Un cammino ardimentoso
Un cammino ardimentoso. La mattina in cui, salutata la famiglia e... Montà d'Alba,
Francescuccio infilava la strada per Torino aveva nove anni, ed è
probabile che la simpatia per i libri e un pizzico di entusiasmo per
la novità della cosa impedissero al ragazzo di rendersi conto sia del
distacco che dei sacrifici che l'attendevano.
Un senso di vuoto lo prese quando si trovò in mezzo a tante facce
nuove, che gli nascondevano per così dire i volti cari di papà e
mamma... La lontananza dalla sua casa gli parve incolmabile: chi
avrebbe mai potuto sostituire quelle persone?
Riuscì ad inghiottire non poche lacrime, ma alla prima visita della
mamma esplose in un pianto così irrefrenabile che la buona Teresa si
credette in dovere di riportarlo con sé a Montà. Per certi pesi,
pensò, ci vogliono spalle più mature. E confidò nel buon Dio.
In casa e tra i vicini quel ritorno non convinceva. Il meno convinto
di tutti era proprio lui, il protagonista della fuga; e appena
qualche giorno dopo sbottò in famiglia:
+ Se volete, vado in collegio, sono pronto!
Nessuno fece le meraviglie, quasi tutti fossero stati lì col fiato
sospeso, in attesa.
+ Mamma, tu lo sai: voglio studiare per fare il prete.
– Francesco, te l'avevo detto che stavi scegliendo una strada delle
più difficili; non te lo ricordi?
+ Sì, è vero, verissimo; e per questo voglio ritornare.
Papà Lorenzo non ebbe nulla da ridire; e... si ripartì alla volta di
Torino. Non a caso abbiamo ricordato che in quel turno di tempo il
Chiesa aveva ricevuto il sacramento della Cresima, che comunica i
doni del Paraclito divino al battezzato, affinché sia reso forte
della fortezza del Signore e possa far onore al nome di cristiano
ogni qualvolta il Maligno, o le male voglie, o il mondo dei cattivi,
mettessero a dura prova la fedeltà al dono di Dio.
Una sottolineatura, questa, che dovremo ripetere altre volte,
ammirando il resistere e il perseverare e il ricominciare senza
indugio del chierico Francesco, fatto prete, insegnante, parroco e
canonico... in ogni situazione votato alla santità evangelica.
Il Maestro aveva detto: «Nessuno che ha messo mano all'aratro e poi
si volge indietro, è adatto per il regno di Dio» (Lc 9, 62); e poco
oltre: «Se dunque voi, che siete cattivi, sapete dare cose buone ai
vostri figli, quanto più il Padre vostro celeste darà lo Spirito
Santo a coloro che glielo chiedono!» (Lc 11, 13).
Degli anni passati nel collegio di don Pavia rende testimonianza un
maresciallo maggiore degli Alpini, certo cav. Nizza Giuseppe, che
ricorda con commozione quanto fosse aperto alla preghiera l'amico.
«Conobbi il Servo di Dio fin dall'infanzia: siamo venuti a Torino
insieme nel collegio di don Pavia e siamo rimasti per circa tre anni.
Mi ha lasciato l'impressione di un santo compagno sempre pronto a
dividere con me qualunque cosa ricevesse da casa. Amava soffermarsi
in chiesa: invitato ad uscire per prendere un po' d'aria buona, egli
usciva con noi in cortile e poi rientrava tosto in chiesa. Non l'ho
mai visto in lite con i compagni e quando succedevano screzi tra di
noi egli metteva tosto la pace.
Era sempre ossequiente e rispettoso verso i superiori. Svolgeva
l'ufficio di padre spirituale il can. Richelmy, che fu poi vescovo di
Ivrea e cardinale di Torino. Egli amava il Chiesa di un amore
speciale e so che il Servo di Dio lo seguiva con particolare
venerazione.
Si distingueva tra tutti i compagni nell'applicazione
allo studio...».
Altri sacrifici concorsero a irrobustire lo spirito di Francesco,
come ad esempio il freddo intenso, il nutrimento scarso, la penuria
di testi e di cancelleria...; seppe trar profitto da cattiva sorte,
imparò per tempo ad adattarsi e a trovarsi bene all'ultimo posto.
Tutto gli servì a stare umile umile, basso basso, malgrado i
singolari talenti di cui natura e Grazia lo privilegiavano.
Fu in questo periodo che Francesco poté conoscere l'Opera di don
Bosco e apprendere la devozione a Maria Ausiliatrice; per un'inezia
non poté incontrarsi con il Santo venuto in visita al collegio. Egli
stava giocando con un compagno che lo dissuase dal correre assieme
agli altri a salutare don Bosco: «Che cosa vuoi andare a vedere, un
prete vecchio? Stiamo qui».
Il Chiesa ne rimase spiaciuto per sempre.
Assalito da un'orda di demoni. Non aveva ancora superato il valico della pre-adolescenza quando gli
toccò subire una dura prova, una lotta, stando alle parole del Servo
di Dio riferite da un teste che ebbe familiarità con lui. Questo il
fatto:
«Il primo maggio 1933, il Servo di Dio, allora amministratore
apostolico della diocesi di Alba, si recava in macchina a Moncalieri;
e proprio percorrendo la salita di Montà d'Alba, ai margini della
quale si aprono, qua e là, ombrati da canne, sentieri e straducole
campestri, il can. Chiesa ad un tratto toccò sulla spalla il
confratello che gli era accanto e disse precisamente: ‘Ecco, quello è
il posto. Lì, quando avevo otto anni, io fui assalito da un'orda di
demoni impuri. Ho lottato, ho pregato, ho pianto, ed ho vinto’.
E disse questo come fosse la cosa più naturale del mondo, e si
ricompose in quell'abituale silenzio con cui nascondeva le profondità
spirituali delle sue mattinate».
Fu una battaglia definitiva?
C'è chi lo pensa; c'è chi la ritiene come una specie di conversione,
uno scatto che lo getta di colpo oltre il valico delle tentazioni
proprie dell'età ingrata.
Sicuramente quelle righe fanno bene; abbiamo bisogno di santi che,
come noi, non sono nati tali, ma lo sono diventati lottando,
pregando, gemendo e... riprendendo da capo le mille volte l'arduo
sentiero della ascesi.
L'apostolo Paolo scrive a Timoteo: «Noi ci affatichiamo e combattiamo
perché abbiamo posto la nostra speranza nel Dio vivente, che è il
salvatore di tutti gli uomini, ma soprattutto di quelli che credono»
(1 Tm 4, 10).
Non stiamo qui a discutere se quella fosse stata una tentazione
furiosa e insistente, o un assalto fuori dell'ordinario, o
un'impressione immaginosa.
Un fatto è certo: la sequela di Cristo è
esigente, richiede abnegazione, il coraggio dei forti e, talvolta, il
rischio dei martiri.
E’ ancora l'Apostolo che scrive di sé ai battezzati di Corinto: «Non
sapete che nelle corse allo stadio tutti corrono, ma uno solo
conquista il premio? Correte anche voi in modo da conquistarlo! Però
ogni atleta è temperante in tutto; essi lo fanno per ottenere una
corona corruttibile, noi invece una incorruttibile. Io dunque corro,
ma non come chi è senza mèta; faccio il pugilato, ma non come chi
batte l'aria, anzi tratto duramente il mio corpo e lo trascino in
schiavitù perché non succeda che dopo aver predicato agli altri,
venga io stesso squalificato» (1 Cor 9, 24-27).
Fu definitiva quella battaglia?
Può darsi che un certo tipo di combattimento possa segnare una rotta
decisiva e determinante; ma non sempre è così. Il più delle volte le
nostre sono scaramucce, vittorie provvisorie; il nemico il nostro
punto dolente o difetto predominante darà filo da torcere anche
domani e dopodomani. «E’ necessario attraversare molte tribolazioni
per entrare nel regno di Dio» (At 14, 22).
Ma se Dio è per noi, chi sarà contro di noi? (cf. Rm 8, 31).
Quello
che conta, oggi e domani, è di non cedere allo scoraggiamento, come
insegna il Siracide:
* «Sta' fermo al tuo impegno
e fanne la tua vita,
invecchia compiendo il tuo lavoro»
(Sir 11, 20).
Potessimo affermare anche noi quanto leggiamo nella Lettera agli
Ebrei: «Non siamo di quelli che indietreggiano a loro perdizione,
bensì uomini di fede per la salvezza della nostra anima» (Eb 10, 39).
Nel seminario di Alba
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Al termine dei tre anni passati presso don Pavia, il babbo era deciso
di trattenerlo in famiglia: Francesco che la pensava ben diversamente
si rivolse alla mamma, ma lei non ottenne nulla; ricorse allora ad
una zia paterna perché il padre concedesse il permesso di entrare nel
seminario di Alba, e alla fine le due brave donne sfondarono, e il
consenso venne.
Il Servo di Dio lo attribuiva ad una speciale grazia del Signore, e
poteva cantare con gioia:
* «Signore, mio padre tu sei
e campione della mia salvezza...
La mia supplica fu esaudita;
tu mi salvasti infatti dalla rovina
e mi strappasti da una cattiva situazione.
Per questo ti ringrazierò e ti loderò,
benedirò il nome del Signore»
(Sir 51, 10-12).
Ancora una volta il parroco, don Giovanni, vi seppe fare la sua parte
bellamente; si felicitò con la famiglia e... si affrettò a svolgere
le pratiche del caso presso il seminario diocesano; così all'inizio
dell'anno scolastico Francesco è nuovamente alle prese con i libri.
In quell'oasi di pace tutto era ordinato a puntino perché gli alunni
si trovassero a loro agio in ogni senso, intercalando allo studio e
alla preghiera le dovute ricreazioni. La monotonia di un orario
prestabilito fino ai dettagli, offriva dei vantaggi indubbi: educava
all'ordine, alla disciplina, alla costanza, e lasciava spazio allo
svago e alla competitività; il tutto studiato e seguito da superiori
e insegnanti degni.
«Nel momento in cui il giovane Chiesa vi entrò per la prima volta, il
seminario albese godeva giustamente di un grande prestigio in tutto
il Piemonte e anche presso i Dicasteri romani per la solidità e
l'austerità con cui formava il giovane clero diocesano» (L. Rolfo).
Qui Francesco vi rimase per dieci anni di studio, per altri
diciassette come insegnante, e come tale vi ritornò fino alla morte,
alternando alle cure pastorali della parrocchia l'insegnamento ai
chierici.
Don Mosca non ebbe mai a ricredersi della fiducia riposta nel Chiesa,
e il seminarista montatese porterà con sé un patrimonio di esempi e
di insegnamenti affidatogli dal buon parroco, utilissimo per tutta la
vita.
Ne parlerà sempre come di un vero pastore d'anime, sottolineando due
particolari interessanti: che il parroco aveva saputo educare i
fedeli con la continua meditazione dell'Apparecchio alla morte di s.
Alfonso M. de' Liguori, tanto che alcuni parrocchiani lo conoscevano
a memoria.
Raccontava inoltre che quando si faceva la festa del paese, a Montà
si piantava pure il ballo; don Mosca non parlò mai direttamente
contro questo divertimento, ma nella istruzione pomeridiana era
solito fare la predica dei Novissimi. Ed era tanta l'impressione
della gente, che usciva di chiesa quasi in silenzio, e ben pochi
parrocchiani si permettevano di avvicinarsi al ballo.
A tale formazione `ignaziana' il Servo di Dio attinse per tutta la
vita la sua spiritualità e il metodo pastorale.
Degli anni trascorsi sui banchi del seminario vi fu chi pronunziò
questa sintesi in occasione del XXV di parrocchiato:
«Il can. Chiesa da giovane non era di eccezionale ingegno... Ma
studiava intensamente e con forte volontà, riuscendo sempre il primo
della classe. Noi e i superiori lo ammiravamo per il suo aspetto
veramente angelico... Uno studio continuo, metodico e profondo ha
dato a lui un patrimonio di dottrina vissuta che io non esito a dire
sbalorditivo» (can. G. Pozzetti).
AMDG et DVM