martedì 1 aprile 2014

Mater Domini (canto Gregoriano) . Mp3

Thumbnail Cantori Gregoriani, Fulvio Rampi - Mater domini (Canto gregoriano) . mp3

Cantori Gregoriani, Fulvio Rampi - Mater Domini (canto Gregoriano) . Mp3

Artist: Cantori Gregoriani, Fulvio Rampi Album: Mater domini (Canto gregoriano) Label: Paoline UPC: 8019118020253
1. Salve Regina
2. Alma Redemptoris Mater
3. Et apertum est templum dei
4. Regina Caeli
5. Concordi Laetitia
6. Stabat mater
7. Gaudeamus
8. Ave mundi spes Maria
9. Virgo parens Christi
10. Beatam me dicent
11. Sanctus ix
12. Diffusa est gratia (CO.)
.:oO more Oo:.

IV Domenica di Quaresima - Anno A: Guarigione del cieco nato: Gv 9, 1-41

VOLETE RIABBRACCIARE-RIAMARE LE COSE BELLE DELLA CREAZIONE DEL DIO ALTISSIMO? LEGGIAMO IL RACCONTO DI QUESTA MIRACOLOSA GUARIGIONE DI CUI FU TESTIMONE OCULARE L'APOSTOLO PREDILETTO GIOVANNI DI ZEBEDEO.

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 9,1-41.

Passando vide un uomo cieco dalla nascita
e i suoi discepoli lo interrogarono: «Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché egli nascesse cieco?».
Rispose Gesù: «Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è così perché si manifestassero in lui le opere di Dio.
Dobbiamo compiere le opere di colui che mi ha mandato finché è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può più operare.
Finché sono nel mondo, sono la luce del mondo».
Detto questo sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco
e gli disse: «Và a lavarti nella piscina di Sìloe (che significa Inviato)». Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, poiché era un mendicante, dicevano: «Non è egli quello che stava seduto a chiedere l'elemosina?».
Alcuni dicevano: «E' lui»; altri dicevano: «No, ma gli assomiglia». Ed egli diceva: «Sono io!».
Allora gli chiesero: «Come dunque ti furono aperti gli occhi?».
Egli rispose: «Quell'uomo che si chiama Gesù ha fatto del fango, mi ha spalmato gli occhi e mi ha detto: Và a Sìloe e lavati! Io sono andato e, dopo essermi lavato, ho acquistato la vista».
Gli dissero: «Dov'è questo tale?». Rispose: «Non lo so».
Intanto condussero dai farisei quello che era stato cieco:
era infatti sabato il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi.
Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come avesse acquistato la vista. Ed egli disse loro: «Mi ha posto del fango sopra gli occhi, mi sono lavato e ci vedo».
Allora alcuni dei farisei dicevano: «Quest'uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato». Altri dicevano: «Come può un peccatore compiere tali prodigi?». E c'era dissenso tra di loro.
Allora dissero di nuovo al cieco: «Tu che dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi?». Egli rispose: «E' un profeta!».
Ma i Giudei non vollero credere di lui che era stato cieco e aveva acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista.
E li interrogarono: «E' questo il vostro figlio, che voi dite esser nato cieco? Come mai ora ci vede?».
I genitori risposero: «Sappiamo che questo è il nostro figlio e che è nato cieco;
come poi ora ci veda, non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi; chiedetelo a lui, ha l'età, parlerà lui di se stesso».
Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti i Giudei avevano gia stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto come il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga.
Per questo i suoi genitori dissero: «Ha l'età, chiedetelo a lui!».
Allora chiamarono di nuovo l'uomo che era stato cieco e gli dissero: «Dà gloria a Dio! Noi sappiamo che quest'uomo è un peccatore».
Quegli rispose: «Se sia un peccatore, non lo so; una cosa so: prima ero cieco e ora ci vedo».
Allora gli dissero di nuovo: «Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi?».
Rispose loro: «Ve l'ho gia detto e non mi avete ascoltato; perché volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli?».
Allora lo insultarono e gli dissero: «Tu sei suo discepolo, noi siamo discepoli di Mosè!
Noi sappiamo infatti che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia».
Rispose loro quell'uomo: «Proprio questo è strano, che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi.
Ora, noi sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma se uno è timorato di Dio e fa la sua volontà, egli lo ascolta.
Da che mondo è mondo, non s'è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato.
Se costui non fosse da Dio, non avrebbe potuto far nulla».
Gli replicarono: «Sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi?». E lo cacciarono fuori.
Gesù seppe che l'avevano cacciato fuori, e incontratolo gli disse: «Tu credi nel Figlio dell'uomo?».
Egli rispose: «E chi è, Signore, perché io creda in lui?».
Gli disse Gesù: «Tu l'hai visto: colui che parla con te è proprio lui».
Ed egli disse: «Io credo, Signore!». E gli si prostrò innanzi.
Gesù allora disse: «Io sono venuto in questo mondo per giudicare, perché coloro che non vedono vedano e quelli che vedono diventino ciechi».
Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parole e gli dissero: «Siamo forse ciechi anche noi?».
Gesù rispose loro: «Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: Noi vediamo, il vostro peccato rimane».
Traduzione liturgica della Bibbia


Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" 
di Maria Valtorta : Volume 8 Capitolo 510 pagina 81.


1Gesù esce insieme ai suoi apostoli e a Giuseppe di Sefori, diretto alla sinagoga. La giornata, limpida e serena, rallegra come una promessa di primavera dopo giorni di vento e di nuvole tutte invernali. Molti di Gerusalemme sono quindi per le vie, chi diretto alle sinagoghe, chi di ritorno da esse o da altri luoghi, chi con la famiglia, intenzionato ad uscire dalla città per godersi il sole nelle campagne. Dalla porta di Erode, visibile dalla casa di Giuseppe di Sefori, si vede uscire la gente per degli allegri svaghi oltre le mura, all’aperto. Un tuffo nel verde, nell’ampio, nel libero, fuori delle vie anguste fra le alte case. Credo che la cintura agreste che era intorno a Gerusalemme fosse voluta spontaneamente dai cittadini, che volevano conciliare la misura del sabato col loro desiderio di aria e sole, presi per le vie e non soltanto sulle altane delle case.
Ma Gesù non va verso la porta di Erode. Anzi volge le spalle alla stessa, dirigendosi verso l’interno della città. Ma non ha fatto che pochi passi nella via più larga, nella quale sbocca la stradetta dove è la casa di Giuseppe di Sefori, che Giuda di Keriot gli richiama l’attenzione su un giovane, che procede verso di loro toccheggiando il muro con un bastone, alzando il volto privo di occhi verso l’alto, nell’andatura caratteristica dei ciechi. Le vesti sono povere, sebbene pulite, e deve essere persona nota a molti di Gerusalemme, perché più di uno lo addita e alcuni vanno a lui dicendo: «Uomo, oggi hai sbaglialo la strada. Le vie del Moria sono tutte superate. Già sei in Bezeta».
«Non chiedo elemosina di denaro, oggi», risponde con un sorriso il cieco e procede sempre con quel sorriso verso il nord della città.
2«Maestro, osservalo. Ha le palpebre saldate. Anzi direi che non ha palpebre. La fronte si unisce alle guance senza incavo alcuno, e sembra che sotto non siano le palle degli occhi. È nato così l’infelice. E così morrà, senza aver visto una volta la luce del sole, né il volto dell’uomo. Ora dimmi, Maestro. Per essere così punito, certo ha peccato. Ma se è cieco nato, come certamente è, come può aver peccato prima di nascere? Avranno forse peccato i suoi parenti e Dio li ha puniti facendolo nascere in tal modo?».
Anche gli altri apostoli e Isacco e Marziam si stringono a Gesù per ascoltare la sua risposta. E affrettando il passo, come attirati dall’altezza di Gesù che domina la folla, accorrono due gerosolimitani di civile condizione, che erano un poco indietro del cieco. E fra questi è Giuseppe d’Arimatea, che non si avvicina ma, addossandosi ad un portone alto su due gradini, gira lo sguardo su tutti i volti osservando tutto.
Gesù risponde, e si sentono nitidamente le parole nel silenzio che si è fatto: «Non ha peccato né lui né i suoi parenti più di quanto pecchi ogni uomo e forse anche meno. Perché povertà è sovente freno al peccare. Ma egli è nato così perché ancora una volta siano manifeste in lui le potenze e le opere di Dio. Io sono la Luce venuta nel mondo perché quelli del mondo, che hanno dimenticato Iddio o smarrito la sua effigie spirituale, vedano e ricordino, e perché quelli che cercano Dio, o di Lui già sono, siano confermati nella fede e nell’amore. Il Padre mi ha mandato perché nel giorno che ancora è concesso ad Israele Io completi la conoscenza di Dio in Israele e nel mondo. Ecco dunque che Io debbo compiere le opere di Colui che mi ha mandato, e testimoniare che Io posso ciò che Egli può, perché sono Uno con Lui. E il mondo sappia e veda che il Figlio non è dissimile dal Padre, e creda in Me per ciò che Io sono. Dopo verrà la notte nella quale non si può lavorare, la tenebra, e chi non si sarà scolpito il mio segno e la fede in Me non potrà più farlo nelle tenebre e nella confusione, dolore, desolazione e rovina che copriranno questi luoghi e sbalordiranno gli spiriti con gli orgasmi degli affanni. Ma finché Io sono nel mondo, Io sono Luce e Testimonianza, Parola, Via e Vita, Sapienza, Potenza e Misericordia. 3Va’, dunque, e raggiungi il cieco nato e portamelo qui».
«Va’ tu, Andrea. Io voglio restare qui e vedere ciò che fa il Maestro», risponde Giuda indicando Gesù, che si è chinato verso la via polverosa, ha sputato in un mucchietto di terriccio e col dito sta stemperando la polvere nella saliva formando una pallina di fango e che, mentre Andrea, sempre condiscendente, va a prendere il cieco che sta per svoltare nella vietta dove è la casa di Giuseppe di Sefori, se la spalma sui due indici restando così, con le mani come le tengono i sacerdoti nella S. Messa, al Vangelo o all’Epistola. Però Giuda si ritira dal suo posto dicendo a Matteo e Pietro: «Venite qui, voi che avete poca statura, e vedrete meglio». E si mette dietro a tutti, quasi celato dai figli d’Alfeo a da Barlolomeo, che sono alti.
Andrea torna tenendo per mano il cieco, che si affanna a dire: «Non voglio denaro. Lasciami andare. So dove è quello chiamato Gesù. E vado per chiedere...».
«Questo è Gesù, questo che ti è davanti», dice Andrea fermandosi davanti al Maestro.
Gesù, contrariamente al solito, non chiede nulla all’uomo. Subito gli stende il poco fango, che ha sugli indici, sulle palpebre chiuse e gli ordina: «Ed ora va’, il più sollecito che puoi, alla cisterna di Siloe, senza fermarti a parlare con nessuno».
Il cieco, col volto impiastriccialo di fango, resta un attimo perplesso e apre le labbra per parlare. Poi le chiude e ubbidisce. I primi passi sono lenti, come di chi è pensieroso oppure deluso. Poi affretta il passo, rasentando col bastoncello il muro, sempre più lesto, lesto quanto lo può un cieco, forse più, come se si sentisse guidato...
I due gerosolimitani ridono sarcastici scrollando il capo e se ne vanno. Giuseppe d’Arimatea, e mi stupisce il fatto, li segue senza neppure salutare il Maestro, tornando sui suoi passi, ossia verso il Tempio, mentre da quella stessa direzione veniva. Così tanto il cieco, come i due, come Giuseppe d’Arimatea, vanno verso il sud della città, mentre Gesù piega verso occidente e lo perdo di vista, perché il volere del Signore mi fa seguire il cieco e quelli che lo seguono.
4Superata Bezeta, entrano tutti nella valle che è fra il Moria e Sion ‑ mi sembra di averla sentita altre volte chiamare Tiropeo ‑ la percorrono tutta fino ad Ofel, lo costeggiano, escono sulla via che va alla fonte di Siloe, sempre stando con quest’ordine: per primo il cieco, che deve essere conosciuto in quella parte popolana, poi i due, ultimo, a qualche distanza, Giuseppe d’Arimatea.
Giuseppe si ferma presso una casetta meschina, seminascosto da una siepe di bosso, che sporge contornando l’orticello della povera casa. Ma i due vanno proprio vicino alla fonte e osservano il cieco, che si accosta cauto al vasto bacino e, tastando il muro umido, spenzola dentro alla cisterna una mano e la trae gocciante d’acqua e se ne lava gli occhi, una, due, tre volte. Alla terza preme sul viso anche l’altra mano, lasciando cadere il bastone e gettando un grido come di dolore.
Poi scosta lentamente le mani e il suo primo grido di pena si muta in un urlo di gioia: «Oh! Altissimo! Io vedo!», e si getta a terra come vinto dall’emozione, le mani messe a parare gli occhi, strette alle tempie, per ansia di vedere, per sofferenza di luce, e ripete: «Vedo! Vedo! Questa è dunque la terra! Questa la luce! Questa l’erba che conoscevo solo per la sua frescura...». Si alza e stando curvo, come uno che porta un peso, il suo peso di gioia, va al ruscello che porta via il soprappiù dell’acqua e lo guarda scorrere scintillante e ridarello, a mormora: «E questa è l’acqua... Ecco! Così la sentivo fra le dita (vi immerge la mano) fredda e che non si tiene, ma non ti conoscevo... Ah! Bella! Bella! Come è tutto bello!». Alza il viso e vede un albero... ci va vicino, lo tocca, stende una mano, attira a sé un rametto, lo guarda e ride, ride, e fa solecchio, e guarda il cielo, il sole, e due lacrime scendono dalle vergini palpebre aperte a contemplare il mondo... E abbassa gli occhi sull’erba dove un fiore ondula sullo stelo, e vede se stesso riflesso nell’acqua del ruscello, e si guarda e dice: «Così io sono!», e osserva stupito una tortora venuta a bere poco più là, e una capretta che strappa le ultime foglie di un rosaio selvatico, e una donna che viene verso la fonte con un figliolino sul seno. E quella donna gli ricorda sua madre, la sua madre dallo sconosciuto volto, e alzando le braccia al cielo grida: «Te benedetto, Altissimo, per la luce, per la madre, e per Gesù!», e corre via lasciando a terra il suo ormai inutile bastone...
I due non hanno atteso di vedere tutto questo. Appena visto che l’uomo ci vedeva, sono corsi via verso la città. Giuseppe invece resta fino alla fine e, quando il cieco non più cieco gli sfreccia davanti entrando nel dedalo di viuzze del popolano borgo di Ofel, lascia a sua volta il suo posto e torna sui suoi passi, verso la città, molto pensieroso...
5Il borgo di Ofel, sempre rumoroso, è ora addirittura in subbuglio. Chi corre a destra, chi a sinistra. Domande, risposte.
«Ma vi sarete sbagliati con un altro...».
«No, ti dico. Gli ho parlato dicendo: “Ma sei proprio tu, Sidonia detto Barlolmai?”, e lui mi ha detto: “Lo sono”. Volevo chiedergli come fu, ma è corso via».
«Dove è ora?».
«Dalla madre, certamente».
«Chi? Chi l’ha visto?», chiedono nuovi accorrenti.
«Io, io», dicono in diversi rispondendo.
«Ma come avvenne?».
«...L’ho visto correre senza bastone con due occhi nel volto e ho detto: “Guarda! Così sarebbe Barlolmai se...”».
«Ti dico che tremo tutta. Entrando ha gridato: “Madre, io ti vedo!”».
«Una grande gioia per i parenti. Ora potrà aiutare il padre e guadagnare il suo cibo...».
«Quella povera donna! Si è sentita male dalla gioia. Oh! una cosa! una cosa! Io ero andata a farmi dare un po’ di sale e...».
«Corriamo a sentire da lui...».
Giuseppe d’Arimatea si trova preso in mezzo a questo baccano e, non so se per curiosità o se per spirito di imitazione, segue la corrente a va a finire in un vicoletto cieco, che se proseguisse andrebbe al Cedron, dove la folla si accalca soverchiando col suo parlare il fruscio delle acque del torrente, ingrossato dalle piogge di autunno. E Giuseppe vi arriva quando, da un altro vicolo che sbocca in questo, vengono i due di prima con altri tre: uno scriba, un sacerdote e un altro che non identifico alla veste. Essi si fanno largo con prepotenza e cercano entrare nella casa stipata di gente.
La casa è fatta di una vasta cucina nera come il catrame, con un angolo taglialo fuori da un rustico assito, oltre il quale è un giaciglio e una porta che dà in un’altra stanza con un letto più grande. Una porta, aperta nella parete opposta, mostra un orticello di pochi metri quadri. Ed è tutto.
6Il cieco guarito parla addossato al tavolo, rispondendo a chi lo interroga, tutta gente povera come lui, popolo minuto di Gerusalemme, di questo borgo, che è forse il più povero di tutti. Sua madre, ritta vicino a lui, lo guarda a piange asciugandosi gli occhi nel suo velo. Il padre, un uomo sciupato dal lavoro, si stropiccia la barba con la mano scossa da un tremilo. Entrare nella casa è impossibile anche alla prepotenza giudea e dottorale, e i cinque devono ascoltare da fuori le parole del guarito.
«Come mi si sono aperti? Quell’uomo che si chiama Gesù mi ha sporcato gli occhi con della terra bagnata e mi ha detto: “Va’ a lavarti alla fonte di Siloe”. Ci sono andato, mi sono lavalo e si sono aperti gli occhi e ho visto».
«Ma come hai fatto a trovare il Rabbi? Dicevi sempre che eri disgraziato perché mai lo incontravi, neppure quando passava sempre di qui per andare da Giona al Getsemani. E oggi, adesso che non si sa mai dove sia...».
«Eh! Ieri sera è venuto un suo discepolo e mi ha dato due monete dicendo: “Perché non cerchi di vedere?”. Gli ho detto: “Ho cercato. Ma non trovo mai quel Gesù che fa i miracoli. Lo cerco da quando ha guarito Annalia, del mio stesso borgo, ma se vado qua Egli è là...”, a lui mi ha detto: “Io sono un suo apostolo e ciò che io voglio Egli fa. Vieni domani in Bezeta e cerca la casa di Giuseppe il galileo, quello del pesce secco, Giuseppe di Sefori, presso la porta di Erode e l’arco della piazza, dalla parte d’oriente, e vedrai che prima o poi Egli passa di là o entra nella casa ed io ti accennerò al Maestro”. Ho detto: “Ma domani è sabato”. Volevo dire che Egli non farebbe nulla in sabato. Mi ha detto: “Se vuoi guarire è il giorno, perché dopo si lascia la città, né sai se lo potrai più incontrare”. Io ho detto ancora: “So che lo perseguitano. Ho sentito dalle porte della cinta del Tempio, dove vado a mendicare. E perciò dico che ora che lo perseguitano così, meno ancora vorrà essere perseguitato e non mi guarirà in sabato”. E lui: “Fa’ ciò che ti dico e in sabato tu vedrai il sole”. E io sono andato. Chi non sarebbe andato? Se lo dice un suo apostolo! Mi ha detto anche: “Io sono quello che Egli più ascolta, e vengo apposta perché mi fai pietà e perché voglio che splenda il suo potere dopo che lo hanno vilipeso. Tu, cieco nato, lo farai risplendere. So ciò che dico. Vieni e vedrai”. E io sono andato, e non ero ancora arrivato alla casa di Giuseppe che un uomo mi ha preso per mano, ma alla voce non era quello di ieri, e mi ha detto: “Vieni con me, fratello”, e io non volevo andare, credevo mi volesse dare pane e denaro, vesti forse, e gli dicevo di lasciarmi andare perché avevo saputo dove trovare quello chiamato Gesù, e l’uomo mi ha detto: “Questo è Gesù, questo che ti è davanti”. Ma io non ho visto nulla, per ché ero cieco. Ho sentito due dita coperte di terra bagnata toccarmi qui e qui, e una voce dire: “Va’ sollecito a Siloe e lavati e non parlare con alcuno”, e l’ho fatto. Ma ero sconfortato perché speravo vederci subito, e quasi ho creduto che fosse uno scherzo di giovani senza cuore, e non volevo quasi andare. Ma ho sentito dentro una specie di voce dire: “Spera e ubbidisci”, e allora sono andato alla fonte e mi sono lavalo e ho visto». E il giovane si ferma estatico a ripensare alla gioia del primo vedere...
7«Fate uscire l’uomo. Lo vogliamo interrogare», gridano i cinque.
Il giovane si fa largo ed esce sulla soglia.
«Dove è Colui che ti ha guarito?».
«Io non lo so», dice il giovane, al quale un amico ha sussurrato: «Sono scribi e sacerdoti».
«Come non lo sai? Dicevi ora che lo sapevi. Non mentire ai dottori della Legge e al sacerdote! Guai a chi cerca ingannare i magistrati del popolo!». .
«Non inganno nessuno. Quel discepolo mi ha detto: “È in quella casa” ed era vero, perché c’ero vicino quando sono stato preso e condotto da Lui. Ma dove ora sia non so. Il discepolo mi ha detto che vanno via. Potrebbe già essere uscito dalle porte».
«Ma dove andava?».
«E che ne so io?! Andrà in Galilea... Per come viene trattato qui!...».
«Stolto e irrispettoso! Bada a come parli, feccia del popolo! Ti ho detto: per che via si dirigeva?».
«Ma come volete che lo sappia se ero cieco? Può un cieco dire dove va un altro?».
«Sta bene. Seguici».
«Dove volete portarmi?».
«Dai capi dei farisei».
«Perché? Che c’entrano essi con me? Mi hanno forse guarito, essi, che io li debba ringraziare? Quando ero cieco e mendicavo, le mie mani non sentivano mai le loro monete, il mio udito mai la loro parola di pietà, e il mio cuore mai il loro amore. Che devo dire loro? Non ho che uno al quale dire “grazie”, dopo mio padre e mia madre che per tanti anni mi hanno amato infelice. Ed è questo Gesù che mi ha guarito amandomi col suo cuore, come i miei parenti col loro. Io non vengo dai farisei. Sto con mia madre e mio padre, a godere di vedere il loro volto ed essi i miei occhi nati ora, dopo tante primavere da quella in cui nacqui ma non vidi la luce».
«Non tante parole. Vieni a seguici».
«Che no! Non vengo! Avete voi forse mai asciugato una lacrima o un sudore a mia madre avvilita della mia sventura, a mio padre sfinito dal lavoro? Ora io lo posso fare col mio aspetto, e dovrei lasciarli e seguirvi?».
«Te lo ordiniamo. Non sei tu che ordini, ma il Tempio e i capi del popolo. Se la superbia di esser guarito ti rende ottusa la mente a ricordare che noi comandiamo, noi te lo ricordiamo. Avanti! Cammina! ».
«Ma perché io devo venire? Che volete da me?».
«Che tu deponga della cosa. È sabato. Opera compiuta nel sabato. Va registrata per il peccato. Peccato tuo e di quel satana».
«Satana voi! Peccato voi! E io dovrei venire a deporre contro chi mi ha beneficalo? Voi siete ebbri! Al Tempio verrò. A benedire il Signore. E non più di così. Nell’ombra della cecità sono stato per tanti anni. Ma le palpebre chiuse non hanno fatto tenebra che agli occhi. L’intelletto è stato in luce lo stesso, in grazia di Dio, e mi dice che non devo danneggiare l’unico Santo che è in Israele».
«Uomo, basta! Non sai che vi sono castighi per chi si oppone ai magistrati?».
«So niente io. Qui sono e qui sto. E non vi conviene nuocermi. Vedete che tutto l’Ofel è dalla mia parte».
«Sì! Sì! Lasciatelo! Sciacalli! È protetto da Dio. Non lo toccate! Dio è coi poveri! Dio è con noi, affamatori a ipocriti!». La gente urla e minaccia con una di quelle spontanee manifestazioni popolari che sono le esplosioni di sdegno degli umili verso chi li preme, o di amore per chi li protegge. E grida: «Guai a voi se colpite il nostro Salvatore! L’Amico dei poveri! Il Messia tre volte santo. Guai a voi! Non si è temuto le ire di Erode, non quelle dei Presidi, quando si è voluto. Non temiamo le vostre, vecchie iene dalle mascelle sdentate! Sciacalli dalle unghie mozzate! Inutili prepotenti! Roma non vuole i tumulti e non opprime il Rabbi perché Egli è pace. Ma voi vi conosce. Andate via! Via dai quartieri di quelli che opprimete con decime più forti delle loro forze, ad aver denaro per saziare le 
vostre fami e a compiere i turpi mercati. Discendenti di Giasone! Di Simone! Torturalori dei veri Eleazari, dei santi Onia. Conculcalori dei profeti! Via! Via!». Il tumulto si accende sempre più fiero.
8Giuseppe d’Arimatea, schiaccialo contro un muretto, sino allora spettatore attento ma inattivo dei fatti, con un’agilità insospettabile in un vecchio, e per di più così infagottato in vesti e mantelli, salta in piedi sul muricciolo a urla: «Silenzio, cittadini. E ascoltate Giuseppe l’Anziano!».
Una, due, dieci teste si volgono in direzione del grido. Vedono Giuseppe. Gridano il suo nome. Deve essere molto noto il d’Arimatea e deve godere il favore del popolo, perché le urla di sdegno si mutano in urla di gioia: «C’è Giuseppe l’Anziano! Viva lui! Pace e lunga vita al giusto! Pace e benedizione al benefattore dei miseri! Silenzio, ché parla Giuseppe! Silenzio!».
Il silenzio si fa a fatica, e si ode per qualche minuto il frusciare del Cedron oltre il vicolo. Tutte le teste sono rivolte a Giuseppe, avendo tutti dimenticato l’oggetlo che prima li faceva volgere in opposta direzione: i cinque disgraziati e improvvidi che hanno suscitalo il tumulto.
«Cittadini di Gerusalemme, uomini di Ofel, perché volete lasciarvi accecare dal sospetto e dall’ira? Perché mancare al rispetto e alle consuetudini, voi sempre così fedeli alle leggi dei padri? Di che temete? Forse che il Tempio sia un Moloch che non rende ciò che accoglie? Forse che i giudici vostri siano tutti ciechi, più del vostro amico, ciechi nel cuore e sordi nella giustizia? Non è forse usanza che un fatto prodigioso sia deposto, scritto e conservato da chi di dovere per le cronache di Israele? Lasciate dunque che, anche per onore del Rabbi che amate, il miracolato salga a deporre l’opera da Esso compiuta. Ancora titubate? Ebbene, io mi fo mallevadore che nulla av­verrà di male a Barlolmai. E voi sapete che io non mento. Co­me un figlio a me caro lo scorterò lassù, a ve lo ricondurrò qui poi. A me credete. E del sabato non fate un giorno di peccato con la ribellione ai vostri capi».
«Dice giusto! Non si deve. Possiamo credergli. Egli è un giusto. Nelle buone deliberazioni del Sinedrio è sempre la sua voce». La gente si scambia le sue idee e finisce per gridare: «A te sì. Il nostro amico a te lo affidiamo!». E rivolta al giovane: «Vieni! Non temere. Con Giuseppe d’Arimatea sei sicuro come e più che con tuo padre», e fa largo perché il giovane possa an­dare da Giuseppe, che è sceso dal suo pulpito improvvisalo, e mentre passa gli dicono: «Veniamo anche noi. Non temere!».
Giuseppe, nelle sue ricche vesti di splendida lana, pone una mano sulla spalla del giovane e si mette in cammino. La tunica bigia e consunta del giovane, il suo piccolo mantello, strusciano contro l’ampia veste rosso cupa e il pomposo manto ancor più scuro del vecchio sinedrista. Dietro, i cinque e, dopo questi, molti e molti di Ofel... 
9Eccoli al Tempio, dopo aver traversato le vie centrali attirando l’attenzione di molti, che si additano il già cieco dicendo: «Ma è colui che mendicava cieco! E ora ha gli occhi! Ma forse è uno che gli somiglia! No. È lui certo e lo conducono al Tempio. Andiamo a sentire», e il codazzo aumenta sempre più, sinché le mura del Tempio li inghiottono tutti.
Giuseppe guida il giovane in una sala, non è il Sinedrio, dove sono molti farisei e scribi. Giuseppe entra e con lui entra Barlolmai e i cinque. I popolani di Ofel vengono respinti nel cortile.
«Ecco l’uomo. Io stesso ve l’ho condotto, avendo, non visto, assistito al suo incontro col Rabbi e alla sua guarigione. E vi posso dire che fu del tutto casuale da parte del Rabbi. L’uomo, lo sentirete anche voi, fu condotto, o meglio, invitato ad andare dove era il Rabbi, da Giuda di Keriot, che voi conoscete. E io ho sentito, e anche questi due con me hanno sentito, perché erano presenti, come fu Giuda a tentare Gesù di Nazaret al miracolo. Or io qui depongo che, se uno vi è da punire, non è il cieco, né il Rabbi, ma l’uomo di Keriot, che ‑ Dio mi vede se mento nel dire ciò che il mio intelletto pensa ‑ è il solo autore del fatto come colui che lo ha con apposita manovra provocato. Ho detto».
«Il tuo dire non annulla la colpa del Rabbi. Se un suo discepolo pecca non deve peccare il Maestro. Ed Egli ha peccato guarendo in sabato. Ha compiulo opera servile».
«Sputare in terra non è fare opera servile. E toccare gli occhi di un altro non è fare opera servile. Io pure tocco l’uomo e non credo di peccare».
«Egli ha fatto miracolo in sabato. In questo sta il peccato».
«Onorare il sabato con un miracolo è grazia di Dio e sua bontà. È il suo giorno. E non potrà l’Onnipotente celebrarlo con un miracolo che faccia splendere la sua potenza?».
«Non siamo qui per ascoltare te. Tu non sei imputato. È l’uomo che vogliamo interrogare. 10Rispondi, tu. Come hai ottenuto la vista?».
«L’ho detto. E questi mi hanno sentito. Il discepolo di quel Gesù mi ha detto ieri: “Vieni e io ti farò guarire”. E sono venuto. E mi sono sentito mettere del fango qui e una voce dirmi di andare a Siloe a lavarmi. E l’ho fatto e ci vedo».
«Ma sai lo chi ti ha guarito?».
«Certo che lo so! Gesù. Ve l’ho detto».
«Ma sai di preciso chi è Gesù?».
«Non so niente io. Sono un povero e un ignorante. E fino a poco fa ero cieco. Questo so. E so che Lui mi ha guarito. E se lo ha potuto fare, certo Dio è con Lui».
«Non bestemmiare! Non può Dio essere con chi non osserva il sabato», urlano alcuni.
Ma Giuseppe e i farisei Eleazaro, Giovanni e Gioacchino osservano: «Neppure però può un peccatore fare tali prodigi».
«Siete sedotti voi pure, forse, da quel posseduto?».
«No. Siamo giusti. E diciamo che, se Dio non può essere con chi opera in sabato, neppure può l’uomo senza Dio fare che un cieco nato veda», dice calmo Eleazaro. E gli altri annuiscono.
«E il demonio dove lo mettete?», urlano bisbetici i malevoli.
«Non posso credere, e neppur voi lo credete, che il demonio possa far opera capace di far lodare il Signore», dice il fariseo Giovanni.
«E chi lo loda?».
«Il giovane, i suoi parenti, tutto Ofel, ed io con loro, e con me tutti quelli che giusti sono e santamente timorati di Dio», ribatte Giuseppe.
I malevoli, scornati, non sapendo cosa obbiettare, investono Sidonia detto Barlolmai: «Tu che cosa dici di colui che ti ha aperto gli occhi?».
«Per me è un profeta. E più grande di Elia col figlio della vedova di Sarepta. Perché Elia fece tornare l’anima nel fanciullo. Ma questo Gesù mi ha dato ciò che non avevo mai perso perché non l’avevo mai avuto: la vista. E se mi ha fatto gli occhi così in un baleno e con nulla, salvo un po’ di fango, mentre in nove mesi mia madre con carne e sangue non era riuscita a farmeli, deve essere grande come Dio, che col fango ha fatto l’uomo
«Va’ via! Va’ via! Bestemmiatore! Bugiardo! Merce d’acquisto!», e cacciano fuori l’uomo come fosse un dannato.
11«L’uomo mente. Non può esser vero. Tutti lo possono dire che chi è nato cieco non può guarire. Sarà uno che gli somiglia a Barlolmai e che il Nazareno ha preparato... oppure... Barlolmai non è mai stato cieco».
Davanti a questa sorprendente affermazione Giuseppe d’Arimatea scatta: «Che l’odio acciechi si sa dal tempo di Caino. Ma che faccia stolti non si sapeva ancora. Vi pare che uno giunga alla maturità della gioventù fingendosi cieco per... attendere un presumibile evento strepiloso e molto futuro? O che i parenti di Barlolmai non conoscano il figlio o si prestino a questa menzogna?».
«Il denaro può tutto. Ed essi sono poveri».
«Il Nazareno lo è più di loro».
«Tu menti! Somme da satrapo gli passano fra le mani».
«Ma non vi si fermano un istante. Sono dei poveri quelle somme. Usate per il bene, non per la menzogna».
«Come lo difendi! E sei uno degli Anziani!».
«Giuseppe ha ragione. La verità va detta quale che sia la carica che l’uomo ricopre», dice Eleazaro.
12«Correte a richiamare il cieco. E portatelo di nuovo qui. E altri vadano dai parenti e li portino qui», urla Elchia spalancando la porta e ordinando ad alcuni in attesa lì fuori. E la sua bocca è quasi coperta di bava tanto l’ira lo strozza.
Chi corre di qua, chi di là. Il primo che torna è Sidonia detto Barlolmai, stupito e seccato. Lo ficcano in un angolo guardandolo come una muta di cani guata una selvaggina... Poi, dopo un bel po’, ecco venire i genitori di lui, circondati da folla.
«Venite dentro voi. E gli altri fuori!».
I due entrano spaventati e vedono il figlio là in fondo, sano, ma in stato di arresto. La madre geme: «Figlio mio! E doveva esser giorno di festa per noi!».
«Ascoltate noi. È vostro figlio quell’uomo?», interroga rudemente un fariseo.
«Sì che è nostro figlio! E chi volete che sia se non lui?».
«Ne siete proprio sicuri?».
Il padre e la madre sono tanto sbalorditi della domanda che prima di rispondere si guardano.
«Rispondete!» .
«Nobile fariseo, e puoi pensare che un padre e una madre si possano ingannare sulla loro creatura?», dice umilmente il padre.
«Ma... potete giurare che... sì, che per nessuna somma vi fu chiesto di dire che questo è vostro figlio mentre è uno che gli somiglia?».
«Chiesto di dire? E da chi mai? Giurare? Ma mille volte, e per l’altare e il Nome di Dio, se vuoi!». È così sicura l’affermazione che smonterebbe anche il più ostinato.
Ma i farisei non si smontano! Chiedono: «Ma vostro figlio non era nato cieco?».
«Sì. Così era nato. A palpebre chiuse e, sotto, il vuoto, il nulla...».
«E come mai ora ci vede, ha gli occhi e le palpebre aperte su essi? Non vorrete già dire che gli occhi possono nascere così, come fiori a primavera, e che una palpebra si schiuda, come giusto fa il calice di un fiore!...», dice un altro fariseo e ride sarcastico.
«Sappiamo che questo uomo è veramente nostro figlio da quasi trent’anni e che è nato cieco, ma come ora ci veda non lo sappiamo, né sappiamo chi gli ha aperto gli occhi. Del resto, chiedetene a lui. Non è ebete e non è fanciullo. Ha i suoi buoni anni. Interrogatelo e vi risponderà».
«Voi mentite. Egli, in casa vostra, ha narralo come fu guarito e da chi. Perché dite che non sapete?», urla uno dei due che avevano sempre seguito il cieco.
«Eravamo tanto sbalorditi dalla sorpresa che non abbiamo sentito», si scusano i due.
13I farisei si volgono a Sidonia detto Barlolmai: «Vieni avanti tu. E da’ pur gloria a Dio se ti riesce! Non sai che chi ti ha toccato gli occhi è un peccatore? Non lo sai? Ebbene, sappilo. Noi te lo diciamo, che lo sappiamo».
«Mah! Sarà come voi dite. Io, se sia peccatore, non lo so. So soltanto che prima ero cieco e ora ci vedo, e ben chiaro».
«Ma cosa ti fece? Come ti apri gli occhi?». 
«Ve l’ho già detto e voi mi avete ascoltalo. Ora volete sentire di nuovo? Perché? Forse volete farvi discepoli di Lui?». 
«Stolto! Sii tu discepolo di quell’uomo. Noi siamo discepoli di Mosè. E di Mosè sappiamo ogni cosa e che Dio gli ha parlato. Ma di quest’uomo nulla sappiamo, né di dove venga né chi sia, e nessun prodigio del Cielo lo indica per profeta». 
«Qui appunto sta il meraviglioso! Che voi non sapete di dove Egli sia e dite che nessun prodigio lo indica per giusto. Ma Egli mi ha aperto gli occhi e nessuno di noi d’Israele aveva mai potuto farlo, neppur l’amore di una madre e i sacrifici del padre mio. Una cosa però sappiamo tutti, tanto io che voi, ed è che Dio non esaudisce il peccatore, ma colui che ha timore di Dio e fa la sua volontà. Non si è mai sentito che nessuno in tutto il mondo abbia potuto aprire gli occhi ad un cieco nato, ma questo Gesù lo ha fatto. Se Egli non fosse da Dio, non lo avrebbe potuto fare. 
«Sei nato nel peccato interamente, e deforme sei nello spirito come e più che non lo fosti nel corpo, e ti pretendi di insegnare a noi? Va’ via, maledetto aborto, e fatti satana col tuo seduttore. Via! Via tutti, plebe stolta a peccatrice!», e buttano fuori figlio, padre e madre, come fossero tre lebbrosi. 
14I tre se ne vanno lesti, seguiti dagli amici. Ma, giunto fuori dalla cinta, Sidonia si volge e dice: «E state! E dite ciò che volete! Il vero è che io ci vedo e ne lodo Iddio. E satana voi sarete, non già il Buono che mi ha guarito». 
«Taci, figlio! Taci! Purché ciò non ci faccia del male!...», geme la madre. 
«Oh! madre mia! Ti ha avvelenato l’anima l’aria di quella sala, tu che nel mio dolore mi insegnavi a lodar Dio e che ora nella gioia non lo sai ringraziare e temi gli uomini? Se Dio mi ha amato tanto e ti ha amata tanto da darci il miracolo, non saprà difenderci da un pugno d’uomini?». 
«Il figlio ha ragione, donna. Andiamo alla sinagoga nostra a lodare il Signore, posto che dal Tempio ci hanno cacciato. E andiamoci lesti, prima che termini il sabato...». 
E, affrettando il passo, si sperdono nelle vie della valle.
Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/ 

sabato 29 marzo 2014

Riportiamo uno scritto di sant'Alberto Magno


Dal Trattato "La remissione" di san Fulgenzio di Ruspe, vescovo.


"In un istante, in un batter d'occhio, al suono dell'ultima tromba; suonerà infatti la tromba e i morti risorgeranno incorrotti e noi saremo trasformati" (1 Cor 15, 52). 


Quando dice "noi" Paolo mostra che con lui conquisteremo il dono della futura trasformazione coloro che insieme a lui e ai suoi compagni vivono nella comunione ecclesiale e nella vita santa. 

Spiega poi la qualità di tale trasformazione dicendo: "E' necessario infatti che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e che questo corpo mortale si vesta di immortalità" (1 Cor 5, 53). In costoro allora seguirà la trasformazione dovuta come giusta ricompensa a una precedente rigenerazione compiuta con atto spontaneo e generoso del fedele. Perciò si promette il premio della rinascita futura a coloro che durante la vita presente sono passati dal male al bene.

La grazia prima opera, come dono divino, il rinnovamento di una risurrezione spirituale mediante la giustificazione interiore. Verrà poi la risurrezione corporale che perfezionerà la condizione dei giustificati. L'ultima trasformazione sarà costituita dalla gloria. Ma questa mutazione sarà definitiva ed eterna. Proprio per questo i fedeli passano attraverso le successive trasformazioni della giustificazione, della risurrezione e della glorificazione, perché questa resti immutabile per l'eternità. 


La prima metamorfosi avviene quaggiù mediante l'illuminazione e la conversione, cioé col passaggio dalla morte alla vita, dal peccato alla giustizia, dalla infedeltà alla fede, dalle cattive azioni ad una santa condotta. Coloro che risuscitano con questa risurrezione non subiscono la seconda morte. Di questi nell'Apocalisse é detto: "Beati e santi coloro che prendon parte alla prima risurrezione Su di loro non ha potere la seconda morte" (Ap 20, 6). Nel medesimo libro si dice anche: "Il vincitore non sarà colpito dalla seconda morte" (Ap 2, 11). 

Dunque, come la prima risurrezione consiste nella conversione del cuore, così la seconda morte sta nel supplizio eterno. Pertanto chi non vuol essere condannato con la punizione eterna della seconda morte s'affretti quaggiù a diventare partecipe della prima risurrezione. Se qualcuno infatti durante la vita presente, trasformato dal timore di Dio, si converte da una vita cattiva a una vita buona, passa dalla morte alla vita e in seguito sarà anche trasformato dal disonore alla gloria. (Lib. 2, 11, 2 - 12, 1. 3-4; CCL 91 A, 693-695).

venerdì 28 marzo 2014

S. Leonardo da Porto Maurizio e la storia del Prelato di Lione

S. Leonardo da Porto Maurizio ripeteva spesso, nelle
sue prediche, la storia del Prelato di Lione che “per
zelo della sua anima, si era ritirato nel deserto a
far penitenza, ed era morto nella stessa ora in cui
era morto S. Bernardo (1090-1153). 
Comparendo, dopo morte, al
suo Vescovo, gli disse: «nella stessa ora in cui morii io,
spirarono tremila persone. Di queste, l’abate S.
Bernardo ed io salimmo subito al cielo; altri tre, andarono
in purgatorio; tutte le altre duemila novecento
novantacinque anime, precipitarono all’inferno!».

AMDG et BVM

giovedì 27 marzo 2014

Umiltà Umiltà Umiltà


Dalla Vita di San Francesco d'Assisi, di san Buonaventura da B.

5. Disse una volta al suo compagno: «Non mi sembrerà di essere frate minore, se non sarò nello stato che ora sto per descriverti. Ecco: io sono superiore dei frati e vado al capitolo; predico ed ammonisco i frati - e alla fine loro si mettono a dire contro di me: "Non sei adatto per noi: non sei istruito, non sai parlare, sei idiota e semplice!". Alla fine vengo scacciato ignominiosamente, tra le ingiurie di tutti. Ti dico: se non ascolterò tutto questo con la stessa faccia, con la stessa allegrezza di spirito e con lo stesso proposito di santità, non sono per niente un frate minore».

E aggiungeva: «Nella prelatura, la caduta; nella lode, il precipizio; nell'umile stato di suddito, il guadagno per l'anima. Come mai, allora, siamo più portati al pericolo che al guadagno, dal momento che il tempo della vita ci è stato concesso per guadagnare?».

Proprio per questo motivo Francesco, modello di umiltà, volle che i suoi frati si chiamassero Minori e che i prelati del suo Ordine avessero il nome di ministri. In questo modo egli si serviva delle parole contenute nel Vangelo, che aveva promesso di osservare, mentre i suoi discepoli, dal loro stesso nome, apprendevano che erano venuti alla scuola di Cristo umile, per imparare l'umiltà.
Difatti Cristo Gesù, il maestro dell'umiltà, allo scopo di formare i discepoli all'umiltà perfetta, disse: Chiunque tra voi vorrà essere il maggiore, sia vostro ministro, e chiunque, tra voi, vorrà essere il primo, sarà vostro servo.

Il vescovo di Ostia, - primo protettore e promotore dell'Ordine dei frati minori, che in seguito, secondo la predizione del Santo, fu elevato all'onore del sommo pontificato, col nome di Gregorio IX - chiese un giorno a Francesco se gradiva che i suoi frati accedessero alle dignità ecclesiastiche. Il Santo rispose: «Signore, i miei frati sono stati chiamati minori proprio per questa ragione: che non presumano di diventare maggiori. Se volete che facciano frutto nella Chiesa di Dio, teneteli e conservateli nello stato della loro vocazione e non permettete assolutamente che ascendano alle prelature ecclesiastiche».


6. Francesco, tanto in se stesso quanto negli altri, preferiva l'umiltà a tutti gli onori e perciò quel Dio, che ama gli umili, lo giudicava degno della gloria più eccelsa, come mostrò la visione avuta da un frate assai virtuoso e devoto.

Questo frate, compagno di viaggio dell'uomo di Dio, pregando una volta con lui in una chiesa abbandonata, venne rapito in estasi.
Vide nel cielo molti seggi e, tra essi, uno più splendido e glorioso di tutti gli altri, costellato di pietre preziose. Ammirando lo splendore di quel trono così eminente, cominciò a chiedersi ansiosamente chi mai fosse destinato ad occuparlo. In mezzo a questi pensieri, udì una voce che gli diceva: «Questo seggio apparteneva a uno degli angeli ribelli ed ora è riservato per l'umile Francesco». Ritornato finalmente in sé, dopo quella preghiera estatica, il frate seguì il Santo che stava uscendo dalla chiesa.

Ripresero il cammino, parlandosi a vicenda di Dio secondo la loro abitudine, e allora quel frate, che aveva la visione ben impressa nella mente, colse abilmente l'occasione per chiedere a Francesco che opinione aveva di se stesso.
E l'umile servo di Cristo gli disse: «Mi sembra di essere il più gran peccatore». Il frate gli replicò che, in tutta coscienza, non poteva né pensare né dire una cosa simile. Ma il Santo spiegò: «Se Cristo avesse trattato il più scellerato degli uomini con la stessa misericordia e bontà con cui ha trattato me, sono sicuro che quello sarebbe molto più riconoscente di me a Dio».

Ascoltando queste umili parole, il frate ebbe la conferma che la sua visione era veritiera, ben sapendo che, secondo la testimonianza del santo Vangelo, il vero umile verrà innalzato a quella gloria eccelsa, da cui il superbo viene respinto.


mercoledì 26 marzo 2014

San Giovanni Damasceno, difensore delle Immagini sante. "Il più prezioso di tutti i beni è conoscere".

27 MARZO

SAN GIOVANNI DAMASCENO,  
CONFESSORE E DOTTORE DELLA CHIESA

Il culto delle sacre Immagini.
Nella prima Domenica di Quaresima i Greci celebrano la festa dell'Ortodossia. La nuova Roma, mostrando chiaramente di non aver nulla a che fare con l'indefettibilità dell'antica, aveva percorso tutto il cammino delle eresie concernenti il dogma del Dio fatto uomo; tanto che dopo aver rigettato prima la consustanzialità del Verbo, quindi l'unità di persona nell'Uomo-Dio ed infine l'integrità della sua duplice natura, sembrava che non fosse sfuggita nessun'altra negazione alla sagacità dei suoi imperatori e patriarchi. Tuttavia mancava il coronamento di tutti gli errori passati nel tesoro dottrinale di Bisanzio: restava ancora da proscrivere quaggiù le immagini di quel Cristo che sul suo celeste trono, non era più soggetto a mutilazione.

L'eresia iconoclasta.
L'eresia degli iconoclasti, cioè dei frantumatori delle immagini, segnava sul terreno della fede nel Figlio di Dio l'ultima involuzione degli errori orientali. Era dunque giusto che la festa destinata a ricordare la restaurazione delle sacre immagini si gloriasse del nome di festa dell'Ortodossia; celebrando infatti l'ultima sconfitta del dogmatismo bizantino, essa ricorda tutte le altre che ricevette nei Concili, dal primo di Nicea fino al secondo che porta lo stesso nome, il settimo ecumenico. Un'altra particolarità della detta celebrazione era che l'imperatore, stando ritto sul trono, davanti alla Croce ed alle Immagini sante, ripeteva in S. Sofia tutti gli anatemi formulati nei diversi tempi contro gli avversari della verità rivelata.

La persecuzione.
Del resto Satana, il nemico del Verbo, aveva mostrato all'evidenza che, dopo tutte le precedenti sconfitte, non gli rimaneva altro baluardo che la dottrina iconoclasta. Non c'è eresia che abbia moltipllcato per questo in Oriente tanti martiri e rovine. Per difenderla sembrarono rivivere Nerone e Diocleziano nei Cesari battezzati: Leone Isaurico, Costantino Copronimo, Leone l'Armeno, Michele e suo figlio Teofilo. Riapparvero così gli editti di persecuzione, una volta banditi a proteggere gl'idoli, per sfociare di nuovo nell'idolatria, di cui la Chiesa, essi dicevano, s'era imbrattata.
Invano san Germano di Costantinopoli proclamò alto che i cristiani non adoravano le immagini, ma solo le veneravano con un culto relativo alla persona dei Santi ch'esse effigiavano. L'esilio del patriarca fu la risposta del cesare pontefice. La soldataglia che aveva l'incarico d'eseguire le volontà del principe si scagliò a saccheggiare le chiese e le case dei privati; d'ogni parte le statue venerate caddero sotto il martello dei demolitori; si coprirono di calce gli affreschi delle pareti; si lacerarono e ridussero in pezzi i paramenti sacri, i vasi dell'altare, per distruggere gli smalti istoriati e l'ornato delle immagini.

Il martirio.
Mentre nelle pubbliche piazze il rogo inceneriva quei capolavori, alla presenza delle popolazioni che ne avevano nutrita la pietà, anche l'audace artista che aveva tentato di continuare a riprodurre le sembianze di Nostro Signore, di Maria e dei Santi, era gettato nel fuoco e soffriva ogni genere di torture, insieme ai fedeli rei solamente di non aver potuto trattenere i loro sentimenti alla vista di quello scempio. Così in breve tempo, ahimè! nell'ovile desolato spadroneggiò il terrore, ed alcuni capi del gregge, curvando la testa sotto quell'uragano, si prestarono a lamentevoli compromessi.
Fu allora che la nobile discendenza di san Basilio, monaci e vergini consacrate, insorsero compatti a tener testa ai tiranni: a prezzo dell'esilio, delle orride prigioni, e della morte causata dalla fame e dalle torture, dai flutti e dalla spada, essi poterono salvare le tradizioni dell'arte antica e la fede degli avi. La quale, in quell'ora della storia, si può dire personificata nel santo monaco e pittore che porta il nome di Lazzaro, che, tentato da lusinghe e minacce, quindi torturato e messo ai ferri, e finalmente, quale eroico recidivo, con le mani bruciate da lame incandescenti, non di meno continuò a esercitare la sua arte per amore dei Santi, per i suoi fratelli e per Dio, sopravvivendo agli stessi persecutori.
Fu allora anche che si affermò definitivamente l'indipendenza temporale dei Romani Pontefici. Allorché Leone Isaurico minacciava di venire fino a Roma a fare in pezzi la statua di san Pietro, tutta l'Italia accorse a bloccare ai nuovi barbari le sue sponde e a difendere i tesori delle sue Basiliche e a sottrarre il Vicario dell'Uomo-Dio al residuo di patronaggio che Bisanzio ancora si attribuiva.
Fu un'epoca gloriosa che, durata per ben centovent'anni, abbraccia la successione dei grandi Papi che va da san Gregorio II a san Pasquale I, e i due punti estremi sono illustrati in Oriente da due nomi: Teodoro Studita, che nella sua incrollabile fermezza prepara il trionfo finale; Giovanni Damasceno che, all'inizio, ne segnalò la burrasca.
Sino ai tempi nostri si lamentava che un'epoca i cui ricordi riempivano i fasti della Liturgia greca, non fosse commemorata da nessuna festa nel calendario delle Chiese latine. La lacuna fu colmata sotto il pontificato di Leone XIII; così dal 1890, Giovanni Damasceno, il protetto di Maria, il monaco la cui eminente dottrina gli valse il nome di fiume d'oro, ricorda in Occidente l'eroica lotta in cui l'Oriente ebbe altissimi meriti presso la Chiesa e il mondo tutto.

L'insegnamento della Chiesa.
Concludiamo col riportare qui i punti più salienti delle definizioni con le quali la Chiesa, prima nell'VIII secolo e più tardi nel XVI, rivendicò le sante Immagini dalla proscrizione cui le aveva condannate l'inferno. "È cosa legittima, dichiara il secondo concilio di Nicea, porre nelle chiese a modo di affresco, o di tavola, sui paramenti e vasi sacri, come anche nelle case e per le strade, sia le immagini in dipinto, che in mosaico o d'altra materia conveniente, rappresentanti Nostro Signore e Salvatore Gesù Cristo, la purissima Vergine e santa Madre di Dio, gli Angeli e tutti i Santi; così che si possano incensare e accendere lumi davanti a loro (2.o Concilio di Nicea, sess. 7). - Non certo, continuano i Padri di Trento contro i Protestanti, è da credere ch'esse abbiano una divinità o una virtù propria, o che si debba riporre fiducia proprio nell'immagine, come una volta i pagani nei loro idoli; ma,riferendosi al prototipo l'onore ad esse attribuito [1], è a Cristo stesso che, per esse, vanno le nostre adorazioni, ed ai Santi l'onore che noi attribuiamo alla loro effige" (Concilio di Trento, sess. 25).

VITA. - San Giovanni nacque verso l'anno 676. Apparteneva ad una ricca famiglia di Damasco; a somiglianza di suo padre, esercitò un'importante carica presso la corte del califfo. Quindi abbandonò il mondo e si ritirò nella solitudine di S. Saba. In alcune sue Lettere dommatiche rimaste celebri, egli divenne, contro l'imperatore iconoclasta Leone Isaurico, l'intrepido difensore del culto delle immagini. Sue cure principali furono: insegnare, scrivere e predicare. In lui rifulsero di vivo splendore le virtù dell'obbedienza e dell'umiltà; nutrì una filiale pietà verso la Madre di Dio ed un ardente zelo per la salute delle anime; amante intransigente della verità, non lo fu meno della concordia fraterna. Morì nel 749 e fu sepolto a S. Saba. Ben presto cominciò il suo culto; nel 7.o Concilio ecumenico fu additato come difensore instancabile della tradizione cattolica e dell'unità della Chiesa; finalmente, con un decreto del 19 agosto 1890, Papa Leone XIII lo proclamò Dottore della Chiesa e ne fissò la festa il 27 marzo.

L'arte e la preghiera.
<<O difensore delle Immagini sante, concedi, come prega la Chiesa (Colletta del giorno), che imitiamo le virtù e siamo protetti da coloro ch'esse rappresentano. L'immagine ci fa venerare e pregare il nostro re Cristo ed i suoi Santi. Essa è un libro per coloro che non sanno leggere; anzi molti letterati traggono a volte più profitto da un rapido sguardo gettato su d'un eloquente quadro, che nella lettura prolungata d'una quantità di volumi. Nel suo lavoro, l'artista cristiano fa nel contempo un atto di religione e di apostolato, così che non è da stupirsi se in ogni epoca turbolenta l'odio infernale scatena sconvolgimenti atti a distruggere le loro opere.

Con te, dunque, diremo, o san Giovanni Damasceno:

"Va' via, Satana, con la tua invidia, tu che non puoi tollerare di farci contemplare l'immagine di Nostro Signore e di santificarci alla sua vista; tu che non vuoi farci considerare le sue salutari sofferenze, ammirare la sua condiscendenza, godere lo spettacolo dei suoi miracoli per trarne occasione di meglio conoscere e lodare la potenza della sua divinità. Invidioso dei Santi e degli onori che hanno ottenuto da Dio, tu non puoi sopportare che abbiamo sotto gli occhi la loro gloria, per paura che quella vista non ci muova a imitarne il coraggio e la fede; non puoi sopportare l'aiuto che ci ripromettiamo ai corpi e alle anime nostre per la confidenza che in esse riponiamo. Ma noi, demonio geloso e nemico degli uomini, non ti seguiremo" (Delle Immagini, 3,3).

Lode.
"Sii pertanto la nostra guida, tu che vieni salutato dalla sacra scienza come uno dei suoi primi luminari. Il più prezioso di tutti i beni è il conoscere, dicevi (Dialetica, 1). E l'unica tua ambizione fu sempre quella di portare le intelligenze al solo maestro immune da ogni falsità, a Cristo, forza e sapienza di Dio.
Un giorno Maria, apparendo alla guida dei tuoi primi passi monastici, alla quale obbedivi come a Dio stesso, predisse il successo della vostra dottrina e delle vostre opere, dicendo: "Lascia scorrere la sorgente dalle dolci e limpide acque; nel suo corso percorrerà l'universo e disseterà le anime avide di scienza e di purezza; e nella sua potenza arginerà il mareggiar dell'eresia, trasformandola in una meravigliosa dolcezza". Continuando nel suo dire, la Regina delle celesti armonie aggiungeva che tu avevi ricevuto la profetica cetra e il salterio, per intonare nuovi inni al Signore Dio nostro, gareggianti con quelli dei Cherubini (Giovanni di Gesù, Vita di G. Damasceno, 31). Perché le Chiese cantassero la morte e la risurrezione di Cristo (ibid.), bisognava che avessero in te un maestro di coro. Dalle feste dell'esilio e dalla Pasqua del tempo, guidaci attraverso il Mar Rosso e il deserto all'eterna festa, ove tutte le immagini di questa terra svaniscono dinanzi alle celesti realtà, ove ogni scienza si eclissa nella chiara visione e dove regna Maria, tua diletta ispiratrice, tua e nostra Regina">>.


[1] Tale formula, che contiene la vera teologia del culto delle immagini, è stata mutuata dal Concilio di Trento dal secondo di Nicea, che testualmente la trasse da san Giovanni Damasceno: De fide orthodoxa, 4,16.

da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - I. Avvento - Natale - Quaresima - Passione, trad. it. P. Graziani, Alba, 1959, pp. 887-891