DON GUIDO BORTOLUZZI
"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
POSTED BY: ADMIN 26 APRILE 2022
Don Guido Bortoluzzi nei pressi di Farra d’Alpago, Belluno Il 7 ottobre del 1907 veniva alla luce a Puos d’Alpago, poco lontano dal lago di S. Croce in provincia di Belluno, nel nord del Veneto, il piccolo Guido, terzogenito di Osvaldo Bortoluzzi che, dopo essere rimasto vedovo con la nascita del primo figlio, aveva sposato in seconde nozze Ancilla Mocellin. Entrambi i genitori erano maestri elementari. Dal primo matrimonio il padre aveva avuto Giuseppe, otto anni più grande di Guido, che morì ancora adolescente. Dalla seconda moglie ebbe altri tre figli: prima Gino, nato nel 1906, poi Guido, nato nel 1907 e infine Giulio, nato nel 1910. La vita di Guido è stata segnata fin dai primi momenti da difficoltà: la madre non aveva latte e a quei tempi il latte artificiale non c’era ancora. La nonna paterna Caterina si diede da fare e trovò a 7 km di distanza una buona contadina che aveva appena perduto il suo bambino ed era disposta a prendere a balia il piccolo. Aveva latte buono e tanto amore materno. Così nonna Caterina mise il neonato in una gerla di vimini e s’incamminò a piedi su per la montagna. Tra le braccia della balia Guido succhierà, insieme al latte, amore e cure. Sarà questo uno dei rari periodi di serenità della sua infanzia. Ad un anno, un mese e un giorno la balia lo riporterà a casa ancora con la gerla dalla quale il piccino, lungo la strada, faceva eco alle preghiere che la donna recitava a voce alta rispondendo ad ogni litania: “Oa po nobis”. Dopo poco la famiglia si trasferì a Farra d’Alpago dove con un mutuo i genitori avevano comprato una piccola e vecchia casa. L’ambiente era freddo in tutti i sensi. Fra i genitori non c’era armonia. La madre ‘siora Ancilla’, o semplicemente ‘la maestra’, come tutti la chiamavano, era brava, energica e temuta insegnante, ma dura e parziale con marito e figli. Il marito, appassionato cacciatore, si rifugiava sempre più spesso nelle battute di caccia pur di stare lontano da casa. Sovente si fermava a dormire nei cascinali, incurante del maltempo. Fu così che s’ammalò di tubercolosi, malattia che lo portò alla morte nel 1911 poco dopo la nascita del quarto figlio. Uomo impulsivo, collerico, scontento, era la sofferenza della vecchia nonna Caterina che non riuscì con le sue premure a farlo riaccostare ai Sacramenti neanche quand’egli si trovò in fin di vita. Lo ottenne il piccolo Guido. Si legge in una pagina autobiografica: Quella santa donna carismatica che fu mia nonna paterna mi predisse fin da quando avevo quasi quattro anni che da grande sarei stato prete e sarei stato contento di sapere che il papà prima di morire aveva fatto pace con Dio. Era gravemente malato e aveva espresso il desiderio di vedere i suoi tre figlioletti prima di morire. Abitavamo a 8 km di distanza e ci andammo in carrozza. Non potevamo baciarlo in faccia perché c’era pericolo di TBC. La mamma si fermò da lui in camera; noi, piccoli, fummo invitati dalla nonna a rimanere fuori, nel corridoio. Qui la nonna chiamò vicino a sè il più grande, di 5 anni. Voleva incaricarlo di una missione, ma egli scappò via. Chiamò me e disse: – Hai visto il papà com’è patito! Morirà presto e non lo vedrai più. – E piangeva. – Poveri piccoli! Ha patito tanto, sai, e patirà ancora di più dopo morto perché ha detto tante e tante bestemmie. Ma tu vuoi bene al tuo papà, vero? Tu puoi salvarlo dai patimenti dell’inferno dopo la morte. – E mi spiegò in breve cos’è l’inferno. – Va dentro e digli che chiami il prete e che faccia pace con Dio. – Entrai e dissi: – Papà, ti voglio bene; non voglio che tu vada a patire anche all’inferno. – – Reazione violenta: – È stata quella stupida di tua nonna a dirti queste cose? – E giù ingiurie e bestemmie. Scappai fuori e dissi alla nonna: – È cattivo, non torno da lui. – Lei invece mi convinse a ritornare. Mi promise che avrebbe pregato lo Spirito Santo e la Madonna perché gli facessero capire l’importanza e l’urgenza del messaggio. Mentre mi scostavo da lei disse: – Povero innocente, perché sei così piccolo non ti crederà. Ma ti seguo con la preghiera. – Arrivato al capezzale del malato, dissi subito: – Papà, tu non mi credi perché sono piccolo, ma io so, sai, quello che dico. Quando sarò grande sarò prete e sarò contento di sapere che, prima di morire, hai fatto pace con Dio. – – Io sono sempre in pace con Dio. – – Eh no, papà. Ti ho sentito dire bestemmie e parolacce alla nonna. – Da quanto è che gli insegni la lezione? – chiese alla mamma. – Non gli ho mai parlato di queste cose. – Erano circa due anni che egli viveva dai nonni e ignorava i miei progressi nel parlare. Egli mi guardò fisso per alcuni istanti, poi disse: – Vieni qua, che ti dò un bacio. – Nonna e mamma intervennero: – No! È troppo pericoloso! – – Lasciatemi quest’ultima soddisfazione prima di morire. – Devo dire che mentre parlavo col papà la nonna usciva in molte esclamazioni: – Caro da Dio! È lo Spirito Santo che gli fa dire queste cose. Ascoltalo figlio mio, è tuo sangue. – Un anno dopo la nonna venne a trovarci a Farra. Si mostrò buona con me. – Tu hai salvato tuo padre – disse – e salverai ancora molte anime. – La nonna in quell’occasione gli portò un giochino. Quando partì, la mamma prese il gioco per darlo a Giulio, il più piccolo, che lo ruppe subito. Dopo la morte della nonna Guido non ebbe più nemmeno il soldino che ella donava ai nipotini nelle feste. Orfano di padre e con la morte della nonna, la sua vita divenne ancor più triste. La madre aveva per lui un astio incontrollabile e una predilezione speciale per il piccolo Giulio che era il più bello ed il più gracilino dei quattro maschi. Guido invece era un bambino forte, che cresceva bene. Forse per questo a tavola, nella povera cucina, doveva sedersi sempre nel posto più esposto agli spifferi che entravano dalle fessure della finestra. Negli inverni freddi l’aria gelida che gli arrivava dritta alle spalle diventava un tormento. Fino alla quinta elementare non ebbe neppure un letto normale e fu costretto a dormire raggomitolato in un lettino con le sponde che gli impedivano di allungare le gambe. Come i suoi fratelli, doveva andare a turno a prendere l’acqua alla fontana, portare al primo piano la legna e fare ogni genere di servizi, come quello di salire a prendere il latte alla malga Pèterle che distava più d’un’ora di cammino, dove in estate alpeggiavano le mucche della valle. Scrive don Guido: “Ebbi un’infanzia e una fanciullezza senza i giochi e gli spassi di quell’età per dover accudire alle faccende di casa, ma con la gioia di andare in chiesa alle funzioni e a cantare”.
Nel 1922, mentre ero in Seminario a Feltre, ebbi una predizione di don Giovanni Calabria. Accadde questo fatto: con i miei compagni di classe ritornavamo dal cortile alla sala di studio attigua alla stanza del Rettore. Il Rettore era davanti alla sua porta e parlava con un Sacerdote forestiero. Appena entrati, ci raggiunse lasciando l’uscio aperto e disse che quel Sacerdote era don Giovanni Calabria, fondatore della Casa dei Buoni Fanciulli di Verona, un carismatico come don Bosco, e che, guardandoci entrare, gli aveva detto che uno di noi, diventato anziano, avrebbe scritto un libro molto importante e che avrebbe dovuto scriverlo presto. Solo io, fra i dodici compagni, chiesi: – Lo saprà quell’uno di noi, l’interessato, che il suo libro è molto importante? – Dal corridoio mi giunse la voce di don Calabria: – Sì, lo saprà. È proprio lui. – – Su quale argomento? – replicai. – Vado a domandarglielo – rispose il Rettore. Il Rettore uscì e parlò con don Calabria. Rientrato disse che l’interessato lo avrebbe saputo e che riguardava la Bibbia, la Genesi biblica. Poi chiese: – Chi ha fatto quella domanda? – Tacqui nel timore di aver commesso un’impertinenza. Ripeté l’interrogazione. Un compagno disse il mio nome. C’era un mio omonimo. Uno m’indicò col dito. Egli mi guardò, poi guardò tra i banchi il mio omonimo che era il più bravo della classe. E poiché dell’altro don Giovanni Calabria aveva predetto che avrebbe cambiato strada, disse: – Ho capito. So io quale dei due. – Quello divenne il beniamino; io, secondo il Rettore, ero quello che avrebbe cambiato strada. Accadde il contrario. Il Rettore pagò d’allora in poi per ‘l’omonimo’ la retta di tasca sua. E poiché don Calabria aveva predetto che ‘l’altro’ sarebbe uscito dal Seminario, il chierico Guido fu trattato in seguito con molta freddezza e sufficienza.
Finito il ginnasio a Feltre, il giovane Guido si trasferì, con altri Seminaristi della provincia, al Seminario di Belluno dove vi erano solo le classi superiori. Passarono gli anni e Guido crebbe meditando sempre le parole di don Calabria nel suo cuore. Leggiamo ancora quello che accadde poi: Nel 1928, all’inizio del secondo anno di teologia, Padre Matteo Crawley tenne un ritiro per tutti i chierici e predisse a ciascuno, senza nominarlo ma fissandolo negli occhi, il suo avvenire. Fra gli altri ricordo che disse di uno, intelligente e buono, che sarebbe salito ai più alti gradi della gerarchia ecclesiastica. Dai brevi connotati, molti capirono, compreso egli stesso, che si riferiva ad Albino Luciani che allora faceva la prima o la seconda liceo. Poi, dopo una breve pausa, soggiunse: “Ooooh..! Ahimè..! Ma durerà poco!”. Guardò anche me e disse, fissandomi negli occhi, che uno di noi avrebbe ricevuto una rivelazione sui punti oscuri della Genesi Biblica. Descrisse in breve la mia vita dicendomi che avrei avuto molto da soffrire, anche per l’incomprensione dei miei confratelli e dei miei Superiori. Non avevo più dubbi: il Signore, malgrado le mie molte insufficienze, mi guidava al Suo scopo. Padre Matteo Crawley gli preannunciò anche che avrebbe subìto un furto. A quale furto si riferisse non lo seppe mai. Solo in vecchiaia pensò che si fosse trattato del dizionario dei toponimi che egli aveva composto con grande fatica e che gli fu sottratto dalla sua casa di Farra. Però questo vago annuncio gli diede fin da allora non poca inquietudine. Per questo divenne un tantino sospettoso e diffidente con il prossimo. Il suo voler sapere sempre il come e il perché delle cose, aveva dato al giovane Guido fama di contestatore e per gli insegnanti era un alunno scomodo. In un esame, presieduto dal Vescovo Cattarossi, si presentò la solita situazione di prevenzione dell’esaminatore che, posta la domanda al giovane Guido, cominciò a parlare senza dargli la possibilità di aprir bocca, nonostante egli cercasse con la mano di interromperlo per esporre egli stesso. Il professore fece per accomiatarlo e propose un voto sufficiente, ma basso. Il Vescovo intervenne: – Ora voglio sentire lui, gli faccia un’altra domanda. – E Guido, libero questa volta di parlare, espose bene e diffusamente l’argomento. Il Vescovo propose un nove. Fecero media, e gli venne dato otto. Guido ne fu molto incoraggiato perché comprese d’essere stimato dal suo Vescovo.
Don Guido ebbe anche un altro incontro significativo che può aggiungersi alle predizioni avute in Seminario: fu la visita di Teresa Neumann che venne appositamente dalla Germania fino a Dont per conoscerlo. Egli ne aveva già sentito parlare, ed aveva anche acquistato un paio di libri che parlavano di lei. Ma quando ella si presentò alla porta della sua canonica, a piedi, vestita con modestia e con un fazzoletto in testa, lì per lì non la riconobbe. Infatti, al suo saluto in tedesco, don Guido le chiese, sempre in tedesco, chi fosse e come mai fosse arrivata fin lassù. Ella si presentò e soggiunse che “desiderava conoscere l’uomo sul quale Dio aveva grandi progetti di Misericordia”. Certamente Teresa Neumann alludeva all’intera umanità. Don Guido invece pensò che la Misericordia fosse rivolta a lui e, sentendosi gran peccatore, rispose: – Preferirei non provocare la Sua Giustizia. – Ella sorrise e gli disse: – Quando il Signore le parlerà scriva tutto, proprio tutto! Il Signore le vuole molto bene. – E, dopo una breve pausa, aggiunse: – Lei avrà molto da soffrire. – Egli le offrì da mangiare. Teresa declinò l’invito: non volle nemmeno un uovo a bere. A quel tempo ella viveva unicamente d’Eucarestia, ma non lo disse. Gli chiese solo un posto per la notte. Don Guido, però, volendo obbedire al Vescovo che aveva emanato una circolare nella quale si ordinava di non ospitare nessuno nelle canoniche per la notte, specialmente donne, le disse che non poteva e la invitò a proseguire per altri 3 o 4 km dove il Parroco di Fusine poteva ospitarla in una piccola foresteria distaccata dalla canonica. Ella vi andò e vi pernottò. Il mattino seguente accadde un fatto strano. Don Guido stava celebrando la S. Messa. Poco prima della Comunione, mentre diceva “Agnus Dei qui tollis peccata mundi…”, la Particola che teneva tra le dita improvvisamente scomparve. Lui e le donne della prima fila la cercarono ovunque, inutilmente. Tutti furono testimoni di quella sparizione e nessuno capì. L’indomani don Guido incontrò il parroco di Fusine presso cui era stata ospite Teresa Neumann e gli chiese se era venuta da lui una donna. Egli rispose di sì ed aggiunse che non gli era piaciuta perché gli aveva fatto dei rimproveri. Disse anche che, durante la Messa, le aveva chiesto se volesse fare la Comunione ed ella gli aveva risposto che l’aveva già fatta. Il Parroco di Fusine aggiunse d’averla guardata commiserandola poiché non si era mossa di lì. Don Guido però capì. Si dice che Teresa Neumann non sia mai uscita dal Reich. Che fosse venuta a Dont in bilocazione? Don Guido non seppe dare una risposta a questo interrogativo.
Il fatto che il Signore abbia fatto vedere a don Guido la catastrofe in stretta sequenza logica con quella infelice e blasfema processione ci spinge a credere che fra i due eventi ci fosse un nesso per far capire a noi uomini come un nostro comportamento irrispettoso possa alienarci la protezione di Dio. Dio non castiga: Dio, quando viene respinto, solamente si astiene dalla Sua protezione nel rispetto della libertà che ha dato all’uomo. Don Guido tuttavia ripeteva: “È improprio chiamarlo castigo di Dio perché Dio non è vendicativo. Non è Dio che manda i castighi, anche se questo è il termine che usa la Bibbia per far intendere che tra due fatti c’è un nesso di causa-effetto. Il castigo ce lo diamo noi stessi perché è la naturale conseguenza dell’allontanamento dalla protezione di Dio. Purtroppo in questi casi vengono coinvolti degli innocenti. Ma la colpa non è di Dio. Anzi, stiamone certi, Dio è vicino alle vittime innocenti e spiritualmente le sostiene. Dio ha a cuore la salvezza di tutti, quella eterna. Inoltre, la parte più pesante della sofferenza, specialmente quella degli innocenti, la porta Lui stesso. Certo è che se il Signore mal sopporta che Lo si bestemmi, non permette che s’insulti la Vergine Immacolata!”. Ovviamente il cedimento del Monte Toc era già in corso da mesi. È chiaro che non si può attribuire a Dio l’improvviso franamento perché è un fatto naturale. La protezione di Dio non evita le calamità naturali, ma può evitare che si assommino gli errori umani e, in particolare, che le persone arrivino alla conclusione della loro vita impreparate. Al tempo della sciagura del Vajont, avvenuta nella tarda serata del 9 ottobre del 1963, don Guido da dieci anni era partito da Casso ed erano passati diciott’anni dalla visione. Molti avevano dimenticato la sua profezia ed erano andati incontro alla morte.

Don Guido aveva capito che il riconoscimento delle rivelazioni, seguendo la via gerarchica, gli era precluso. Nel frattempo mons. Albino Luciani, suo ex-compagno di Seminario e già Vescovo di Vittorio Veneto, era stato nominato Patriarca di Venezia, per cui era diventato suo Superiore e Superiore anche del suo Vescovo. Veramente affranto per tanta chiusura e dopo tante esitazioni per rispetto al suo Vescovo, don Guido decise di scrivere al Patriarca che, come sappiamo, aveva condiviso con lui le predizioni, fatte ad entrambi da Padre Matteo Crawley nel lontano 1928, in cui al giovane Albino era stato predetto che “sarebbe salito ai più alti gradi della gerarchia ecclesiastica” e al chierico Guido che “da anziano il Signore gli avrebbe rivelato i passi oscuri della Genesi Biblica”. Così don Guido gli raccontò, con una breve relazione, le rivelazioni avute dal Signore. Gli spiegò tra l’altro che “Dio fu Padre e Madre per il primo Uomo” non solo spiritualmente ma anche fisicamente, perché creò nel seno di una femmina preumana sia il gamete maschile, e così Dio gli fu Padre, sia il gamete femminile, e così Dio gli fu Madre, formando la cellula germinativa del primo Uomo; mentre, per la creazione della prima Donna, Dio le fu solo Madre, poiché le fu padre l’Uomo stesso generando, ‘in similitudine naturae’, nel sonno, come dice la Bibbia. Il particolare legame che univa don Guido al Patriarca, poiché per entrambi quelle predizioni si erano realizzate, gli dava la certezza di essere creduto. Il Patriarca infatti gli rispose affettuosamente. Tuttavia lo invitò al riserbo poiché, fin tanto che tali rivelazioni non fossero state approvate dalle competenti autorità ecclesiastiche, ossia dal suo Vescovo, esse mantenevano il carattere di rivelazioni private. Intanto il Patriarca Luciani cominciò a dire pubblicamente che “Dio per l’uomo è Padre e Madre”. Questo intervento poteva essere interpretato come un benevolo e intelligente incoraggiamento al Vescovo di Belluno. Il Patriarca Luciani era infatti molto rispettoso dei ruoli altrui. Ciò nonostante, il Vescovo rimase sulle sue posizioni. Passò ancora qualche tempo finché don Guido s’incontrò con il Patriarca Luciani a Vittorio Veneto dove questi era venuto a guidare un ritiro spirituale di un solo giorno invitato dalla sua affezionata vecchia Diocesi. Alla fine del ritiro, il Patriarca lo avvicinò e lo pregò di trattenersi per parlargli. Ma l’ora era tarda e don Guido, preoccupato di non perdere il treno utile per la coincidenza con l’ultima corriera, gli rispose che sarebbe tornato presto per poter parlare con più calma e corse via. Intanto il Patriarca fu eletto Papa e non ebbe più l’occasione di rincontrare don Guido. Tuttavia nel suo discorso introduttivo al Soglio Pontificio non esitò a ripetere che “Dio è, per l’uomo, Padre e Madre”, affermazione che diede a molti motivo di riflessione. Probabilmente il compito di Papa Giovanni Paolo I nei confronti di don Guido e delle rivelazioni da lui ricevute era solo quello di avergli creduto e di testimoniare che le predizioni fatte da Padre Matteo Crawley nel Seminario di Belluno in quel lontano 1928 si erano avverate per entrambi e di accreditarlo come profeta.“CANTERÒ IN ETERNO LE TUE LODI, O DIO, SIGNORE DELL’ UNIVERSO”.