domenica 2 dicembre 2012


LA CONVERSIONE: UNICA VIA PER LA VERA FELICITA'
Come mai facciamo così tanta resistenza alla conversione?
di Mauro Leonardi
Qual è la parola sulla pace che solo il cristiano può dire? Tutti sappiamo che, in estrema sintesi, lo specifico cristiano è il segno della Croce: quel gesto che tracciamo sul nostro corpo dicendo con le labbra «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Amen». In quella assoluta semplicità ci sono i due misteri principali della nostra fede:
1) il mistero di Dio Uno e Trino, e
2) il mistero del Verbo che si incarna morendo e risorgendo.
E proprio alla croce ci conduce il Vangelo se lo interroghiamo a proposito di quale sia il cammino della pace.

1) LA VERA PACE

Dice Gesù: «Venite a me, voi tutti, che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro. Prendete il mio giogo sopra di voi e imparate da me, che sono mite e umile di cuore, e troverete ristoro per la vostra vita. Il mio giogo infatti è dolce e il mio peso leggero» (Mt 11, 28-30).
Dobbiamo ammettere però che queste parole sono tutto il contrario di quello che avremmo desiderato ascoltare. Capire che il ristoro per la nostra vita, cioè la pace, scaturisce dal giogo di Cristo, cioè dalla croce, è veramente tutto il contrario di quello che ci saremmo aspettati, e quindi accettarlo richiede un nostro radicale cambiamento.
Noi infatti pensiamo esattamente il contrario; siamo convinti di essere affaticati e oppressi proprio a causa delle contrarietà grandi o piccole, ovvero dalle croci: non sospettiamo minimamente di essere ristorati dalla croce. Nella tradizione cristiana si è soliti chiamare questo radicale cambiamento con il termine dì conversione. Dunque, ecco la parola che solo il cristianesimo può dire: Dio può dare la pace solo se ci convertiamo.

2) CONVERSIONE: IL PROTAGONISTA È DIO

Conversione. Quante volte l'abbiamo sentito dire? Eppure spesso non è cambiato proprio nulla. Sappiamo, è dottrina cattolica chiaramente definita che la grazia ha l'assoluta priorità. Ciò è vero sia per la conversione iniziale, che per quella continua: la grazia precede, accompagna e segue in ogni passo. Il protagonista non è il mio sforzo umano e la mia volontà, ma Dio che suscita e richiede la mia corrispondenza. È sempre la grazia che ci previene e ci invita a pregare sinceramente, a confessarci bene.
La confessione, che è veicolo fondamentale di conversione, non è il primo passo. È lo Spirito Santo che ci convince di peccare: la conversione non è frutto del lavoro «solo umano», per quanto ben fatto, della nostra corrispondenza alla Grazia. Tutto ciò è parte della dottrina di sempre, della fede cattolica. Nelle prossime righe però, vogliamo mettere a fuoco un aspetto, solo un aspetto, che riguarda proprio la nostra corrispondenza all'azione della grazia, che sappiamo essere sempre abbondante.

3) LA RINUNCIA AI GIOCATTOLI (ECCO PERCHÉ IO NON VOGLIO CONVERTIRMI)

Vogliamo parlare di una verità semplice e tremenda: a volte devo avere il coraggio di dirmi che io non voglio affatto convertirmi. Per farmi capire userò un esempio. Ho letto da qualche parte che i migliori psicoterapeuti dicono che le persone che vanno da loro per essere curate, a volte, in realtà, non vogliono realmente essere curate. Quello che cercano è un sollievo. Una cura sarebbe troppo dolorosa.
Quei medici cioè, mi viene da pensare, paragonano i malati a bimbi che si trastullano con i loro giocattoli e che vanno da loro solo per farsi riparare l'orsacchiotto quando si e rotto. È vero che affermano di voler guarire, cioè di voler uscire dall'asilo e di voler diventare grandi, ma in realtà non credono a quello che dicono. E finche si rimane in quell'atteggiamento, non si può essere curati, non si può finché si desidera solo che vengano aggiustati i propri giocattoli rotti.
"Ridatemi il mio lavoro. Ridatemi i miei soldi. Ridatemi il mio amore. Ridatemi la mia reputazione, il mio successo".
Ecco i giocattoli. Se ci pensiamo bene, che cos'è la conversione? Non è altro che scoprire che, quando abbiamo Dio, abbiamo tutto: liberarci dai giocattoli. Ma questo è proprio quello che non vogliamo.
Sei andato male all'università? Che t'importa, tanto hai Dio.
La tua fidanzata ti ha lasciato? Che t'importa, tanto hai Dio.
Hai perso il lavoro, i figli, il marito, la salute? Che t'importa, tanto hai Dio.
"Che m'importa? Scherziamo?! Io voglio che mi siano ridate la moglie, la salute, i figli, il successo. Io voglio avere una vita «normale». Come tutti. Una vita in cui possa, come un bimbo, trastullarmi innocentemente con le mie cose".
Ma i santi, quando ci parlano di conversione, non ci parlano di questo. Ci parlano di Dio e dicono che chi possiede Dio non manca di nulla. Chi possiede Dio ritiene il resto come un nulla.
"È un nulla. Ah sì? Beh, allora mi sono sbagliato. Non dovevo bussare a questa porta. Grazie per il disturbo, ma non mi interessa".
Ecco qual è a volte il nostro vero atteggiamento verso la conversione.
Ecco perché la verità tremenda è che, spesso, io non voglio convertirmi.

4) L'INQUIETUDINE CHE CI GUARISCE

A volte l'azione di Dio avviene attraverso cose che ci inquietano. In quei casi, è necessario scoprire pregando che non dobbiamo guarire da quella inquietudine ma è quell'inquietudine che ci guarisce. Quell'inquietudine, l'unica quiete che vuole turbare è delle cose della nostra vita che dobbiamo cambiare. «Non dobbiamo guarire dall'inquietudine, ma è l'inquietudine che ci guarisce».
Quest'affermazione, paradossale ripeto, si comprende se viene letta alla luce della parabola del figliol prodigo, considerata per eccellenza quella della conversione. È successo quello che tutti sappiamo ed è arrivato il momento nel quale il primo dei due figli, quello «prodigo», apre gli occhi sulla sua situazione. Il Vangelo di Luca dice: «Quando ebbe speso tutto, sopraggiunse in quel paese una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno. Allora andò a mettersi al servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei suoi campi a pascolare i porci. Avrebbe voluto saziarsi con le carrube di cui si nutrivano i porci; ma nessuno gli dava nulla. Allora ritornò in sé e disse: Quanti, salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame! Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato verso il Cielo e davanti a te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi salariati. Sì alzò e tornò da suo padre» (Le 15, 14-20).

5) PERCHÉ IL FIGLIO PRODIGO SI CONVERTE?

Vediamo da soli che la conversione radicale, che avviene nel figlio, non deriva per nulla da una riflessione su quello che è giusto o sbagliato, su ciò che è bene o male, sulla necessità di essere generosi e su quanto sia brutto essere egoisti. Niente di tutto ciò. Per carità, queste sono tutte cose molto importanti, ma le si può veramente capire solo dopo che ci si è convertiti. Ai fini della conversione non servono praticamente a nulla.
La conversione viene descritta esattamente così: «Ritornò in sé e disse: Quanti salariati di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!». È come un risveglio, è una nuova comprensione. Ritornò in sé stesso, cioè «capì». A un certo punto a questo giovane uomo cadono le scaglie dagli occhi, e si rende conto che la vita che sta conducendo gli fa male.
È come se un pesce d'acqua dolce capisse che vivere nell'acqua salata gli fa male e quindi decidesse di lasciarla. Immaginiamo che un pesce di un grande fiume, un grande fiume americano o africano, arrivi per sbaglio alla foce e continui a nuotare in un'acqua che, con l' addentrarsi nell'oceano, diventa sempre più salata. Che cosa farebbe a un certo punto? Quello che faremmo tutti: tornare indietro. Che cosa diremmo di un pesce che non lo facesse? Che è strano, che è malato. Che il suo atteggiamento è incomprensibile. Ecco, il figliol prodigo è come un pesce d'acqua dolce che, resosi conto di nuotare in un liquido sempre più salato, ha deciso di invertire la rotta. Appunto di convertirsi.
Chiunque, leggendo la parabola, direbbe che sarebbe ben strano se il figliol prodigo non lo facesse. Sarebbe come un pesce d'acqua dolce che, inspiegabilmente, stando sempre peggio, continuasse a nuotare verso l'oceano. Gesù insegna qualcosa del genere anche in altre due parabole su che cos'è il regno di Dio.

6) UNA QUESTIONE DI FURBIZIA

«Il regno dei cieli è simile a un tesoro nascosto nel campo; un uomo lo trova e lo nasconde, poi va, pieno di gioia, e vende tutti i suoi averi e compra quel campo. Il regno dei cieli è simile anche a un mercante che va in cerca di perle preziose; trovata una perla di grande valore, va, vende tutti i suoi averi e la compra» (Mt 13, 44-46).
Anche in questi due casi il cambiamento non avviene grazie alla riflessione su che cosa sia essere generosi, o distaccati dai beni, perché non si può dire che l'atteggiamento degli uomini che vendono tutto per comprare il campo sia di quel tipo. Sono semplicemente furbi. Intelligenti. Per essere esatti hanno il comportamento di chi sa approfittare del colpo di fortuna che hanno avuto. Pagano dieci un campo che vale diecimila; pagano cento una perla che, collocata sul giusto mercato, vale centomila.
Quanto abbiamo visto finora, evidenzia che la conversione può essere descritta come un'azione che fa vivere meglio e fin da subito chi la compie. Un gesto che è nel proprio interesse. Il figliol prodigo della parabola sta per morire di fame ma, attraverso la conversione, cioè attraverso il ritorno alla casa del padre, si salva la vita. L'uomo che compra il campo e il mercante che acquista la perla vendono entrambi tutto quello che hanno e così, fin da subito, accrescono il loro patrimonio.

7) PERCHÉ SONO POCHI QUELLI CHE SI CONVERTONO?

A queste considerazioni, però, si può facilmente ribattere dicendo: se le cose stanno così, perché sono così pochi quelli che si convertono? Lo capiremo, se riflettiamo con calma su quelle parole che abbiamo già scritto: «Non è dall'inquietudine che dobbiamo guarire ma è l'inquietudine che ci guarisce».
Lo smarrimento della pace non è il nostro nemico peggiore ma il nostro miglior amico. L'inquietudine è un sintomo. Per capirlo basta un esempio. Se io avessi la febbre a trentotto, mi curerei. Starei a casa al caldo, magari anche a letto, e mi curerei. Non andrei al lavoro, e curerei l'influenza. Naturalmente non curerei la febbre, ma l'influenza. La febbre è un sintomo, un utilissimo segnale che il corpo mi invia.
La metafora della febbre può essere applicata all'inquietudine e alla mancanza di pace. Se provo angoscia mentendo, perché mentire? Dio è il Dio della verità e in lui trovo la pace. Però, lo vediamo, spesso non è così: molti sono quelli che mentono e continuano a scegliere l'angoscia. Perché? È semplice: quello che ho detto poche righe più sopra riguardo all'influenza non è vero: noi, quando abbiamo trentotto, spesso non ci curiamo. Sappiamo che dovremmo farlo, consigliamo a tutti di farlo, ma noi non lo facciamo.
Il motivo è che la sofferenza che proviamo andando a lavorare con un po' di febbre, non è nulla rispetto alla sofferenza che temiamo di provare nell'eventualità di venir licenziati, o di non fare un esame, o di scoprire che i miei colleghi, o nostro marito, nostra moglie, i nostri figli possono fare tranquillamente a meno di noi. Gli esempi potrebbero essere molti.
In realtà quindi, è solo una verità parziale affermare che non diamo retta alla sofferenza dovuta alla febbre. Spesso la verità completa è che c'è un'altra angoscia ben più importante da affrontare, rispetto alla quale quella della febbre influenzale è una bazzecola. Convertirsi è possibile se ci si rende conto delle inquietudini profonde, senza nome, che ci avvinghiano. Fino a quando questo non succede, ecco che farò finta di non avere la febbre. Andrò avanti senza ascoltare.
L'esempio della febbre ci aiuta anche a capire un po' meglio che cosa significa essere bambini. I bambini che hanno la febbre a trentotto, infatti, stanno a letto. Sono ben contenti di farsi fare le coccole da mamma e papa e di non andare a scuola. I bambini non provano nessun senso di colpa nel curarsi l'influenza e possono avere tutte le «ricadute» che vogliono. Non devono dimostrare niente a nessuno e l'unica paura che hanno è quella di essere abbandonati dai genitori. Se quella non c'è, non temono nulla.
Ecco perché Gesù dice: «Se non vi convertirete e non diventerete come i bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Mt 18, 3). Siamo arrivati al punto. Prima abbiamo detto che la conversione è facile per quelli che la scelgono. Adesso possiamo aggiungere che è molto difficile sceglierla finché non si scopre che noi siamo bambini, ossia che Dio è creatore e Padre.
È proprio questo il pensiero che da forza al figlio prodigo: «Mi alzerò, andrò da mio padre e gli dirò: Padre!». Quel giovane, in mezzo alla terribile carestia, che si abbatte sul paese, pensa che suo padre sia più forte della carestia. Stima infinitamente suo padre e pensa che sia più forte e previdente delle avversità. Questo significa che ci si può convertire solo quando si scopre di essere figli, cioè bambini.
E così abbiamo il nostro pesciolino d'acqua dolce che, pur sentendo che l'acqua diventa sempre più salata, continua ad allontanarsi dalla foce e a immergersi nel mare. Sperimenta sofferenza, sta sempre peggio, ma il meccanismo di correzione non scatta. Per qualche misteriosa ragione, ritiene che cambiare la direzione del suo movimento e tornare verso la sorgente possa solo portarlo verso il peggio. Il male reale che sta sperimentando è un po' meglio del peggio immaginario che è convinto di stare fuggendo. Per qualche motivo le situazioni più temute sono quelle sconosciute.

8) CREATORE E PADRE

L'unico modo che conosco di risolvere questo perverso meccanismo è la consapevolezza che Dio è Creatore e Padre. Insisto sull'opportunità di affiancare le due verità di fede della creazione e della filiazione divina, perché nostro Padre Dio è un Padre che gioisce della nostra vita, tanto è vero che l'ha fatta. È proprio lo stesso ordine di verità alle quali abbiamo fatto riferimento quando abbiamo detto che il figliol prodigo si rende conto che la vita che sta conducendo «gli fa male».
Naturalmente non bisogna confondere la salute fisica e psicologica con quella spirituale della salvezza eterna, ma quanto voglio sottolineare è che la paternità divina è in continuità con la creazione. Come il neonato piange se perde il contatto con i genitori, così si rassicura quando viene di nuovo preso in braccio. Forse il nostro pesciolino non riesce a riconoscere che quanto gli accade gli fa male perché si sente un apolide, uno senza nessuno, un esiliato che ovunque si trovi è un estraneo.
La soluzione sarà scoprire che, a meno che non lo si voglia liberamente, non siamo fuori dall'abbraccio di un Dio nostro Padre e nostro Creatore. Ciò è possibile se scopriamo il modo in cui il nostro Dio, nostro Padre e nostro Creatore, ci viene incontro, esaudendo veramente i nostri più profondi desideri ma in un modo sorprendente e misterioso. Abramo è angosciato perché il suo sogno di avere un figlio pare che non si realizzi: «Signore Dio, che mi darai? Io me ne vado senza figli» (Gn 15, 2). Il Signore gli risponde: «"Guarda in cielo e conta le stelle, se riesci a contarle" [...] "Tale sarà la tua discendenza"» (Gn 15, 5).
Sappiamo tutti che questa promessa si realizzerà passando attraverso il dramma del sacrificio di Isacco. Nella scrittura ci sono molti esempi del genere. Ne vogliamo citare solo un altro, ed è la promessa di Cristo a Pietro quando Gesù dice al pescatore di Galilea: «Non temere; d'ora in poi sarai pescatore di uomini» (Lc 5, 10).
Quelle parole, non dimentichiamolo, vengono pronunciate dopo che è avvenuta la prima pesca miracolosa. Il sogno di un pescatore è pescare. Ed è proprio questo, quello che Cristo gli vuole dire. Gli vuole dire questo ma non solo questo. «Pescatore di uomini»: per noi che veniamo dopo è chiaro che cosa significa. Vuol dire apostolo, apostolato, Chiesa, e così via. Ma qui siamo all'inizio della vita pubblica di Gesù.
Pietro sta compiendo faticosamente i primi passi dietro a Cristo. Quello che Gesù vuol dire è sicuramente quello che Pietro può capire anche se non è solo quello. E Pietro può capire un sì esistenzialmente pieno e veritiero al desiderio profondo del suo cuore. A quel desiderio che quella notte non era stato esaudito e che perciò gli aveva procurato l'inquietudine e l'angoscia che prova ogni uomo che deve mantenere la propria famiglia con il lavoro e che fallisce.
È vero, quelle parole di Cristo hanno anche un aspetto misterioso: «pescatore di uomini». Pietro può pensare solo che sia un modo di Cristo per esprimere qualcosa di ancor più bello. Qualcosa di straordinariamente traboccante. Di inimmaginabile. Ma le parole di Cristo, lo sappiamo, riguardano non solo i desideri che conosciamo, ma anche quelli più misteriosi. Quelli per i quali noi stessi non troviamo parole.
 
Fonte: Studi Cattolici, aprile 2009 (n.578)

Cor Mariæ Immaculatum, intercede pro nobis

*NOVENA DELL'IMMACOLATA -3- : “La Vergine concepirà e partorirà un Figlio”



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...
Vi ho qui voluti per farvi conoscere Maria. Molti di voi conoscete la “madre” Maria,
alcuni la “sposa” Maria. Ma nessuno conosce la “vergine” Maria. Io ve la voglio fare conoscere in questo
giardino in fiore, nel quale il vostro cuore viene col desiderio nelle lontananze forzate e come ad un riposo
nelle fatiche dell’apostolato.

Vi ho ascoltato parlare, voi apostoli, discepoli e parenti, ed ho sentito le vostre impressioni, i vostri ricordi, le vostre asserzioni sulla Madre mia. Io vi trasfigurerò tutto questo, molto ammirativo ma ancora molto umano, in un soprannaturale conoscere. Perché mia Madre, prima di Me, va trasfigurata agli occhi dei più meritevoli, per mostrarla quale Essa è.
Voi vedete una donna, una donna che per la sua santità vi pare diversa dalle altre, ma che in realtà vedete come un’anima fasciata dalla carne, come quella di tutte le sue sorelle di sesso. Ma Io ora vi voglio scoprire l’anima di mia Madre. La sua vera ed eterna bellezza.

Vieni qui, Madre mia. Non arrossire. Non ritrarti intimidita, colomba soave di Dio. Tuo Figlio è la Parola di
Dio e può parlare di te e del tuo mistero, dei tuoi misteri, o sublime Mistero di Dio. Sediamoci qui, in
quest’ombra leggera di alberi in fiore, presso la casa, presso la tua stanza santa. Così! Alziamo questa tenda
ondeggiante e ne escano onde di santità e di Paradiso da questa stanza verginale, a saturare di te tutti noi…
Si. Io pure. Che Io mi profumi di te, Vergine perfetta, per potere sopportare i fetori del mondo, per potere
vedere candore avendo saturata la pupilla del tuo Candore… Qui Marziam, Giovanni, Stefano, e voi
discepole, bene di fronte alla porta aperta sulla dimora casta della Casta fra tutte le donne. E dietro voi, amici miei. E qui, al mio fianco, tu, diletta Madre mia.

Vi ho detto poc’anzi “l’eterna bellezza dell’anima di mia Madre”. Sono la Parola e perciò so usare della parola senza errore. Ho detto “eterna”, non  “immortale”. E non senza scopo l’ho detto. L’immortale è chi, essendo nato, non muore più. Così l’anima dei giusti è immortale in Cielo, l’anima dei peccatori è immortale nell’inferno, perché l’anima, creata che sia, non muore più che alla grazia. Ma l’anima ha vita, esiste dal momento che Dio la pensa. È il pensiero di Dio che la crea. 

(Quando è il momento di infonderla. L’anima di
Maria Ss., dunque, è ab eterno non creata ma concepita nel Pensiero divino, che la creò quando venne il momento di infonderla nel corpo concepito. La creazione e l’infusione di un’anima sono due atti che si
compiono nello stesso momento, come è spiegato in nota al Vol 4 Cap 290). 

L’anima di mia Madre è da sempre pensata da Dio. Perciò è eterna nella sua bellezza, nella quale Dio ha riversato ogni perfezione per
averne delizia e conforto.
È detto nel libro del nostro avo Salomone 
(Proverbi 8, 22-31. Come già nelle prime pagine dell’opera, Vol 1 Cap 5, con nota, le parole della Sapienza creatrice dell’universo vengono applicate all’anima di Maria Ss., che era presente nel pensiero di Dio creatore. La Rivelazione, la Chiesa e i santi Padri la chiamano perciò “primogenita” . Si può dunque dire che Maria Ss., che all’inizio dell’opera, Vol 1 Cap 1, è stata chiamata “secondogenita” in rapporto a Gesù, Primogenito in assoluto del Padre, è “primogenita” in rapporto ad ogni altra umana creatura, perché la sua anima precede tutte le altre, sia nel pensiero e nella predilezione del Padre, sia nella perfezione propria.),
che ti antevide e perciò profeta tuo può essere detto: “Dio mi possedette all’inizio delle sue opere, fin dal principio, avanti la Creazione. Ab eterno io fui stabilita, al principio, prima che fosse fatta la Terra. Non erano ancora gli abissi ed io ero  concepita. Non ancora le sorgenti delle acque sgorgavano, non ancora le montagne erano fermate sulla loro grave mole, ed io già ero. Prima delle colline io ero partorita. Egli non aveva ancora fato la Terra, i fiumi, né i cardini del mondo, ed io già ero. Quando preparava i cieli e il Cielo, io ero presente. Quando con legge inviolabile chiuse sotto la volta l’abisso, quando rese stabile in alto la volta celeste e vi sospese le fonti delle acque, quando fissò al mare i suoi confini e dette legge alle acque di non passare il loro termine, quando gettava i fondamenti della Terra, io ero con Lui a ordinare tutte le cose. Sempre nella gioia io scherzavo dinanzi a Lui continuamente. Scherzavo nell’universo”.

Si, o Madre di cui Dio, l’Immenso, il Sublime, il Vergine, l’Increato, era gravido, e ti portava come il suo dolcissimo pondo, giubilando di sentirti agitarti in Lui, dandogli i sorrisi dei quali fece il Creato! Tu che a
dolore partorì per darti al Mondo, anima soavissima, nata dal Vergine per essere la “Vergine”, Perfezione del Creato, Luce del Paradiso, Consiglio di Dio, che guardandoti poté perdonare la Colpa perché tu sola, da te
sola, sai amare come tutta l’Umanità messa insieme non sa amare. In te il Perdono di Dio! In te il Medicamento di Dio, tu, carezza dell’Eterno sulla ferita dall’uomo fatta a Dio! In te la Salute del mondo, Madre dell’Amore incarnato e del concesso Redentore!

L’anima della Madre mia! Fuso dell’Amore col Padre, Io ti guardavo dentro di Me, o anima della Madre mia!… E il tuo splendore, la tua preghiera, l’idea di essere da te portato, mi consolavano in eterno del mio
destino di dolore e di esperienze disumane di ciò che è il mondo corrotto per il Dio perfettissimo. Grazie, o Madre! Io sono venuto già saturo delle tue consolazioni, Io sono sceso sentendo te sola, il tuo profumo, il tuo canto, il tuo amore… Gioia, gioia mia!

Ma udite, voi che ora sapete che una sola è la Donna nella quale non è macchia, una sola la Creatura che non costa ferita al Redentore, udite la seconda trasfigurazione di Maria, l’Eletta di Dio.
Era un sereno pomeriggio di adar ed erano in fiore gli alberi nell’orto silenzioso, e Maria, sposa a Giuseppe, aveva colto un ramo di albero in fiore per sostituirlo all’altro che era nella sua stanzetta. Da poco era venuta a Nazaret, Maria, presa dal Tempio per ornare una casa di santi.
E con l’anima tripartita fra il Tempio, la casa e il Cielo, Ella guardava il ramo in fiore, pensando che con uno simile, sbocciato insolitamente, un ramo reciso in questo brolo nel colmo dell’inverno e fioritosi come per primavera davanti all’Arca del Signore – forse lo aveva scaldato il Sole-Iddio raggiante sulla sua Gloria – Dio le aveva significato la sua volontà…
E pensava ancora che nel giorno delle nozze Giuseppe le aveva portato altri fiori, ma mai simili al primo che portava scritto sui petali leggeri: “Ti voglio unita a Giuseppe”… Tante cose pensava… E pensando salì a
Dio. Le mani erano solerti fra la rocca e il fuso, e filavano un filo più sottile d’uno dei capelli del suo capo
giovinetto…

L’anima tesseva un tappeto d’amore, andando solerte, come spola sul telaio, dalla Terra al Cielo. Dai bisogni della casa, dello sposo, a quelli dell’anima di Dio. E cantava, e pregava. E il tappeto si formava sul mistico telaio, si srotolava dalla Terra al Cielo, saliva a sperdersi lassù… Formato di che? Dai fili sottili, perfetti, forti, delle sue virtù, dal filo volante della spola che Ella credeva “sua”, mentre era di Dio: la spola della volontà di Dio sulla quale era avvolta la volontà della piccola, grande Vergine d’Israele, la Sconosciuta al mondo, la Conosciuta da Dio, la sua volontà avvolta, fatta una con la volontà del Signore. E il tappeto si
infiorava di fiori d’amore, di purezza, di palme di pace, di palme di gloria, di mammole, di gelsomini… Ogni virtù fioriva sul tappeto dell’amore che la Vergine di Dio svolgeva, invitante, dalla Terra al Cielo. E poiché il
tappeto non bastava, Ella lanciava il cuore cantando: (Le espressioni del mistico dialogo sono tratte da: Cantico dei cantici 5, 1; 6, 2-3; 4, 1.11.12; 8, 6-7) “Venga il mio Diletto nel suo giardino e mangi il frutto dei suoi pomi… Il mio Diletto discenda nel suo giardino, all’aiuola degli aromi, a pascersi tra i giardini, a coglier gigli. Io son del mio Diletto, e il mio Diletto è mio, Egli che pasce fra i gigli!”.

E da lontananze infinite, fra torrenti di Luce, veniva una Voce quale orecchio umano non può udire, né gola umana formare. E diceva: “Quanto sei bella, amica mia! Quanto sei bella!… Miele stillano le tue labbra…
Un giardino chiuso tu sei, una fonte sigillata, o sorella, mia sposa…”, e insieme le due voci si univano per cantare l’eterna verità: “L’amore è forte più della morte”. E la Vergine trasfigurava così… così… così…
mentre scendeva Gabriele e la richiamava, col suo ardere, alla Terra, le riuniva lo spirito alla carne, perché Ella potesse intendere e comprendere la richiesta di Colui che l’aveva chiamata “Sorella” ma che la voleva
“Sposa”.

Ecco, là avvenne il Mistero… E una pudica, la più pudica di tutte le donne, Colei che neppure conosceva lo
stimolo istintivo della carne, tramortì davanti all’Angelo di Dio, perché anche un angelo turba l’umiltà e la verecondia della Vergine, e solo si placò udendolo parlare, e credette, e disse la parola per cui il “loro”
amore divenne Carne e vincerà la Morte, né nessun’acqua potrà estinguerlo, né malvagità sommergerlo…».

Gesù si china dolcemente su Maria che gli è scivolata ai piedi quasi estatica, nella rievocazione dell’ora lontana, luminosa di una luce speciale che pare le esali dall’anima, e le chiede sommessamente: «Quale la
tua risposta, o Purissima, a chi ti assicurava che divenendo la Madre di Dio non avresti perduto la tua perfetta Verginità? ».
E Maria, quasi in sogno, lentamente, sorridendo, con gli occhi dilatati per un pianto felice: «Ecco l’Ancella del Signore! Si faccia di me secondo la sua Parola », e reclina la testa sui ginocchi del Figlio, adorando.
Gesù la vela col suo manto, nascondendola agli occhi di tutti, e dice: «E fu fatto. E si farà sino alla fine. Sino all’altra e all’altra ancora delle sue trasfigurazioni. Sarà sempre “l’Ancella di Dio”. Farà sempre come dirà
“la Parola”. Mia Madre! Questa è mia Madre. Ed è bene che voi cominciate a conoscerla in tutta la sua santa Figura… Madre! Madre! Rialza il tuo viso, Diletta… Richiama i tuoi devoti alla Terra dove per ora siamo…», dice scoprendo Maria dopo qualche tempo, durante il quale non era rumore oltre al ronzio delle api e al chioccolio della piccola fonte. 

Maria alza il viso molle di pianto e sussurra: «Perché, Figlio, mi hai fatto questo? I segreti del Re sono sacri… ».
«Ma il Re li può svelare quando vuole. (Come è detto in Tobia 12, 7) Madre, l’ho fatto perché sia compreso il detto di un Profeta: (Geremia 31, 22) “Una Donna chiuderà in sé l’Uomo”, e l’altro dell’altro Profeta:
(Isaia 7, 14) “La Vergine concepirà e partorirà un Figlio”. E anche perché essi, che inorridiscono di troppe cose, per loro avvilenti, del Verbo di Dio, abbiano a contrappeso tante altre cose che li confermino nella
gioia di essere “miei”. Così non si scandalizzeranno mai più e conquisteranno anche per ciò il Cielo… 


Ora chi deve andare alle case ospitali vada. Io resto con le donne e Marziam. Domani all’alba siano qui tutti gli uomini, ché voglio condurvi qui vicino. Poi torneremo a salutare le discepole per poi tornare a Cafarnao a radunare altri discepoli e invitarli dietro a queste »…

Da Maria Valt.: L’Evangelo… (348.  Con Gesù a Nazareth. Svelate le trasfigurazioni della Vergine. Lc 9,7-9.)


LAUDETUR  JESUS  CHRISTUS!
LAUDETUR  CUM  MARIA!
SEMPER  LAUDENTUR!

3 Dicembre. San Francesco Saverio





<<Vi prego, in tutte le vostre cose,
di fondarvi totalmente in Dio,
senza confidare nel vostro potere o sapere od opinione umana,
e in tal modo faccio conto che voi siate preparati
per tutte le grandi avversità, sia spirituali sia corporali,
che vi possono accadere, poiché Dio solleva e fortifica gli umili,
soprattutto quelli che nelle cose piccole e basse
hanno visto le loro debolezze come in un limpido specchio
e in esse seppero vincersi.
Questi tali, quando si vedono in tribolazioni
maggiori di quelle in cui mai si siano trovati,
e sprofondando in esse,
né il demonio con i suoi ministri,
né le molte tempeste del mare,
né le genti malvage e barbare tanto del mare come della terra,
né alcun'altra creature li può danneggiare:
essi sanno per certo
— stante la grande confidenza che hanno in Dio —
che senza il Suo permesso o licenza non possono far niente>>.

San Francesco Saverio



Mc 16, 15-20:


<<In quel tempo, apparendo agli Undici, Gesù disse loro: "Andate in tutto il mondo e predicate il vangelo ad ogni creatura.
Chi crederà e sarà battezzato sarà salvo, ma chi non crederà sarà condannato.
E questi saranno i segni che accompagneranno quelli che credono: nel mio nome scacceranno i demòni, parleranno lingue nuove, prenderanno in mano i serpenti e, se berranno qualche veleno, non recherà loro danno, imporranno le mani ai malati e questi guariranno".
Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio.
Allora essi partirono e predicarono dappertutto, mentre il Signore operava insieme con loro e confermava la parola con i prodigi che l'accompagnavano>>.


IL COMMENTO


Un segno è posto per indicare. I segni che accompagnano quelli che credono mostrano il Cielo. Svelano la presenza di Dio. Sono segni soprannaturali, opere, prodigi, miracoli che l'uomo, per quanto onesto, buono, rispettoso non può compiere. Su di essi vi è, inconfondibile, il copyright di Dio. Opere di Dio nella carne debole degli uomini. Non si possono pianificare in un consiglio pastorale, preparare nelle riunioni delle Conferenze Episcopali. Non si studiano. Sono miracoli, saette che trafiggono la normalità d'una vita senza Dio. Gesù non ha frequentato un corso su Dio, non lo ha imparato da nessuna parte, era, semplicemente, Suo Figlio. Così è di ogni figlio nel Figlio, d'ogni cristiano.


Alter Christus si diceva di San Francesco d'Assisi. Un altro Cristo, questo è un santo. Cioè un cristiano, colui per il quale Cristo ha versato il Suo sangue riscattandolo dal peccato e dalla morte e facendolo una cosa sola con Lui. Santo significa separato, consacrato. Diverso. Uguale a tutti eppure diverso. Santo è chi ha il cuore che brucia d'amore. Amato, infiammato dall'amore di Cristo che lo getta sulle strade del mondo ad amare dello stesso amore. Sino agli estremi confini della terra.


San Francesco Saverio. La sua vita è stata un segno, un miracolo, lampi di Cielo sulle terre che ha percorso. La Pasqua incarnata, il desiderio infinito di cercare tutto ciò che era hametz, impuro, in ogni angolo della terra, percorrendo ogni centimetro d'Asia. Come fa ogni buon ebreo la vigilia di Pesah, come ha fatto Cristo che con il Suo sangue versato ha lavato ogni impurità di ogni uomo e con la Sua carne ha offerto il vero e puro pane azzimo, pronto per il Cielo, per la vita divina.


Così San Francesco Saverio, schiavo d'ogni uomo prigioniero degli inganni del demonio, e niente più volontà, progetti, pensieri. Un chiodo fissso nella mente, la salvezza d'ogni uomo. Un fuoco inestinguibile nel cuore, l'amore a Chi lo aveva amato infinitamente. Un santo. Un miracolo. Un segno.


I veleni delle menzogne del demonio, i morsi delle tentazioni del serpente antico, nulla lo ha fermato, nulla ha avuto potere sulla vita divina che portava dentro come in un tabernacolo. E quanti malati e infermi sanati, nel cuore, nello spirito, nelle membra. E la nuova lingua dell'amore e della misericordia annunciata alle più estreme periferie come nei palazzi dei Re. Sino all'alba d'un mattino di dicembre, alle porte dell'immensa Cina come alle porte del Cielo, quando, esausto, solo con il Suo Signore, abbandonato da tutti, come il Suo Signore, ha fatto ritorno al Padre. Come Cristo. Con Cristo.


La sua vita è oggi un segno per tutti noi, dell'irripetibile avventura che è la vita di Dio nell'uomo. Arriva il Natale, è Cristo che bussa alle nostre porte, spalanchiamole e lasciamoci travolgere dal fuoco del Suo amore, sino agli estremi confini che Lui ha da sempre pensato per noi.



Biografia


LETTERA 90 DI SAN FRANCESCO SAVERIO DA KAGOSHIMA




San Francesco Saverio. di Antonio Socci

In Navarra, nel castello della famiglia Xavier, il 7 aprile 1506 nasce il quinto e ultimo figlio di Giovanni de Jassu e di Maria de Azpilcueta. Si chiama Francesco. Arrivato a diciotto anni, è un giovanotto atletico, di forte temperamento e dotato di un certo fascino. Ottiene buoni risultati nello studio e così la famiglia decide - pur con mille sacrifici - di mandarlo a frequentare l’università più autorevole del tempo, quella di Parigi.Il giovane navarrino arriva nel 1525 a Parigi, che è un focolaio delle nuove idee riformatrici e contestatrici. E si trova subito a gravitare attorno a tali ambienti.In questi anni la Chiesa è al centro di un ciclone. Adriano VI, che fu papa mentre la bomba protestante stava esplodendo e stava devastando la Chiesa, scrisse: «Noi sappiamo bene che anche in questa Santa Sede, fino ad alcuni anni or sono, sono accadute cose abbominevolissime». Le condizioni della cristianità appaiono gravi. E d’altronde certi rigoristi che lamentano la dilagante corruzione ecclesiastica (intellettuali umanisti impregnati di culture neopagane) rappresentano evidentemente per la Chiesa una sciagura ben più grande di quella che si suole vedere in papati come quello del Borgia.Eppure oggi, a distanza di quasi cinque secoli, sappiamo che anche in quella situazione, che a uno sguardo puramente umano poteva sembrare disperata per le sorti del cristianesimo, erano presenti piccoli "semi" da cui si sarebbe sprigionata una rinascita cristiana stupefacente, una sorta di nuovo inizio.Ma un osservatore che avesse attraversato la cristianità in quegli anni dove avrebbe dovuto guardare per vedere quei semi?Un osservatore che si fosse trovato nella cripta della piccola chiesa di Montmartre, a Parigi, il 15 agosto 1534, avrebbe visto una scena del tutto normale: sette uomini che parlavano fra loro. Niente di speciale. Se non il motivo del loro convenire, che traspariva dal loro comportamento. Un casuale osservatore sarebbe rimasto incuriosito dalle loro facce che mostravano una determinazione, un’intensità e una sorta di unità d’intenti inconsuete: si sarebbe detto - a guardarli bene - che fossero molto legati l’uno all’altro. Inusuale - a voler capire fino in fondo il mistero che li univa e li aveva fatti convenire lì - era quello che si stavano dicendo.


Quei sette "compagni" stavano pronunciando una specie di voto, s’impegnavano a servire Gesù Cristo in castità e povertà, ad andare in pellegrinaggio in Terra Santa o - se non fosse stato possibile - ad andare a Roma mettendosi a disposizione totale del Papa. Era il giorno dell’Assunta. Questo gruppo di sette uomini si chiamerà Compagnia di Gesù. Resta un interrogativo storico irrisolto perché contro questi uomini disarmati si siano poi coalizzati e scatenati i più formidabili poteri, anche occulti, politici ed economici del mondo. Che cosa trovarono in loro di così minaccioso re, governi, corti, imperi finanziari e lobbies commerciali?Forse quella loro "unità", che neanche le migliori compagnie di ventura conoscevano? O la loro audacia? O la capacità (politica?) di farsi stimare e aiutare da singoli personaggi potenti che da loro rimanevano colpiti?Francesco Saverio, che avevamo lasciato a Parigi, dov’era appena arrivato nel 1525, lo ritroviamo il 15 agosto 1534 proprio in questa cripta parigina: è uno dei sette compagni. Com’è finito lì? Che cosa è accaduto nel corso di questi nove anni di tanto speciale da aver toccato una vita che sembrava dover anticipare quella di un Voltaire, di un Casanova o di un D’Artagnan?Francesco, da studente, alloggiava nel collegio di Santa Barbara. Suo compagno di camera e di studi è un giovane della Savoia, Pietro Favre. Francesco è esuberante e coltiva grandi ambizioni. Pietro, suo coetaneo, ha un carattere buono e paziente. Diventano subito amici. E come accade di solito in questi casi le conoscenze dell’uno si comunicano all’altro.Pietro un giorno presenta a Francesco un suo amico, uno studente per la verità abbastanza particolare, perché è sulla quarantina: oggi si direbbe un fuori corso. Si chiama Ignazio, ha un volto magro e un passo vistosamente claudicante. Prima infatti faceva il soldato: durante l’assedio di Pamplona si è preso una palla di cannone sulla gamba e adesso ne porta le conseguenze.Ignazio esercita un certo ascendente su Pietro e su molti altri studenti. Francesco, che intanto nel 1530 ha preso il diploma di maestro e ha cominciato a insegnare, è dapprima scontroso e diffidente. Con lui è «duro e difficoltoso», forse proprio perché sente sempre più forte la curiosità e l’attrazione nei confronti di una personalità potente come quella di Ignazio. A poco a poco cambierà.Ignazio, che ne capisce il carattere audace e le grandi ambizioni, lo vincerà definitivamente ripetendogli una frase del Vangelo: «Che giova all’uomo conquistare il mondo intero se poi perde se stesso?».


Da qui comincia la conversione di Francesco, cioè la sua adesione alla compagnia di Ignazio, di Pietro e degli altri convenuti quel 15 agosto nella cappella di Montmartre.Francesco ha 28 anni. Ancora vivente diventerà una leggenda. Non perché cercò l’avventura. Ma perché visse l’obbedienza cercando di far sue la fede, la speranza e la carità di Ignazio. Prima servendo per tre anni insieme ai compagni negli ambienti fetidi delle prigioni e degli ospedali del tempo. Poi a Roma, facendo il segretario di Ignazio, Generale della Compagnia.E infine partendo, nel volgere di ventiquattro ore, da Roma, per sempre, verso gli estremi confini del mondo perché richiestogli da Ignazio. Era accaduto che nel 1539 il re del Portogallo aveva chiesto sei gesuiti per le Indie orientali. Ignazio aveva risposto: «Signor ambasciatore, se su dieci ne partono sei, per il resto del mondo che cosa rimarrà?».Ne manda due. Ma accade l’imprevisto. Uno dei due muore arrivando a Lisbona, l’altro arriva solo alla vigilia della partenza, oltretutto con un terribile attacco di sciatica. Così all’ultimo momento Ignazio chiama Francesco e gli dice: «Non può partire nessuno, Francesco, devi andare tu». Il Saverio non ha incertezze, in pochi minuti raccoglie le sue povere cose e parte per sempre, sapendo (lo scrive nella sua prima missiva) «che in questa vita ci "vedremo" ormai solo per lettera». Un giovane addetto all’ambasciata, fino ad allora dedito alla dolce vita di corte, colpito da Francesco confessò: «Per la prima volta in vita mia compresi che cosa vuol dire essere un cristiano».


Come un conquistatore disarmato dominerà gli eventi. Sia quando si trova con il mal di mare sulle navi della peggiore feccia. Sia fra i poverissimi pescatori di perle del Paravar, di Ceylon o della Malacca. Sia in guerra con i pirati, e ancor più con mille malattie e morbi tropicali, con la fame e la sete, con le autorità portoghesi, alle prese con mercanti e negrieri senza scrupoli. Intento a battezzare bambini e adulti, a migliaia per volta. A radicare le sue missioni impiantando scuole, collegi, organizzando ospedali, imparando decine di strane lingue… Attraversa tutti i mari, verso Giava, il Borneo, le Isole del Moro, poi su su verso Formosa, passando dalle feroci tribù dei tagliatori di teste alla raffinata civiltà giapponese che per primo racconterà agli europei. Fa tre volte naufragio, sfugge a decine di attentati, ai musulmani, talvolta nascosto nella foresta.Migliaia e migliaia di chilometri in nave, stringendo amicizie con mercanti e gente di tutti i tipi per far conoscere Gesù Cristo. Ai suoi amici scriveva: «Vivere senza godere di Dio non sarebbe una vita, ma una morte continua».E nel gennaio 1552, alla fine di questa incredibile avventura durata dieci anni, annotò: «Mi sembra veramente di poter dire che nella mia vita non ho mai ricevuto tanta gioia e allegrezza».Un giornalista francese, Jean Lacouture, ha scritto un libro, dove racconta l’audacia dei gesuiti. Lacouture ha dichiarato: «Sì, hanno scelto la vita, con tutti i suoi compromessi. […] Hanno scelto di andare nel mondo per insegnare il Vangelo, di affrontare il quotidiano, con quanto implica di tragico, di corrotto, di menzognero».
Da dove nasce tanta audacia? Francesco continuamente tiene presente il ricordo struggente dei volti degli amici che si confondono con il volto e il nome di Gesù Cristo. Non fa che ricordarli, chiede a Ignazio che gli scriva «una lettera così lunga che io impieghi tre giorni a leggerla». Vuole sapere tutto di tutti i compagni. Notte e giorno pensa a loro, parla di loro, scrive loro e il suo cuore s’infiamma, la sua gratitudine arriva alle lacrime. Quando muore, a 46 anni, dentro una capanna di foglie, sull’Isola di Sancian, davanti alla Cina (dove voleva arrivare), nella notte del 2 dicembre 1552, sembra avere solo la compagnia di un crocifisso e di un cinese che aveva convertito e che doveva fargli da interprete. Ma si scoprirà al suo collo un piccolo contenitore: dentro c’era una reliquia dell’apostolo san Tommaso, la formula della sua professione e le firme autografe dei suoi amici ritagliate dalle loro lettere. Non erano lontani. Li aveva sul suo cuore.


DOMINUS VOBISCUM

Sono forse alleati


DOMENICA 2 DICEMBRE 2012


" A sacerdotibus ridiculis. Libera nos Domine ! " ( Quando i giovani scrivono ...)

Un giovanissimo Lettore di MiL ci ha inviato alcune sue dolenti  considerazioni riguardo un cosiddetto “ritiro spirituale” di due giorni a cui ha avuto la (s) ventura di partecipare.
Ancora una volta dobbiamo leggere quel che alcuni chierici fanno per distruggere quel che rimane della religiosità  :  sono forse alleati con il Nemico per allontare dalla Fede i giovani ? 
Le parole che il  diciottenne  ci ha scritto dovrebbero far impallidire tutti quei Chierici che si coprono di ridicolo per sembrare "al passo con i giovani" ...
Questi Consacrati vanno tuttavia sostenuti con la nostra incessante preghiera perché prima o poi, dovranno render conto del loro nefasto operato davanti al Trono dell’Altissimo ! 
A.C. 

Cara Redazione, 
sono F., uno studente diciottenne di un istituto superiore Cattolico (o almeno così dovrebbe essere); vorrei raccontarvi la triste esperienza dell'ultimo ritiro spirituale (questi venerdì e sabato) fatto con la scuola, "presieduto" da un sacerdote molto particolare. 
Non si è trattato certo di un convegno sulla liturgia, e la cosa sembra abbastanza scontata per un ritiro spirituale di ragazzi di scuola superiore: è stato difatti incentrato sulla riflessione e il dibattito in merito a temi che toccavano anche la fede, ma che non erano propriamente religiosi. 
Fin qui nulla da ridire. 
Arrivato però il momento della Santa Messa (e Santa sarebbe dovuta essere), anche se precedentemente s'era intuito di che modi era il sacerdote, si è rivelata tutta la dissacrazione di cui questo reverendo padre era capace. 
Premetto che, per interesse personale, avevo tentato di assicurarmi che i canti liturgici fossero veramente degni d'esser così chiamati, anche se non potevo certo far cantare in gregoriano dei liceali che, negli anni passati, hanno sentito solamente canzonette come "Te al centro del mio cuore" (messaggi subliminali di Vodaphone et similia ? ) 
Tuttavia, con mio sommo rammarico, ho dovuto assistere a scene indegne: tanto per cominciare, il classico alleluia "delle lampadine", veementemente gesticolato dal celebrante, che ha così dimostrato la sua indiscutibile vocazione d'elettricista; l'omelia, poi, opportunamente decorata con eleganti ed aulici forme verbali messe in bocca a Nostro Signore, della serie "Perchè ve ne fot**te di me?"; un solenne Sanctus in stile country, da far invidia a quello della Messa da Requiem di Mozart; actuosa participatio dell'assemblea con batitti di mani liturgici, profondamente ispirati dal sacralità e solennità del momento. Della casula ornata da pennellate di colori caldi meglio non parlare, così come della mancanza di quest'ultima del concelebrante, che ha però sfoggiato una raffinatissima stola, sobria e priva di ogni simbolo cristiano, così da non infastidire i fedeli delle altre religioni! 
Sono certo che i Padri Conciliari avessero in mente questo tipo di celebrazioni, specialmente nel cinquantesimo anniversario dello stesso, per rinnovare una Chiesa di "tombaroli" (i sacerdoti legati alla tradizione sono stati definiti in questo modo dal celebrante): i più sinceri complimenti, dunque, a questo reverendo, tanto fedele al Magistero della Chiesa e allineato al suo Pontefice! 
F.P

Immagine  e titolo del post  a cura del giovane studente ( N.d.R)

AVE MARIA!

sabato 1 dicembre 2012

SEPTIÈME EXERCICE

RÉPARATION POUR LES PÉCHÉS ET PRÉPARATION A LA MORT

Quand tu voudras célébrer un jour de réparation, à chacune des sept heures, tu te recueilleras en toi-même, afin de pouvoir converser avec l’amour, l’envoyant pour toi près du Père des miséricordes, comme pour l’apaiser, afin que du trésor de la Passion de son fils, il te remette toutes tes offenses jusqu’à la plus petite négligence, afin qu’à ta mort tu aies pleine confiance que tous tes péchés te sont entièrement remis.

Et d’abord à Matines, dis cette première strophe de l’hymne:

Élève l’amour de notre esprit

Vers toi, auteur du pardon :

Afin que tu sois clément pour nos coeurs

Dont tu auras expulsé les souillures.

<<Que ta bonté te contraigne à vaincre nos maux, en nous pardonnant; accorde-moi, quoique indigne, ce que je souhaite, d’être à ma mort, sans obstacle, rassasiée de ton très doux visage, afin que je trouve en toi le repos éternel>>.

Avec la Miséricorde et l’Amour, tu apaiseras ainsi le Père, disant de coeur et de bouche:

O douce Miséricorde de Dieu, pleine de tendresse et de clémence, me voici moi misérable, en la douleur et l’angoisse de mon coeur, ayant recours à tes charitables conseils, parce que tu es toute mon espérance et ma confiance. Jamais tu n’as dédaigné un malheureux. Jamais tu n’as repoussé le pécheur le plus souillé. Jamais tu n’as rejeté personne ayant recours à toi. Jamais tu n’as laissé sans compassion l’âme dans les angoisses. Toujours tu es venue au secours de l’indigent comme une mère. Toujours tu es arrivée avec bonté, selon la force de ton nom, à tous ceux qui t’ont invoquée. De grâce, ne me rejette pas non plus moi-même bien qu’indigne à cause de mes péchés, ne me repousse pas à cause de ma vie inutile.

Ne fais pas fi de moi, ne dis pas: "Pourquoi a-t-elle aussi une place sur la terre?" Mais selon ta propre nature, aie pour moi une tendre, tendre sollicitude. Je suis dans une extrême disette de mérites, et je viens, je viens à ces hôpitaux pleins de charité que tu tiens pour les pauvres, de peur de mourir dans la rue par le froid et la pluie de ma vie inutile; j’espère recevoir de ta main généreuse une aumône qui sera la réparation de ma vie perdue. Là avec les chaudes toisons de ta tendresse, tu me réchaufferas les côtés trop à nu; ta charité effacera tous mes péchés, et suppléera à toutes mes négligences. De grâce, ouvre-moi l’abri sûr de ta maison, afin que- j’y sois sauvée par ta grâce. Que par toi me vienne en aide la tendre charité de Dieu, en laquelle seule est toute la santé de mon âme et de mon esprit.

De grâce, ô Amour, ô Amour, regarde mon Jésus, lui ton royal captif, regarde-le orné de la couronne de miséricorde, lui qu’en ce moment tu as saisi avec une telle violence, afin de t’approprier avec lui tous ses biens, pour enrichir ensuite le ciel et la terre de ton très riche butin, et pour remplir de bien toutes les créatures, au moyen des trésors de ton très glorieux captif. De grâce,  par ce très cher butin, par lui ton captif mille fois bien-aimé, rachète-moi ma pauvre vie perdue ; cette vie si inutile, rétablis-la-moi, non pas sept fois, mais cent fois. Car si même j’avais seule toutes les vies des hommes, et des anges, je ne pourrais jamais valoir ce que vaut ton très désirable captif; combien moins le vaudrais-je, moi vile femme, cendre et poussière!

Oh! si le choix m’en était donné, qu’avec mon Jésus très cordialement aimé, tu me fasses aussi captive, que moi toute petite que je suis, tu m’enchaînes, tu me possèdes tout à toi, afin que par l’union et la parole de ce divin captif, je devienne, de pécheresse sainte, de femme inutile, vraiment spirituelle ; d’ennemie, vraie amie de Dieu ; de tiède vraiment altérée de Dieu, de stérile et inféconde, produisant toutes les vertus parfaites, et toute la sainteté . de l’état religieux! Oui, mon cher Jésus, que le sein de ta miséricorde soit le lieu de ma prison et de ma captivité! Que la chaîne de ton divin coeur soit pour. moi un lien tel que dans la violence de ton vivant amour, je devienne ta captive à perpétuité, collée à toi indivisiblement, tout entière vivante et adhérente à toi, afin qu’à tout jamais je ne puisse être séparée de toi. Amen.

*


Cor Mariæ Immaculatum, intercede pro nobis