Miracoli Eucaristici
Eucaristia: presenza reale (corporale e sostanziale) di Cristo.Il miracolo è il fiammifero che può accendere la lucerna della fede, ma senza l'olio della buona volontà dell'uomo Dio non vuole fare alcunché. Il lumino dello Spirito Santo immesso in noi dal Battesimo deve essere alimentato, e se non è alimentato si spegne. L'occhio appannato dal sovrappiù consumistico, la mente appesantita dall'orgoglio, il cuore oscurato dal male, non consentono alle volte di vedere Dio: nel creato, nelle sue creature, nel suo Evangelo, cioè nella buona notizia che ci è venuto a portare. E che ci ha confermato con la Morte e Risurrezione di Gesù Cristo, del Cristo, il Mashìach (parola ebraica che significa Messia).
Segni straordinari e miracoli che, offerti da Dio per confermare nella fede o per fare svanire dubbi, aiutano nel cammino verso la Gerusalemme Celeste, che solamente la fede nel Cristo, nelle Sue parole, nella salvezza da Lui operata a favore dell’umanità intera, consentiranno di raggiungere.
“Io sono la via, la verità, la vita.Chi non beve e non mangia del mio corpo non ha in sé la vita eterna”, dice il Cristo.
“Non ti ho detto che se credi vedrai la gloria di Dio?. Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato. Lazzaro, vieni fuori! (Gesù, quando ha resuscitato Lazzaro dopo che era morto da 4 giorni. Ndr).
II miracolo si arresta alla soglia della fede, che per sua natura è sempre e contemporaneamente dono di Dio e accoglienza libera dell'uomo: in Dio nulla è costrizione.
A Paray-le-Monial, in Francia, c'è una carta geografica con l'indicazione di 132 luoghi, sparsi nel mondo, dove si sono verificati miracoli eucaristici nel corso dei secoli. Prodigi che aiutano i dubbiosi, ma anche quanti si gloriano del nome cristiano. E ci si può gloriare del nome cristiano, solo se e nella misura in cui si porta scolpito nella mente e nel cuore il riflesso della gloria di Dio, l'impronta della sua sostanza: la dignità filiale, che consiste nella dolcezza, nella tenerezza, nell'essere verità, Verità.
MIRACOLO EUCARISTICO DI TRANI (Anno 1000 circa).
Miracolo dell’ ostia fritta. Presente nel Duomo di Trani. Indirizzo: Cattedrale MARIA SS. ASSUNTA
Piazza Duomo-70059 TRANI BA
Nella Puglia, la regione delle Murge e del Tavoliere, del Gargano e della Penisola Salentina, vi è la città di Trani, che custodisce nella chiesa Cattedrale il Miracolo Eucaristico dell'ostia fritta. Il Duomo, risalente al XII secolo, intitolato a Maria SS. Assunta, il 28 aprile del 1960 è stato elevato a Basilica Minore da Sua Santità Giovanni XXIII.
La vicenda del miracolo eucaristico ci porta a sostare davanti ad un'altro monumento d'arte che corrisponde alla chiesa di S. Andrea (in origine di S. Basilio), costruzione meravigliosa, tutta in pietra, in stile romanico-pugliese, officiata ai primordi dai monaci Basiliani.
In questa chiesa, intorno al mille, epoca della maggiore concentrazione di immigrati ebrei in città, come ne fanno fede la chiesa di S. Anna (ex sinagoga, con l'ingresso principale ad oriente) e le varie denominazioni ebraiche delle vie (Giudaica, Sinagoga ecc...), incise sulla pietra viva e tuttora leggibili, si consumò il primo atto del sacrilego proposito, che sta all'origine dell'evento miracoloso che ci accingiamo a narrare.
Una donna ebrea, con la complicità dolosa o colposa di una cristiana, riuscì a mescolarsi tra i fedeli in una assemblea liturgica e, recitando bene la parte della devota, si accostò alla comunione, con intenzione malvagia. Ricevuta l'ostia consacrata per le mani del celebrante, tornò al suo posto. Invece di consumare la particela, evitando ogni minimo sospetto, finì per avvolgere l'ostia in un panno o fazzoletto. Terminata la celebrazione, con fare discreto, riprese la via di casa, portandosi quel sacro pane. L'intenzione era quella di irridere e schernire la fede dei cristiani nell'Eucaristia, attuando un empio disegno, concepito nella mente, covato nel cuore e attuato con atto sacrilego.
Giunta a casa, senza frapporre indugi, passò alla attuazione del piano satanico. Accese il fuoco, vi pose su una padella con olio e, quando l'olio cominciò a friggere, vi immerse la santa ostia. A contatto, con l'olio bollente, la particola divenne miracolosamente carne sanguinolenta e l'emorragia di sangue, chiamiamola così, non si arrestò immediatamente. Dinanzi a tale imprevista reazione e a tale folgorante mutazione, l'incredula donna ebrea, presa da tremore e terrore, in un primo momento, cercò di occultare il misfatto. Ma, poi, costatata l'impossibilità di disfarsi del corpo del reato, vinta dal rimorso, si sciolse in lacrime amare e fece risuonare per l'aria alte grida di dolore. Dalle vie adiacenti fu un accorrere di gente curiosa e sgomenta. Alla vista dell'accaduto, tutti rimasero trasecolati e la notizia del prodigio, in un baleno, fece il giro della città.
Qualcuno giustamente si precipitò ad informarne il Vescovo.
Il Pastore, sgomento per l'orrendo sacrilegio, si portò tosto sul posto, si prostrò in un gesto di adorazione e di implorazione, indisse una processione penitenziale di riparazione. I resti dell'Ostia fritta furono devotamente raccolti e portati in Cattedrale processionalmente, tra due ali di folla, che andavano ingrossando strada facendo, come arteria di fiume che scende verso la foce.
Questa in sintesi la sostanza dell'evento miracoloso.
La reliquia contenente una ostia fritta fu messa in un artistico reliquiario, dono del tranese Fabritio de Cunio, che ha la forma di una casetta, con quattro colonnine, sormontate da una cupoletta. Al centro del reliquiario vi è un tubicino di cristallo, dentro il quale, in un batuffolo di bambagia (ovatta), si trovano due pezzi ineguali di ostia fritta. Il colore della parte superiore è bruno nerastro; il colore della parte inferiore è bruno rossastro lucente.
Con ogni probabilità la differenza di colore è imputabile o meglio ascrivibile alla diversa intensità di frittura cui le parti dell'ostia andarono soggette.
I due pezzi o frammenti sono ben visibili, per cui ognuno può rendersene conto ancora oggi.
Il Couet, in una raccolta in lingua francese, dal titolo: «Les Miracles Historiques du Saint Sacrament», Tourcoing 1898, scrive: «La città di Trani in Puglia, possiede in un ricco reliquiario d'argento, un'Ostia miracolosamente convertita in carne... L'Ostia si è conservata in questo stato, senza corruzione, alla grande ammirazione dei fedeli. È tradizione, fra gli abitanti di Trani, che Dio operò questo miracolo per confondere l'audacia sacrilega di una donna giudea, che voleva fare bruciare la divina ostia su una padella di ferro».
Sei episodi del Miracolo in questione (consegna della sacra particola all'ebrea; sacra particela fritta in padella e convertita in carne; processione di penitenza; processo all'ebrea; ebrea giustiziata; lotta degli angeli e dei demoni per il possesso della sua anima) si trovano raffigurati nel Palazzo Ducale di Urbino, opera del pittore toscano Paolo Uccello, che fu ad Urbino nel 1465.
Non tutti i dettagli della raffigurazione pittorica sono storicamente fondati. L'artista non si limita semplicemente a registrare i fatti, ma li completa ed aureola di elementi creativi e fantastici, in risposta alla personale concezione e visione del reale. Egli non ha giurato fedeltà ai canoni della storiografia, ma si muove liberamente nel colorito universo della contemplazione artistica, dove gli sconfinamenti nell'irreale sono pienamente giustificati. L'arte più che agli episodi è interessata ai segni, ai simboli, ai significati, ai valori, alle evocazioni profonde. Più che ai fatti è attenta alle risonanze interiori dello spirito. Più che dato accertato è linguaggio, interpretazione, illuminazione. Al servizio della vita, oltre il nudo fatto documentabile o verificabile. Ma torniamo alle vicende storiche del Miracolo.
La Reliquia veniva regolarmente portata in processione tutti gli anni, in occasione della Pasqua, e questo sino agli anni compresi tra il 1717-53. In questo periodo mons. Davanzati, con una decisione personale e discutibile, decise e fece sostituire i frammenti dell'Ostia bruciata con le sacre specie consacrate il Giovedì Santo, per la processione del Venerdì Santo. La Reliquia del miracolo venne chiusa e custodita dentro un'urna insieme alle altre reliquie. In seguito fu ripristinata l'antica usanza, anche se il giorno della processione fu cambiato, in ossequio alle mutate norme liturgiche.
Alla processione penitenziale del Venerdì santo, chiamata dal popolo «la processione grande», tutti i partecipanti erano obbligati a camminare a piedi nudi, compreso l'Arcivescovo. Come a soddisfare la curiosità del lettore, ricordiamo tra gli altri, la visita del rè Gustavo di Svezia nel 1968; della regina Elena di Savoia nel 1943; del rè Guglielmo II, imperatore di Germania, nel 1905; del Pontefice Urbano IV nel 1384. Una indiretta conferma al miracolo di Trani la possiamo rintracciare nell'affermazione uscita dalla bocca di Padre Pio, lo stigmatizzato cappuccino, il quale ebbe a dire: «Trani è fortunata, perché per ben due volte il Sangue di Cristo ha bagnato la sua terra». Il riferimento era diretto al miracolo eucaristico e al miracolo del Crocifisso di Colonna, dal cui naso, sfregiato da mano infedele, fuoruscì un'abbondante fiotto di sangue. La tradizione narra che iI Crocifìsso, rubato da pirati turchi, fu messo in una barca, per essere portato via. La barca cominciò ad inclinarsi dalla parte dove era il Crocifisso. Uno dei predoni, attribuendo al Crocifisso l'inconveniente, pieno di sdegno, impugnò la scimitarra e vibrò un colpo sul volto del Cristo, colpendolo al naso, da cui uscì vivo sangue.
Impaurito e terrorizzato, il crudele pirata si affrettò a gettare in acqua il Crocifisso sfigurato. Lasciando una scia di sangue sull'acqua marina, si ritrovò risospinto sulla spiaggia dalle onde. Religiosamente e pietosamente raccolto dai cittadini di Trani, fu riportato in città e fatto oggetto di piissima venerazione. Certamente P. Pio, con quella sua uscita, non intendeva impegnare né la sua autorità di veggente né la sua fama di santità. Conoscendo però l'elevatezza spirituale dell'uomo di Dio, pensiamo di non sbagliare nell'accordargli un qualche valore e una fondata attendibilità umana.
Da questa storia vogliamo riaprirci alla contemplazione dell'Eucaristia, vista come il pane dei pellegrini.
Eucaristia! È il Signore che viene a noi come il Pane di Vita disceso dal cielo, per comunicarci il principio di ogni virtù e santità, per farci condividere la sua visione delle cose, per darci la forza e il coraggio di mettere mano a tutto il bene che egli ci chiede di fare. L'anima che non si comunica non può aspettarsi di compiere grandi progressi spirituali. L'anima che vuole lavorare molto, deve nutrirsi molto.
S. Francesco di Sales era solito dire: «Due specie di gente devono comunicarsi spesso: i "perfetti", perché essendo ben disposti, essi farebbero molto male a non avvicinarsi alla sorgente e fonte di ogni perfezione; e gli "imperfetti", per poter giustamente aspirare alla perfezione».
Gli fa eco S. Vincenzo Ferreri, il quale dichiarava: «Una comunione porta all'anima più profitto che un digiuno di otto giorni a pane e acqua».
Il Concilio di Firenze ci insegna a sua volta, che la santa Eucaristia «nutre lo spirito, promuove la crescita interiore, rinfranca e guarisce l'anima, trae fuori dal male, fortifica nel bene».
«Comunicarsi anche ogni giorno, ricevendo il santo Corpo e Sangue di Cristo, è cosa buona e salutare. Chi dubiterà che comunicarsi continuamente non sia vivere in pienezza?», catechizzava e ammoniva il grande Basilio.
L'altro grande vescovo, S. Ambrogio, replicava: «Se il pane è quotidiano, perché lo ricevi a distanza di un anno? Vivi in modo da essere degno di riceverlo ogni giorno. Chi non è degno di riceverlo ogni giorno, non è degno di riceverlo nemmeno a distanza di un anno».
La piccola-grande Teresa di Lisieux annotava:
«Quando il diavolo è riuscito ad allontanare un'anima dalla santa comunione, ha ottenuto tutto quello che voleva».
MIRACOLO EUCARISTICO
DI BOLSENA (Viterbo), anno 1263, miracolo del corporale insanguinato. Presente nel Duomo di Orvieto. Indirizzo: CHIESA CATTEDRALE S. MARIA ASSUNTA
Piazza del Duomo-05018 ORVIETO
Nel Lazio, in provincia di Viterbo, di fronte al lago omonimo, è posizionata Bolsena, cittadina medievale. Entro la cerchia delle sue mura, nella chiesa santuario di S. Cristina avvenne il Miracolo Eucaristico del Corporale insanguinato che, a plebiscitario giudizio degli storici, va fissato all'anno 1263.
Per la conoscenza della storia del Miracolo di Bolsena, restano fondamentali le due epigrafi su tavole di marmo rosso attribuite ad Ippolito Scalza: l'una risalente al 1573-74 (quella di Bolsena) l'altra datata al 1601 (quella di Orvieto).
Nella meravigliosa città di Orvieto, nel «giglio d'oro delle cattedrali», che è il suo splendido Duomo, si custodisce la Reliquia del miracolo eucaristico di Bolsena.
Riportiamo, in primo luogo, il testo della lapide di Bolsena in una traduzione italiana di Giovanni Battista Scotti del 1863 limitatamente a quella parte che illustra la natura e le circostanze del miracolo: «Nel tempo in cui Papa Urbano IV, di celebre memoria, con i suoi fratelli cardinali e con la sua Curia risiedeva in Orvieto, vi fu un sacerdote alemanno, di singolare discrezione e d'insigne bontà di costumi, e che in tutte le cose si mostrava a Dio fedele, solo che nella fede di questo Sacramento (l'Eucaristia) dubitava assai; cioè come mai potesse essere che al proferire il Sacerdote quelle parole: questo è il mio Corpo, il pane si mutasse nel vero e santissimo Corpo di Cristo, e al proferire quelle altre: questo è il mio Sangue,il vino si cambiasse in sangue. Tuttavia, ogni giorno supplicava Iddio nelle sue orazioni che si degnasse di mostrargli un qualche segno che gli avesse rimosso dall'anima ogni dubbio. Quando, venuto il tempo, l'onnipotente e misericordioso Iddio, il quale non vuole la morte del peccatore, ma che si converta e viva, e nessuno che in lui speri abbandona, affinché il detto sacerdote desistesse da quell'errore e la fede avesse maggiore fermezza, dispose che quel sacerdote proponesse, per impetrare il perdonò dei suoi peccati, di visitare il sepolcro degli apostoli Pietro e Paolo ed altri pii luoghi.
Perciò s'incamminò verso Roma, ed arrivato al castello di Bolsena, della diocesi di Orvieto, stabilì di celebrare la messa in questa presente chiesa di S. Cristina vergine ed in questo stesso luogo, detto volgarmente delle Pedate, dove si vedono mirabilmente, come scolpite, le orme de' piedi della suddetta vergine.
Mentre costui celebrava qui la messa e teneva l'Ostia nelle mani sopra il calice, si mostra una cosa meravigliosa, da far stupire, per il miracolo, sia gli antichi tempi, che i nuovi. Improvvisamente quell'ostia apparve, in modo visibile, vera carne e aspera di rosso sangue, eccetto quella sola particella, che era tenuta dalle dita di lui; il che non si crede accadesse senza mistero; ma piuttosto perché fosse noto a tutti quella essere stata veramente l'ostia che era dalle mani dello stesso sacerdote celebrante portata sopra il calice. Di più una benda, che si teneva per purificazione del calice, restò bagnata da quella effusione di sangue. Alla vista del miracolo, colui che prima dubitava, confermato nella fede, stupì, e procurò di nasconderlo con il corporale; ma quanto più si sforzava di nascondere tanto più ampiamente e perfettamente, per virtù divina, si divulgava il miracolo.
Infatti ciascuna goccia di sangue, che da quella scaturiva, tingendo il sacro corporale, vi lasciò impresse altrettante figure a somiglianzà di uomo. Vedendo ciò quel sacerdote, atterrito, cessò dal celebrare e non osò andare avanti. Anzi, preso da intimo dolore e spinto dal pentimento, collocato prima con la pia dovuta devozione nel sacrario della detta chiesa quel venerabile sacramento, corse in fretta dallo stesso Sommo Pontefice, e genuflesso innanzi a lui, gli narrò tutto l'accaduto e della propria durezza di cuore e dell'errore chiese perdono e misericordia.
Udite queste cose, il Papa restò pieno di grandissima ammirazione, e siccome era in terra Vicario di colui, che un cuore contrito ed umiliato non disprezza, lo assolse e gli impose una salutare penitenza. Ed affinchè la lucerna posta sul candelabro risplendesse maggiormente per quelli che sono nella casa del Signore, decretò che il venerabile Corpo di Cristo fosse portato nella chiesa orvietana, che era stata insignita col nome della Madre sua, ed espressamente comandò al vescovo di Orvieto di recarsi alla detta chiesa della beata Cristina, e lo portasse in questa città.
Obbedendo ai suoi comandi, questi si recò al luogo del miracolo, e riverentemente prendendo il Corpo di Cristo, accompagnato da chierici e da molti altri, lo portò sin presso alla città, al ponte di un certo torrente, detto volgarmente Riochiaro, dove gli venne incontro lo stesso Romano Pontefice con i suoi cardinali, con i chierici e religiosi e con una numerosa moltitudine di Orvietani, con immensa devozione e spargimento di lacrime.
E come nel giorno delle Palme i fanciulli degli Ebrei, così anche i fanciulli e i giovani orvietani cantando vennero incontro con rami d'ulivo. Ed il Pontefice avendo preso nelle sue mani, genuflesso a terra, quel venerabile Sacramento, lo portò alla chiesa di Orvieto con inni e cantici, con gaudio ed allegrezza, ed onorevolmente lo depose nel sacrario della stessa chiesa... L'anno della Natività del nostro Signore Gesù Cristo 1263».
L' epigrafe di Orvieto sostanzialmente si rifà e ripete il contenuto della narrazione di Bolsena, per cui ci dispensiamo dal riportarla. Certamente il nucleo originario del racconto era più sobrio, il dato della tradizione iniziale più modesto, quasi un lapidario appunto di cronaca.
Fu il Papa Nicolo IV a mettere la prima pietra della Cattedrale di Orvieto, il 3 novembre 1290. La Cappella del Corporale fu costruita nel 1356 ed è affrescata con la storia del miracolo e con i prodigi dell'Eucaristia. Al tabernacolo lavorò Andrea Orcagna; al reliquiario contribuì l'arte figurativa senese con gli smalti di singolare bellezza di Ugolino di Vieri (1338). Questo fiorire dell'arte è una testimonianza che sottolinea chiaramente il crescente interesse e il vivo culto prestato alla Reliquia.
Nel 1506 il Pontefice Giulio II visitò il famoso Corporale, dando poi l'incarico a Raffaello Sanzio di affrescare l'avvenimento. L'artista eseguì la commissione e l'opera si trova nella «stanza di Eliodoro» in Vaticano (1512). Del XVI secolo è un affresco della Galleria delle Carte Geografiche in Vaticano, che in un'unica scena ripropone gli episodi salienti del prodigio. A Chiusi, nella chiesa di S. Francesco, vi è una tela, di un anonimo del XVII secolo, che raffigura il sacerdote stupefatto, mentre mostra ai presenti il corporale intriso di sangue. Della fine del XIX secolo è l'affresco che raffigura la Messa del Prodigio, nella chiesa del Corpus Domini in via Nomentana a Roma, entro lo spazio del presbiterio.
Sul frontone della elegante balaustra cinquecentesca in pietra della chiesa di S. Cristina, è incisa questa scritta: «Profani state lontani e ben lontani, perché qui è il Sangue di Cristo, il quale è la nostra salvezza», con chiaro riferimento alle Lapidi macchiate del Sangue prodigioso, venerate entro quel sacro recinto. Bolsena custodisce quattro dei cinque marmi che si macchiarono di sangue al momento del miracolo. Tre (Lapidi) sono custodite sull'altare della nuova chiesa del Miracolo, incastonate nella parete in tre ciborietti con sportelli in metallo dorato. La quarta (Lapide) e esposta nel suo reliquiario sull'altare maggiore della Cappella sistemazione realizzata nel 1987, in occasione della festa del Corpus Domini. La quinta (Lapide) nel 1602 fu donata alla parrocchia di Porchiano del Monte.
Le Reliquie vere e proprie del Miracolo, riposte nel sacrario della Cattedrale da Urbano IV, nel 1338 ebbero la loro splendida custodia: il reliquiario di Ugolino di Vieri. Esso si presenta perfetto nell'elegante disegno, slanciato nella sua linea gotica, splendente per i metalli preziosi e le vibrazioni vitree degli smalti.
Il reliquiario, capolavoro gotico in miniatura, è stato ultimamente restaurato e, per impedirne il disfacimento dovuto all'inquinamento atmosferico, verrà posto sotto una speciale cupola microclimatizzata. «Quanto all'intervento di restauro, stralciamo da una pagina de L'Osservatore Romano, in data 16 luglio 1992, esso si è limitato a rimuovere i residui dei prodotti dati m passato come fissativi e ravvivanti, ad asportare i prodotti ai corrosione dell'argento e a creare dei punti di adesione ai bordi delle lacune fra lamina d'argento e smalto. Nell’ ambito della Cappella del Corporale il reliquiario di mastro Ugolino sarà collocato lungo la parete sinistra consentendo di mantenere un rapporto dialettico fra la Reliquia e il suo storico contenitore, pur mantenendo disgiunti gli elementi sacri da quelli profani».
MIRACOLO EUCARISTICO
DI OFFIDA (anno 1273). Ostia consacrata «fritta».
- Chiesa di S. Agostino.
Indirizzo: SANTUARIO MIRACOLO EUCARISTICO
Chiesa S. Agostino- 63035 OFFIDA Ascoli Piceno
Sulle estreme pendici del monte Ascensione, in provincia di Ascoli Piceno, nelle Marche, si trova Offida, cittadina operosa ed ospitale, che custodisce nella chiesa di S. Agostino tre cimeli relativi al Miracolo Eucaristico, detto comunemente dell'«ostia fritta». In realtà si tratta di un'ostia consacrata cotta in un coppo infuocato, risalente al 1273. Ogni dettaglio apparirà chiaro, ripercorrendo le vicende della sua inaudita e, per certi versi, umanissima storia. Nell'archivio della chiesa sopra citata si conserva una copia autentica, riprodotta dal pubblico notaio Giovanni Battista Doria nel 1788, di una pergamena del secolo XIII, andata perduta, in cui era riportata per esteso la stona del «grande e manifesto miracolo operato da Dio onnipotente».
Ecco il racconto del Miracolo Eucaristico di Offida, come dalla copia autentica: «II demonio, che con insinuazioni maligne semina sempre zizzania nel mondo, era da qualche tempo riuscito a suscitare discordia tra Giacomo Stasio e Ricciarella, sua moglie, ambedue di Lanciano (CH), nel regno di Puglia. Desiderando costei ardentemente di far cessare questa discordia, per farsi amare dal marito si rivolse a un'altra donna della città, con queste parole: «Suggeriscimi tu qualche mezzo col quale io riesca a farmi benvolere da mio marito». Ed ella: «Va- - rispose - a ricevere la comunione: metterai quindi nel fuoco l'Ostia consacrata e, polverizzata che sia, la infonderai nel cibo o nella bevandadi tuo marito e così rientrerai nelle sue grazie».
Ricciarella, nel desiderio di essere amata, si recò da un sacerdote della città, per ricevere la comunione. Recatasi per prenderla, chinato il capo, si fece cadere l'Ostia nel seno, senza che il sacerdote se ne accorgesse, ingannandolo e credendo di potersi burlare anche di Dio, con suo grave danno. Portata l’Ostia a casa, mise un po' di fuoco in un coppo e, con vergognosa crudeltà, vi gettò l'Ostia stessa, il vero Corpo di Cristo! L'Ostia allora, rimanendo in piccola quantità' sotto le apparenze di pane, nel resto si convertì all'improvviso miracolosamente in carne, da cui sgorgò sangue abbondante, che si diffuse per tutto il coppo (pentola di terracotta, ndr).
Spaventata, la donna cominciò a gettarvi cenere e a colarvi cera, che cercava di comprimere con le mani, perché il sangue cessasse di scorrere, come si può perfettamente verificare, guardando l'Ostia cambiata in carne e il coppo (pentola di terracotta, ndr), irrigato di sangue.
Ma vedendo che il sangue non cessava di scorrere, ne si riusciva in alcun modo a stagnarlo, Ricciarella, sempre più impaurita, prese un mantile, o tovaglia di lino, ricamata con fili di seta, v'involse il coppo con l'Ostia e il sangue, portò questo involto nella stalla, e lo sotterrò dove solevano ammucchiarsi le immondizie e le spazzature di casa.
La sera tornò il marito col suo giumento, spingendolo, come il solito, dentro la stalla. Ma la bestia non si lasciava indurre a entrarvi, come non aveva ma fatto in passato. Finalmente, percossa e trascinata, rientrò, rimanendo però prostrata verso quella parte dove l'Ostia era sepolta, da sembrare quasi che volesse adorarla. Giacomo allora, sorpreso, cominciò a riprendere più aspramente la moglie, e, gridando forte, l'accusava d'aver fatto qualche stregoneria nella stalla, se la bestia si rifiutava di entrarvi. Ma Ricciarella ripeteva sempre di non avervi fatto nulla di male. E così il sacramento giacque sette anni sotto il letame, e le bestie, entrando e uscendo sempre di lato, lo veneravano. Ricciarella intanto, agitata giorno e notte da continui e amari rimorsi, non poteva avere pace, riconoscendosi meritevole delle più gravi pene. Risoluta perciò di confessarsi e rivelare l'enorme delitto a qualche buon confessore, fece chiamare il venerando frate Giacomo Detallevi, nativo di Offida, priore del convento di Sant'Agostino in Lanciano. Inginocchiata ai suoi piedi, fra molte lacrime e ininterrotti singhiozzi, proseguiva la sua confessione, ma non osava accusare quell'orrendo delitto.
Il confessore, nella sua innata prudenza, turbato da tale angoscia, si diede a esortare la penitente perché completasse con franco coraggio la confessione. Ma Ricciarella ripeteva sempre che il suo delitto era tanto nefando da non avere il coraggio di manifestarlo, se non fosse aiutata dal confessore stesso. Il frate allora provò a lungo a interrogarla: ma quella rispondeva ogni volta che ben altro era il delitto commesso da lei. Infine il frate esclamò: «Ormai mi sembra di aver numerato tutti i più orrendi peccati, e non so più che cos'altro tu abbia potuto fare, se non che uccidere Dio».
A questo punto la donna gridò: «Sì, proprio questo, o padre ho commesso: ho ucciso Dio! ho ucciso Dio!».
Il frate allora cominciò a chiederle che cosa intendesse dire con questo, e la esortava a confessarsi coraggiosamente, per quanto grave potesse essere la colpa commessa senza più alcun ritegno, perché il buon Dio non vuole la morte del peccatore, ma la sua conversione. Finalmente Ricciarella, vincendo i singhiozzi e le lacrime, espose con ordine tutta la dolorosa storia del sacrilegio.
A tale racconto, il frate rimase inorridito; raccomandò tuttavia alla penitente di tranquillizzarsi e prima di licenziarla, raccapricciando al pensiero di lasciare il sacramento ancora in mezzo a tanto sudiciume, s'accordò con lei, per rimuoverlo al più presto dal luogo indegno.
Vi si recò vestito dei sacri paramenti: non avendo a schifo il fetore, scavò sotto il letame e trovò ch'esso non aderiva ne al coppo né al panno: ma tanto l'uno quanto l'altro erano come sollevati, senza aver contatto con le immondizie. Estratto il corpo, vide che il sacramento, il sangue e il mantile erano non solo incorrotti, ma così freschi e illesi come se vi fossero stati allora sepolti. Portò con sé il sacramento nel monastero di sant'Agostino, dove abitava, e, dopo pochi giorni, trovato un pretesto per assentarsi, ottenne dai superiori il permesso di partire.
Giunto in Offida, raccontò tutto con ordine e mostrò la preziosa reliquia - che possedeva dal 1280 - al sottoscritto frate Michele e a tutti i più illustri concittadini.
Gli offidani, consapevoli del grande onore col quale bisognava conservare quelle preziose reliquie, deliberarono di costruire un ricco reliquiario, dove chiudere l'Ostia con alcuni frammenti della santissima Croce. Raccolto perciò l'argento necessario, pregarono vivamente lo stesso frate Michele Mallicani, offidano, priore del convento di Offida, di volersi recare a Venezia, per farvi costruire un'artistica croce, in cui collocare l'Ostia trasformata in carne insieme con alcuni frammenti del sacro Legno, che egli stesso, durante una predica, mostrò al popolo per stimolarne la devozione e a maggior gloria di Dio. Quindi, poiché fra i religiosi l'obbedienza è sommamente stimata, lo stesso frate Michele, secondo le regole, subito dopo le feste di Pasqua, s'imbarcò per Venezia in compagnia d'un confratello, per affidare a un orafo la lavorazione del reliquiario. Giunto in quella città, si fece anzitutto promettere dall'orafo, con giuramento di fedeltà, che non avrebbe rivelato a nessuno quanto egli stava per vedere e collocare dentro la croce. Dopo di che, l'orafo fece per prendere la pisside con l'Ostia miracolosa: ma colto da febbre improvvisa, esclamò: «Che cosa mi hai portato, o frate mio?». Il religioso allora gli chiese se fosse in peccato mortale. Avendo l'orefice risposto di sì, fece la sua confessione davanti allo stesso frate, e, scomparsa la febbre, senza alcun pericolo prese la pisside, ne estrasse l'Ostia, e la chiuse insieme col sacro Legno nella medesima croce, con sopra un cristallo, come si può chiaramente vedere. Appena i due frati, ritirata la croce, se ne furono andati, l'orafo, violando il giuramento di fedeltà, si presentò al doge della repubblica, dicendo così: «Signore, alcuni frati della Marca d'Ancona portano sante reliquie veramente mirabili dentro una croce da me lavorata». E riferì al doge tutto ciò che era capitato a lui stesso, quando aveva osato toccare la pisside con l'Ostia trasformata in carne; infine soggiunse: «si degni l'eccellenza vostra ducale di far sequestrare queste sante reliquie per la nostra città». Il doge, pensando di far cosa gradita ai suoi sudditi, ordinò immediatamente ad alcuni nocchieri di mettersi in mare, per inseguire i frati e catturarli. Se non che, il mare si fece subito così tempestoso, che essi non poterono salpare. Perciò tornarono indietro e ne riferirono al doge. Il quale, affacciatesi alla finestra, e vedendo il mare tutto calmo, disse ai nocchieri: «Lasciateli andare quei religiosi, perché così vuole Dio». Tutti questi particolari furono poi risaputi dai suddetti frati nel porto di Ancona, per bocca di alcuni mercanti veneziani. E così giunsero felicemente con la croce in Offida».
Il documento notarile termina così: «Nel nome di Dio. Amen. lo sottoscritto notaio pubblico e cittadino offidano attesto con la presente che questa copia è stata estratta dal suo antico originale che si trova nell'archivio di questo convento di sant'Agostino in Offida, col quale la suddetta copia concorda in tutto e per tutto, salvo sempre, ecc.
In fede di che, a richiesta, io mi sottoscrivo e confermo e pubblico col mio sigillo di cui mi servo in tali circostanze. Dato in Offida, nello stesso convento di Sant'Agostino, oggi, 18 aprile 1788. Così è. Giovanni Battista Doria notaio pubblico, richiesto come sopra, in fede».
Segue la firma del notaio, a fianco del sigillo. L'atto notarile, anch'esso steso su pergamena, è attendibile e autorevole. Attendibile, poiché riproduce fedelmente e verbalmente «fideliter et ad literam» l'originale. Autorevole, perché a firma di un pubblico ufficiale, che non poteva prestarsi al falso, cosa da sempre ritenuta gravissima e sottoposta a severe sanzioni. L'originale, stando alle indicazioni della copia, fu steso dal P. Michele, che lo sottoscrisse, e la data non potè discostarsi molto dal 1280. Dal testo notarile risulta chiaro che le reliquie eucaristiche furono trasportate in Offida nei primi mesi del 1280. Il documento originale, con tutta probabilità, andò perduto in seguito alle leggi soppressive del 1861.
II latino del testo, noi ne abbiamo proposto una traduzione italiana, reca inconfondibili i segni della fine del secolo XIII. Quanto alla dicitura «regno di Puglia», giova ricordare ch'essa nel secolo XIII era l'espressione corrente per indicare l'Italia del Mezzogiorno, compresi «i due Abruzzi». Così come è fuori dubbio l'esistenza dei conventi degli Agostiniani a Lanciano e ad Offida, all'epoca in questione. In Offida gli Agostiniani avevano una chiesa dedicata alla Madonna, la quale, dopo l'arrivo delle reliquie eucaristiche, fu rimessa a nuovo sin dalle fondamenta e dedicata a S. Agostino. In seguito il sacro edificio fu ampliato, con evidente trionfo dell'arte barocca (1686). L'interno è a croce latina, dalla traversa poco sviluppata.
MIRACOLO EUCARISTICO
DI CASCIA (anno 1330). Particola insanguinata.
Presente nella Basilica di S. Rita da Cascia.
Indirizzo: SANTUARIO S. RITA- 06043 CASCIA (Perugina)
Su uno sperone del monte Meraviglia, nella variegata chiostra dei rilievi dell'Umbria, in provincia di Perugia, e accoccolata Cascia, patria di Rita, la «santa degli impossibili». Nel Santuario della veneratissima Santa si custodisce la Reliquia di un insigne miracolo eucaristico, avvenuto a Siena nel 1330. Un antico Codice, che raccoglieva varie memorie del convento di S. Agostino in Perugia, documento riportato nell'atto di ricognizione della Reliquia di Perugia redatto nel 1687, così narrava il fatto:
«Uno Prete a Siena haveva cura di certe anime in una certa villa a presso a Siena, et essendo amalato uno contadino mandò a dire a questo prete, che lo andasse a comunicare, quello prete non troppo devoto pigliò il Corpus Domini sacrato et miseselo in libro nel Breviario et di poie se lo mise sotto braccio et andò per communicare quello contadino et si li comenzò a dire certe bone parole et poi aprì quello Breviario per dirli una oratione et aprendo, aprì dove stava quella ostia et quando la vidde era tutta liquefatta et quasi sanguinosa. El prete vedendo questo reserrò il detto Breviario et iterum se lo mese sotto braccio et disse che retornaro^ perché la Communióne non vole essere acciabattata et cosi se retornò a Siena et andò in Convento a santo Agostino, dove che predicava Maestro Simone homo dottissimo, sant'huomo, et contolli del caso. El Predicatore fò prudente, sei fece portare et preparato un altare in cammera sua et lì lo pose et asciolse el domino preto da tale errore et venendo a Peroscia donò al convento quella Carta, che era piena di quello licore, che pareva sangue et folli fatto uno Tabernacolo di argento et ancora lo havemo et quella Hostia se la portò a Cascia et questa cosa la manifestata frate Stefano Peruscino, che se recordava de tal cosa, quando morì haveva 103 anni».
Questa la sostanza della storia, espressa in un linguaggio popolare, ma chiaro ed efficace. Le memorie raccolte nell'antico Codice prendono l'avvio dall'anno 1335, siamo dunque molto vicini all'anno del fatto narrato.
L'episodio viene pure ricordato in una antica cronaca del convento di S. Agostino di Cascia, cronaca rintracciabile nel volume: «Documenti per la storia di Cascia» di Marco Franceschini. Una esplicita menzione dell'evento miracoloso è riscontrabile altresì negli Statuti Comunali di Cascia del 1387, dove tra l'altro, si ordinava che «ogni anno nella festa del Corpus Domini il Potestà, i Consoli e tutto il popolo casciano, tanto uomini che donne, fossero tenuti ad adunarsi nella chiesa di S. Agostino ed a seguire il clero che doveva portare quella venerabile Reliquia del sacratissimo Corpo di Cristo processionalmente per la città di Cascia».
Possiamo fissare la vicenda in queste semplici linee. Nelle vicinanze di Siena, un sacerdote, non meglio identificato, richiesto di amministrare i santi sacramenti a un contadino infermo, prese dal tabernacolo una particela consacrata, la depose, per un eccesso di confidenza o per leggerezza, tra le pagine del Breviario e si avviò verso la casa del malato. Quivi giunto, al momento di fare la comunione all'infermo, dopo le preghiere di rito e molto probabilmente dopo averne ascoltata la confessione, nell'aprire il libro per prendere l'ostia, constatò, tra il confuso e il pentito, quello che non avrebbe mai sospettato.
La particela rosseggiava di vivo sangue tanto da impregnare le due pagine tra le quali si trovava. Con una motivazione, che ai presenti dovette apparire buona, riuscendo sul momento a nascondere l'emozione e il turbamento, senza fare la comunione al vecchietto, riprese la strada, dirigendosi al convento agostiniano di Siena, per esporre il caso al P. Simone Fidati da Cascia, celebre predicatore e religioso di santa vita. Nel 1330 P. Simone, invitato dai suoi confratelli, si recò a Siena per predicare la Quaresima. Arrivò preceduto dalla fama della sua sapienza e della sua santità. Citiamo un suo monumentale commento al Vangelo in quindici libri dal titolo: «De gestis Domini Salvatóns». Visse nell'arco di tempo che va dal 1285 al 1348. Questi, dunque, sentita la storia e convinto dalla evidenza del segno prodigioso, accordò il perdono allo smarrito e povero sacerdote, trattenendo presso di sé quelle due pagine di Breviario macchiate di sangue.
Affidare quel miracoloso testimone al venerato religioso dovette essere, per l'incauto prete, una vera liberazione ed anche una giusta riparazione. Terminato il corso della sacra predicazione, il Maestro Simone ripartì, facendo ritorno al convento di S. Agostino a Perugia, dove era di famiglia.
Delle due pagine pergamenacee del Breviario, intrise di sangue, una fu consegnata dal beato Simone al convento di Perugia, l'altra, quella su cui era rimasta aderente la particola fu data in dono al convento di S. Agostino a Cascia; città natale del Fidati. La pagina macchiata di sangue, lasciata a Perugia, fu subito fatta oggetto di grande venerazione venerazione che si esprimeva concretamente in una solenne processione, fissata al primo maggio di ogni anno, con la partecipazione delle maggiori autorità cittadine. Sventuratamente, la parte della Reliquia lasciata a Perugia, al tempo nefasto della soppressione degli Ordini Religiosi (anni 1866 e seguenti) andò irrimediabilmente perduta. Di essa non ci resta alcuna traccia. Ci restano solo le certe testimonianze dei secoli passati. Migliore fortuna toccò alla parte della Reliquia che finì a Cascia. Essa sopravvisse alla bufera della storia.
MIRACOLO EUCARISTICO
DI TORINO (anno 1453, 6 giugno). Ostia elevata nell'aria.
Presso la Basilica del Corpus Domini. Indirizzo: BASILICA DEL CORPUS DOMINI- Via Palazzo di Città 20-10122 TORINO
Alle falde dell'arco alpino occidentale, nel punto di confluenza del Po con la Dora Riparia, si distende Torino, metropoli polmone della regione Piemonte.
Il 6 giugno 1453 uno straordinario prodigio eucaristico si verificò in una delle piazze della città, richiamando e polarizzando l'attenzione della popolazione che in quel momento si aggirava per le vie adiacenti. Un ostensorio con un'ostia consacrata si innalzò nell'aria, avvolto in un alone di luce. Miracolo spettacolare, avvenuto sotto gli occhi stupefatti di molti testimoni, di cui ci restano fonti documentarie sincrone, narrazioni successive degne di fede, testimonianze liturgiche e non ultimo, lo splendido monumento che è la Basilica del «Corpus Domini».
Ma riprendiamo con ordine l'intero filo della narrazione.
Il fatto miracoloso avvenne nel contesto e in relazione ad uno dei tanti eventi bellici che dilaniarono gli staterelli in cui era divisa l'Italia di quel tempo, l'un contro l'altro armato. Nel maggio del 1453 le truppe di Renato d'Angiò scendevano in Italia per unirsi a quelle di Francesco Sforza, duca di Milano, nel tentativo di riconquistare il Regno di Napoli. Occupati alcuni castelli del Delfinato e valicato il Monginevro, i soldati si preparavano a superare il passo per la conca di Exilles. Qui, le milizie del duca Lodovico di Savoia, opposero una breve e fragile resistenza, avendo preventivamente, con abile manovra, occupato Exilles. Dominavano e controllavano così la gola, passaggio obbligato per le forze avverse. Fu proprio durante questa strategica e vandalica occupazione che alcuni soldati, meglio sarebbe chiamarli avventurieri e predatori, si abbandonarono al saccheggio più indiscriminato, tacitando ogni richiamo della coscienza, ormai ridotta ad uno straccio. Uno di loro, rimasto senza nome e senza volto, entrò nella chiesa parrocchiale, si portò davanti al tabernacolo, ne forzò la porticina, ne estrasse l'ostensorio o teca, che racchiudeva l'ostia consacrata, e lo infilò in un sacco insieme ad altra refurtiva, senza alcuno scrupolo. Uscito dalla chiesa, collocò il sacco sul dorso di un giumento e si avviò, via Susa, Avigliana e Rivoli, alla volta di Torino. Non sappiamo se il sacco, strada facendo, passò ad altre mani. Certo si è che il 6 giugno del 1453, quel sacco, destinato a passare alla storia, entrò a Torino, e precisamente in «Piazza del grano», davanti alla chiesa di S. Silvestre, oggi denominata dello Spirito Santo.
Qui giunto, le cose finirono per complicarsi. Il giumento del sacrilego predone accidentalmente incespicò sull'acciottolato e, forse perché stanco e insieme affamato, rotolò a terra, come corpo morto cade. Conseguenza: il sacco, cadendo giù dalla groppa dell'animale, si aprì, dandosi in pasto alla curiosità dei frequentatori della piazza. Tra le varie cose, che componevano il campionario di frodo, si notò il sacro contenitore o ostensorio, chiamato anche «mostranza». Ed un particolare attirò l'attenzione dei presenti. L'ostensorio, come animandosi, lo si vide districarsi di mezzo a quella mercanzia e librarsi verso il cielo circondato da un alone di luce, che gli faceva da corona.
Erano circa le ore 17 del 6 giugno, mercoledì fra l'ottava del Corpus Domini. Testimone della scena, tra gli altri, fu un sacerdote, un certo don Bartolomeo Coccòno, il quale si precipitò a darne notizia al vescovo mons. Lodovico dei Marchesi di Romagnano. Il presule, accompagnato da uno spontaneo corteo di clero e di popolo, si portò immediatamente sulla piazza di S. Silvestre, che si andava sempre più riempiendo di gente. Ivi giunto, davanti al perdurante insolito e stupefacente spettacolo, piegò le ginocchia, in segno di adorazione, e cominciò ad elevare all'Altissimo suppliche e pie invocazioni, cui rispondeva in coro la voce di tutto il popolo.
Mentre la commozione e la tensione cresceva, un improvviso fatto nuovo. Come a rispondere ad un invito, l'ostensorio si aprì e, lasciando libera nell'aria la grande Ostia, calò a terra. A tal vista l'intenerito pastore prese tra le mani un sacro càlice e lo sollevò in alto, in segno di viva implorazione. Mirabile a dirsi, la sacra Ostia cominciò a scendere lentamente sino a posarsi dentro il calice che il Vescovo stringeva tra le mani. Con una solenne processione, tra il tripudio e la commozione di una incontenibile folla, la santa Ostia fu portata nella vecchia cattedrale di S. Giovanni Battista. Qui, rinnovate e moltiplicate le preghiere e le invocazioni, il pastore benedì il popolo di Dio con la miracolosa Ostia, che poi ripose nel tabernacolo. Questo il filo aureo della narrazione del prodigio eucaristico di Torino.
Quali documenti ne attestano l'autenticità e quali vicende ne hanno segnato il cammino nei secoli? Le fonti più vicine al fatto narrato sono tre Atti Capitolari, che risalgono rispettivamente all'11 ottobre 1454, al 25 aprile 1455 e al 4 settembre 1456.
Nel primo si parla dell'esaudimento di un ex voto di un certo Tommaso di Solerio, il quale attesta, in atto rogato da Giovanni De Solis, canonico del Duomo torinese e pubblico notaio, con imperiale autorità, d'aver promesso che «sarebbe venuto a visitare detto Corpo, così miracolosamente ritrovato, non appena avesse potuto farlo con sicurezza», impedito com'era dalla podagra e dalla gotta ai piedi e alle mani da tre anni. Aggiunge che «appena espresso tale voto subitamente si levò dal letto e sentissi guarito dalla podagra e dalla gotta. Perciò si reca a Torino, scioglie il suo voto (portando seco un cero da tre libbre e facendo celebrare una divota messa)» e giura la verità di quanto afferma nelle mani del pubblico notaio, canonico De Solis.
Nel secondo si recita che, in detto giorno, si sono riuniti tutti i canonici col notaio, che stende il verbale, e tutti all'unanimità danno mandato al prevosto di prendere gli opportuni contatti con l'autorità civica, per procedere alla fattura di un tabernacolo, ove tenere con dignità il sacramento del Corpo di Nostro Signore Gesù Cristo, miracolosamente ritrovato. E per fare questo tabernacolo si autorizza il Prevosto e il Sindaco della massa (il Tesoriere) a stanziare la somma di 25 ducati.
Nel terzo si dice che i canonici si sono di nuovo radunati, e tutti alla unanimità stabilirono che si costruisse un tabernacolo «honorabile et sufficiente», per rendere onore al Corpo di N. S. Gesù Cristo, cioè all'Ostia miracolosa, che cominciò ad essere esposta alla pubblica venerazione e adorazione il 21 agosto del 1453, dopo l'autorizzazione della Santa Sede, che ne approvò la festività, e dopo che il fragore delle armi cessò. Cosa che avvenne ai primi di agosto. Festa che in seguito fu fissata definitivamente alla terza domenica di agosto, per comodità dei fedeli, e questo sino al 1753. In tale anno la festa fu riportata al 6 giugno, giorno anniversario del prodigio. La costruzione del tabernacolo fu affidata a Mastro Antonio Trucchi di Beinasco e posto nella chiesa Cattedrale il 4 maggio del 1459.
A favore della storicità dell'avvenimento miracoloso possiamo produrre anche alcuni documenti del Comune di Torino. Un Ordinato del 1509 delibera di far dipingere il nome di Gesù nel Palazzo Comunale, sulle quattro Porte della città e in più «di far dipingere nel mercato del grano, presso S. Silvestre, pitture in memoria del Signore, che ivi era stato altra volta ritrovato». Un altro Ordinato del 1510 decreta di far costruire, presso la chiesa di S. Silvestre, una piccola Cappella in commemorazione del Corpo di Cristo.
In una relazione Comunale del 1521 si porge a mons. Bernardino De Prato una domanda che è insieme una supplica e una narrazione del fatto miracoloso in tutte le sue principali circostanze, narrazione fatta dal Magistrato cittadino, a nome di tutto il popolo torinese, alla suprema autorità ecclesiastica, per averne facoltà di erigere un monumento, che lo attesti con perenne ricordo sul luogo stesso dove accadde in presenza di tutti: «omnibus videntibus».
L'edicola-oratorio fu iniziato verso il 1523 ed aperto al culto nel 1534. Era diviso in tré arcate, in fondo alle quali tré affreschi ricordavano le fasi del miracolo, cioè il furto sacrilego, l'Ostia raggiante in alto e la riposizione della medesima nel tabernacolo della cattedrale di S. Giovanni Battista. Ma non è tutto.
Una delle più antiche e particolareggiate narrazioni del miracolo di Torino è quella composta dal P. Giovanni Galesio, tra il 1492 e il 1529, che conserviamo in versioni volgari. Proponiamo al lettore il testo della versione più antica, quella che fa da fondamento e da base alle successive. Ecco il testo del racconto Galesiano:
«lesus Christus. Lo exordio sive principio del miracolo della santa ostia, o Corpus Domini, fatto in Torino, che apparve appresso la chiesa di San Silvestre, nell'anno 1453. Dall'anno 1453, addì 6 del mese di Junio in giobia dise, apparse la santa Ostia in la sudita città dì Torino a die 6 del mese di Junio a ore 20 - 1453. Venendo certi homeni da certa guerra, ho discordia, che era infra Francesi, Savoja, et Piemontesi, per certi Mercatanti, con la sua robba, ritenuti a Issiglie, la qual fu misa a sacco.
Ecce, che fu uno, che pigliò in la chiesa de Issiglie lo reliquiario de argento, dove era el Corpus Domini, e lo...
MIRACOLO EUCARISTICO S. Antonio, l'eretico e la mula.
Episodio della mula in ginocchio avvenuto a RIMINI.Fonte: BENIGNITAS (una delle fonti più antiche della vita di S. Antonio da Padova)
«Questo sant'uomo discuteva con un eretico di poca fede che era contro il sacramento di salvezza dell'Eucaristia e il Santo l'aveva quasi condotto alla fede cattolica. Ma questo eretico, dopo i vari e numerosi argomenti a cui pensava di sottrarvisi, dichiarò: «Basta con le chiacchiere e veniamo ai fatti. Se tu Antonio, riesci con un prodigio a dimostrarmi che nella comunione, vi è realmente il Corpo di Cristo, allora io, dopo aver abiurato totalmente l'eresia, mi convertirò subito alla fede cattolica».
Quale fatto l'eretico reclamava? Lo esplicitò subito: «Perché non facciamo una sfida? Terrò rinchiusa per tre giorni una delle mie bestie e le farò sentire i tormenti della fame. Dopo tre giorni la porterò fuori in pubblico e mostrerò ad essa il cibo preparato. Tu starai di fronte con quello che ritieni sia il Corpo di Cristo. Se la bestia, trascurando il foraggio, si affretta ad adorare il suo Dio, io condividerò la fede della tua Chiesa».
S. Antonio, illuminato e ispirato dall'alto, accettò la sfida.
L'appuntamento fu fissato in Piazza Grande del foro o del mercato (l'attuale Piazza Tre Martiri), richiamando una immensa folla di curiosi. Siamo all'anno 1227, nella città di Rimini. Il giorno fissato, all'ora convenuta, i protagonisti della inconsueta sfida fecero la loro apparizione sulla piazza, seguiti dai loro simpatizzanti. S. Antonio dai fedeli cattolici, Bonovillo (questo il nome dell'eretico cataro) dai suoi alleati nella miscredenza. Il Santo si presentò tenendo tra le mani l'Ostia consacrata chiusa nell'Ostensorio, l'eretico tenendo per mano la mula affamata. Tutto era pronto, lo spettacolo poteva incominciare. Uno dei due doveva uscire sconfitto dalla prova e ingoiare gli sberleffi ironici della parte avversa.
Il Santo dei Miracoli, dopo aver chiesto ed ottenuto il silenzio, si rivolse alla mula con queste parole: «In virtù e in nome del tuo Creatore, che io per quanto ne sia indegno, tengo nelle mie mani, ti dico e ti ordino: avanza prontamente e rendi omaggio al Signore con il rispetto dovuto, affinché i malvagi e gli eretici comprendano che tutte le creature devono umiliarsi dinanzi al loro Creatore che i sacerdoti tengono nelle mani sull'altare».
Alle parole del Servo di Dio Antonio, la bestia, ignorando la biada che le era davanti, nonostante gli stimoli della fame fossero forti, a motivo dell'imposto digiuno, si portò davanti al Sacramento, piegò le ginocchia e abbassò la testa, in segno di adorazione. La scena commosse sino alle lacrime i presenti ed ottenne la conversione del Bonovillo. Se non tutti gli eretici abbracciarono la fede cattolica, il fatto strepitoso riuscì a rafforzare la fede nei credenti e a gettare discredito e confusione negli increduli. Sul posto sorse ben presto una chiesetta col tempietto di S. Antonio costruito nel 1518, opera del Bramante (scuola di Pesare). Il 16 marzo 1615 i religiosi Minimi l'ebbero in dono dalla Confraternita di S. Antonio. In seguito ampliarono la chiesetta dotandola di un altare maggiore in marmo e di sei altari laterali ed inoltre di un quadro del pittore Giovanni Francesco Guerrini di Cento detto il Guercino (oggi custodito nella Pinacoteca Comunale di Rimini).
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