mercoledì 1 dicembre 2021

Storia di Maometto scritta da sant'Alfonso Maria de' Liguori

 

Istruzione Cattolica

Sant'Alfonso Maria de Liguori in "STORIA DELLE ERESIE" spiega e illustra l'islam

Storia delle eresie” di Sant’Alfonso Maria de Liguori, Dottore della Chiesa, Cap. VII – Eresie del secolo VII, ART. I. “Della setta di Maometto”. “Nascita di Maometto e principj della sua falsa religione”. “Del suo Alcorano pieno di bestemmie e d’inezie”.

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In questo secolo settimo uscì l’empia setta Maomettana. L’istoria di Maometto già mi trovo di averla scritta nella mia opera della Verità della Fede; ma non voglio qui tralasciare di darne un breve saggio. Maometto fondatore di questa setta micidiale, che ha infettata la maggior parte del mondo cristiano, nacque nell’Arabia all’anno 568, secondo il Fleury, da famiglia illustre.

Morto il padre, fu applicato da un suo zio alla mercatura. Essendo poi in età di 28 anni, fu preso prima per fattore e poi per marito da una vedova nobile e ricca, chiamata Kadia. Fu educato nell’idolatria; ma avanzato nell’età deliberò di mutar religione, e di farla mutare a tutti gli arabi, ch’erano idolatri, con propagare, come dicea, la religione antica di Adamo, di Abramo, di Noè e de’ profeti, fra’ quali annoverava anche Gesù Cristo.

Finse per molto tempo di aver colloquj familiari coll’arcangelo s. Gabriele nella grotta d’Hira, situata poco distante dalla Mecca, ov’egli spesso si ritirava. Nell’anno poi 608, essendo Maometto di 40 anni, cominciò a dichiararsi profeta ispirato da Dio, e per tale si fece tenere a principio da’ suoi parenti e domestici; quindi cominciò a predicare in pubblico nella Mecca, riprovando l’idolatria.

La gente in quei principj poco gli dava orecchio, richiedendo da lui qualche miracolo in prova della sua missione. Rispondeva egli ch’era mandato da Dio non a far miracoli, ma solo a predicar la verità. Con tutto ciò l’impostore nel suo Alcorano vanta d’aver fatto un miracolo, ma molto ridicolo; dicendo che, essendo caduto un pezzo della luna nella sua manica, egli avea saputo racconciarlo: e perciò poi l’imperio dei Maomettani ha l’impresa della mezza luna.

Maometto avea pubblicato che Dio gli avea imposto precetto di non forzare gli uomini a tenere la sua religione; ma trovandosi appresso perseguitato da’ Meccani, dichiarò che Dio gli avea comandato di perseguitare gli infedeli coll’armi, e così propagar la fede; e di poi visse perciò sempre in guerra.

Quindi gli riuscì di farsi signore della Mecca; ed ivi piantò le sede della sua setta, ed ebbe l’intento prima di sua morte di vedere tutte le tribù dell’Arabia fatte sue seguaci.

Maometto compose poi l’Alcorano (Alcoran, cioè la lettura, o come diciamo noi, la scrittura) coll’aiuto, come dicesi, di un certo monaco chiamato Sergio. L’Alcorano è un miscuglio di precetti della legge giudaica e della cristiana, e di altri da esso inventati, confuso poi con molte favole e false rivelazioni.

Egli ammettea la missione di Mosè e di Gesù Cristo. Ammetteva ancora molte parti della nostra sacra scrittura; ma dicea che la sua legge perfezionava e riformava la giudaica e la cristiana. Ma in verità ella discrepava dall’una e dall’altra.

Credeva Maometto esservi un Dio; ma dicea poi nel suo Alcorano molte cose indegne di Dio, mischiate con mille contraddizioni, che si possono leggere nella mentovata mia opera della Fede. Dicea che ogni giudeo o cristiano si salva osservando la sua legge, benché lasciasse una legge per un’altra. Dicea che gl’infedeli staranno per sempre all’inferno; ma che quelli che credono ad un solo Dio, vi staranno solo per qualche tempo e non più di mille anni, e che poi tutti anderanno alla casa della pace, cioè del paradiso.

Ma il paradiso che promettea Maometto, era tale, com’egli se lo figurava, che si vergognerebbero di starvi anche le bestie; poiché questo suo paradiso altri piaceri non dava che sensuali e sozzi. Lascio di scrivere altre inezie dell’Alcorano, che possono leggersi nella citata mia opera.

I Maomettani si radono il capo, come si sa, e vi lasciano una chiocchetta di capelli, e sperano che per quella Maometto potrà cavarli dall’inferno, anche dopo che alcuni di loro vi fossero caduti.

La legge di Maometto permette più mogli sino al numero di quattro, e comanda che almeno se ne prenda una, e concede il ripudio per due volte. Proibisce poi il disputare sopra l’Alcorano e le scritture sacre; e questo fu un ritrovato molto efficace del demonio per fare e seguire a fare una perpetua strage di tante povere anime, acciocché le misere vivessero sempre nella loro ignoranza e così restassero per sempre accecate e perdute.

Finalmente nell’anno 631 morì Maometto in età di 63 anni, avendone regnati nove in circa, dopo aver conquistata quasi tutta l’Arabia, e steso il suo dominio per 400 leghe lontano da Medina tanto a levante, quanto a mezzo giorno.

Lasciò poi Aboubecro uno dei suoi primi discepoli, che fece altri acquisti. Succedettero indi altri capi della setta, chiamati Califfi, che rovinarono l’imperio de’ persiani, e conquistarono la Siria e l’Egitto.

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Verità della Fede” di Sant’Alfonso Maria de Liguori, Dottore della Chiesa, Parte III, Cap. IV. “Non può esser vera la religione maomettana”.

Vediamo in primo luogo le qualità di Maometto, che stabilì questa religione, diciam meglio questa infame setta che ha mandate tante anime all’inferno. Egli ebbe qualche dote naturale; fu di bello aspetto, d’ingegno penetrante, cortese nel tratto, liberale e grato ai beneficj. Ma all’incontro fu dominato dal vizio della libidine, e perciò tenne da 15 mogli, e più di 24 concubine, fingendo di avere avuto in ciò il permesso da Dio, poiché agli altri non concedeva egli più di quattro mogli; e quindi poi nel suo Alcorano ripose nelle sozzure della carne la massima parte della felicità eterna.

Fu dominato ancora dalla superbia, che lo fece talvolta diventar crudele. Basti sapere che una volta ad alcuni che si avean presi certi suoi cammelli, fece tagliar le mani e i piedi, e cavare gli occhi con un ferro rovente, e poi li fece lasciar così, finché spirassero l’anima.

Vediamo ora che cosa sia l’Alcorano di Maometto, e quali dogmi e precetti ivi s’insegnino.

Alcorano significa lezione, o sia libro di lezione. I titoli del libro sono varj secondo le varie edizioni. Si divide in Sure, o sieno Azoare 114, e le Sure dividonsi in Ayat, cioè segni di diversa lunghezza, che contengono attributi di Dio e precetti o giudizj di cose mirabili, e questi segni terminano col ritmo corrispondente al verso precedente.

L’Alcorano è scritto in lingua pura araba e con eleganza di parole, affettando un modo profetico. Vi sono giudizj, istorie ed esortazioni.

A’ giudizj spettano le leggi così per le cose sacre, preci, pellegrinaggi e digiuni, come per le cose politiche, tribunali, matrimonj ed eredità.

Alle istorie spettano molte narrative, parte prese da’ libri sacri, ma corrottamente, e parte finte, o pur ricavate da’ libri apocrifi e specialmente del Talmud de’ giudei.

Alle esortazioni poi si riferiscono gl’inviti alla nuova religione, alla guerra per difesa di quella, alle preci ed alle limosine, minacciando le pene dell’inferno a’ trasgressori, e promettendo le delizie del paradiso agli osservanti.

Talvolta si finge Dio, o l’angelo che parla: talvolta poi parla lo stesso Maometto o ai Meccani o a’ giudei, o a’ cristiani. Altre volte parlano i beati del paradiso ovvero i dannati dell’inferno: sicché l’Alcorano è una specie di dramma, in cui sono diversi che parlano.

Dicono i Maomettani che l’Alcorano non è composto da Maometto, né da altri, ma solamente da Dio, e da Dio è stato dato a Maometto. In quanto poi al modo e tempo, dicono mille inezie. Altri dicono che l’Alcorano è stato eterno, sempre presente al trono di Dio in una certa tavola, ove stavano scritte tutte le cose passate, presenti e future. Altri dicono che in una certa notte del mese romadan, in cui suppongono che Dio dispone tutte le cose, scese questo libro dal trono divino. Altri dicono che l’arcangelo Gabriele rivelò a Maometto tutto quello che sta scritto nell’Alcorano. Altri dicono che Maometto ricevea da quando in quando alcuni versi, ed egli li facea conservare in una cassa: altri dicono altri spropositi.

Del resto oggi negli esemplari che noi abbiamo dell’Alcorano vi sono molte lezioni varie che variano sentenza. I nostri scrittori dicono che l’Alcorano fu composto da Maometto o tutto da sé, o coll’aiuto di un certo monaco Sergio, o d’altri. Chi poi volesse intender più cose dell’Alcorano circa la sua scrittura, legga Marraccio nel prodromo all’Alcorano (Part. 4. c. 27).

Parlando poi della teologia dell’Alcorano, dee sapersi che questo libro è ripieno d’una farragine confusa di favole, di precetti e di dogmi tutti inetti, fuori di quelli che son presi dalla legge ebraica e cristiana.

Maometto riconoscea per divina la missione così di Mosè, come di Gesù Cristo, come anche riconoscea per legittima l’autorità delle nostre sacre scritture, almeno in più parti, dicendo che le altre sono state corrotte; ond’egli colla sua pretesa religione (che dicea esser la stessa che tennero Mosè e Gesù Cristo) volea riformare e perfezionare così la religione giudaica, come la cristiana. Ma in verità altro non fece che formare una setta che discrepava dall’una e dall’altra.

Maometto credea esservi un Dio, e dalla Sura 4. vers. 17. si ricava che credesse anche la Trinità delle persone nella natura divina: “Neque dicant tres (Deos), Deus enim unus est”.

Credeva esser di fede esservi gli angeli, ma dicea che essi hanno corpo, e sono anche di diverso sesso; Sura 2. e 7.

Diceva ancora essere assegnati due angeli custodi a ciascun uomo, e questi mutarsi ogni giorno.

Dicea di più che vi sono angeli e demonj di diverse specie, chiamati genj, i quali mangiano e bevono, ed anche si propagano e muoiono, ed anche son capaci della futura salute e dannazione.

Vi sono poi nell’Alcorano molte cose indegne di Dio. Ivi si dice (come bestemmiano ancora gli ebrei talmudisti) che Dio fu costretto a dire una bugia, per metter pace tra Sara ed Abramo. Ivi s’induce Dio che giura per li venti, per gli angeli ed anche pei demonj; quando che Dio solo per sé può giurare, non già per le creature.

Di più nella Sura 43 s’induce Dio che prega per Maometto: “Cum Deus et angeli propter prophetam exorent”.

Nella Sura 56 dice Maometto che Dio gli permise di violare un giuramento.

E nella Sura 43 che gli permise di potersi mischiare con qualunque donna anche maritata e consanguinea. Dice poi molte bugie.

Nella Sura 17 scrive che Dio comandò agli angeli che adorassero Adamo, e che tutti gli ubbidirono, fuorché Belzebub.

Dice nella Sura 13 che Maria madre di Gesù è adorata da noi per Dio.

Nella Sura 27 dice ch’egli fu rapito da Dio in cielo per essere ammaestrato de’ misterj.

Nella Sura 25 dice che Iddio ha creato il demonio da un fuoco pestifero. Vi sono poi nell’Alcorano mille contraddizioni.

Nella Sura 11 chiama Gesù Cristo spirito di Dio e suo messo: “Iesus Mariae filius nuntius suusque spiritus”; e poi nega essere Dio, e dice che non è stato crocifisso, ma in suo luogo fu crocifisso uno simile a lui.

Nella stessa Sura 11 dice che ognuno, sia giudeo o cristiano, e benché lasci una legge per un’altra, se adora Dio, ed opera bene sarà amato da Dio, e si salverà; e poi nella Sura 3 dice che i Maomettani si dannano se lasciano la loro legge.

Nella Sura 20 dice che niuno dee sforzarsi alla fede; e poi nella Sura 9 dice che gl’infedeli debbono essere uccisi.

Nella Sura 2 dice che ciascuno può salvarsi nella sua religione, sia giudeo, cristiano o sabaita: “Qui crediderint et iudaei et christiani et sabaitae in Deum, et fecerint bonum, ipsis erit merces apud Dominum”; e poi nella Sura 3 dice il contrario: “Et qui secutus fuerit aliam religionem praeter istam (cioè la maomettana), ipse in futuro seculo erit pereundus”.

I maomettani confessano queste contraddizioni, ma dicono che Dio stesso è stato quello che si è rivocato.

Dicono di più i maomettani che dopo morte nel sepolcro da due persone Moncker e Hakir hanno da essere pesate le opere di ognuno in due coppe di bilancia, che eguagliano la superficie del cielo e della terra.

Dicono poi che vi è il ponte Sorat, dal quale i peccatori cadranno nell’inferno, dove gl’infedeli staranno per sempre; ma quelli che avranno creduto ad un Dio, vi staranno per qualche tempo, ma non più di mille anni, e poi passeranno alla casa della pace; ma prima d’entrare in questa casa beveranno l’acqua della piscina di Maometto perciò i maomettani si radono il capo, e vi lasciano una ciocchetta di capelli, sperando che per quella Maometto potrà cavarli dall’inferno.

Essi sperano che almeno nel giorno del giudizio Maometto colle sue preghiere salverà tutti i suoi seguaci.

Il paradiso poi che promette l’Alcorano, è un paradiso di cui si vergognerebbero anche le bestie: è un paradiso ove non vi sono altri piaceri che sensuali. Dice che ivi sono due orti ornati di alberi, fonti e pomi e donne, e che ciascuno avrà in cielo tante mogli, quante ne avrà avute in questa terra, e l’altre poi saranno concubine.

Ecco come si scrive nella Sura 86 ed 88: “Ubi dulcissimas aquas, pomaque multimoda, fructus varios et decentissimas mulieres, omneque bonum in aeternum possidebunt”. Avicenna maomettano, vergognandosi di tal promessa per la vita eterna, dice che Maometto in ciò avea parlato allegoricamente; ma l’Alcorano in niun luogo ammette questa spiegazione sognata da Avicenna.

In quanto poi ai precetti naturali, l’Alcorano insegna: principalmente la legge della natura; scusa non però coloro che l’offendessero per causa di timore. Ammette (come già si è detto) l’avere più mogli, sino a quattro, purché possa conservarsi la pace con tutte, altrimenti ordina che se ne prenda almeno una, e concede il ripudio per due volte.

Proibisce poi il disputare sopra l’Alcorano e le scritture sacre; e ciò asserisce nelle Sure 22 e 29 essere precetto divino. Per altro con molta accortezza da questo impostore fu dato un tal precetto; giacché tutta la forza della sua legge è nell’ignoranza.

Vi sono di più altre leggi positive di purificazioni, orazioni e limosine: di più del digiuno nel mese romadan e del pellegrinaggio alla Mecca. Si narra da un buono autore che Maometto mettea del grano dentro del suo orecchio, e che avea avvezzata una colomba a venire a beccarlo, affin da far credere agli altri che egli per tal mezzo era ispirato da Dio circa le cose che insegnava. Ed in conferma di ciò due maroniti presso Bayle dicono trovarsi nella Mecca alcune colombe, che dai turchi son rispettate come sacre, credendo essi che discendano da quella che parlava a Maometto.

Sicché non può esser vera la religione de’ gentili, non quella de’ giudei, non quella de’ maomettani: dunque la cristiana è l’unica vera.

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Appendice (in nota 1 ibid.). Maometto fu arabo di nazione, nacque nella Mecca nell’anno 571. Fu oriundo di famiglia nobilissima. Dopo la morte del padre fu applicato alla mercatura da’ suoi parenti, attesoché prima fu educato in casa del suo avo e poi di un certo suo zio, dal quale di anni 13 fu condotto nella Siria. Ma di là ritornato nella patria d’anni 25, fu preso nella sua età d’anni 28 da una certa vedova nobile e ricca, chiamata Kadia, per suo fattore.

Posto egli in questa condizione più alta cominciò a meditare di mutare e far mutar religione a tutta la sua patria, intendendo di liberare gli arabi dall’idolatria, nella quale egli era stato educato, e di restituire al mondo, come diceva, la religione primiera di Adamo, di Noè, di Abramo, di Mosè ed anche di Cristo, in somma di tutti i profeti del vero Dio; e perciò finse di aver colloquj coll’angelo Gabriele nella grotta d’Hira, che non era molto distante dalla Mecca, dove spesso si ritirava.

Essendo poi d’anni 40, ed essendo stato sino a quel tempo idolatra, si assunse l’officio di profeta, e per tale si fece tenere prima dalla sua moglie e da certi suoi parenti e domestici e poi da un certo Abubekero uomo di grande autorità, coll’aiuto del quale acquistò molti potenti paesani della Mecca. Dopo tre anni adunò in un convito 40 persone con Aly suo cugino, ed allora aprì la sua missione divina, come diceva. Ma da tutti, fuorché da Aly, fu allora deriso.

Egli nulladimanco, non perdendosi d’animo, costituì Aly suo vicario, e cominciò a predicare in pubblico nella Mecca, dove fu a principio udito da’ suoi paesani; ma quando poi si pose a riprovare i loro dei, lo perseguitarono a morte, e solo un certo Abotaleb colla sua autorità e prudenza lo liberò; ma i meccani stabilirono di non avere più commercio né con Maometto, né co’ suoi aderenti.

Egli non però avendo in questo tempo composta già parte dell’Alcorano, spesso provocava i suoi avversarj a formare alcuna parte simile, dicendo che non avrebbero mai potuto comporne un solo capitolo. E richiedendo coloro alcun miracolo della sua missione, rispondea ch’egli era stato mandato da Dio non a far miracoli, ma solo a predicar la verità.

Dicono per tanto i maomettani che il miracolo del legislatore è stata la propagazione della loro legge fatta nella massima parte del mondo. Ma a ciò si risponde che non può dirsi miracolo il vedere abbracciata una legge, per cui si vive più secondo il piacere de’ sensi, che secondo la ragione. Oltreché questa propagazione fu fatta nell’Arabia, ove la massima parte era di gentili, vi erano pochi cristiani, e gli altri erano giudei o eretici ariani e nestoriani, fuggiti colà per gli editti degl’imperatori, ed in tutti poi regnava una somma ignoranza. Un tal miracolo bensì è avvenuto nella propagazione del vangelo, che insegna una legge opposta agli appetiti carnali. Con tutto ciò Maometto pure vantava di aver fatto un gran miracolo (ma miracolo d’un buffone per la scena): diceva nell’Azoara 64 del suo Alcorano, che essendo caduto un pezzo di luna nella sua manica, egli ebbe l’abilità di racconciarlo: che perciò poi l’imperio de’ turchi porta l’impresa della mezza luna.

Indi, essendo morti la sua moglie Kadia e l’amico Abotaleb, Maometto nell’anno decimo della sua finta missione si vide abbandonato quasi da tutti; onde fu costretto a ritirarsi dalla Mecca in Tayef, luogo distante 60 miglia. Ma dopo un mese tornò alla Mecca, e si pose sotto la protezione di Al-Notaam Abn-avi.

Nell’anno duodecimo cacciò fuori la favola del suo viaggio notturno in Gerusalemme e di là in cielo; ma questa favola parve così ridicola, che sarebbe rimasto affatto abbandonato da tutti, se un certo Abu-ker non avesse detto ch’egli non poteva negare la sua fede a Maometto. E nello stesso duodecimo anno si strinsero con giuramento a Maometto molti della città di Medina, e tra questi il principe della tribù detta Avos.

Maometto avea dichiarato di non aver altro comando da Dio, che di predicar la verità, ma non di forzare gli uomini a crederlo; ma essendo di poi fuggito da Medina per evitar la morte macchinatagli dai meccani, dichiarò egli il precetto di perseguitare colle armi gl’infedeli, e colle vittorie propagar la fede, e d’indi in poi visse sempre in guerra, alle volte perdendo, ma più spesso vincendo.

Andò appresso con 1400 soldati alla Mecca, ed ottenne una tregua co’ nemici, ma col patto che gli concedessero il potersi con esso arruolare quei che voleano seguirlo.

Scrisse poi lettere al re di Persia, dell’Etiopia e di Roma, e gl’invitò ad abbracciare la sua religione. Indi si fece signore della Mecca: donde avendo scacciata l’idolatria, piantò la sua setta; e nell’anno seguente ricevette gli ambasciatori da tutte le tribù dell’Arabia, le quali, vedendo soggiogata la tribù più potente di tutta la nazione, abbracciarono l’Alcorano.

Finalmente Maometto nell’età di sessentatré anni morì, e si dice morto di veleno.

ಹಂಚಿರಿ

CONOSCIAMO E AMIAMO IL SERAFICO PADRE SAN FRANCESCO

 

Qual’è la vera devozione a San Francesco?

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San Francesco imbarca per la quinta crociata.

La parola italiana “devozione” viene dal verbo latino, « devovere » (cioè, consacrare). La devozione, in quanto relazione tra i pellegrini e i Santi, non è nient’altro che la fedeltà, la lealtà e la risoluzione nel seguire Cristo imitando il loro esempio ammirevole.

Il seguace devoto è colui che ha consacrato – ossia, dedicato – tutta la sua vita all’attività di discepolo. Nel linguaggio comune il devoto di un Santo è una persona che lo invoca ogni giorno e frequenta le celebrazioni, le chiese, le cappelle e i santuari costruiti in suo onore. Ma il seguace devoto, il discepolo devoto, è qualcosa di molto più grande. Per lui, l’imitazione del Santo è l’elemento fondamentale della sua esistenza, il fondamento della sua identità, la chiave per il suo destino personale in Cristo.

La devozione a San Francesco non è nient’altro che questa. La devozione che i figli di San Francesco dovrebbero avere non dovrebbe essere nient’altro che questa.

Si può imitare un Santo incorporando al proprio comportamento, ai propri ideali, alle proprie abitudini, ai propri costumi, elementi tratti dalla sua vita e dalle sue virtù. Ma tale devozione opera solo a livello materiale. Esattamente come, nella filosofia aristotelica, la causa materiale è subordinata alla causa formale, anche la devozione a elementi particolari associati alla vita e ai tempi di un Santo è subordinata alla vera devozione.

La vera devozione a un Santo necessita un’unione formale del cuore e della mente col Santo stesso. Non esiste imitazione più grande per il discepolo che diventare una sola cosa col suo maestro. Nostro Signore ha insegnato questo tipo di devozione quando ha detto ai Suoi discepoli: “Nessun discepolo è più grande del suo maestro; un discepolo deve rallegrarsi di essere come il suo maestro”.

Dunque, la vera devozione a un Santo deve trascendere la devozione materiale, poiché quest’ultima non arriva a incorporare la verità in Cristo che i Santi sono mezzi e non fini per l’imitazione di Cristo Gesù, l’Unico Maestro di tutti. Imitare veramente un Santo significa pertanto fare propri il suo stesso desiderio, la sua stessa saggezza e risolutezza nel seguire e imitare Cristo. In tal modo, la devozione a un Santo si transfigura in un’autentica vita di perfezione cristiana.

La vera devozione a San Francesco, perciò, non deve sforzarsi di raggiungere o di ammirare solamente lo spirito del Poverello e del suo stile di vita. La vera devozione a San Francesco deve amare quel che Egli amava con l’amore e il proposito con cui egli lo ha amato.

Ora, le fonti storiche sulla vita di San Francesco delineano chiaramente qual era l’amore preminente nel cuore di San Francesco. Egli stesso dichiarò, la mattina del 24 febbraio 1208, alla Porziuncola, vicino ad Assisi: “Questo è ciò che voglio; questo è ciò che io anelo con tutto il mio cuore”.

Il Santo pronunciò queste parole riferendosi a quel passaggio della Scrittura che il sacerdote gli aveva appena spiegato, e che era stato letto quella mattina nella Messa in onore di San Mattia Apostolo. Si trattava dell’invio degli Apostoli da parte di Nostro Signore e della fondazione della vita apostolica di mendicità: “Non prendete nulla con voi nel cammino…”.

La fiducia illimitata da parte del discepolo nei confronti del maestro che questo stile di vita richiede fu il marchio fondamentale della spiritualità e della consacrazione religiosa del Poverello d’Assisi. Questa è la chiave della sua vita e del suo amore per Cristo Crocifisso.

Ne segue pertanto che la vera devozione a San Francesco necessita quest’adozione fondamentale dello stile di vita della mendicità in tutto il suo rigore e in tutta la sua semplicità, non perché San Francesco l’abbia adottato, ma perché Cristo l’ha insegnato. Non per diventare un discepolo di San Francesco, ma piuttosto per camminare col Santo in questa vita per diventare un perfetto discepolo di Gesù Cristo Nostro Signore.

Tale devozione non richiede quindi altro che un ritorno all’osservanza risoluta dei precetti della Regola di San Francesco. Questo è lo stile di vita che il Santo ha voluto espressamente tramandare ai suoi figli come eredità e retaggio perpetui. Questa Regola incarna semplicemente e rigorosamente i principi della vita di mendicità che Cristo ha insegnato agli Apostoli. Questo è l’insegnamento di Papa Niccolò III e di Clemente V.

Essere un autentico figlio di San Francesco significa perciò essere un osservante della Regola. Una persona che trova l’essenza e la forma della sua vita, della sua vocazione e del suo carisma, non nelle costituzioni o negli statuti o nei costumi della comunità francescana a cui appartenga; ma piuttosto, una persona che trova l’essenza e la forma della sua vita consacrata e della sua vocazione, e finanche la sua vera identità e il suo vero destino, nella Regola di San Francesco, considerandola l’autentica disciplina che può guidare, giorno dopo giorno, la sua vita personale e il suo apostolato.

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Cos’è « l’osservanza antica » della Regola di San Francesco?

san+francesco+accoglie+frati+miniaturaL’osservanza antica della Regola Bollata di San Francesco d’Assisi è la forma di vita ispirata di Gesù Cristo, scritta dalle mani di San Francesco, approvata da Papa Onorio III il 26 Novembre 1223 e confermata da più che 20 papi.  Essa è la forma di vita originaria della vita Francescana che non si osserva in nessun altra comunità religiosa in tutto il mondo.

Questa vita è distinta dal non uso dei soldi, il non avere di proprietà sia personale sia in comune, il portare indosso del saio francescano sempre e ovunque ecc., della predica dei quattro nuovissimi: in somma, dalla osservanza di tutti i precetti della Regola Bollata di San Francesco senza mitigazioni.

Deo Volente, un giorno [non molto lontano, dopo la fine dei tempi malvagi] l’abbreviazione per indicare questi frati sarà [o potrebbe essere] « O.F.M. A.O. », cioè, l’Ordine di Frati Minori dell’Osservanza Antica. Così sia! Fiat, fiat. Amen!

Per il testo Latino originale e una traduzione letterale italiana, eccolo.

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Torniamo a seguire le orme del nostro Serafico Patriarca

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Sono passati ottocento anni da quando Dio Altissimo si è degnato di rivolgere il Suo sguardo al Suo servo Francesco per chiamarlo a una vita di semplicità evangelica. In un primo momento, tramite la visione miracolosa a San Damiano, durante i primi giorni dell’inverno del 1206; poi, durante la festa di San Mattia, il 24 febbraio 1209, quando San Francesco, che aveva l’abitudine di assistere ogni giorno al Santissimo Sacrificio della Messa nella chiesa della Vergine Regina degli Angeli alla Porziuncola, nella vallata sottostante al paese di Assisi, in Italia, udì con le sue orecchie il Vangelo dell’invio dei discepoli e rimase dopo la celebrazione per chiedere al sacerdote di spiegargliene il significato. Dopo aver compreso il significato di questo brano della Scrittura, il Serafico Padre esclamò con gioia: Questo è ciò che voglio, questo è ciò che anelo con tutto il mio cuore!

Che gran giorno fu quello, che giorno pieno di speranza fu per tutti i figli e le figlie del Poverello! Possiamo scorrere le innumerevoli pagine degli anni e tornare indietro a quel giorno meraviglioso e sorprendente in cui un uomo così umile, Francesco di Bernardone, che desiderava con tutta la sua anima e il suo corpo seguire il Signore Gesù, intraprese la vita evangelica in un modo straordinario e apostolico, mettendo in pratica le parole del Vangelo in modo letterale. Perché a partire da quel giorno San Francesco fece ciò che Nostro Signore comandò: non prese nulla con sé, né oro né argento, né una seconda tunica, né un bastone né una bisaccia, e cominciò una vita di completa, intera e perfetta dedizione al servizio di Gesù Cristo nella Sua Chiesa, predicando il pentimento ai peccatori e offrendo opere di carità ai lebbrosi e ai poveri.

Che giorni pieni di speranza sono quelli per tutti noi Francescani! Possiamo vedere che ciò che ha reso San Francesco così grande è qualcosa a cui non solo possiamo aspirare, ma che possiamo tutti ottenere, perché a San Francesco fu concesso dalla grazia di Dio, che Egli, nella Sua impenetrabile misericordia e generosità, si è degnato di concedere anche a noi, tramite la nostra vocazione, e verso cui e in cui possiamo camminare e progredire, se solo vogliamo seguire le orme del nostro Serafico Padre, San Francesco.

Umiliamoci, dunque, e camminiamo ancóra una volta con nostro Padre. Mostriamoci suoi figli ascoltando le sue parole e osservando la sua Regola. Imitiamo soprattutto la sua semplicità nella sua fede nel Vangelo, che era pari a quella di un bambino, come lo era il suo distacco da tutti gli interessi e le ambizioni mondani.

Sì, la grazia grande e consolatrice che è stata concessa a San Francesco in quei giorni gloriosissimi e meravigliosi è a nostra disposizione e a disposizione dell’intero Ordine: è sufficiente che allunghiamo le mani per riceverla, e che apriamo i nostri cuori per accettarla.

E non siamo soli, perché nel Cielo che ci sovrasta è schierata, insieme al nostro gloriosissimo Patriarca, San Francesco, l’intera compagnia dei Martiri e delle Vergini, dei Dottori e dei Vescovi, dei Sacerdoti e dei Fratelli Francescani, e delle Povere Clarisse, delle Sorelle e dei membri del Terz’Ordine che regnano oggi con Cristo nella Gloria eterna. I membri di questa schiera ci guardano dal Cielo con i loro cuori pieni di misericordia e affetto, con le loro mani piene di grazie per ciascuno di noi, se soltanto vogliamo riceverle.

Ma se dobbiamo celebrare degnamente questi anni di grazie, possiamo farlo solamente aprendo i nostri cuori con la disposizione ad accettare le stesse grazie che stiamo commemorando. E possiamo aprire i nostri cuori solo se torniamo all’umiltà di San Francesco; poiché, se è vero che Dio dà la Sua grazia all’umile e respinge l’orgoglioso, con quanta maggior ragione San Francesco e tutta la compagnia dei Santi Francescani ci offrirà delle grazie quando ci umilieremo e metteremo da parte il nostro orgoglio.

Ciò che rende necessario l’aprirci a questa speranza è oggi, sventuratamente, la coscienza del fatto che lo stato dell’Ordine, in tutte le sue comunità, è affardellato da molti problemi, da molti peccati, da molti vizi, da molti scandali, da molte imperfezioni, dalla sfiducia, dal dissenso, dall’infedeltà, dalla carnalità, da molte concupiscenze, da molti desideri carnali, da molta mondanità.

Sì, è un giorno triste quello che vede l’Ordine incapace di celebrare degnamente l’ottocentesimo anniversario della conversione di San Francesco: incapace, perché le tormente della storia e l’infedeltà dei suoi leader l’hanno sospinto ben lontano dalla semplicità evangelica, dalla Regula Bullata e dalla purezza e semplicità di San Francesco.

Ma per questa stessa ragione è anche un giorno e un anno pieno di speranza. Perché in nessuna epoca come la presente l’Ordine ha avuto tanto bisogno di ricevere di nuovo la grazia della conversione personale del suo Serafico fondatore.

Quest’anno, facciamoci un dovere di lasciarci rinnovare nella grazia della nostra vocazione francescana. Ascoltiamo il consiglio di un grande Santo Francescano, San Bonaventura, che ci mostra il cammino. Egli scrive: ubi est reformatio, ibi est conformatio et informatio [I. Sent., d. 17, p. I, a. unic, q. 1, sed contra 2.]

Vale a dire, laddove cè bisogno di una riforma delle anime, è necessario tornare all’Ideale da cui, originariamente, si è ricevuta la vocazione, ed accettarlo.

E se ci sono dubbi su quale sia l’Ideale da cui abbiamo ricevuto la nostra vocazione, e unicamente nel quale essa può vivere, muoversi ed esistere, non dobbiamo far altro che rivolgere lo sguardo a quell’evento trasformatore nella vita del nostro Serafico Padre, un evento che lo ha marcato per sempre con il Sigillo della Passione stessa del Cristo: le sante stimmate.

Il nostro Ideale è Cristo Crocifisso. Ciò non vuol dire che ci possiamo considerare in alcun senso comparabili a Lui, Che trascende il tempo e lo spazio essendone lo stesso Creatore, Che stringe nelle Sue mani tutto l’universo e tutte le ere, Che è adorato dalle miriadi degli Angeli e dalla formidabile compagnia dei Santi. No, ma piuttosto, come figli di San Francesco, siamo chiamati a seguire spiritualmente le orme della Sua Sanguinosa Passione, che Egli ha sofferto come Uomo, ascoltando i Suoi consigli:

 Se non rinneghi te stesso, non puoi essere Mio discepolo!

— Cerca in primo luogo il Regno di Dio e la Sua Giustizia!

— Se non farete penitenza perirete tutti allo stesso modo!

Quando il Poverello, sulla montagna della Verna, è stato marcato con le sante stimmate, era come una massa di cera sciolta che ha ricevuto il Sigillo dell’Anello del Regno Eterno, e quindi egli reca per sempre il marchio di Cristo e dirige ora il Coro dei Santi nell’eterna lode del Cristo Crocifisso. L’intero proposito della sua vocazione, dunque, era quello di far rivivere nei cuori degli uomini sulla terra la memoria vivida e la viva devozione del Cristo Crocifisso, di tutto quanto Egli ha fatto, detto e sofferto per noi; e di corrispondere veramente a tutto ciò tramite il pentimento, la penitenza, la riforma della vita e della morale e la costruzione del Suo Regno, la Chiesa.

Ne segue che, dato che la vocazione di San Francesco è la nostra, anche noi dobbiamo aprire i nostri cuori per accettare il sigillo del Regno, tramite il nostro vivo pentimento, tramite le nostre rigide penitenze, tramite un’autentica riforma della nostra vita e della nostra morale, e tramite una generosa offerta di noi stessi per l’opera di costruzione del Regno di Dio, la Chiesa Cattolica.

E se ciò deve essere fatto, dobbiamo in tutta umiltà riconoscere gli ostacoli che si ergono di fronte a noi oggi: che le Costituzioni della nostra comunità aggiustano attualmente la semplicità evangelica alle convenienze moderne e ad ogni forma di egoismo personale; che i nostri programmi di formazione permettono e incentivano il dissenso, l’eresia, l’immoralità e ogni sorta di vizio, invece di richiedere e imporre in modo estremamente rigido una riforma della morale e degli ideali in ciascuno di noi, un rigoroso programma di penitenza per ciascuno di noi e per la comunità, ed opere di carità che siano consone ed armoniose con essi, coscienti del fatto che il progresso autentico non è dato da questo mondo, ma da quella stessa conversione e penitenza a cui il Vangelo e San Francesco ci chiamano.

Se il nostro Serafico Padre ci parlasse oggi, individualmente e come comunità, non c’è dubbio che griderebbe con tutte le sue forze:  << Penitenza! Penitenza! Penitenza! Sii un esempio di penitenza nella tua comunità, nella Chiesa e nel mondo! Io venni chiamato a questo, per essere un araldo di penitenza per il mondo, e ciò è quel che desidero, con ardente anelo, da tutti voi, miei figli e mie figlie! 

Penitenza! Penitenza! Penitenza! Tornate alla fede; tornate alla giusta morale! Tornate alle tradizioni spirituali e corporali del mio Ordine! Seguite le mie orme e quelle dei vostri Santi fratelli e delle vostre Sante sorelle che vi hanno preceduto! Mettete da parte il mondo e le persone mondane, siate sobri, cambiate i vostri cuori e tornate a me e al mio esempio! 

Non vi lasciate ingannare! Avete vagabondato a lungo in una terra deserta, pieni di fame per cose che non potranno mai soddisfarvi! Pentitevi e date una svolta radicale alle vostre vite, tornate alla terra in cui scorrono fiumi di latte e miele! Alla terra della fede, della penitenza, della mortificazione, e del Vangelo vivente! Non lasciatevi sedurre, perché l’amore del denaro è la radice di tutti i mali, e voi vi siete saziati abbondantemente di essa! Allontanatela di tra di voi insieme a tutti i suoi desideri! 

Siate di nuovo miei figli e mie figlie! Non scendete a compromessi con il mondo, con la carne e con il diavolo!  >>

FRATRES: 

DUM TEMPUS HABEMUS OPEREMUR BONUM

martedì 30 novembre 2021

Venerabile Cesare Baronio Cardinale oratoriano

 

Venerabile Cesare Baronio Cardinale oratoriano

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Sora, Frosinone, 30 ottobre 1538 – Roma, 30 giugno 1607

Cesare Barone (poi latinizzato in Baronio) nacque a Sora il 30 ottobre 1538. Studiò prima a Veroli, poi legge a Napoli e a Roma, dove divenne discepolo di san Filippo Neri. Bruciando i suoi libri e il suo diploma, contro il parere di suo padre, entrò nella Congregazione dell’Oratorio. Sollecitato da san Filippo, scrisse gli «Annales Ecclesiastici» come risposta alle «Centurie di Magdeburgo», opera dei teologi luterani, diventando così personaggio importante della Controriforma. Altra sua opera importante fu la collaborazione alla stesura del Martirologio Romano, commissionatagli da Gregorio XIII, necessaria per dissipare la confusione in seguito alla pubblicazione del calendario gregoriano. Divenne cardinale e bibliotecario di Santa Romana Chiesa su volere di Clemente VIII, di cui fu confessore. Aveva molti sostenitori tra i cardinali, che provarono due volte a eleggerlo Papa, ma per umiltà non se ne ritenne mai degno. Infine, fece ritorno all’Oratorio di Santa Maria in Vallicella, dove morì, il 30 giugno 1607. Il titolo di Venerabile, che gli fu conferito da Benedetto XIV il 12 gennaio 1745, non comportava il riconoscimento dell’eroicità delle sue virtù. La sua causa di beatificazione, di fatto, fu avviata solo negli anni 1967-’68 ed è ripresa il 25 gennaio 2008. I resti mortali del cardinal Baronio riposano dal 2007 nella cappella di San Carlo della chiesa di Santa Maria in Vallicella (la “Chiesa Nuova”) a Roma.



Famiglia e prima giovinezza


Cesare Baronio nacque il 30 ottobre 1538 a Sora, in provincia di Frosinone e diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo. I suoi genitori erano Camillo Barone, il cui cognome fu da Cesare latinizzato in “Baronius”, e Porzia Febonia.
Compì i primi studi a Veroli e alla Facoltà di Giurisprudenza di Napoli. Trasferitosi a Roma, andò ad abitare insieme a un compagno di studi, in Piazza del Duca, oggi Piazza Farnese, a due passi da San Girolamo della Carità.

L’incontro con san Filippo Neri


Mentre frequentava, alla Sapienza, la scuola del giurista Cesare Costa, Cesare conobbe un sacerdote fiorentino d’origine, ma che da tempo viveva a Roma: era padre Filippo Neri (canonizzato il 12 marzo 1622).
Lui aveva istituito, verso il 1552, l’Oratorio secolare, che riuniva popolani e nobili, artigiani e professionisti, preti e laici, giovani e anziani. I membri erano attratti dalla sua spiritualità, così umana ed evangelica allo stesso tempo, che faceva sentire tutti a loro agio. Dialogavano tra loro, giocavano e cantavano, venivano impegnati in opere di carità tra gli ammalati, gli orfani e i poveri di ogni genere.

Discepolo e maestro


Cesare divenne assiduo frequentatore dell’Oratorio e discepolo attento di colui che, tuttavia, non volle mai considerarsene il fondatore. Il 5 gennaio 1558, vigilia dell’Epifania, padre Filippo, davanti a numerosi oratoriani, disse al giovane di dire qualcosa sulla prossima festività. Lui non aveva mai parlato in pubblico, ma gli riuscì bene.
Padre Filippo cominciò, da quel momento, a curare con intensità la vita spirituale del discepolo. Si occupava soprattutto della sua umiltà: per questo, lo sottoponeva a scherzi e prove di vario tipo, accettati e compiuti da Cesare con grande libertà di spirito.
Con l’intento di contrastare adeguatamente le tesi luterane, padre Filippo spinse il suo discepolo a specializzarsi nello studio critico e sistematico delle fonti della storia ecclesiastica. Obbediente e devoto al suo padre spirituale, il giovane studente si mise all’opera con zelo e fervore.

Cesare diventa sacerdote


Ormai maturo e convinto della sua vocazione allo stato ecclesiastico, nel dicembre 1560 lo comunicò ai genitori. Tuttavia, aderendo ai desideri del padre, continuò gli studi giuridici, laureandosi il 20 maggio 1561. Il 27 maggio 1564 venne ordinato sacerdote. Pochissimo tempo dopo, gli fu offerto un posto da canonico nella sua città d’origine, Sora, ma lo rifiutò.
Subito si dedicò al ministero delle confessioni e della predicazione tramite corsi e incontri, nella chiesa di san Giovanni dei Fiorentini. Nelle sue vicinanze, padre Filippo aveva riunito a fare vita comune, ma senza voti religiosi, alcuni sacerdoti: lui era uno di essi.



«Caesar Baronius, coquus perpetuus»
Padre Filippo aveva intuito la grandezza intellettuale del suo discepolo, ma temeva che diventasse troppo superbo: per questa ragione, volle che fosse addetto alla cucina della comunità.
Padre Cesare accettò, ma solo una volta, dato che l’incarico gli sembrava interminabile, presentò le sue rimostranze: prese un pezzo di carbone e scrisse, vicino al camino, le parole «Caesar Baronius, coquus perpetuus» («Cesare Baronio, cuoco perpetuo»).

I primi sermoni sulla Storia della Chiesa
A ventisei anni, padre Cesare cominciò a trattare, nei sermoni quotidiani dell’Oratorio, questioni di Storia della Chiesa, dalle origini fino ai suoi tempi. La sua esposizione ebbe tale successo che padre Filippo gli ordinò di riproporla dall’inizio: lo fece ogni quattro anni.
La fama del suo valore di storico varcò la cerchia dell’ambiente oratoriano, tanto che papa Gregorio XIII gli propose il vescovato di Sora. Lui preferì, invece, continuare con maggiore impegno i suoi studi.

Il suo stile di vita


Nel 1572, a 34 anni, si ammalò gravemente, ma padre Filippo impetrò dal Signore la grazia della sua guarigione. Quando si fu ristabilito, nell’autunno del 1575 si trasferì nella nuova e definitiva sede della Congregazione, presso la chiesa di Santa Maria in Vallicella.
Conduceva una vita molto austera, rinunciando spesso al sonno e al cibo. Questo destava la preoccupazione di padre Filippo: spesso gli ordinava di mangiare in sua presenza, per essere certo che si nutrisse.

Gli «Annales Ecclesiastici»


Dal 1558, su suggerimento di padre Filippo e di altri amici, cominciò la compilazione di una Storia della Chiesa, pubblicata con il titolo di «Annales Ecclesiastici». I volumi vennero pubblicati in media ogni due anni e andarono a coprire un arco di tempo dalle origini al 1198.
Gli «Annales» possono considerarsi fra le prime vere opere di Storia Ecclesiastica, perché il Baronio utilizzò materiale documentario, basandosi su fonti e testi originali mai adoperati in precedenza: per i mezzi dell’epoca, era un lavoro notevole.
Né sminuisce il valore dell’opera, l’intento di ribattere le accuse mosse alla Chiesa cattolica dagli autori protestanti delle «Centurie di Magdeburgo»: la ricostruzione dei fatti è sempre basata sul rispetto scrupoloso dei testi.
Gli «Annales», apprezzati anche per le precise ricostruzioni cronologiche e per l’utile introduzione di parallelismi tra avvenimenti sacri e profani, ebbero un enorme successo e più di venti edizioni. Furono in seguito continuati da altri autori, tra cui O. Rinaldi, G. Laderchi e A. Theiner.

La prima edizione del Martirologio Romano
In occasione di scoperte fatte nelle catacombe, nel 1578 padre Cesare si occupò anche di archeologia, perché quei luoghi documentavano, più di ogni altro monumento, l’eroismo della Chiesa primitiva.
Nel 1580 il cardinal Sirleto lo chiamò a far parte della commissione per la compilazione del Martirologio Romano, del quale fu l’artefice principale, tanto che l’opera è ancora legata al suo nome. Fece pubblicare l’edizione ufficiale nel 1584, che ha costituito per quattro secoli e mezzo l’unica fonte e guida della liturgia e dell’agiografia cattolica: l’ultima edizione del 2001 tiene comunque quella primitiva come base.


Tra carità e cultura
Sempre nel 1584 iniziò il commento agli Atti degli Apostoli. Il Papa volle ricompensarlo del suo lavoro con una pensione, ma egli ne rifiutò buona parte e distribuì la rimanente in elemosine.
Il lavoro culturale non lo distolse mai dall’apostolato attivo: fu accanito il suo impegno per il famoso bandito Bartolomeo Catena, che scorrazzava per l’Agro Romano. Padre Cesare cercò di farlo desistere dai suoi crimini: lo assisté fino alla condanna a morte, persuadendolo al pentimento.
Altro aspetto della sua multiforme personalità, fu quello di aver dato origine alla celebre Biblioteca Vallicelliana, dove raccolse una ricca serie di incunaboli, di manoscritti e di libri a stampa, molti dei quali furono le fonti storiche per le sue ricerche. Tutto ciò andò ad ampliare il fondo iniziale, donato dall’umanista portoghese Achille Estaço, in latino detto Stazio. Padre Cesare ne divenne il primo bibliotecario: a lui meritatamente fu intitolato l’imponente salone del Borromini, costruito per tale raccolta nella prima metà del Seicento.



La morte di san Filippo
Nel 1593 padre Filippo lo volle come suo confessore. In seguito, avvertendo una grande stanchezza e per l’avanzata vecchiaia – aveva 78 anni – rinunciò al posto di Preposito della Congregazione.
Con il consenso unanime dei confratelli, scelse padre Cesare come suo successore. Padre Filippo morì il 26 maggio 1595, assistito amorevolmente da padre Cesare, che assunse in pieno la guida della Congregazione. Fu poi rieletto Preposito per un secondo mandato.



L’impegno politico di padre Cesare
Il suo compito di confessore di papa Clemente VIII gli diede l’opportunità di fare da mediatore fra il Pontefice ed Enrico IV (Enrico di Navarra), per i contrasti che seguirono l’elezione del sovrano, proveniente dal protestantesimo. Alla fine riuscì a condurre la riconciliazione tra le due parti.
Il suo impegno politico si tradusse anche nella pubblicazione del «Tractatus de Monarchia Siciliae», in cui si pose in aperto contrasto con il Regno di Spagna.



Protonotario Apostolico e cardinale
Dopo aver rifiutato per tre volte di diventare vescovo, non poté rifiutare la nomina a Protonotario Apostolico. Allo stesso modo, nel 1596, dovette accettare la porpora cardinalizia. Lui stesso scelse il titolo, ossia la chiesa abbinata per tradizione a ogni nuovo cardinale: si occupò quindi della chiesa dei SS. Nereo e Achilleo, facendola restaurare e curando la traslazione dei corpi dei due martiri dalle catacombe di Domitilla.
Nel 1597, il Papa lo nominò Bibliotecario di Santa Romana Chiesa, ossia direttore della Biblioteca Vaticana. Avendo dovuto lasciare per questo la comunità di Santa Maria in Vallicella, visse modestamente in Vaticano. Teneva però sempre in tasca la chiave della sua stanza dell’antico e amato “nido”, dove, ogni quindici giorni, continuò la sua predicazione.
Nell’Anno Santo 1600, si mise a disposizione dei tanti pellegrini che arrivavano a Roma, aprendo la sua casa per accoglierli: in questo diede l’esempio ai più alti dignitari ecclesiastici.



Il suo ruolo nella Chiesa romana del tempo
Nel Conclave convocato dopo la morte di papa Clemente VIII nel 1605 e in quello seguente la morte del successore Leone XI, avvenuta nello stesso anno dopo un brevissimo pontificato, il cardinal Baronio fu per due volte vicino ad essere eletto Papa. Oltre all’opposizione dei cardinali spagnoli, fu proprio lui a imporre la sua non disponibilità.
Il cardinal Baronio rimase nella Chiesa romana una figura di primaria importanza. Appoggiò la politica volta alla riconciliazione del pontefice Paolo V e strinse grande amicizia col gesuita Roberto Bellarmino, cardinale come lui (canonizzato il 29 giugno 1930).
Protesse l’inizio dell’Opera delle Scuole Pie di padre Giuseppe Calasanzio (canonizzato il 16 luglio 1767) e i Chierici della Madre di Dio di padre Giovanni Leonardi (canonizzato il 17 aprile 1938). Infine, promosse l’istituzione del Conservatorio delle Zitelle di Sant’Eufemia, per sostenere e sistemare le ragazze nubili diseredate.



La morte del cardinal Baronio
Nel 1606 la sua salute declinò velocemente. Dispiaciuto di dover morire come cardinale, volle almeno ritirarsi nella diletta Casa della Vallicella. Vane furono le cure per alleviare i grandi dolori allo stomaco (forse un tumore): il 30 giugno 1607 morì a 69 anni, assistito dai confratelli. Trenta cardinali parteciparono al suo funerale nella chiesa di Santa Maria in Vallicella, detta “Chiesa Nuova”: fu sepolto nella cripta sotto l’altare maggiore. Nel 2007, in occasione del quarto centenario della sua morte, i suoi resti mortali sono stati riesumati e collocati in una nuova urna, presso la cappella di San Carlo della “Chiesa Nuova”.

La causa di beatificazione


Per la sua santa vita, la fama delle virtù, la profonda umiltà, lo zelo instancabile nell’apostolato e le tante opere di carità, i padri dell’Oratorio di Roma promossero nel 1624 l’apertura della sua causa di beatificazione presso il vescovo di Sora. I tentativi, però, si trascinarono con lentezza e l’idea fu abbandonata.


Ai primi del 1745 padre Giuseppe Bianchini, dell’Oratorio di Roma, promosse la richiesta del titolo di Venerabile per il cardinal Baronio presso il papa Benedetto XIV, che lo concesse il 12 gennaio 1745. Tuttavia, questo non indicava che la Chiesa avesse ufficialmente riconosciuto l’eroicità delle sue virtù.


Il processo diocesano vero e proprio cominciò solo il 16 dicembre 1966 presso il Vicariato di Roma e si concluse il l’8 luglio 1968. Quarant’anni dopo, il 25 gennaio 2008, la sua causa fu riaperta.


Autore: Antonio Borrelli ed Emilia Flochini

AMDG et DVM

Il Santo della Gioia

 Storia di San Filippo Neri

SAN FILIPPO NERI

Il Santo della Gioia
PRIMI ANNI

Secondogenito di Francesco Neri e di Lucrezia da Mosciano, Filippo nasceva a Firenze il 21 luglio 1515.
I Neri provenivano dalla valle sopra all’Arno e grazie al loro lavoro di notai si erano acquistati una certa posizione nella Firenze del ‘400. Anche Francesco Neri esercitò la professione notarile, ma solo a partire dall’età di 48 anni, e più per forza che per amore, attratto maggiormente dall’alchimia che dalle scartoffie legali. Nel 1520 Filippo perdette la madre e suo padre sposò Alessandra di Michele Lensi, che fu tutt’altro che un’acida matrigna: amò infatti suo figlio adottivo di tenero amore.

Il piccolo Filippo si lasciava facilmente amare per il suo buon carattere, e i ricordi della sorella e degli amici ci narrano della sua passione per il ben vestire, della sua vanità, ma anche del suo carattere pacifico e allegro, che gli attirò addosso il soprannome di “Pippo Buono”.
La sua istruzione si svolse nella scuola pubblica, ma la sua vera formazione spirituale Filippo la ebbe tra le stanze e i chiostri del convento domenicano di San Marco. Firenze rimarrà sempre nel cuore del Santo, sebbene diventato romano di adozione dopo sessant’anni di vita nella “Città Eterna”. Lui stesso dirà spesso che ciò che aveva imparato di buono l’aveva appreso dai frati di San Marco. Del fiorentino rimase sempre in Filippo la natura, su cui lo Spirito di Dio poggiò le sue ali.
 
A MONTECASSINO

All’età di 18 anni il padre Francesco mandò il figlio da un suo fratello, Bartolomeo Romolo, nei pressi di Montecassino. Lo zio lo accolse con gioia e lo addestrò all’arte del commercio inserendolo nella sua attività. Ma non era questo il mondo che attraeva Filippo. Egli amava piuttosto ritirarsi a pregare in un monte a picco sul mare chiamato “Montagna Spaccata”, dove contemplava la bellezza del creato e l’amore del suo Creatore. Proprio qui Filippo maturò la vocazione a seguire il Signore dovunque lo chiamasse. E così, dopo due anni di permanenza a San Germano dallo zio, preferì lasciare le ricchezze per seguire liberamente Cristo.
 
A ROMA

Si incamminò, squattrinato, verso Roma, dove trovò alloggio e lavoro presso il fiorentino Galeotto Caccia. Doveva prendersi cura dei suoi figli, Michele e Ippolito, facendo loro da precettore. Con lo stipendio che riceveva Filippo non corse di certo il rischio di arricchirsi: consisteva infatti in un semplice sacco di grano che diventava, grazie ad un accordo col fornaio, un piccolo pane quotidiano che il santo condiva con un po’ di olive e tanto digiuno. Non aveva molti beni il nostro Filippo, ma possedeva la sua amata libertà. Nel tempo a disposizione poteva infatti frequentare gli studi di filosofia nella vicina Università della Sapienza e di teologia al Sant’Agostino. Ma più che gli studi in quegli anni lo attrasse la vita solitaria e contemplativa. Si recava spesso nelle chiese poco frequentate, dove poteva in silenzio rivolgere il proprio cuore al suo Signore. La sua meta preferita erano i cunicoli di san Sebastiano. Queste catacombe erano allora poco conosciute, e qui, in una notte del 1544 avverrà un fatto che segnerà la vita del Santo. Mentre era immerso in preghiera, invocando lo Spirito Santo, un globo di fuoco penetrò nel petto di San Filippo. Il cuore si dilatò in modo tale da rompere, come constateranno i medici alla sua morte, due costole del lato sinistro, senza che egli ne sentisse mai dolore per cinquant’anni. Questo fuoco divino continuò ad infiammare ogni giorno il suo cuore, e con questo cuore ardente san Filippo scalderà, riportandole alla vita, le anime fredde e intiepidite dell’intera Roma rinascimentale.

Filippo lascerà la casa di Galeotto Caccia e inizierà una vita eremitica fra le strade di Roma: dormirà sotto i portici delle chiese o in ripari di fortuna, chiederà il cibo in elemosina (il solito “pane e olive”), si spingerà alla carità e all’evangelizzazione e comincerà a visitare gli ospedali assistendo gli ammalati nel corpo e nello spirito. Inizia qui una particolare devozione con visita alle Sette Chiese: il suo pellegrinaggio partiva da San Pietro, proseguiva per San Paolo fuori le Mura, San Sebastiano, San Giovanni in Laterano, Santa Croce in Gerusalemme, San Lorenzo fuori le Mura e si concludeva a Santa Maria Maggiore. Filippo colloquiava con la gente, in dialetto romano, delle cose celesti, incontrava spesso giovani che lo deridevano e lo beffeggiavano, ma lui sapeva cogliere l’occasione per unirsi a loro e conquistarli con la sua simpatia. Iniziava con una barzelletta e con qualche gioco, per poi improvvisarsi predicatore dicendo “Fratelli, state allegri, ridete pure, scherzate finché volete, ma non fate peccato!”. Tantissimi giovani, su suo invito, abbracciarono la vita religiosa, mentre lui continuava a servire il Signore nel secolo.
 
L’ORATORIO

Lo Spirito di Dio preparerà un ambiente favorevole al sorgere dell’esperienza oratoriana fra le mura della Chiesa di San Girolamo dove vivevano due preti che influenzeranno notevolmente il nostro santo: Persiano Rosa, che diverrà suo confessore e grazie al quale Filippo sarà ordinato presbitero il 23 maggio 1551, e Buonsignore Cacciaguerra, che con la sua idea spiritualmente rivoluzionaria di invitare i suoi fedeli a comunicarsi quotidianamente, conquisterà in pieno lo spirito di Filippo. Ma oltre alla frequenza ai sacramenti Filippo voleva aggiungere una catechesi formativa che servisse alla crescita spirituale di ognuno. Così dopo la lettura comune della parola di Dio o di qualche libro spirituale Filippo animava la conversazione assieme a tutti coloro che si radunavano attorno a lui. Con una preghiera semplice e fervorosa Filippo trascinava tutti con il suo entusiasmo. Trasmetteva a tutti il suo essere contento di essere impazzito per il Signore. Il suo metodo di evangelizzazione era quello di favorire un incontro personale e gioioso con Gesù Cristo, unica persona che può dare senso e bellezza alla propria vita. Filippo accoglieva tutti nella sua camera, per discorrere sulle cose di Dio. Ma la sua camera non conteneva più di otto persone … ed era quindi necessario trovare un luogo più grande per potersi incontrare. Questo luogo sarà il granaio della Confraternita della Carità, nella soffitta della chiesa di San Girolamo. Ma per Filippo la catechesi, la preghiera, la confessione e l’Eucaristia devono spingere all’azione e all’amore concreto verso tutti, specialmente i più bisognosi. Diede quindi inizio alla Confraternita dei Pellegrini che, nell’anno giubilare del 1550, svolse una grande opera di accoglienza ai viandanti provenienti da tutta Europa: Filippo e i suoi accoglievano i pellegrini stanchi e spesso derubati e li aiutavano a recuperare la salute e anche qualche denaro per poter fare ritorno alla loro patria.

Questo della nascita dell’Oratorio e della Confraternita non fu un periodo facile per Filippo, egli dovette combattere contro molte avversità. Filippo scelse la via della pazienza e della fiducia … e alla fine la bontà di Filippo ebbe la meglio!
Uno dei primi discepoli del Santo fu Cesare Baronio. Giunto a Roma da Napoli per proseguire gli studi giuridici, dopo aver conosciuto san Filippo inizierà un intenso cammino di vita spirituale. Filippo lo incaricò di preparare ogni giorno per l’Oratorio una catechesi per illustrare ai suoi compagni la storia della Chiesa. Gli ordinò poi di scrivere, con un amore incondizionato alla verità, dei volumi che raccogliessero i suoi studi storici. Nasceranno così i famosi Annali, celebri per essere i primi libri di Storia della Chiesa scritti in maniera documentata e scientifica.
 
LA CONGREGAZIONE DELL’ORATORIO

I cittadini e mercanti fiorentini di Roma volevano Filippo come rettore della loro chiesa di san Giovanni in via Giulia. Non gli è stato possibile rifiutare. Filippo accettò a condizione di rimanere ad abitare a san Girolamo e mandò alcuni sui discepoli come cappellani alla chiesa dei Fiorentini. Si stesero alcune costituzioni per la vita in comune, ma si intravvedeva la mano di Filippo per lo spirito pratico che esse rivelavano. Semplici preti, senza voti, legati solo a un minimo di obblighi, come quello dell’incontro serale nella preghiera e al refettorio, ove si svolgeva la discussione di casi di morale e di altre discipline sacre, per la reciproca formazione ed emulazione. Si istituivano così i preti secolari dell’Oratorio. Lo spirito della comunità, che veramente poteva chiamarsi “famiglia”, era nella modestia e nella semplicità, nella letizia e nella fraternità, nella libera scelta dei consigli evangelici e nella carità vicendevole. Filippo si era imposto la regola spirituale di non avere regole oltre a quella di seguire lo Spirito. Anche la nuova comunità, di conseguenza, non aveva altra legge se non quella dell’obbedienza confidente al proprio Padre Spirituale, unita all’immancabile norma evangelica dell’amore fraterno, imitando il fervore e la concordia delle prime comunità cristiane.

Ma ben presto nell’animo di Filippo non tardò a radicarsi la convinzione che era necessario avere un ambiente tutto proprio, libero ed indipendente. Grazie al Papa Gregorio XIII, gli venne assegnata in perpetuo la chiesa di Santa Maria in Vallicella ed eresse in essa la nuova Congregazione dei Preti e Chierici secolari, denominata dell’Oratorio. L’entusiasmo era tale che non si aspettò nemmeno che fosse finita la chiesa per usarla; né si attese la fine dei lavori per andarvi ad abitare. Nel gennaio 1578 i filippini erano tutti alla Vallicella. Solo Padre Filippo rimase nelle stanzette di san Girolamo, ma ancora per poco. Non traslocò, infatti, perché non volle essere considerato il fondatore della nuova comunità, né assumere l’ufficio di superiore: se ne stava appartato, in silenzio. Ma nel 1583, per comando del Papa, si unì ai suoi. Anche qui scelse due camerette isolate in alto, per pregare più vicino al cielo. Anelava a un’assoluta povertà: misere erano le sue vesti e non pretendeva nessun trattamento speciale, nessun riconoscimento della dignità di superiore, nessuna distinzione né nell’abito, né nell’appartamento, né nel servizio…. Semplicemente “primo tra uguali”.
 
ULTIMI ANNI

Né la vecchiaia, né la stanchezza potevano fiaccare il suo cuore divorato dall’amore, mentre la sua vita interiore aveva come base l’umiltà, la carità, la mortificazione e la preghiera. La “Chiesa Nuova” divenne un faro di spiritualità che illuminava tutta la città di Roma di quel tempo: divenne punto di riferimento per Santi, Papi, nobili, devoti, poveri, musicisti, medici, popolani …

Anche Filippo, come ad altri santi, fu rivelato dal Signore quale sarebbe stato il giorno del suo transito. Il 25 maggio scese in chiesa a confessare prestissimo e celebrò la sua ultima Eucaristia. Ritornato a letto, dopo qualche ora, fissando il cielo disse: “bisogna finalmente morire”. Dopo aver benedetto i suoi discepoli, serenamente diede l’ultimo respiro. Era l’alba del 26 maggio 1595, festa del Corpus Domini.

AMDG et DVM