STORIA DI MOSÈ
Nascita e
salvezza di Mosè (Es
2,1-10)
All’epoca
in cui nacque Mosè, una legge dispotica, ricordata dalla Scrittura, imponeva
che i nati maschi fossero soppressi. Ma i suoi genitori non vollero sottostare
a quella legge, perché nel volto del bambino già allora splendeva la bellezza
che tutti in seguito avrebbero ammirato.
Costretti,
tuttavia, a cedere alle minacce del tiranno, affidarono il bambino alle acque
del fiume, preoccupandosi che non venisse subito sommerso.
Lo misero
in un canestro spalmato di pece e lo abbandonarono così alla corrente. (Questi
particolari ci sono riferiti con esattezza dagli storici della sua vita).
Il
canestro, come guidato dalla mano di Dio, entrò in uno dei canali laterali del
fiume e finì per essere sbalzato dalla corrente sui bordi del canale stesso.
La figlia
del re che passava lungo i prati proprio là dove il canestro si era fermato, lo
scoprì sentendo uscirne dei vagiti. Piena di stupore per la bellezza del
bambino, decise di portarlo con sé, di curano e tenerlo come un figlio.
Ma il
bambino, per istinto di natura, non si lasciava allattare da estranee per cui,
alcune persone avvedute, appartenenti alla sua stessa razza, riuscirono a
farlo allattare da sua madre.
Uscito di
fanciullezza, dopo che era stato educato nelle discipline di quel popolo
straniero, egli ricusò gli onori che avrebbe potuto ottenere presso di loro;
si staccò dalla madre fittizia che l’aveva tenuto come figlio e tornò tra i compatrioti
presso la propria madre.
Fuga nel
deserto di Madian (Es
2, 11‑12)
Un
giorno, imbattutosi in 1m ebreo e in un egiziano che litigavano, volle prender
le difese del compatriota ed uccise l’egiziano.
In altra
occasione si adoperò per pacificare due ebrei che rissavano furiosamente.
Inutilmente ricordò a essi che erano fratelli e avrebbero dovuto risolvere la
controversia non già con l’ira ma nello spirito della reciproca comunanza di
stirpe: quello dei due che aveva torto lo costrinse ad andarsene ed egli
approfittò dell’offesa per acquistarsi una saggezza più alta[1].
Portatosi
lontano, fuori dai rumori del mondo, in luoghi solitari, si mise al servizio di
una persona straniera molto saggia e sperimentata nel giudicare i costumi e la
condotta degli uomini[2].
Fu
sufficiente l’episodio dell’assalto dei pastori perché quest’uomo comprendesse
il valore del giovane Mosè.
Costui
infatti si rese conto che Mosè non si era scagliato contro i pastori a scopo di
lucro o di difesa ‑ essi non l’avevano provocato ‑ ma perché, giudicando un
onore potersi battere per la giustizia, aveva voluto punire appunto il loro
ingiusto comportamento.
Fu questo
atto che gli meritò l’ammirazione del suo padrone straniero, il quale finì per
dargli in moglie la figlia, tenendo in gran conto il coraggio del giovane e
non badando invece alla sua povertà. Lo lasciò libero di condurre il genere di
vita che più gli gradisse.
Così
Mosè, divenuto pastore di pecore, continuò a restare nel deserto, lontano dalla
confusione della folla, pienamente soddisfatto di quella vita.
La
vocazione (Es 3, 2‑22)
Fu nel
tempo in cui si trovava nel deserto che, secondo la testimonianza della storia,
Dio gli si manifestò in modo miracoloso.
Un
giorno, in pieno meriggio, fu colpito da una luce così intensa che superava
quella del sole e quasi lo accecò. L’insolito fenomeno, pur avendolo sbalordito,
non gli impedì di levare gli occhi verso la cima del monte, dove vide un
chiarore di fuoco attorno a un cespuglio, i cui rami però continuavano a
restare verdi anche in mezzo alle fiamme, come se fossero coperti di rugiada.
A quella
vista Mosè esclamò: «Andrò a vedere questa grande visione» (Es 3, 3) e mentre
pronunziava queste parole avvertì che il chiarore del fuoco raggiungeva
contemporaneamente e incredibilmente tanto i suoi occhi come il suo udito.
Da quelle
fiamme avvampanti vennero infatti a lui come due grazie diverse: l’una attraverso
la luce dava vigore agli occhi, l’altra faceva risuonare alle orecchie ordini
santi.
La voce
proveniente dal chiarore ingiunse a Mosè di levare i calzari e di salire a
piedi nudi verso il luogo in cui splendeva la luce divina.
Poiché
ritengo superfluo, per l’intento che mi sono proposto, dilungarmi su tutte le
singole vicende esteriori della vita di Mosè, mi basta far notare che l’apparizione
divina gli donò tanta forza che fu in grado di accettare l’ordine di liberare
il popolo dalla schiavitù degli Egiziani.
Egli fece
esperienza della forza ricevuta, attraverso prove che Dio gli comandò di
eseguire lì sul momento. Fatta cadere per terra una verga che teneva in mano,
essa si trasformò in serpente, ma non appena l’ebbe raccolta da terra, ritornò
come prima.
Fu poi la
volta di una mano che, appena estratta dal seno, mutò il colore della pelle,
divenendo bianca come neve, ma rimessa al posto di prima riacquistò il colore
naturale.
Ritorno
in Egitto (Es 4, 18‑27)
Decise
allora di ritornare in Egitto conducendo con sé la moglie e il figlio. Nel
viaggio, come dice la storia, gli andò incontro un angelo, che gli minacciò la
morte, ma la donna riuscì a placarlo con il sangue della circoncisione del
figlio.
Anche
Aronne, suo fratello, venne a incontrarlo e a parlargli secondo l’ordine che
aveva ricevuto da Dio.
Per la
liberazione del popolo (Es
4, 28‑31; 5, 1‑19)
Il popolo
che viveva disperso in mezzo agli Egiziani e oppresso sotto i lavori forzati,
fu da loro convocato in assemblea, dove essi promisero a tutti la liberazione
dalla schiavitù. Il proposito fu manifestato al sovrano da Mosè stesso, ma
quello si mise a opprimere ancor più gli Israeliti, mostrandosi più esigente
con i sovraintendenti ai lavori. Ordini più severi imposero la raccolta di una
quantità maggiore di argilla, di paglia e di stoppa.
Gli
indovini egiziani e i serpenti (Es
7, 8‑13)
Quando il
Faraone, tale era il nome del tiranno degli egiziani, fu informato dei portenti
che Mosè aveva compiuto in mezzo al suo popolo, escogitò dei raggiri servendosi
degli indovini. Era convinto che le arti magiche di costoro avrebbero potuto
riprodurre lo stesso portento delle verghe trasformate da Mosè in serpente al
cospetto di tutti gli Egiziani.
In
realtà, anche le verghe degli indovini divennero serpenti, ma il serpente
uscito dalla verga di Mosè si lanciò su di loro e li divorò.
Questo
bastò a smascherare l’errore e mostrare che la magia aveva saputo procurare
alle verghe soltanto una vita effimera, capace di destare l’ammirazione di
persone facili a lasciarsi ingannare.