sia e qualsiasi sacrificio m'imponga.
"Considero quest'anno nuovo come una pagina bianca che il Padre Tuo mi presenta e su cui Egli scriverà giorno per giorno ciò che ha disposto nel suo divino beneplacito; ma fin d'ora sull'alto della pagina io scrivo con totale fiducia: Signore fa' di me quello che vuoi. E al fondo della pagina io pongo già il mio Amen, così sia, a tutte le disposizioni della tua volontà. Sì o Signore, sì a tutte le gioie, a tutti i dolori, a tutte le grazie, a tutte le fatiche che mi hai preparato e che mi andrai svelando giorno per giorno. Fa' che il mio amen sia l'amen pasquale, sempre seguito dall'alleluia, pronunciato cioé con tutto il cuore, nella gioia di una completa donazione" (Sr. Carmela dello Spirito Santo o.c.d.).
[da: Intimità Divina di P. Gabriele di S. M. Maddalena]
Gloria in excelsis Deo
"Che mi accadrà oggi/quest'anno, o mio Dio? Non lo so! Tutto ciò ch'io so è che non mi accadrà nulla che voi non abbiate previsto, regolato ed ordinato da tutta l'eternità. Ciò mi basta, o mio Dio, ciò mi basta! adoro i vostri disegni eterni e impenetrabili e mi vi sottometto con tutto il cuore per vostro amore"
(così pregava Elisabetta di Francia, sorella di Luigi XIV, in prigione)


PROGRAMMA

Ricordati che tu hai oggi/quest'anno:
Un Dio da glorificare. Gesù da imitare. La Vergine da venerare. Gli Angeli da onorare. I Santi da pregare. Un'anima da salvare. Un corpo da mortificare. Le virtù da praticare. I peccati da espiare. Il Paradiso da guadagnare. L'inferno da evitare. L'eternità da meditare. Il tempo da utilizzare. Il prossimo da edificare. Il mondo da temere. I demoni da combattere. Le passioni da vincere. ...forse la morte da incontrare e il giudizio da subire.


 AVE MARIA PURISSIMA!

*** Albulo




20 febbraio.
Albulo, Dacio, Illirico e altri 7.    

Non so come farò a scrivere tanto, perché sento che Gesù si vuole presentare col suo Evangelo vissuto ed io ho sofferto tutta la notte per ricordare la visione seguente, della quale ho scarabocchiato le parole udite, come potevo, per non dimenticarle.

Tempo di persecuzione, una delle più grandi persecuzioni perché i cristiani sono torturati in masse, non presi singolarmente. Il luogo è la cavea di un Circo (si chiamano così?). Insomma è un locale certo sito sotto le gradinate del Circo e adibito a ricovero dei gladiatori, bestiari ecc. ecc., di tutti gli addetti al
Circo, insomma. Premetto che dirò male i nomi perché sono 35 anni che non leggo nulla di storia romana e perciò...

In questo locale ampio, ma scuro - perché ha luce solo da una porta spalancata su un corridoio che certo porta all’interno del Circo, e forse all’esterno del
medesimo, e da una finestrella, direi una feritoia bassa, a livello del suolo del Circo, da cui vengono rumori di folla - sono ammassati molti e molti
cristiani di ogni età. Dai bambini di pochissimi anni, ancora fra le braccia delle madri - e due, per quanto sui due anni, ancora poppano all’esausta mammella materna - ai vecchi cadenti.

E vi sono anche dei gladiatori, già con l’elmo e quella relativa corazza che difende e non difende, perché lascia scoperte ancora parti vitali quale il giugulo e le parti dell’addome all’altezza e posizione del fegato e della milza.
Indossano questa parziale armatura sulla nuda pelle ed hanno in mano la corta elarga daga fatta quasi a foglia di castano. Sono bellissimi uomini, non tanto
per il volto quanto per il corpo robusto e armonico di cui noto ad ogni movimento il guizzare agile dei muscoli. Alcuni hanno cicatrici di vecchie ferite, altri non mostrano nessun segno di ferita. Parlano fra loro e rilevo che devono essere di paesi sottomessi a Roma, prigionieri di guerra certo, perché non usano che un latino molto bastardo e pronunciato con voce dura e gutturale, quando si rivolgono ai cristiani che in attesa della morte cantano i loro dolci e mesti inni.

Un gladiatore, alto quasi due metri - un vero colosso biondo come il miele e dai chiari occhi di un azzurro grigio, miti pur fra tanta ombra di ferro che riflette sul suo volto la visiera dell’elmo - si rivolge ad un vecchio tutto vestito di bianco, dignitoso, austero, più ancora: ascetico, che tutti i cristiani venerano col massimo rispetto.

“Padre bianco, se le bestie ti risparmiano io ti dovrò uccidere. Così è l’ordine. E me ne spiace perché in Pannonia ho lasciato un vecchio padre come te”.
“Non te ne dolere, figlio. Tu mi apri il Cielo. E da nessuno, nella mia lunga vita, avrò mai avuto dono più bello di quello che tu mi dài”.
“Anche nel Cielo, luogo dove certo è il tuo Dio come nel mio vi sono i nostri dèi ed in quello di Roma i loro, ancora è morte e lotta. Vuoi tu ancora soffrire
per odio di dèi come qui soffri?”.
“Il mio Dio non è che solo. Nel suo Cielo Egli regna con amore e giustizia. E chi là perviene non conosce che eterno gaudio”.
“L’ho udito dire da più e più cristiani durante questa persecuzione. E ho detto ad una fanciulla che mi sorrideva mentre calavo su lei la daga... e ho finto
d’ucciderla ma non l’ho uccisa per salvarla, perché era tenera e bionda come un’erica giovanetta dei miei boschi,... ma non m’è servito... Di qui non la potei portare fuori, e il giorno dopo... ai serpenti fu dato quel corpo di latte e rosa...”. L’uomo tace con aspetto mesto.

“Che le hai detto, figlio?” chiede il vecchio.
“Ho detto: ‘Lo vedi? Non sono cattivo. Ma è il mio mestiere. Sono schiavo di guerra. Se è vero che il tuo Dio è giusto digli che si ricordi di Albulo, mi chiamano così a Roma, e si faccia vedere col suo bene’. Mi ha detto: ‘Sì’. Ma è morta da giorni e nessuno è venuto”.
“Finché non sei cristiano, Dio non ti si mostra che nei suoi servi. E quanti di essi ti ha portato! Ogni cristiano è un servo di Dio, ogni martire un amico, tanto amico da vivere fra le braccia di Dio”.

“Oh! molti... e io, non solo io, anche Dacio e Illirico, e anche altri di noi, tristi nella nostra sorte, siamo stati presi dal vostro giubilo... e lo vorremmo. Voi siete in catene... noi no. Ma neppure il soffio ci è libero. Se
Cesare lo vuole, ecco ci incatenano l’alito dandoci morte. Ti fa ribrezzo parlarci di Dio?”.

“È l’unica mia gioia della terra, figlio, ed è ben grande. Ti benedica Gesù, mio Dio e Maestro, per essa. Sono prete, Albulo, ho consumato la vita nel predicarlo
e nel portare a Lui tante creature. E più non speravo di avere questa gioia. Odi...” e il vecchio, a lui e agli altri gladiatori assiepatisi intorno, ripete la vita di Gesù, dalla nascita alla morte di croce, e dice, schematicamente, le necessità essenziali della Fede. 
Parla seduto su un masso che fa da banchina,
pacato, solenne, tutto un candore nei capelli lunghi, nella barba mosaica, nella veste, tutto un ardore nello sguardo e nella parola. Si interrompe solo due volte per benedire due gruppi di cristiani tratti nell’arena per essere gettati, in giuochi nautici, in pasto ai coccodrilli. Poi riprende a parlare fra il cerchio dei robusti gladiatori, quasi tutti biondi e rosei, che l’ascoltano a bocca aperta.

Si chiama Crisostomo quel dottore della Chiesa. Ma che nome dare allora a questo che non si nomina?

Termina dicendo: “Questo l’essenziale da credere per avere il Battesimo e il Cielo”.
Le voci robuste dei gladiatori, una decina, fanno rimbombare la volta bassa:
“Lo crediamo. Dàcci il tuo Dio”.
“Non ho nulla per aspergervi, non una goccia d’acqua o altro liquido, e la mia ora è giunta. Ma troverete il modo... No! Dio me lo dice! Un liquido è pronto
per voi”.
“I cristiani ai leoni!” ordina il sorvegliante. “Tutti”.
Il vecchio prete in testa, dietro gli altri, fra cui le madri sul cui seno si sono addormentati i pargoli, entrano cantando nell’arena.

Che folla! che luce! che rumore! quanti colori! È gremita inverosimilmente di popolo d’ogni ceto. Nella parte che il sole invade vi è popolo più basso e
rumoroso, nella parte all’ombra vi è il patriziato. Toghe e toghe, ventagli di struzzo, gioielli, conversazioni ironiche e a voce più bassa. Al centro della parte all’ombra, il podio imperiale col suo baldacchino purpureo, la sua balaustra infiorata e coperta di drappi e i suoi sedili soffici per il riposo
del Cesare e dei patrizi e cortigiani suoi invitati. Due tripodi in oro fumano ai lati estremi della balconata e spargono essenze rare.

I cristiani vengono spinti verso la parte al sole.

Dimenticavo una cosa. Al centro dell’arena è un... non so come dirlo. È una costruzione in marmo da cui salgono al cielo zampilli sottili, impalpabili di acqua, e sulla piattaforma di questa costruzione, di un ovale allungato, alta un due metri scarsi dal suolo, sono statuette di dèi in oro, e tripodi, in cui ardono incensi, sono davanti ad esse.

I cristiani sono dunque ammassati dalla parte solare. Faccio uno schizzo come so [grafico]. I leoni irrompono dal punto X. II vecchio prete si avanza solo, per
primo, a braccia tese. Parla: 

“Romani, per i miei fratelli e per me pace e
benedizione. Gesù, per la gioia che ci date di confessarlo col sangue, vi dia Luce e Vita eterna. Noi di questo lo preghiamo perché grati vi siamo della porpora eterna di cui ci vestite col...”.
Un leone ha preso il balzo dopo essersi avvicinato strisciando quasi al suolo, e lo atterra e azzanna alla spalla. La veste ed i capelli di neve sono già tutti
rossi.

È il segnale dell’attacco bestiale. La torma delle fiere a balzi si lancia sul gregge dei miti. Una leonessa con un colpo di zampa strappa ad una madre uno dei pargoli dormenti, ed è così feroce la zampata che asporta parte del seno della madre che si rovescia, forse lacerata fino al cuore, sull’arena e muore. La belva, a colpi di coda e di zampa, difende il suo tenero pasto e lo sgranocchia in un baleno. Una piccola macchia rossa resta sulla sabbia, unica traccia del pargolo martire, mentre la belva si alza leccandosi il muso.

Ma i cristiani sono molti e le belve poche in confronto. E forse già sazie. Più che divorare uccidono per uccidere. Atterrano, sgozzano, sventrano, leccano un
poco e poi passano altrove, ad altra preda.

Il popolo si inquieta perché manca la reazione nei cristiani e perché le bestie non sono feroci a sufficienza. Urla: “A morte! A morte! Anche l’intendente a morte! Non sono leoni questi, ma cani ben pasciuti! Morte ai traditori di Roma e di Cesare!”.

L’imperatore dà un ordine e le belve vengono ricacciate nei loro antri. Vengono fatti entrare i gladiatori per il colpo di grazia. La folla urla i nomi dei
preferiti: “Albulo, Illirico, Dacio, Ercole, Polifemo, Tracio” e altri ancora.
Non sono solo i soli gladiatori ai quali ha parlato il vecchio martire, che agonizza nell’arena con un polmone quasi scoperto da un colpo di zampa. Ma anche altri che entrano da altre parti.


Albulo corre al vecchio prete. La gente dice: “Fàllo soffrire! Alzalo, che si veda il colpo! Forza Albulo!”. Ma Albulo si china invece a chiedere al vecchio qualcosa e, avuto un cenno di assenso, chiama i compagni che hanno prima udito parlare il vecchio prete.
Non riesco a capire ciò che fanno, se si fanno benedire o che avviene, perché i loro robusti corpi fanno come un tetto sul vecchio prostrato. Ma lo capisco quando vedo che una mano senile già vacillante si alza sul gruppo di teste strette l’una all’altra e le asperge del sangue di cui si è fatta piena come una coppa. Poi ricade.
I gladiatori, spruzzati di quel sangue, scattano in piedi e alzano la daga che brilla nella luce. Urlano forte: “Ave, Cesare, imperatore. I trionfatori ti salutano” e poi, ratti come un fulmine, corrono a quella costruzione che è in mezzo al circo, balzano su essa, rovesciano idoli e tripodi, li calpestano.

La folla urla come impazzita. Chi vorrebbe difendere il gladiatore preferito, chi invoca morte atroce ai novelli cristiani. Che, per loro conto, tornati sull’arena, stanno allineati, sereni, magnifici come statue di giganti, con un sorriso nuovo sul volto fiero.

Cesare, un brutto, obeso, cinico uomo incoronato di fiori e vestito di porpora, si alza fra la corona dei suoi patrizi tutti in vesti bianche. Solo alcuni hanno
una balza rossa. La folla fa silenzio in attesa della sua parola. Cesare - chi sia non so questo viso rincagnato e vizioso - tiene tutti in sospeso per qualche minuto, poi rovescia il pollice in basso e dice: “Vadano a morte per i compagni”.

I gladiatori non convertiti, che intanto hanno sgozzato i malvivi cristiani con la metodicità con cui un beccaio sgozza gli agnelli, si rivoltano, e con la stessa automatica freddezza e precisione aprono ai compagni la gola, al giugolo.

Come manipolo di spighe che la roncola taglia stelo a stelo, i dieci neocristiani, aspersi del sangue del prete martire, si fanno veste di porpora eterna col loro sangue e cadono con un sorriso, riversi, guardando il cielo in cui si inalba il loro giorno beato.

Non so che Circo sia. Non so che età del cristianesimo. Non ho dati. Vedo e dico ciò che vedo. Io non ho mai messo piede in nessuna Arena o Circo o Colosseo; perciò non posso dare il menomo indizio. Per la folla e la presenza del Cesare direi essere a Roma. Ma non so. 

Mi rimane nel cuore la visione del vecchio prete martire e dei suoi ultimi battezzati, e basta.


REGINA MARTYRUM ORA PRO NOBIS!


***San Giovanni della Croce, il principe dei mistici poeti



PIACE INIZIARE IL 2013
con san Giovanni della Croce, 
il principe dei mistici poeti



STROFA 10, dal Cantico Spirituale (A)

Estingui i miei affanni,
ché nessuno vale ad annientarli,
ti vedan i miei occhi,
perché ne sei la luce,
per te solo desidero serbarli!

SPIEGAZIONE

1. L’anima prosegue in questa strofa chiedendo all’Amato di voler finalmente porre termine alle sue ansie e alle sue pene. Non vi è nessuno, infatti, all’infuori di lui, in grado di farlo, e allora faccia in modo che gli occhi dell’anima possano vederlo, perché solo lui è la luce a cui essi guardano e non vuole fissarli su nient’altro che non sia lui. Gli dice dunque: Estingui i miei affanni!

2. Come si è detto, la concupiscenza d’amore possiede questa proprietà: tutto quello che non si accorda, a fatti e a parole, con ciò che la volontà ama, la stanca, l’annoia e la turba, lasciandola disgustata, perché non vede realizzarsi ciò che desidera. Qui chiama affanni tutto questo e le fatiche che affronta per vedere Dio, e nulla può annientarli se non il possesso dell’Amato. Per questo gli chiede di eliminarli con la sua presenza, dando il suo refrigerio, come fa l’acqua fresca a chi è spossato dal caldo. Usa per l’appunto il termine estinguere, per far capire che essa sta soffrendo a causa di questo fuoco d’amore. Ché nessuno vale ad annientarli.

3. Per meglio commuovere e convincere l’Amato a esaudire le sue richieste, l’anima invita lo stesso Amato a estinguere le sue pene, perché nessun altro è in grado di soddisfare quanto lei chiede. Notiamo qui che Dio è ben disposto a consolare l’anima e a soddisfare i suoi bisogni e le sue sofferenze, quando lei non ha né pretende altra soddisfazione o conforto al di fuori di lui. Così l’anima che non ha nulla che la trattenga all’infuori di Dio, non può rimanere a lungo senza la visita dell’Amato. Ti vedan i miei occhi.

4. Cioè fa’ che ti possa vedere faccia a faccia (1Cor 13,12), con gli occhi della mia anima, perché ne sei la luce.

5. Dio, oltre a essere luce soprannaturale degli occhi dell’anima, senza la quale essa è nelle tenebre, è affettuosamente chiamato dall’anima luce dei suoi occhi, come l’innamorato suole chiamare la persona amata «luce degli occhi miei» per dimostrare l’affetto che le porta. Nei due versi citati sopra è come se dicesse: poiché gli occhi della mia anima non hanno altra luce, né per natura né per amore, se non te, ti vedan i miei occhi, perché in ogni modo ne sei la luce. Davide sentiva la mancanza di questa luce quando, desolato, esclamava: Lumen oculorum meorum, et ipsum non est mecum: Si spegne la luce dei miei occhi! (Sal 37,11). Per te solo desidero serbarli!

6. Nel verso precedente l’anima ha lasciato intendere come i suoi occhi erano nelle tenebre dal momento che non vedevano l’Amato, perché solo lui ne è la luce. Con tale espressione l’anima vuole obbligare lo Sposo a donarle questa luce di gloria. Nel presente verso vuole obbligarlo ancora di più dicendogli che se ne servirà solo per lui. Se è giusto, infatti, che l’anima sia privata di questa luce quando getta lo sguardo della sua volontà su qualcosa al di fuori di Dio, poiché vi frappone degli ostacoli, è altrettanto giusto che il suo merito venga ricompensato quando chiude i suoi occhi a tutte le cose create per aprirli solo al suo Dio.



"Perché mi cercavate?
Non sapevate che io devo occuparmi 
delle cose del Padre mio?"

San Massimiliano Maria Kolbe




Te Deum Laudamus!