venerdì 11 novembre 2022

SAN MARTINO

San Martino di Tours

11 Novembre
Vescovo

BIOGRAFIA

Nacque in Pannonia verso il 316 da genitori pagani. Ricevuto il battesimo ed abbandonato il servizio militare, fondò un monastero presso Ligugé in Francia, dove condusse vita monastica sotto la guida di sant'Ilario. Fu quindi ordinato sacerdote e in seguito eletto vescovo di Tours. Fu buon pastore del suo popolo, fondò altri monasteri, curò l'istruzione del clero ed evangelizzò i poveri. Morì nel 397. E' il primo santo non martire, ricordato nella liturgia.

MARTIROLOGIO

Memoria di san Martino, vescovo, nel giorno della sua deposizione: nato da genitori pagani in Pannonia, nel territorio dell'odierna Ungheria, e chiamato al servizio militare in Francia, quando era ancora catecumeno coprì con il suo mantello Cristo stesso celato nelle sembianze di un povero. Ricevuto il battesimo, lasciò le armi e condusse presso Ligugé vita monastica in un cenobio da lui stesso fondato, sotto la guida di sant'Ilario di Poitiers. Ordinato infine sacerdote ed eletto vescovo di Tours, manifestò in sé il modello del buon pastore, fondando altri monasteri e parrocchie nei villaggi, istruendo e riconciliando il clero ed evangelizzando i contadini, finché a Candes fece ritorno al Signore.

DAGLI SCRITTI...

San Martino lascia la cavalleria.

Dalle «Lettere» di Sulpicio Severo
Martino povero e umile

Martino previde molto tempo prima il giorno della sua morte. Avvertì quindi i fratelli che ben presto avrebbe cessato di vivere. Nel frattempo un caso di particolare gravità lo chiamò a visitare la diocesi di Candes. I chierici di quella chiesa non andavano d'accordo tra loro e Martino, ben sapendo che ben poco gli restava da vivere, desiderando di ristabilire la pace, non ricusò di mettersi in viaggio per una così nobile causa. Pensava infatti che se fosse riuscito a rimettere l'armonia in quella chiesa avrebbe degnamente coronato la sua vita tutta orientata sulla via del bene. Si trattenne quindi per qualche tempo in quel villaggio o chiesa dove si era recato finché la pace non fu ristabilita. Ma quando già pensava di far ritorno al monastero, sentì improvvisamente che le forze del corpo, lo abbandonavano. Chiamati perciò a sé i fratelli, li avvertì della morte ormai imminente. Tutti si rattristarono allora grandemente, e tra le lacrime, come se fosse uno solo a parlare, dicevano: «Perché, o Padre, ci abbandoni? A chi ci lasci, desolati come siamo? 

  
Lupi rapaci assaliranno il tuo gregge e chi ci difenderà dai loro morsi, una volta colpito il pastore? Sappiamo bene che tu desideri di essere con cristo; ma il tuo premio é al sicuro. Se sarà rimandato non diminuirà. Muoviti piuttosto a compassione di coloro che lasci quaggiù». Commosso da queste lacrime, egli che, ricco dello spirito di Dio, si muoveva sempre facilmente a compassione, si associò al loro pianto e, rivolgendosi al Signore, così parlò dinanzi a quelli che piangevano: Signore, se sono ancora necessario al tuo popolo, non ricuso la fatica: sia fatta la tua volontà.


O uomo grande oltre ogni dire, invito nella fatica, invincibile di fronte alla morte! Egli non fece alcuna scelta per sé. Non ebbe paura di morire e non si rifiutò di vivere. Intanto sempre rivolto con gli occhi e con le mani al cielo, non rallentava l'intensità della sua preghiera. I sacerdoti che erano accorsi intorno a lui, lo pregavano di sollevare un poco il suo povero corpo mettendosi di fianco. Egli però rispose: Lasciate, fratelli, lasciate che io guardi il cielo, piuttosto che la terra, perché il mio spirito, che sta per salire al Signore, si trovi già sul retto cammino. Detto questo si accorse che il diavolo gli stava vicino. Gli disse allora: Che fai qui, bestia sanguinaria? Non troverai nulla in me, sciagurato! Il seno di Abramo mi accoglie. Nel dire queste parole rese la sua anima a Dio. Martino sale felicemente verso Abramo. Martino povero e umile entra ricco in paradiso.(Lett. 3, 6. 9-10. 11. 14-17. 21; Sc 133, 336-343)

Il vangelo del santo

Mt 25, 31-40
Dal Vangelo secondo Matteo.
In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli: «Quando il Figlio dell'uomo verrà nella sua gloria con tutti i suoi angeli, si siederà sul trono della sua gloria. E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra.
Allora il re dirà a quelli che stanno alla sua destra: Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fondazione del mondo.
Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi.
Allora i giusti gli risponderanno: Signore, quando mai ti abbiamo veduto affamato e ti abbiamo dato da mangiare, assetato e ti abbiamo dato da bere?
Quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? E quando ti abbiamo visto ammalato o in carcere e siamo venuti a visitarti?
Rispondendo, il re dirà loro: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me».

Il santo di oggi

San Martino è uno dei santi più importanti nell'Ordine benedettino. Il vangelo della messa del santo, oltre che ricordarci che saremo giudicati sull'amore a Dio e al nostro prossimo, ci parla del Santo stesso, ne riassume in modo essenziale la vita. La liturgia della parola lo annovera tra coloro che hanno saputo riconoscere Cristo nei poveri e nei sofferenti. Sicuramente egli è tra coloro ai quali il Signore ha rivolto l'invito finale: Venite, benedetti dal Padre mio. San Martino, con la sua carità operosa, ha ricevuto in eredità il Regno preparato per lui fin dalla fondazione del mondo, è stato annoverato nella schiera dei beati. Lo stesso Cristo gli ha poi scandito le motivazioni del premio finale: Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, carcerato e siete venuti a trovarmi.


Esulterà di gioia indicibile Martino, nel ricordare che con il suo mantello ha avuto l'onore, non solo di coprire i riscaldare un povero infreddolito, incontrato nelle strade del mondo, ma di aver ricoperto di amore e dato calore al corpo stesso di Cristo, che si nascondeva sotto le spoglie di quel povero. È la sorte che toccherà anche a noi se sapremo con la stessa fede, con la stessa generosità riconoscere Cristo negli ultimi e nei poveri e soccorrerli dando loro qualcosa di nostro. Viene da pensare quanto grande è la generosità di Dio verso di noi: noi diamo a Lui le povere cose del mondo, un po' di cibo o di bevanda, un mantello, una visita, un soccorso e Lui ci ripaga con un premio eterno. Dovremmo, anche per convenienza, aprire il nostro cuore all'amore fraterno nella ferma convinzione che aprendoci al nostro prossimo facciamo spazio a Dio. Egli ci ripete: In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l'avete fatto a me. Non ci mancano certo le occasioni di incontrare e soccorrere i poveri: occorre solo aprire occhi e cuore, poi anche le nostre mani si muoveranno.

NOTA DAL MESSALE

Martino (Sabaria, attuale Szombathely, Ungheria, 316/317 - Candes-Saint-Martin, Francia, 8 novembre 397), figlio di un militare pagano, venne a sua volta avviato alle armi. Divenuto cristiano, abbandonò l’esercito ed entrò in contatto con il vescovo Ilario di Poitiers. Si dedicò quindi alla vita eremitica, prima sull’isola di Gallinara (Savona), poi a Ligugé, nei pressi di Poitiers. Eletto, contro la sua volontà, vescovo di Tours, mantenne il suo stile di vita e fondò nei pressi della città il monastero di Marmoutier. Contribuì notevolmente alla diffusione del cristianesimo nelle campagne e anche per questo il suo culto divenne molto popolare, soprattutto in ambito rurale. La memoria liturgica corrisponde al giorno della sepoltura, avvenuta l’11 novembre a Tours e ricordata nel Martirologio geronimiano (sec. V-VI). 

PAPA GIOVANNI PAOLO I

 


BRANI dai discorsi e dagli scritti di PAPA LUCIANI


«Io rischio di dire uno sproposito......ma lo dico. Il Signore ama tanto l’umiltà che a volte permette dei peccati gravi. Perché? Perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo pentiti, restino umili. Non vien voglia di credersi dei mezzi santi, dei mezzi angeli quando si sa di aver commesso delle mancanze gravi. Il Signore ha tanto raccomandato: siate umili. Anche se avete fatto delle grandi cose, dite: siamo servi inutili».
(Udienza generale, 6 settembre 1978).

 

Io sono la pura e povera polvere
«Non so che cosa abbia pensato il Signore, che cosa abbia pensato il Papa, che cosa abbia pensato la divina Provvidenza di me. Sto pensando in questi giorni che con me il Signore attua il suo vecchio sistema: prende i piccoli dal fango della strada e li mette in alto, prende la gente dai campi, dalle reti del mare, del lago e ne fa degli apostoli. È il suo vecchio sistema. Certe cose il Signore non le vuole scrivere né sul bronzo, né sul marmo, ma addirittura nella polvere, affinché se la scrittura resta, non scompaginata, non dispersa dal vento, sia bene chiaro che tutto è opera e tutto è merito del solo Signore. Io sono il piccolo di una volta, io sono colui che viene dai campi, io sono la pura e povera polvere; su questa polvere il Signore ha scritto la dignità episcopale dell’illustre diocesi di Vittorio Veneto. Se qualche cosa mai di buono salterà fuori da tutto questo, sia ben chiaro fin da adesso: è solo frutto della bontà, della grazia, della misericordia del Signore».
(Omelia del 6 gennaio 1959, a Canale d’Agordo)


Il catechismo
«Messo da parte il catechismo non saprete che mezzi adoperare per fare buoni piccoli e grandi. Tirerete in campo la “dignità umana”? I piccoli non capiscono che cosa sia, i grandi se ne infischiano. Metterete avanti “l’imperativo categorico”? Peggio che peggio... Si dice che anche la filosofia e la scienza sono capaci di far buoni e nobili gli uomini. Ma non c’è neppure confronto col catechismo, che insegna in breve la sapienza di tutte le biblioteche, risolve i problemi di tutte le filosofie e soddisfa alle ricerche più penose e difficili dello spirito umano».
(Catechetica in briciole, 1949)

giovedì 10 novembre 2022

San Leone Magno

 San Leone Magno Papa e Dottore della Chiesa


BIOGRAFIA

Nato in Toscana e salito sulla cattedra di Pietro nel 440, fu vero pastore e autentico padre di anime. Cercò in ogni modo di mantenere salda e integra la fede, difese strenuamente l'unità della chiesa, arrestò, per quanto gli fu possibile, le incursioni dei barbari, e meritò a buon diritto di essere detto Leone "il Grande". Morì nel 461.

MARTIROLOGIO

Memoria di san Leone I, papa e dottore della Chiesa: nato in Toscana, fu dapprima a Roma solerte diacono e poi, elevato alla cattedra di Pietro, meritò a buon diritto l'appellativo di Magno sia per aver nutrito il gregge a lui affidato con la sua parola raffinata e saggia, sia per aver sostenuto strenuamente attraverso i suoi legati nel Concilio Ecumenico di Calcedonia la retta dottrina sull'incarnazione di Dio. Riposò nel Signore a Roma, dove in questo giorno fu deposto presso san Pietro.

DAGLI SCRITTI...

Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
Il servizio specifico del nostro ministero. Tutta la Chiesa di Dio é ordinata in gradi gerarchici distinti, in modo che l'intero sacro corpo sia formato da membra diverse. Ma, come dice l'Apostolo, tutti noi siamo uno in Cristo (cfr. Gal 3, 28). La divisione degli uffici non é tale da impedire che ogni parte, per quanto piccola, sia collegata con il capo. Per l'unità della fede e del battesimo c'é dunque fra noi, o carissimi, una comunione indissolubile sulla base di una comune dignità. Lo afferma l'apostolo Pietro: «Anche voi venite impiegati come pietre vive per la costruzione di un edificio spirituale, per un sacerdozio santo, per offrire sacrifici spirituali graditi a Dio, per mezzo di Gesù Cristo» (1 Pt 2, 5), e più avanti: «Ma voi siete la stirpe eletta, il sacerdote regale, la nazione santa, il popolo che Dio si é acquistato» (1 Pt 2, 9).
Tutti quelli che sono rinati in Cristo conseguono dignità regale per il segno della croce. Con l'unzione dello Spirito Santo poi sono consacrati sacerdoti. Non c'é quindi solo quel servizio specifico proprio del nostro ministero, perché tutti i cristiani sono rivestiti di un carisma spirituale e soprannaturale, che li rende partecipi della stirpe regale e dell'ufficio sacerdotale. Non é forse funzione regale il fatto che un'anima, sottomessa a Dio, governi il suo corpo? Non é forse funzione sacerdotale consacrare al Signore una coscienza pura e offrirgli sull'altare del cuore i sacrifici immacolati del nostro culto? Per grazia di Dio queste funzioni sono comuni a tutti.
Ma da parte vostra é cosa santa e lodevole che vi rallegriate per il giorno della nostra elezione come di un vostro onore personale. Così tutto il corpo della Chiesa riconosce che il carattere sacro della dignità pontificia é unico. Mediante l'unzione santificatrice, esso rifluisce certamente con maggiore abbondanza nei gradi più alti della gerarchia, ma discende anche in considerevole misura in quelli più bassi. La comunione di tutti con questa nostra Sede é, quindi, o carissimi, il grande motivo della letizia. Ma gioia più genuina e più alta sarà per noi se non vi fermerete a considerare la nostr povera persona, ma piuttosto la gloria del beato Pietro apostolo.
Si celebri dunque in questo giorno venerando soprattutto colui che si trovò vicino alla sorgente stessa dei carismi e da essa ne fu riempito e come sommerso. Ecco perché molte prerogative erano esclusive della sua persona e, d'altro canto, niente é stato trasmesso ai successori che non si trovasse già in lui. Allora il Verbo fatto uomo abitava già in mezzo a noi. Cristo aveva già dato tutto se stesso per la redenzione del genere umano. (Disc. 4, 1-2; PL 54, 148-149)

NOTA DAL MESSALE

Leone, detto Magno per la grandezza della sua opera e del suo magistero, come vescovo di Roma resse la Chiesa per ventun anni (440-461). La sua figura emerge con rilievo storico universale nel dialogo tra l’Oriente e l’Occidente, e nell’incontro-scontro fra il mondo latino e le nuove popolazioni europee. Maestro e mistagogo, incentrò la sua missione nel mistero di Cristo uomo-Dio, professato nella dottrina del Verbo incarnato (Concilio di Calcedonia, 451), attualizzato nelle celebrazioni liturgiche (Sermoni sui misteri), testimoniato nella vita: «compiere nelle opere ciò che è celebrato nel sacramento». Al suo nome si collega il fondo eucologico più antico del Messale Romano (Sacramentario Veronese, a lui attribuito dalla tradizione). La sua «deposizione» il 10 novembre è ricordata dal Martirologio geronimiano (sec.V-VI) e dal Calendario di san Willibrordo (sec. VIII).

AMDG et DVM

La Regola bollata (1223) di San Francesco d'Assisi

La Regola bollata (1223) 

Onorio, vescovo, servo dei servi di Dio, ai diletti figli, a frate Francesco e agli altri frati dell’Ordine dei frati minori, salute e apostolica benedizione.
La Sede Apostolica suole accondiscendere ai pii voti e accordare benevolo favore agli onesti desideri dei richiedenti. Pertanto, diletti figli nel Signore, noi, accogliendo le vostre pie suppliche, vi confermiamo con l’autorità apostolica, la Regola del vostro Ordine, approvata dal nostro predecessore papa Innocenzo, di buona memoria e qui trascritta, e l’avvaloriamo con il patrocinio del presente scritto. La Regola è questa:

CAPITOLO I: NEL NOME DEL SIGNORE! INCOMINCIA LA VITA DEI FRATI MINORI – 
In nomine Domini incipit vita minorum fratrum: Regula et vita Minorum Fratrum haec est, scilicet Domini Nostri Jesu Christi sanctum Evangelium observare vivendo in obedientia, sine proprio et in castitate. Frater Franciscus promittit obedientiam et reverentiam domino papae Honorio ac successoribus eius canonice intrantibus et Ecclesiae Romanae. Et alii fratres teneantur fratri Francisco et eius sucessoribus obedire.
La Regola e vita dei frati minori è questa, cioè osservare il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, vivendo in obbedienza, senza nulla di proprio e in castità.
Frate Francesco promette obbedienza e reverenza al signor papa Onorio e ai suoi successori canonicamente eletti e alla Chiesa romana. E gli altri frati siano tenuti a obbedire a frate Francesco e ai suoi successori.

CAPITOLO II: Dl COLORO CHE VOGLIONO INTRAPRENDERE QUESTA VITA E COME DEVONO ESSERE RICEVUTI – Se alcuni vorranno intraprendere questa vita e verranno dai nostri frati, questi li mandino dai loro ministri provinciali, ai quali soltanto e non ad altri sia concesso di ammettere i frati. I ministri, poi, diligentemente li esaminino intorno alla fede cattolica e ai sacramenti della Chiesa E se credono tutte queste cose e le vogliono fedelmente professare e osservare fermamente fino alla fine; e non hanno mogli o, qualora le abbiano, esse siano già entrate in monastero o abbiano dato loro il permesso con l’autorizzazione del vescovo diocesano, dopo aver fatto voto di castità; e le mogli siano di tale età che non possa nascere su di loro alcun sospetto; dicano ad essi la parola del santo Vangelo, che “vadano e vendano tutto quello che posseggono e procurino di darlo ai poveri” (Cfr. Mt 19,21). Se non potranno farlo, basta ad essi la buona volontà.
E badino i frati e i loro ministri di non essere solleciti delle loro cose temporali, affinché dispongano delle loro cose liberamente, secondo l’ispirazione del Signore. Se tuttavia fosse loro chiesto un consiglio i ministri abbiano la facoltà di mandarli da persone timorate di Dio, perché con il loro consiglio i beni vengano elargiti ai poveri.
Poi concedano loro i panni della prova cioè due tonache senza cappuccio e il cingolo e i pantaloni e il capperone fino al cingolo a meno che qualche volta ai ministri non sembri diversamente secondo Dio.
Terminato, poi, I’anno della prova, siano ricevuti all’obbedienza, promettendo di osservare sempre questa vita e Regola. E in nessun modo sarà loro lecito di uscire da questa Religione, secondo il decreto del signor Papa; poiché, come dice il Vangelo, “nessuno che mette la mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,62).
E coloro che hanno già promesso obbedienza, abbiano una tonaca con il cappuccio e un’altra senza, coloro che la vorranno avere. E coloro che sono costretti da necessità possano portare calzature.
E tutti i frati si vestano di abiti vili e possano rattopparli con sacco e altre pezze con la benedizione di Dio. Li ammonisco, però, e li esorto a non disprezzare e a non giudicare gli uomini che vedono vestiti di abiti molli e colorati ed usare cibi e bevande delicate, ma piuttosto ciascuno giudichi e disprezzi se stesso.

CAPITOLO III: DEL DIVINO UFFICIO E DEL DIGIUNO, E COME I FRATI DEBBANO ANDARE PER IL MONDO – I chierici recitino il divino ufficio, secondo il rito della santa Chiesa romana, eccetto il salterio, e perciò potranno avere i breviari.
l laici, invece, dicano ventiquattro Pater noster per il mattutino, cinque per le lodi; per prima, terza, sesta, nona, per ciascuna di queste ore, sette; per il Vespro dodici; per compieta sette; e preghino per i defunti.
E digiunino dalla festa di Tutti i Santi fino alla Natività del Signore. 6 La santa Quaresima, invece, che incomincia dall’Epifania e dura ininterrottamente per quaranta giorni, quella che il Signore consacrò con il suo santo digiuno , coloro che volontariamente la digiunano siano benedetti dal Signore, e coloro che non vogliono non vi siano obbligati. Ma l’altra, fino alla Resurrezione del Signore, la digiunino. 8 Negli altri tempi non siano tenuti a digiunare, se non il venerdì. 9 Ma in caso di manifesta necessità i frati non siano tenuti al digiuno corporale.
Consiglio invece, ammonisco ed esorto i miei frati nel Signore Gesù Cristo che, quando vanno per il mondo, non litighino ed evitino le dispute di parole (Cfr. 2Tm 2,14 e Tt 3,2), e non giudichino gli altri; ma siano miti, pacifici e modesti, mansueti e umili, parlando onestamente con tutti, così come conviene. E non debbano cavalcare se non siano costretti da evidente necessità o infermità 
In qualunque casa entreranno dicano, prima di tutto: Pace a questa casa (Lc 10,5); e, secondo il santo Vangelo, è loro lecito mangiare di tutti i cibi che saranno loro presentati (Lc 10,8).

CAPITOLO IV: CHE I FRATI NON RICEVANO DENARI – Comando fermamente a tutti i frati che in nessun modo ricevano denari o pecunia, direttamente o per interposta persona. Tuttavia, i ministri e i custodi, ed essi soltanto, per mezzo di amici spirituali, si prendano sollecita cura per le necessità dei malati e per vestire gli altri frati, secondo i luoghi e i tempi e i paesi freddi, così come sembrerà convenire alla necessità, salvo sempre il principio, come è stato detto, che non ricevano denari o pecunia.

CAPITOLO V: DEL MODO Dl LAVORARE – Quei frati ai quali il Signore ha concesso la grazia di lavorare, lavorino con fedeltà e con devozione  così che, allontanato l’ozio, nemico dell’anima, non spengano (Cfr. 1Ts 5,19) lo spirito della santa orazione e devozione, al quale devono servire tutte le altre cose temporaIi. Come ricompensa del lavoro ricevano le cose necessarie al corpo, per sé e per i loro fratelli, eccetto denari o pecunia, e questo umilmente, come conviene a servi di Dio e a seguaci della santissima povertà.

CAPITOLO VI: CHE I FRATI Dl NIENTE Sl APPROPRINO, E DEL CHIEDERE L’ELEMOSINA E DEI FRATI INFERMI – I frati non si approprino di nulla, né casa, né luogo, né alcuna altra cosa. E come pellegrini e forestieri (1Pt 2,11) in questo mondo, servendo al Signore in povertà ed umiltà, vadano per l’elemosina con fiducia. Né devono vergognarsi, perché il Signore si è fatto povero per noi in questo mondo. Questa è la sublimità dell’altissima povertà (Cfr. 2Cor 8,9) quella che ha costituito voi, fratelli miei carissimi, eredi e re del regno dei cieli (Cfr. Gc 2,5), vi ha fatto poveri di cose e ricchi di virtù. Questa sia la vostra parte di eredità, quella che conduce fino alla terra dei viventi (Cfr. Sal 141,6). E, aderendo totalmente a questa povertà, fratelli carissimi, non vogliate possedere niente altro in perpetuo sotto il cielo, per il nome del Signore nostro Gesù Cristo.
E ovunque sono e si incontreranno i frati, si mostrino familiari tra loro reciprocamente E ciascuno manifesti con fiducia all’altro le sue necessità, poiché se la madre nutre e ama il suo figlio carnale, quanto più premurosamente uno deve amare e nutrire il suo fratello spirituale?
E se uno di essi cadrà malato, gli altri frati lo devono servire come vorrebbero essere serviti essi stessi (Cfr. Mt 7,11).

CAPITOLO VII: DELLA PENITENZA DA IMPORRE Al FRATI CHE PECCANO – Se dei frati, per istigazione del nemico, avranno mortalmente peccato, per quei peccati per i quali sarà stato ordinato tra i frati di ricorrere ai soli ministri provinciali, i predetti frati siano tenuti a ricorrere ad essi, quanto prima potranno senza indugio.
I ministri, poi, se sono sacerdoti, loro stessi impongano con misericordia ad essi la penitenza; se invece non sono sacerdoti, la facciano imporre da altri sacerdoti dell’Ordine, così come sembrerà ad essi più opportuno, secondo Dio.
E devono guardarsi dall’adirarsi e turbarsi per il peccato di qualcuno, perché l’ira ed il turbamento impediscono la carità in sé e negli altri.

CAPITOLO VIII: DELLA ELEZIONE DEL MINISTRO GENERALE Dl QUESTA FRATERNITÀ E DEL CAPITOLO Dl PENTECOSTE – Tutti i frati siano tenuti ad avere sempre uno dei frati di quest’Ordine come ministro generale e servo di tutta la fraternità e a lui devono fermamente obbedire. Alla sua morte, l’elezione del successore sia fatta dai ministri provinciali e dai custodi nel Capitolo di Pentecoste, al quale i ministri provinciali siano tenuti sempre ad intervenire, dovunque sarà stabilito dal ministro generale; e questo, una volta ogni tre anni o entro un termine maggiore o minore, così come dal predetto ministro sarà ordinato.
E se talora ai ministri provinciali ed ai custodi all’unanimità sembrasse che detto ministro non fosse idoneo al servizio e alla comune utilità dei frati, i predetti frati ai quali è commessa l’elezione, siano tenuti, nel nome del Signore, ad eleggersi un altro come loro custode. Dopo il Capitolo di Pentecoste, i singoli ministri e custodi possano, se vogliono e lo credono opportuno, convocare, nello stesso anno, nei loro territori, una volta i loro frati a capitolo.

CAPITOLO IX: DEI PREDICATORI – I frati non predichino nella diocesi di alcun vescovo qualora dallo stesso vescovo sia stato loro proibito. E nessun frate osi affatto predicare al popolo, se prima non sia stato esaminato ed approvato dal ministro generale di questa fraternità e non abbia ricevuto dal medesimo l’ufficio della predicazione.
Ammonisco anche ed esorto gli stessi frati che, nella loro predicazione, le loro parole siano ponderate e caste (Cfr. Sal 11,7 e 17,31), a utilità e a edificazione del popolo, annunciando ai fedeli i vizi e le virtù, la pena e la gloria con brevità di discorso, poiché il Signore sulla terra parlò con parole brevi (Cfr. Rm 9,22).

CAPITOLO X: DELL’AMMONIZIONE E DELLA CORREZIONE DEI FRATI. – I frati, che sono ministri e servi degli altri frati, visitino ed ammoniscano i loro frati e li correggano con umiltà e carità, non comandando ad essi niente che sia contro alla loro anima e alla nostra Regola.
I frati, poi, che sono sudditi, si ricordino che per Dio hanno rinnegato la propria volontà. Perciò comando loro fermamente di obbedire ai loro ministri in tutte quelle cose che promisero al Signore di osservare e non sono contrarie all’anima e alla nostra Regola.
E dovunque vi siano dei frati che si rendono conto e riconoscano di non poter osservare spiritualmente la Regola, debbano e possono ricorrere ai loro ministri. I ministri, poi, li accolgano con carità e benevolenza e li trattino con tale familiarità che quelli possano parlare e fare con essi così come parlano e fanno i padroni con i loro servi; infatti, così deve essere, che i ministri siano i servi di tutti i frati.
Ammonisco, poi, ed esorto nel Signore Gesù Cristo, che si guardino i frati da ogni superbia, vana gloria, invidia, avarizia (Cfr. Lc 12,15), cure o preoccupazioni di questo mondo (Cfr. Mt 13,22), dalla detrazione e dalla mormorazione.
E coloro che non sanno di lettere, non si preoccupino di apprenderle, ma facciano attenzione che ciò che devono desiderare sopra ogni cosa è di avere lo Spirito del Signore e la sua santa operazione, di pregarlo sempre con cuore puro e di avere umiltà, pazienza nella persecuzione e nella infermità, e di amare quelli che ci perseguitano e ci riprendono e ci calunniano, poiché dice il Signore: “Amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano e vi calunniano (Mt 5,44); beati quelli che sopportano persecuzione a causa della giustizia, poiché di essi è il regno dei cieli (Mt 5,10). E chi persevererà fino alla fine, questi sarà salvo” (Mt 10,22).

CAPITOLO XI: CHE I FRATI NON ENTRINO NEI MONASTERI DELLE MONACHE – Comando fermamente a tutti i frati di non avere rapporti o conversazioni sospette con donne, e di non entrare in monasteri di monache, eccetto quelli ai quali è stata data dalla Sede Apostolica una speciale licenza.
Né si facciano padrini di uomini o di donne affinché per questa occasione non sorga scandalo tra i frati o riguardo ai frati.

CAPITOLO XII: Dl COLORO CHE VANNO TRA I SARACENI E TRA GLI ALTRI INFEDELI – Quei frati che, per divina ispirazione, vorranno andare tra i Saraceni e tra gli altri infedeli, ne chiedano il permesso ai loro ministri provinciali. I ministri poi non concedano a nessuno il permesso di andarvi se non a quelli che riterranno idonei ad essere mandati.
Inoltre, impongo per obbedienza ai ministri che chiedano al signor Papa uno dei cardinali della santa Chiesa romana, il quale sia governatore, protettore e correttore di questa fraternità, affinché, sempre sudditi e soggetti ai piedi della medesima santa Chiesa, stabili nella fede (Cfr. Col 1,23) cattolica, osserviamo la povertà, I’umiltà e il santo Vangelo del Signore nostro Gesù Cristo, che abbiamo fermamente promesso.
Pertanto a nessuno, in alcun modo, sia lecito di invalidare questo scritto della nostra conferma o di opporsi ad esso con audacia e temerarietà. Se poi qualcuno presumerà di tentarlo, sappia che incorrerà nello sdegno di Dio onnipotente e dei suoi beati apostoli Pietro e Paolo. Dal Laterano, il 29 novembre (1223), anno ottavo del nostro pontificato.
Fratelli, mentre abbiamo tempo
operiamo il Bene 
(Gal. 6, 10)


Papa Benedetto XVI e il CONCILIO

 

Benedetto XVI scrive: 

“Il Concilio ebbe potere positivo” 

(per la purificazione finale)

25 ottobre 2022

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Quando scrive papa Ratzinger, l’errore più comune è quello di leggere superficialmente. Questo si è puntualmente verificato anche con la lettera inviata il 7 ottobre dal vero pontefice all’Università Francescana di Steubenville, negli Stati Uniti, dove un simposio internazionale si sta occupando della sua ecclesiologia.

La missiva è stata interpretata come un apprezzamento di papa Benedetto al Concilio in senso modernista, cosa che ha dato guazza a quell’ala tradizional sedevacantista che lo detesta senza VOLER capire nulla della Magna Quaestio.

Bisognerebbe dedicare un altro volume, ancor più ponderoso di “Codice Ratzinger" (Byoblu ed. 2022) allo studio del cosiddetto “Proto-Codice Ratzinger”, ovvero il linguaggio e la politica con cui il grande teologo tedesco è riuscito a “sopravvivere” come Prefetto della Fede e poi come papa attivo della Chiesa fino al 2013.

Tutto quello che è stato visto negli ultimi decenni come un suo avallo del Concilio in senso modernista, va completamente rovesciato. Un esempio plastico di tale indispensabile processo di comprensione, è rappresentato dall’adozione, del neo-papa Benedetto XVI, nel 2005, della mitria vescovile sullo stemma pontificio, rimuovendo la tradizionale tiara.

Il gesto tranquillizzò i nemici modernisti che lo accolsero per quello di un papa che si proponeva in qualità di vescovo primus inter pares, andando a ridimensionare il tradizionale assolutismo del pontefice, ma irritò moltissimo i tradizionalisti, che vi colsero una concessione al modernismo. Si sarebbe dovuto aspettare il 2021, anno in cui, su Libero, abbiamo compreso che la Declaratio era un annuncio di sede impedita per comprendere la geniale lungimiranza del provvedimento del Santo Padre.

In vista di un possibile, necessario piano di emergenza antiusurpazione – l’autoesilio in sede impedita - per cui lo stesso card. Ratzinger aveva già predisposto nel 1983 la dicotomia munus/ministerium nel Diritto canonico, e Giovanni Paolo II aveva fatto costruire il “fortilizio” in cui si sarebbe potuto auto-rinchiudere il papa impedito (il monastero Mater EcclesiaeQUI, l’innocua mitria vescovile, di basso profilo, avrebbe consentito al papa impedito di mantenere inalterato il proprio stemma senza dover obbligatoriamente rinunciare a un’ingombrante ed eloquente tiara, la “corona” simbolo della sovranità del papa. In tal modo, ha potuto mantenere l'insegna simbolo del suo “diritto dinastico” papale senza svelare prima del tempo la sede impedita. E così avvenne, come abbiamo visto QUI

Così, per comprendere la recentissima lettera all’università di Staubenville, dobbiamo ricordare come fin dal 1957 Ratzinger avesse studiato – e amato – il teologo romano Ticonio, per il quale la chiesa ha un corpo bipartito QUI: c’è la Chiesa di Cristo e, al suo interno, mascherata, la chiesa del diavolo. La seconda sarebbe finalmente emersa alla luce grazie a una grande discessio, cioè un ritiro della vera chiesa che avrebbe concesso a quella diabolica una parentesi di governo per manifestarsi.

E così è andata: il papa si è ritirato in sede impedita, lasciando a un antipapa platealmente apostata campo libero e tutto l’agio di dimostrarsi per quello che è, fino alla sua combustione escatologica finale, che avverrà con l’ufficializzazione della sede impedita.  

Da qui si comprende la famosa “ermeneutica della continuità” di Ratzinger, mai compresa né dall’estrema sinistra modernista, né dall’ala ipertradizionalista-sedevacantista. Il Concilio non è stato un elemento di discontinuità fra una chiesa del prima e una del dopo, (come credono da fronti diversi gli uni e gli altri) ma UNA FASE NECESSARIA, l’inizio di una pur brutta infezione che avrebbe prodotto un ascesso il quale, scoppiando, avrebbe finalmente purificato la Chiesa.

Da qui la “gratitudine” che papa Ratzinger nutre verso il Concilio, costantemente travisata. Ecco perché nel 2012, alle soglie del ritiro in sede impedita, si espresse così: “Il grande Concilio Ecumenico era inaugurato; eravamo sicuri che doveva venire una nuova primavera della Chiesa, una nuova Pentecoste…. Anche oggi siamo felici, portiamo gioia nel nostro cuore, ma direi una gioia forse più sobria, una gioia umile. In questi cinquant’anni abbiamo imparato ed esperito che il peccato originale esiste e si traduce, sempre di nuovo, in peccati personali, che possono anche divenire strutture del peccato. Abbiamo visto che nel campo del Signore c’è sempre anche la zizzania. E che nella rete di Pietro si trovano anche pesci cattivi. Abbiamo visto che la fragilità umana è presente anche nella Chiesa, che la nave della Chiesa sta navigando anche con vento contrario, con tempeste che minacciano la nave e qualche volta abbiamo pensato: «il Signore dorme e ci ha dimenticato”.

Allora: come potrebbe mai essere un fan del Concilio in senso “modernista” un teologo che si esprime con tali meste considerazioni?

Fatta questa lunga, fondamentale premessa, veniamo alla recente lettera di Benedetto XVI, che dimostra come egli sia ancora di una straordinaria, profetica lucidità:

“Quando Papa Giovanni XXIII lo annunciò (il Concilio), con sorpresa di tutti, c’erano molti dubbi sul fatto che avrebbe avuto senso, anzi che sarebbe stato possibile, organizzare le intuizioni e le domande nell’insieme di una dichiarazione conciliare e dare così alla Chiesa una direzione per il suo ulteriore cammino. In realtà, un nuovo concilio si è rivelato non solo significativo, ma necessario”.

Attenzione: il Concilio si è rivelato necessario, col senno di poi. Come, ad esempio, per il Figliol prodigo fu necessario andarsene per il mondo e rovinarsi prima di tornare alla casa del Padre.

“Per la prima volta, la questione di una teologia delle religioni si era mostrata nella sua radicalità. Lo stesso vale per il rapporto tra la fede e il mondo della semplice ragione. Entrambi i temi non erano mai stati previsti in questo modo”.

Non ci si aspettava che un giorno la Chiesa si sarebbe dovuta confrontare con le altre religioni, né che si sarebbe dovuto rendere conto al razionalismo laico delle ragioni della fede.

“Questo spiega perché il Concilio Vaticano II all’inizio minacciava di turbare e scuotere la Chiesa più che di darle una nuova chiarezza per la sua missione”.

Queste nuove istanze sembravano mettere in difficoltà la Chiesa, ma invece l’avrebbero temprata nel fuoco della prova.

“Nel frattempo, la necessità di riformulare la questione della natura e della missione della Chiesa è diventata gradualmente evidente. In questo modo, anche il potere positivo del Concilio sta lentamente emergendo”.

In questo periodo si è visto ancor meglio quale sia il compito finale della Chiesa: si è separato il grano dal loglio, il che darà modo a una nuova Chiesa purificata di nascere e di illuminare il mondo. Da qui il potere positivo del Concilio, l’altra faccia della medaglia, oltre i disastri negativi e apparenti. Tornando alla metafora dell’infezione, c’è un potere negativo della malattia che produce sofferenza, ma anche un potere positivo, liberatorio, purificatorio che conduce all’espulsione dei batteri, alla separazione della parte necrotica e al risanamento completo. Un risanamento che consentirà alla Chiesa di dare le risposte più efficaci alla modernità. Un po' come quando il Padre gioisce per il ritorno del Figliol prodigo: con la sua esperienza del mondo e del peccato egli è più consapevole dell'altro figlio che è sempre rimasto a casa. Il processo è quasi arrivato a compimento: “Il prigioniero presto sarà liberato” come ha indicato il Papa nel riferimento al libro di Isaia QUI.  

Ci sarebbe da indagare anche la più complessa questione sulla Civitas Dei di S. Agostino e l’invasione di Roma da parte di Visigoti, con relativo sacco. Il riferimento è, ovviamente, a quello che sta accadendo ora, con la chiesa diabolica ticoniana che ha preso il potere e messo a sacco la Chiesa cattolica e la sua dottrina. Ma quanto già analizzato basta e avanza.

Questo articolo è un contributo ben modesto rispetto alla profondità dello scritto del Papa, ma crediamo almeno di aver offerto, in linea di massima, la chiave di lettura corretta e non un’interpretazione.

Infatti, tutto l’impianto si fonda non sulla sabbia del complottismo e della suggestione, ma sulla granitica roccia di una realtà canonica incontestabile: papa Benedetto non ha mai abdicato perché per farlo doveva rinunciare al munus petrino, (l’investitura papale di origine divina) in modo formalmente corretto e simultaneo. E lui ha rinunciato in modo differito al ministerium (l’esercizio del potere) in un documento pieno di errori formali e giuridici senza ratificare nulla dopo l’ora prevista per l’entrata in vigore del provvedimento. Ed è lo stesso papa Benedetto a confermare, con il suo stile comunicativo logico – il Codice Ratzinger certificato da decine di specialisti QUI che non fu una rinuncia al papato, ma l’annuncio di un impedimento. E se non bastasse, l’altro giorno vi ha anche detto che la risposta per chi non crede è contenuta nel libro di Geremia dove si legge – guarda caso – “IO SONO IMPEDITO”.

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