L’articolo della discesa agli inferi del Signore ci ricorda che della rivelazione cristiana fa parte non solo il parlare di Dio, bensì anche il suo tacere.
Dio non è solo la parola comprensibile, che si avvicina a noi, egli è anche la causa taciuta e inaccessibile, incompresa e incomprensibile che ci sfugge.
Certamente, nel cristianesimo c’è un primato del logos, della parola rispetto al silenzio: Dio ha parlato, Dio è la parola. Ma oltre a ciò noi non dovremmo dimenticare la verità del duraturo nascondimento di Dio. Solo quando lo abbiamo conosciuto come silenzio, possiamo sperare di sentire anche il suo parlare, che emana dal suo silenzio.
La cristologia oltrepassa la croce, il momento della tangibilità dell’ amore divino, sin nella morte, nel silenzio e nell’ oscuramento. Se si tiene conto di ciò, si risolve da solo il problema della «prova scritta»; perlomeno nel grido di morte di Gesù «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Mc 15,34) il segreto della discesa agli inferi di Gesù diventa visibile come un lampo accecante in una notte buia. A questo riguardo non dimentichiamo che questa frase del Crocifisso è il versetto iniziale di una preghiera di Israele, nella quale si riassume in modo sconvolgente il bisogno e la speranza di questo popolo eletto da Dio, e in apparenza profondamente abbandonato da lui. Questa preghiera che sale come richiesta nel momento dell’ oscurità di Dio finisce con una esaltazione della grandezza di Dio. Anche questa è assente nel grido in punto di morte di Gesù, che Ernst Käsemann ha di recente definito una preghiera dagli inferi, come l’ istituzione della prima preghiera nel deserto dell’ apparente assenza di Dio: «Il Figlio mantiene ancora la fede, quando la fede sembra essere diventata insensata e la realtà terrena rivela il Dio assente, di cui parlano non a caso il primo ladrone e la folla che schernisce. Il suo grido non è indirizzato al vivere e sopravvivere, non a se stesso, bensì al Padre. Il suo grido è contro la realtà del mondo intero».
Tentiamo un’ ulteriore riflessione per penetrare in questo complesso mistero, che non può essere chiarito a partire da un solo lato.
Innanzitutto prendiamo atto ancora una volta di un’ osservazione esegetica. Ci viene detto che nel nostro articolo di fede il termine «inferno» sarebbe solo una traduzione errata di scheol (in greco: hádes), con il quale l’ ebreo definiva quella condizione al di là della morte, che si immaginava in modo molto vago come una specie di esistenza nell’ ombra, più un non esserci che un esserci. Perciò la frase avrebbe originariamente significato solo che Gesù è entrato nello scheol, ovvero che è morto.
Ora, questo può senz’ altro essere vero. Ma rimane la questione se la cosa con ciò sia diventata più facile e chiara.
Penso che la domanda si ponga ora più che mai: cos’è veramente la morte e cosa accade dopo, quando qualcuno muore ed entra quindi nel destino della morte? Tutti noi dovremo ammettere il nostro imbarazzo di fronte a questa domanda.
Ma forse possiamo tentare un avvicinamento partendo ancora una volta dal grido di Gesù sulla croce, trovando espresso il nucleo di ciò che significa discesa di Gesù, partecipazione al destino di morte dell’ uomo. In quest’ ultima preghiera di Gesù, come nella scena del monte degli ulivi, sembra che il nucleo più profondo della sua passione non sia un qualsivoglia dolore fisico, bensì la radicale solitudine, il completo abbandono. In questo punto, però, appare infine veramente l’ abisso della solitudine dell’uomo come tale, dell’ uomo che nell’ intimo è solo. Questa solitudine, che certo è perlopiù coperta in vario modo, ma è comunque la vera condizione dell’ uomo, significa nel contempo la più profonda contraddizione all’ essenza dell’ uomo, che non può stare da solo, ma ha bisogno di essere in comunione.
Perciò la solitudine è la sfera della paura, che si basa sul venire a mancare dell’ essenza: essenza che deve essere e che tuttavia è stata esiliata in uno spazio che le è impossibile. Cerchiamo di chiarircelo con un esempio. Se un bambino deve camminare da solo attraverso la foresta nella notte buia, ha paura, anche se gli si è dimostrato in maniera convincente che non vi è nulla da temere.
Nel momento in cui è solo nell’ oscurità e sente la solitudine in maniera così radicale, sorge la paura, la vera paura dell’ uomo, che non è paura di qualcosa, bensì paura in sé. La paura di qualcosa di determinato è in fin dei conti innocua, può essere esorcizzata allontanando l’ oggetto in questione. Se qualcuno per esempio ha paura di un cane che morde, la faccenda si può sistemare velocemente legando il cane alla catena. Qui ci imbattiamo in qualcosa di molto più profondo: nel fatto che l’ uomo, quando finisce nella solitudine definitiva, non ha paura di qualcosa di determinato, che si potrebbe mostrare lontano; egli prova piuttosto la paura della solitudine, dell’ inquietudine e della sospensione della propria essenza, che non può essere superata razionalmente.
Aggiungiamo ancora un esempio: quando qualcuno deve stare sveglio di notte da solo con un morto in una camera, troverà sempre la sua situazione in qualche modo inquietante, anche se non vuole confessarselo ed è in grado di rendere comprensibile razionalmente l’ infondatezza della sua sensazione. Egli sa bene che il morto non gli può fare nulla e che la sua situazione sarebbe forse molto più pericolosa se la persona in questione fosse ancora viva. Quello che nasce qui è una paura di tutt’ altro tipo, non paura di qualcosa, bensì nell’ essere soli con la morte, la sinistra sensazione della solitudine in sé, la sospensione dell’ esistenza.
Ma, dobbiamo chiederci ora, come può essere superata una tale paura, se la prova dell’ infondatezza cade nel vuoto? Ora, il bambino perderà la sua paura nel momento in cui vi sarà lì una mano che lo prende e lo conduce. E anche colui che è solo con il morto sentirà sparire l’ impulso della paura se qualcuno è con lui. In questo superamento della paura si svela nel contempo ancora una volta la sua essenza: che essa è la paura della solitudine, la paura di un essere che può vivere soltanto nell’ essere in comunione.
Dobbiamo spingere ancora oltre la nostra domanda. Se esistesse una solitudine nella quale nessuna parola di un altro potesse più arrivare e avere effetto trasformante; se sopraggiungesse una sospensione dell’ esistenza tanto grave che in quel luogo non potrebbe più giungere alcun tu, allora sarebbe data quella vera e totale solitudine e terribilità che il teologo chiama «inferno».
Cosa significhi questa parola possiamo definirlo precisamente in base a ciò: essa indica una solitudine nella quale non penetra più la parola dell’ amore e significa quindi la vera sospensione dell’ esistenza.
In questo contesto, è immediato ricordare che i poeti e i filosofi della nostra epoca sono convinti che tutti gli incontri tra gli uomini rimangano in sostanza alla superficie; nessun uomo avrebbe accesso alla vera profondità dell’ altro. Nessuno perciò può giungere alla vera profondità dell’altro; ogni incontro, per quanto possa sembrare bello, in fin dei conti non fa altro che narcotizzare l’ insanabile ferita della solitudine. Nell’ intimo più profondo dell’esistenza di noi tutti abiterebbe quindi l’ inferno, la disperazione – la solitudine, che è tanto indefinibile quanto terribile. Sartre ha notoriamente costruito la sua antropologia su quest’idea. Infatti, una cosa è certa: c’ è una notte nel cui abbandono non arriva alcuna voce; vi è una porta attraverso la quale noi possiamo passare solamente in solitudine: la porta della morte. Tutta la paura del mondo è in ultima analisi paura di questa solitudine. Da questo si può capire perché l’ Antico Testamento abbia solo una parola per l’ inferno e la morte, il termine scheol: in fin dei conti le due cose sono identiche. La morte è la solitudine per antonomasia. Ma quella solitudine nella quale l’ amore non può più penetrare è l’ inferno. Con questo siamo giunti di nuovo al nostro punto di partenza.
In base a ciò, questa frase significa che Cristo ha attraversato la porta della nostra ultima solitudine, che egli nella sua passione è entrato in questo abisso del nostro essere abbandonati. Dove nessuna voce può raggiungerci, egli è lì. In questo modo l’ inferno è superato, o meglio: la morte, che prima era l’ inferno, non lo è più. Entrambe le cose non sono più le stesse, poiché nel cuore della morte c’ è la vita, poiché l’ amore abita nel cuore di essa. L’ inferno è ora solo una chiusura volontaria di sé o, come afferma la Bibbia, la seconda morte.
Tratto dal libro : Perché siamo ancora nella Chiesa . Di JR-Benedetto XVI