sabato 13 aprile 2019

Io ho pietà di queste turbe, di queste anime che cercano il respiro nella Religione e trovano il nodo scorsoio. Che cercano l’amore e trovano il terrore…

CCCLXXXI. 

La parabola del fattore infedele e accorto. 
Ipocrisia dei farisei e conversione di un esseno. 

   10 Febbraio 1946
 1 Molta folla è in attesa del Maestro ed è sparsa per le pendici più basse di un monte piuttosto isolato, perché emergente da un intreccio di valli che lo circondano e dalle quali le sue pendici sorgono, meglio, balzano dirute, a picco quasi, in certi posti proprio a picco. Per giungere alla cima, un sentiero intagliato nella roccia calcarea graffia le coste del monte con una serpentina, che in certi posti ha per confine da un lato la parete diritta del monte, dall’altro il precipizio che scoscende. E lo scabro sentiero giallastro cupo, tendente quasi al rossastro, pare un nastro gettato fra il verde polveroso di bassi cespugli spinosi, tutti aculei; direi che le foglie sono gli aculei stessi che coprono le pietrose e aride pendici, infioccandosi qua e la di un fiore vivace viola-rosso, simile ad un pennacchio o ad un batuffolo di seta strappato alle vesti di qualche malcapitato, passato per quella prunaia. E questa veste tormentosa, fatta di punte spinose, di un verde glauco, triste come fosse sparso di impalpabile cenere, si propaga per strisce anche alle basi del monte e nella pianura fra il monte e altri monti, tanto a nord-ovest come a sud-est, alternandosi ai primi posti dove sia vera erba e veri arbusti che non siano tortura e inutilità.
   La gente si è accampata su questi e attende paziente la venuta del Signore. Deve essere il giorno seguente al discorso agli apostoli, perché è fresca mattina e la rugiada non si è ancora evaporata su tutti gli steli. Specie in quelli più in ombra, ancora decora di sé spini e foglie, e tramuta in un fiocco diamantato i bizzarri fiori degli spinosi arbusti. L’ora della bellezza certo per il triste monte. Perché nelle altre ore, sotto il sole spietato o nelle notti lunari, deve avere l’orrido aspetto di un luogo di espiazione infernale.
   All’est, una ricca e vasta città si vede nella pianura fertilissima. E non si vede altro da questa costa, bassa ancora, dove sono i pellegrini, ma dalla cima l’occhio deve godere di una vista impareggiabile sulle zone vicine. Io credo che, per l’altezza del monte, si dovrebbe spaziare sul mar Morto e le zone a oriente di esso, come pure fino alle catene della Samaria e a quelle che nascondono Gerusalemme. Ma io sulla vetta non ci sono stata, e perciò…
   Gli apostoli circolano fra la folla cercando di tenerla quieta e ordinata, di mettere nei posti migliori i malati. Dei discepoli, forse quelli operanti nella zona e che avevano guidato presso i confini della Giudea i pellegrini vogliosi di sentire il Maestro, li aiutano a fare questo.
 2 L’apparizione di Gesù, bianco-vestito di lino ma ammantellato del rosso mantello per conciliare il caldo delle ore solari col fresco delle notti non ancora estive, è subitanea. Egli guarda, non visto, la gente che lo attende, e sorride. Pare provenire da dietro (ovest) del monte, da una mezza altezza, e scende rapido per il sentieruolo difficile.
   È un fanciullo che, non so se per seguire un volo di uccelli annidati fra i cespugli e alzatisi a volo spaventati da un sasso che rotola dall’alto, o per attrazione di sguardo, vede Gesù e grida balzando in piedi: «Il Signore!».
   Tutti si volgono e vedono Gesù, ormai lontano un duecanto metri al massimo. Fanno per correre a Lui, ma Egli, con il gesto delle braccia e la voce che giunge netta, forse per eco di monte, dice: «Rimanete dove siete». E sempre sorridendo scende fino a chi attende, fermandosi al punto più alto del pianoro. Di lì saluta: «La pace a tutti voi », e con un particolare sorriso ripete il saluto agli apostoli e discepoli che gli sono stretti intorno.
   Gesù è raggiante di bellezza. Col sole in fronte e la costa verdastra del monte alle spalle, pare una visione di sogno. Le ore passate in solitudine, qualche fatto a noi ignoto, forse uno straripare di Lui nelle paterne carezze, non so che, accentuano la sua sempre perfetta bellezza, la fanno gloriosa e imponente, pacifica, serena, direi ilare, come di chi torna da un convegno d’amore e seco porta la letizia di esso in tutto l’aspetto, nel sorriso, negli sguardi. Qui la testimonianza di questo convegno d’amore, che è divino, traluce moltiplicata per cento e cento di quanto solitamente è visibile dopo un convegno di povero amore umano, e il Cristo ne sfolgoreggia. E soggioga i presenti che, ammirati, lo contemplano in silenzio, come intimiditi dall’intuizione di un mistero di riunione dell’Altissimo col suo Verbo… È un segreto, una segreta ora d’amore fra il Padre e il Figlio. Nessuno la conoscerà mai. Ma il Figlio ne conserva il segno, quasi che, dopo essere stato il Verbo del Padre quale è in Cielo, a mala pena potesse tornare ad essere il Figlio dell’Uomo. L’infinità, la sublimità stenta a tornare «l’Uomo». La divinità trabocca, esplode, irraggia dall’umanità come olio soave da una creta porosa o luce di fornace da un velo di vetri opachi.
   E Gesù china gli occhi raggianti, curva il volto beato, nasconde il prodigioso sorriso, curvandosi sui malati che carezza e guarisce e che guardano stupiti quel viso di sole e d’amore curvo sulla loro miseria per dare gioia. Ma poi si deve infine rialzare e deve mostrare alle turbe ciò che è il volto del Pacifico, del Santo, del Dio fatto Carne, tutt’ancora avvolto nella luminosità lasciata dall’estasi. Ripete: «La pace a voi». Persino la voce è più musicale del solito, infusa di note soavi e trionfali… Potente si spande sui muti ascoltatori, ricerca i cuori, li carezza, li scuote, li chiama ad amare.
   Meno quel gruppo di farisei, aridi e scabri, spinosi e arcigni più del monte stesso, che stanno come statue di incomprensione e livore in un angolo; meno l’altro che, tutto bianco e appartato, ascolta da un ciglio, e che sento indicare come «esseni» da Bartolomeo e l’Iscariota – e Pietro brontola: «E così c’è un pollaio di sparvieri in più!» - gli altri ne sono tutti scossi.
   «Oh! lasciali fare. Il Verbo è per tutti!», dice Gesù sorridente al suo Pietro, alludendo agli esseni.
 3 Poi inizia a parlare.
   «Bello sarebbe se l’uomo fosse perfetto come lo vuole il Padre dei Cieli. Perfetto in ogni suo pensiero, affetto, atto. Ma l’uomo non sa essere perfetto e usa male i doni di Dio, il quale ha dato all’uomo libertà di agire, comandando, però, le cose buone, consigliando le perfette, acciò l’uomo non potesse dire: “Io non sapevo”.

   Come usa l’uomo della libertà che Dio gli ha data? Come potrebbe usarne un bambino nella gran parte della umanità, o come uno stolto, o anche come un delinquente, nelle altre parti. Ma poi viene la morte, e allora l’uomo è soggetto al Giudice che chiederà severo: “Come usasti e abusasti di ciò che ti avevo dato?”. Tremenda domanda! Come allora men che festuche di paglia appariranno i beni della Terra, per i quali così spesso l’uomo si fa peccatore! Povero di una miserabilità eterna, nudo di una veste che nulla può surrogare, sarà avvilito e tremante davanti alla maestà del Signore, né troverà parola per giustificarsi. Perché sulla Terra è facile giustificarsi, ingannando i poveri uomini. Ma in Cielo ciò non può accadere. Dio non si inganna. Mai. E Dio non scende a compromessi. Mai.

   Come allora salvarsi? Come fare servire tutto a salvezza, anche ciò che è venuto dalla Corruzione che ha insegnato i metalli e le gemme come strumenti di ricchezza, che ha acceso smanie di potere e appetiti di carne? Non potrà allora l’uomo, che per povero che sia può sempre peccare desiderando smoderatamente oro, cariche e donne – e talora diviene ladro di queste cose per avere ciò che il ricco aveva – non potrà allora l’uomo, ricco o povero che sia, salvarsi mai? Si che può. E come? Sfruttando le dovizie per il Bene, sfruttando la miseria per il Bene. Il povero che non invidia, non impreca e non attenta a ciò che è d’altri, ma di ciò che ha si contenta, sfrutta il suo umile stato per averne santità futura e, in verità, la maggioranza dei poveri sa fare questo. Meno lo sanno fare i ricchi, per i quali la ricchezza è un continuo tranello di satana, della triplice concupiscenza.
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 4 Ma udite una parabola e vedrete che anche i ricchi possono salvarsi pur essendo ricchi, o riparare ai loro errori passati coll’uso buono delle ricchezze anche se male acquistate. Perché Dio, il Buonissimo, lascia sempre molti mezzi ai suoi figli perché si salvino.

   C’era dunque un ricco il quale aveva in fattore. Alcuni, nemici di questo perché invidiosi del buon posto che aveva, oppure molto amici del ricco e perciò premurosi del suo benessere, accusarono il fattore al suo padrone: “Egli dissipa i tuoi beni. Se ne appropria. Oppure trascura di farli fruttare. Stà attento! Difenditi!”.


   Il ricco, udite le ripetute accuse, comandò al fattore di comparirgli davanti. E gli disse: “Di te mi è stato detto questo e quello. Come mai hai agito in tal modo? Dammi il rendiconto della tua amministrazione perché non ti permetto più di tenerla. Non posso fidarmi di te e non posso dare un esempio di ingiustizia e di supinità che indurrebbe i conservi ad agire come tu hai agito. Và e torna domani con tutte le scritture, che io le esamini per rendermi conto della posizione dei miei beni prima di darli ad un nuovo fattore”.


   E licenziò il fattore, che se ne andò pensieroso dicendo fra sé: “E ora? Come farò ora che il padrone mi leva la fattoria? Economie non ne ho perché, persuaso di come ero di farla franca, tanto usurpavo tanto godevo. Mettermi come contadino e sottoposto non mi va perché sono disusato al lavoro e appesantito dai bagordi. Chiedere l’elemosina mi va meno ancora. Troppo avvilimento! E che farò?”.


   Pensa e pensa, trovò modo di uscire dalla penosa situazione. Disse: “Ho trovato! Con lo stesso mezzo come mi sono assicurato un bel vivere fino ad ora, d’ora in poi mi assicurerò amici che mi ospiteranno per riconoscenza quando non avrò più la fattoria. Chi benefica ha sempre amici. Andiamo dunque a beneficare per essere beneficato e andiamoci subito, prima che la notizia si sparga e sia troppo tardi”.


   E andato dai diversi debitori del suo padrone disse al primo: “Quanto devi tu al mio padrone per la somma che ti prestò alla primavera di tre anni fa?”.
   E l’interrogato rispose: “Cento barili d’olio per la somma e gli interessi”.
   “Oh! poverino! Tu , così carico di prole, tu afflitto da malattie nei figli, dover dare tanto?! Ma non ti dette per un valore di trenta barili?”.
   “Sì. Ma avevo bisogno subito e lui mi disse: ‘Te lo do. Ma a patto che tu mi dia quanto la somma ti frutta in tre anni’. Mi ha fruttato per un valore di cento barili. E li devo dare”.
   “Ma è un’usura! No. No. Lui è ricco e tu sei appena fuori della fame. Lui è con poca famiglia e tu con tanta. Scrivi che ti ha fruttato per cinquanta barili e non ci pensare più. Io giurerò che ciò è vero. E tu avrai benessere”.
   “Ma non mi tradirai? Se lo viene a sapere?”.
   “Ti pare? Io sono il fattore, e ciò che giuro è sacro. Fa come dico e sii felice”.
   L’uomo scrisse, consegnò e disse: “Te benedetto! Mio amico e salvatore! Come compensarti?”.
   “Ma in nessun modo! Vuol dire che, se per te avessi a soffrire ed essere cacciato, tu mi accoglierai per riconoscenza”.
   “Ma certo! Certo! Contaci pure”.


   Il fattore andò da un altro debitore, tenendo su per giù lo stesso discorso. Costui doveva rendere cento staia di grano, perché per tre anni la secca aveva distrutto le sue biade e aveva dovuto chiederne al ricco per sfamare la famiglia.
   “Ma non ci pensare a raddoppiare ciò che ti ha dato! Negare il grano! Esigerne il doppio da uno che ha fame e figli, mentre il suo tarla nei granai perché ce ne è in esuberanza! Scrivi ottanta staia”.
   “Ma se si ricorda che me ne ha date venti e venti e poi dieci?”.
   “Ma che vuoi che ricordi? Io te li ho dati e io non voglio ricordare. Fa, fa così e mettiti a posto. Giustizia ci vuole fra poveri e ricchi! Io già, se ero io il padrone, volevo solo le cinquanta staia e forse condonavo anche quelle”.
   “Tu sei buono. Fossero tutti come te! ricordati che la mia casa ti è amica”.


   Il fattore andò da altri, tenendo lo stesso metodo, professandosi pronto a soffrire per rimettere le cose a posto con giustizia. E offerte di aiuti e benedizioni piovvero su di lui.

 5 Rassicurato sul domani, andò tranquillo dal padrone, il quale a sua volta aveva pedinato il fattore e scoperto il suo gioco. Pure lo lodò dicendo: “La tua azione non è buona e per essa non ti lodo. Ma lodarti devo per la tua accortezza. In verità, in verità i figli del secolo sono più avveduti dei figli della luce”.

   E ciò che disse il ricco Io pure vi dico: La frode non è bella, e per essa Io non loderò mai nessuno. Ma vi esorto ad essere, almeno come figli del secolo, avveduti con i mezzi del secolo, per farli usare a monete per entrare nel regno della Luce”. 
Ossia con le ricchezze terrene, mezzi ingiusti nella ripartizione e usati per l’acquisto di un benessere transitorio che non ha valore nel Regno eterno, fatevene degli amici che vi aprano le porte di esso. Beneficate coi mezzi che avete, restituite quello che voi, o altri della vostra famiglia, hanno preso senza diritto, distaccatevi dall’affetto malato e colpevole per le ricchezze. E tutte queste cose saranno come amici che nell’ora della morte vi apriranno le porte eterne e vi riceveranno nelle dimore beate.
   Come potete esigere che Dio vi dia i suoi beni paradisiaci se vede che non sapete fare buon uso neppure dei beni terrestri? Volete che, per un impossibile supposto, ammetta nella Gerusalemme celeste elementi dissipatori? No, mai. Lassù si vivrà con carità e con generosità e giustizia. Tutti per Uno e tutti per tutti. La comunione dei santi è società attiva e onesta, è santa società. E nessuno che abbia mostrato di essere ingiusto e infedele può entrarvi.

   Non dite: “Ma lassù saremo fedeli e giusti perché lassù tutto avremo senza temenze di sorta”. No. Chi è infedele nel poco sarebbe infedele anche se il Tutto possedesse, e chi è ingiusto nel poco ingiusto è nel molto. 

Dio non affida le vere ricchezze a chi nella prova terrena mostra di non sapere usare delle ricchezze terrene. 

Come può Dio affidarvi un giorno in Cielo la missione di spiriti sostenitori dei fratelli sulla Terra, quando avete mostrato che carpire e frodare, o conservare con avidità è la vostra prerogativa?

Vi negherà perciò il vostro tesoro, quello che per voi aveva conservato, dandolo a quelli che seppero essere avveduti sulla Terra, usando anche ciò che è ingiusto e malsano in opere che giusto e sano lo fanno.

   
Nessun servo può servire due padroni. Perché o dell’uno e dell’altro sarà, o l’uno o l’altro odierà. I due padroni che l’uomo può scegliere sono Dio o Mammona. Ma se vuole essere del primo non può vestire le insegne, seguire le voci, usare i mezzi del secondo».   ///

 6 Una voce si alza dal gruppo degli esseni: «L’uomo non è libero di scegliere. È costretto a seguire un destino. Né diciamo che sia distribuito senza saggezza. Anzi la Mente perfetta ha stabilito, a proprio disegno perfetto, il numero di coloro che saranno degni dei cieli. Gli altri inutilmente si sforzano di divenirlo. Così è. Diverso non può essere. Come uno, uscendo di casa, può trovare la morte per una pietra che si stacca dal cornicione, mentre uno nel più fitto della battaglia si può salvare dalla più piccola ferita, ugualmente colui che vuole salvarsi, ma così non è scritto, non farà che peccare anche senza saperlo, perché è segnata la sua dannazione».

   «No, uomo. Così non è, ricrediti. Pensando così tu fai grave ingiuria al Signore».

   «Perché? Dimostramelo ed io mi ravvederò».

   «Perché tu, dicendo questo, ammetti mentalmente che Dio è ingiusto verso le sue creature. Egli le ha create in ugual modo e con uno stesso amore. Egli è un Padre. Perfetto nella sua paternità come in ogni altra cosa. Come può allora fare distinzioni, e quando un uomo viene concepito maledirlo mentre è innocente embrione? Sin da quando è incapace di peccare?».

   «Per avere una rivalsa all’offesa avuta dall’uomo».

   «No. Non così si rivale Dio! Egli non si accontenterebbe di un misero sacrificio quale questo, e di un ingiusto, forzato sacrificio. La colpa a Dio può essere solo levata dal Dio fatto Uomo. Egli sarà l’Espiatore. Non questo o quell’uomo. Oh! fosse stato possibile che Io avessi a levare solo la colpa d’origine! Che nessun Caino avesse avuto la Terra, nessun Lamec, nessun corrotto sodomita, nessun omicida, ladro, fornicatore, adultero, bestemmiatore, nessuno senza amore ai genitori, nessun spergiuro, e così via! Ma di ognuno di questi peccati non Dio, ma il peccatore è colpevole e autore. Dio ha lasciato libertà ai figli di scegliere il Bene o il Male».

   «Non fece bene», urla uno scriba. «Ci ha tentati oltre misura. Sapendoci deboli, ignoranti, avvelenati, ci ha messi in tentazione. Ciò è imprudenza o malvagità. Tu che sei giusto devi convenire che dico una verità».
   «Dici una menzogna per tentarmi. Dio ad Adamo ed Eva aveva dato tutti i consigli, e a che servì?».
   «Fece male anche allora. Non doveva mettere l’albero, la tentazione, nel Giardino».
   «E allora dove il merito dell’uomo?».
   «Ne faceva senza. Viveva senza proprio merito e per unico merito di Dio».
   «Essi ti vogliono tentare, Maestro. Lascia quei serpi e ascolta noi che viviamo in continenza e meditazione», grida di nuovo l’esseno.
   «Si, vi vivete. Ma malamente. Perché non viverci santamente?».
 7 L’esseno non risponde a questa domanda, ma chiede: «Come mi hai detto ragione persuasiva sul libero arbitrio, ed io la mediterò senza malanimo sperando poterla accettare, or dimmi. Credi Tu realmente in una resurrezione della carne e in una vita degli spiriti completati da essa?».

   «E vuoi che Dio ponga fine così alla vita dell’uomo?».

   «Ma l’anima… Posto che il premio la fa beata, a che serve far risorgere la materia? Aumenterà ciò il gaudio dei santi?».

   «Niente aumenterà il gaudio che un santo avrà quando possederà Iddio. Ossia una cosa sola lo aumenterà l’ultimo Giorno:  quello di sapere che il peccato non è più. Ma non ti pare giusto che, come durante questo giorno carne e anima furono unite nella lotta per possedere il Cielo, nel Giorno eterno carne e anima siano unite per godere il premio? Non ne sei persuaso? E allora perché vivi in continenza e meditazione?».

   «Per… per essere maggiormente uomo, signore sopra gli altri animali che ubbidiscono agli istinti senza freno, e per essere superiore alla maggior parte degli uomini che sono imbrattati di animalità anche se ostentano filatterie e fimbrie, e zizit, e larghe vesti, e si dicono “i separati”».
   Anatema! I farisei, ricevuta in pieno la frecciata che fa mormorare di approvazione la folla, si contorcono e gridano come ossessi. «Egli ci insulta, Maestro! Tu sai la santità nostra. difendici», urlano gesticolando.

   Gesù risponde: «Anche egli sa la vostra ipocrisia. Le vesti non corrispondono alla santità. Meritate di esser lodati e potrò parlare. Ma a te, esseno, Io rispondo che troppo per poco ti sacrifichi. Perché? Per chi? Per quanto? Per una lode umana. Per un corpo mortale. Per un tempo rapido come volo di falco. Eleva il tuo sacrificio. Credi al Dio vero, alla beata risurrezione, alla volontà libera dell’uomo. Vivi da asceta. Ma per queste ragioni soprannaturali. E con la carne risorta godrai dell’eterna gioia».

   «È tardi! Sono vecchio! Ho forse sciupato la mia vita stando in una setta d’errore… È finita!…».
   «No. Mai finita per chi vuole il bene!

 8 Udite, o voi peccatori, o voi che siete negli errori, o voi, quale che sia il vostro passato. Pentitevi. Venite alla Misericordia. Vi apre le braccia. Vi indica la via. Io sono fonte pura, fonte vitale. Gettate le cose che vi hanno traviato fin qui. Venite nudi al lavacro. Rivestitevi di luce. Rinascete. Avete rubato come ladroni sulle vie, o signorilmente e astutamente nei commerci e nelle amministrazioni? Venite. Avete avuto vizi o passioni impure? Venite. Siete stai oppressori? Venite. Venite. Pentitevi. Venite all’amore e alla pace. Oh! ma lasciate che l’amore di Dio possa riversarsi su di voi. Sollevatelo questo amore in ambascia per la vostra resistenza, paura, titubanza. Io ve ne prego in nome del Padre mio e vostro. Venite alla Vita e alla Verità, a avrete la vita eterna».

   «Un uomo dalla folla grida: «Io sono ricco e peccatore. Che devo fare per venire?».

   «Rinuncia a tutto per amore di Dio e della tua anima».

   I farisei mormorano e scherniscono Gesù come «venditore di illusioni e di eresie», come «peccatore che si finge santo», e lo ammoniscono che gli eretici sono sempre eretici, e tali sono gli esseni. Dicono che le conversioni subitanee non sono che esaltazioni momentanee e che l’impuro sarà sempre tale, il ladro ladro, l’omicida omicida, terminando col dire che solo loro, che vivono in santità perfetta, hanno diritto al Cielo e alla predicazione.

9 «Era un giorno felice. Una semina di santità cadeva nei cuori. Il mio amore, nutrito dal bacio di Dio, dava ai semi vita. Il Figlio dell’uomo era beato si santificare… Voi mi avvelenate il giorno. Ma non importa. Io vi dico – e, se dolce non sarò, di voi è la colpa – Io vi dico che voi siete quelli che si mostrano giusti, o tentano di farlo, al cospetto degli uomini, ma giusti non siete. Dio conosce i vostri cuori. Ciò che è grande al cospetto degli uomini è abominevole dinanzi all’immensità e perfezione di Dio. Voi citate la Legge antica. Perché allora non la vivete? Voi modificate a vostro pro la Legge, aggravandola di pesi che vi danno utilità. Perché allora non lasciate che Io la modifichi a pro di questi piccoli, levando da essa tutti gli zizit e i telefin pesanti, inutili, dei precetti fatti da voi, tali e tanti che la Legge essenziale scompare sotto di essi e muore affogata? Io ho pietà di queste turbe, di queste anime che cercano il respiro nella Religione e trovano il nodo scorsoio. Che cercano l’amore e trovano il terrore…

   No. Venite, o piccoli d’Israele. La Legge è amore! Dio è amore! Così Io dico agli intimoriti da voi. La Legge severa e i profeti minaccianti che mi hanno predetto, ma non sono riusciti a tenere indietro il peccato nonostante gli urli del loro profetare angoscioso, sono fino a Giovanni. Da Giovanni in poi viene il Regno di Dio, il Regno dell’amore. Ed Io dico agli umili: “Entratevi. È per voi”. Ed ognuno di quelli di buona volontà si sforza ad entrarvi. 
Ma per coloro che non vogliono curvare il capo, battersi il petto, dire: “Ho peccato”, non vi sarà il Regno. È detto: “Circoncidete il vostro cuore senza indurare più la vostra cervice”. (Deuteronomio 10, 16)

   Questa terra vide il prodigio di Eliseo che fece dolci le acque amare col gettarvi dentro il sale. (2 Re 2, 19-22). Ed Io non getto il sale della Sapienza nei vostri cuori? E allora perché siete inferiori ad acque e non mutate lo spirito vostro? Intridete nelle vostre formule il mio sale e avranno novello sapore, perché ridaranno alla Legge la primitiva forza. In voi, prima di tutti, i più bisognosi. Voi dite che Io muto la Legge? No. Non mentite. Io rendo alla Legge la sua primitiva forma da voi travisata. Perché è legge che durerà quanto la Terra, e prima spariranno cielo e terra che uno solo dei suoi estremi o dei suoi consigli. E se voi la mutate, perché così vi piace, e sottilizzate cercando scappatoie alle vostre colpe, sappiate che ciò non giova. Non giova, o Samuele! Non giova, o Isaia! Sempre è detto: “Non fare adulterio”, e Io completo: “Chi rimanda una sposa per prenderne un’altra è adultero, e chi sposa una ripudiata dal marito è adultero, perché ciò che Dio ha unito solo la morte può dividere”.

   Ma le parole dure sono per i peccatori impenitenti. Coloro che hanno peccato, ma si dolgono con desolazione per averlo fatto, sappiano, credano che Dio è Bontà, e vengano a Colui che assolve, perdona e ammette alla Vita. Andate con questa certezza. Spargetela nei cuori. Predicate la misericordia che vi dà la pace benedicendovi nel nome del Signore».

10 La gente sfolla lentamente, sia perché il sentiero è stretto, sia perché Gesù l’attrae. Ma sfolla…

   Restano gli apostoli con Gesù e, parlando, s’incamminano. Cercano ombra camminando presso un piccolo boschetto di tamerici scapigliati. Ma dentro vi è un esseno. Quello che ha parlato con Gesù. Si sta spogliando delle vesti bianche.

   Pietro, che è avanti a tutti, resta di stucco vedendo che l’uomo si riduce con le sole brache corte, e corre indietro dicendo: «Maestro! Un matto! Quello che parlava con Te, l’esseno. Si è messo nudo e piange e sospira. Non possiamo andar là».

   Ma l’uomo, magro, barbuto, nudo affatto nel corpo, meno le corte brache e i sandali, già esce dal folto del boschetto e viene verso Gesù piangendo e battendosi il petto. Si prostra: «E io sono il miracolato nel cuore. Mi hai guarito lo spirito. Ubbidisco alla tua parola. Mi rivesto di luce lasciando ogni altro pensiero che mi fosse veste d’errore. Mi separo per meditare il Dio vero, per ottenere vita e risurrezione. Basta così? Indicami il nuovo nome e un luogo in cui vivere di Te e delle tue parole».

   «È matto! Non sappiamo viverci noi che ne sentiamo tante! E lui… per un solo discorso…», dicono fra gli apostoli.

   Ma l’uomo, che sente, dice: «E volete mettere termini a Dio? Egli mi ha infranto il cuore per darmi uno spirito libero. Signore!…», supplica tendendo le braccia a Gesù.

   «Sì. Chiamati Elia e sii fuoco. Quel monte è pieno di caverne. Và in esso, e quando sentirai scuotere la terra per tremendo terremoto esci e cerca i servi del Signore per unirti a loro. Sarai rinato per essere servo tu pure. Và».

   L’uomo gli bacia i piedi, si alza e si avvia.

   «Ma va così nudo?», chiedono sbalorditi.

   «Dategli un mantello, un coltello, un’esca e un acciarino, e un pane. Camminerà oggi e domani, e poi, dove sostammo, si ritirerà in preghiera e il Padre provvederà al suo figlio».

   Andrea e Giovanni partono di corsa e lo raggiungono mentre sta per scomparire dietro una svolta.

   Tornano dicendo: «Li ha presi. Gli abbiamo anche indicato il luogo dove eravamo. Che preda impensata, Signore!».

   «Dio anche sulle rocce fa fiorire i fiori. Anche nei deserti dei cuori fa sorgere spiriti di volontà per mio conforto. Ora andiamo verso Gerico. Sosteremo in qualche casa di campagna». 
AMDG et DVM

venerdì 12 aprile 2019

Repetita juvant

Riflessioni e affermazioni provvidenziali fatte da Gesù  
l’8 maggio 1948
"Beati qui audiunt Verbum Dei"



8 Maggio 1948

Dice Gesù:



«Hanno paura della fine del mondo. L'hanno anche molti di quelli che crollano derisori il capo davanti ai miracoli della misericordia mariana. 


L'hanno perché non sanno il tempo. Ma è detto che la mia ultima venuta
sarà improvvisa e rapida come lampo che trascorre il cielo. 

Prima però devono venire i segni che ho detto. E i segni non saranno rapidi come la mia venuta, anzi saranno lunghi a compirsi, rallentati dalle preghiere delle anime dei giusti e delle anime vittime, alle quali si piega favorevole la mia misericordia per concedere tempo a tutti di ravvedersi.


Molti segni sono già in atto. Ma il loro giorno non è di 24 ore per voi, anche se è per Me più breve di un battito di ciglio. Io ho per misura l'eternità.


Un segno, non meditato, è la predicazione del vangelo del Regno a tutto il mondo, di tutta la mia Vita del Vangelo.


Ecco, nel Vangelo canonico è l'essenziale per credere e salvarsi; ma non è la completa conoscenza di Me. Dopo Me il Consolatore, Colui che dice tutto quello che ha udito e mi glorifica, continuò a completare il Vangelo perché ha ricevuto del mio e ve lo annunzia.
Nei secoli continua la predicazione della Rivelazione e c'è ancora tanto da dire. E più si avvicina la fine e grandi sono i bisogni, più il Vangelo si completa.





La tua fatica rientra in questo programma divino. Perché il tuo lavoro di piccolo Giovanni ha molto completato il "tutto il Vangelo" che deve essere conosciuto prima della fine, acciò le anime si riaccendano nella carità e si salvino, ed Io trovi ancora la fede nel mondo fra i perseveranti sino alla fine.

Per questo ho dolore e sdegno che sia posto ritardo alla divulgazione dell'opera che Io voglio sia data alle turbe come Pane di Sapienza e Vita.

Riguardo allo Stato d'Israele ti dico "No". Finché non mi riconosceranno per vero Messia non avranno vera pace. Più facile è che il fuoco nelle terre dell'Asia Minore prepari la strada alla venuta di Gog e Magog, o dell'Anticristo che in essi è già adombrato, che non venga la pace ad Israele, pervicace nel non volermi riconoscere come il vero Messia, Re del Regno di Dio e Figlio dell'Altissimo».


«Preparerà subito la strada all'Anticristo?».

«Non mettete mai il vostro tempo nelle profezie di Chi è eterno. Non dirvi l'ora è pietà. Vi spinge ad agire come fosse domani il giudizio.
Sta' in pace».

Da "I Quadernetti" di Maria Valtorta

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PREGHIERA DEL PAPA BENEDETTO XVI AL VOLTO SANTO


Signore Gesù,
come già i primi apostoli,
ai quali dicesti: “Che cercate ?”,
ed accolsero il tuo invito: “Venite e vedrete”,
riconoscendoti come il Figlio di Dio,
l’atteso e promesso Messia per la redenzione del mondo,
anche noi, discepoli tuoi di questo difficile tempo
vogliamo seguirti ed esserti amici,
attratti dal fulgore del tuo volto desiderato e nascosto.
Mostraci, ti preghiamo, il tuo volto sempre nuovo,
misterioso specchio dell’infinita misericordia di Dio.
Lascia che lo contempliamo
Con gli occhi della mente e del cuore:
volto del Figlio, irradiazione della gloria del Padre
e impronta della sua sostanza (cf. Eb 1, 3),
volto umano di Dio entrato nella storia
per svelare gli orizzonti dell’eternità.

Volto silenzioso di Gesù sofferente e risorto,
che amato ed accolto cambia il cuore e la vita.
“Il tuo volto, Signore, io cerco,
Non nascondermi il tuo volto” (Sal 27, 8s).
Nel corso di secoli e millenni quante volte è risuonata
Tra i credenti questa struggente invocazione del Salmista !
Signore, anche noi la ripetiamo con fede:
“Uomo dei dolori, davanti a cui si copre la faccia” (Is. 53,3),
non nasconderci il tuo volto !
Vogliamo attingere dai tuoi occhi,
che ci guardano con tenerezza e compassione.
La forza di amore e di pace che ci indichi la strada della vita,
ed il coraggio di seguirti senza timori e compromessi,
per diventare testimoni del tuo Vangelo,
con gesti concreti di accoglienza, di amore e di perdono.

Volto Santo di Cristo,
luce che rischiara le tenebre del dubbio e della tristezza,
cita che ha sconfitto per sempre il potere del male e della morte,
sguardo misterioso
che non cessa di posarsi sugli uomini e i popoli,
volto celato nei segni eucaristici
e negli sguardi di coloro che ci vivono accanto,
rendici pellegrini di Dio in questo mondo,
assetati d’infinito e pronti all’incontro dell’ultimo giorno.
Quando ti vedremo, Signore, “faccia a faccia (1Cor, 13,12),
e potremo contemplarti in eterno nella gloria del Cielo.

Maria, Madre del Volto Santo,
aiutaci ad avere “mani innocenti e cuore puro”,
mani illuminate dalla verità dell’amore
e cuori rapiti dalla bellezza divina,
perché, trasformati dall’incontro con Cristo,
ci doniamo ai poveri e ai sofferenti,
nei cui volti riluce l’arcana presenza
del tuo Figlio Gesù,
che vive e regna nei secoli dei secoli.
Amen !
(Manoppello, 1 settembre 2007)

AMDG et DVM

Sant’Ermenegildo

Sant' Ermenegildo Martire
m. 585
Vissuto nel VI secolo, era figlio di Leovigildo, il primo re di Spagna visigoto e, come tutti i visigoti, era seguace di Ario. Il suo matrimonio con una cattolica provocò tensioni a corte e il re esiliò Ermenegildo e sua moglie a Siviglia.. Qui, il giovane si convertì al cattolicesimo e tentò di sconfiggere il padre con l’aiuto dei Bizantini e degli Svevi. Gettato in carcere a Tarragona, rifiutò di ricevere la Comunione dalle mani di un vescovo ariano e per questo fu giustiziato. Figura molto controversa, il giudizio su di lui è stato a volte severo, a volte più o meno comprensivo. San Gregorio Magno, ad ogni modo, mette in rilievo il suo incontrovertibile martirio. E’ patrono della Spagna.



Patronato: Spagna
Etimologia: Ermenegildo = dono del dio Irmin, dal tedesco
Emblema: Palma
Martirologio Romano: A Tarragona in Spagna, sant’Ermenegildo, martire, che, figlio di Leovigildo re dei Visigoti seguace dell’eresia ariana, si convertì alla fede cattolica per opera del vescovo san Leandro; rinchiuso in carcere per essersi ribellato alla volontà del padre rifiutandosi di ricevere la comunione da un vescovo ariano nel giorno della solennità di Pasqua, per ordine del padre stesso morì sotto un colpo di scure. 
Risultati immagini per “Trionfo di Sant’Ermenegildo” di Francisco de Herrera


Sant’Ermenegildo, patrono della Spagna, e suo fratello Reccaredo erano figli di Leovigildo, primo re dei Visigoti in terra spagnola, e di Teodosia, sua prima consorte. Si ignora la data esatta della sua nascita, collocabile comunque verso la metà del VI secolo. Sin dalla giovinezza fu educato nell’arianesimo, confessione eretica professata dai suoi padri.

I Visigoti, originari della Scandinavia, nel III secolo scesero sulle rive del Danubio e le coste settentrionali del Mar Nero, ove furono convertiti all’arianesimo da Ulfila (+383). Nato in Germania, nipote di prigionieri cristiani stanziati in Cappadocia, egli fu per oltre quarant’anni loro vescovo missionario, che li catechizzò con la traduzione gotica della Bibbia. Quando nel 376, incalzati dagli Unni, si stanziarono in Tracia come federati dell'impero, erano ormai completamente arianizzati. In quel tempo gli imperatori Costanzo e Valente tentavano di imporre l’erronea dottrina di Ario come religione di stato. Dai Goti di Ulfila l’arianesimo fu trasmesso come patrimonio nazionale a tutti i popoli germanici orientali che, nel V secolo, irruppero entro i confini dell’impero. Anche quando, sotto il di regno San Teodosio I il Grande, venne adottata ufficialmente per legge dall’impero la fede nicena, la chiesa dell’arianesimo germanico continuò imperterrita a ritenere che il Figlio di Dio fosse solamente simile al Padre e non ugualmente eterno come Lui, a ripudiare la speculazione trinitaria e cristologica dei teologi greci, ad usare la lingua germanica nelle funzioni liturgiche, a riconoscere al sovrano il potere di nomina dei vescovi e di convocazione dei sinodi ed infine a considerare le chiese quali proprietà di chi aveva concesso il suolo per la loro edificazione. Nei Balcani i Visigoti giunsero presto ad un aspro conflitto con i loro protettori bizantini, il maltrattamento da parte dei funzionari imperiali provocò un sommossa e nel 378 l’imperatore Valente rimase sconfitto e ucciso nella battaglia di Adrianopoli.

Gli sforzi compiuti dal suo successore Teodosio il Grande, come più tardi dal patriarca di Costantinopoli San Giovanni Crisostomo, per indurre i Visigoti ad accogliere la dottrina del concilio di Nicea, ebbero purtroppo scarso successo.      Presso di loro l’arianesimo si mantenne così ancora per lungo tempo, quando ormai il popolo, dopo aver percorso e devastato la Grecia e l’Italia, si conquistò una nuova patria nella Gallia meridionale e nella Spagna nel 419.

Sorse così il primo regno germanico indipendente sul suolo dell’impero romano. Leovigildo, sovrano astuto, ariano convinto, trattò i suoi sudditi cattolici ancora col massimo rigore e talvolta anche con crudeltà, perché temeva che potessero minare l’assolutezza del suo potere. Dopo la morte di Teodosia, egli sposò Gosvinda, vedova di suo fratello Atanagildo e madre di Brunechilde, andata sposa al re di Austrasia Sigiberto. La loro figlia Ingunda, cattolica assai fervente, fu sposata nel 579 da Ermenegildo, che il padre aveva accuratamente allevato nella fede ariana  ed aveva poi associato con Reccaredo al governo del regno sin dal 573.

Politicamente Leovigildo fu soddisfatto di tale matrimonio, che costituiva un maggiore legame con i Franchi, del cui appoggio necessitava al fine di consolidare il suo potere in Spagna. Gosvinda, invece, acerrima ariana, prese a manifestare apertamente tutto il suo odio contro la nuora cattolica.

Pretendeva ad ogni costo che ella si facesse ribattezzare secondo il rito ariano, ma Ingunda rimase ferma nelle sue convinzioni e non ne volle minimamente sapere, neppure quando la suocera la afferrò per i capelli, la spogliò delle vesti e la immerse in una piscina.
“Mi basta - le rispose fiera - di essere stata purificata una volta dal peccato originale, con un salutare battesimo e di avere confessato la Santissima Trinità una e senza ineguaglianza di persone: ecco ciò che dichiaro di credere di tutto cuore. Mai rinuncerò alla mia fede”. Ingunda non solo mantenne fermamente il suo proposito, ma si adoperò con tutto il suo cuore e con tutte le sue forze per convincere suo marito ad abbracciare la retta fede nicena.

Per porre termine ai frequenti litigi a corte, causati dall’appartenenza della nuora alla religione cattolica, Leovigildo pensò di allontanare Ermenegildo e mandarlo a Siviglia in Andalusia. Quel forzato trasferimento si rivelò invece provvidenziale per suo figlio, che incontrò proprio in tale città colui che sarebbe stato il suo catechista e che avrebbe coadiuvato Ingunda nell’opera della sua conversione: il vescovo San Leandro. Questi, nato a Cartagena da una famiglia greco-romana molto religiosa, aveva abbracciato sin da giovane la vita monastica prima a San Claudio di Leon, poi a Siviglia, ove la famiglia si era trasferita. La solida formazione ricevuta lo aveva reso capace di divenire l’artefice dell’avvenire del suo paese in campo culturale e religioso.
Eletto metropolita di Siviglia nel 579, aprì una scuola per studi dogmatici, artistici e scientifici, molto frequentata ai suoi tempi. Di questo apprezzatissimo centro culturale furono allievi anche i due figli di Leovigildo, ma solamente sull’erede al trono in un primo momento Leandro riuscì ad esercitare un benefico influsso, inducendolo infatti a ricevere il battesimo niceno.

Da quel momento Ermenegildo non poté che diventare il capo della fazione cattolica, con conseguente grande ira di suo padre che, mal consigliato da Gosvinda, non esitò a ricorrere ad ogni mezzo affinché l’arianesimo prevalesse, guadagnando alla sua causa persino qualche vescovo e condannando alla prigione ed all’esilio tutti coloro che, come Leandro, tennero testa alle sue violenze.
Durante la lunga lotta tra padre e figlio, il santo vescovo fu mandato da Ermenegildo a Costantinopoli per implorare l’aiuto presso l’imperatore bizantino. Lo sventurato padre finì con l’assediare Siviglia dal 583 per quasi due anni finché il figlio, esaurita ogni risorsa, chiese aiuto ai bizantini in procinto di attaccare la Spagna. Il padre, credendo che suo figlio fosse fuggito, prese d’assalto la città. L’esercito imperiale, lasciatosi corrompere da Leovigildo, non gli prestò l’aiuto promesso, motivo per cui ad Ermenegildo non restò che rifugiarsi a Cordova, ove fu fatto prigioniero dal padre e quindi esiliato a Valenza. Lo fece poi trasferire in un carcere di Terragona, dove venne decapitato il 13 aprile 585 per essersi rifiutato di ricevere la comunione da un vescovo ariano.


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Con la tragica scomparsa di Ermenegildo, le legazioni di Leandro a Costantinopoli mutarono in una vera e proprio condizione di esilio, durante la quale strinse amicizia con l’apocrisario della Santa Sede, San Gregorio Magno, che proprio su sua insistenza scrisse i “Moralia in Job”. L’esilio di Leandro non durò però a lungo, giacché Leovigildo morendo lo raccomandò alla benevolenza di Reccaredo, suo successore. Non appena poté fare ritorno a Siviglia, Leandro si dedicò alla conversione degli ariani, a cominciare dalla famiglia reale. Reccaredo, animato dalla gloriosa testimonianza di suo fratello, si convertì alla fede cattolica e favorì con ogni mezzo la conversione del suo popolo. Gosvinda invece non ne volle assolutamente sapere e si pose a capo di una rivolta ariana contro il sovrano, ma vedendosi presto sconfitta si tolse la vita. Reccaredo, riportate tre brillanti vittorie sui vescovi ariani sostenuti dal re burgundo Gontrano, convocò nel 589 il terzo Concilio di Toledo in cui consegnò la sua professione di fede ortodossa scritta nelle mani dei vescovi presenti e decretò il ritorno all’unità politico-religiosa dei popoli dei Goti e degli Svevi. L’anno successivo Leandro apprese che il suo amico Gregorio era stato eletto al sommo pontificato e gli mandò le sue felicitazioni, informandolo degli ultimi notevoli progressi della fede cattolica nella penisola iberica.

Figura molto controversa, il giudizio degli storici su Ermenegildo è stato a volte severo, a volte più o meno comprensivo. San Gregorio Magno, ad ogni modo, mise in rilievo il suo incontrovertibile martirio subito in odio alla fede cattolica. Su intercessione del re Filippo II, nel 1585 il pontefice Sisto V concesse alla Spagna di poter celebrare la festa del santo sovrano nella data della morte, dopodichè Urbano VIII estese tale memoria alla Chiesa Universale ed ancora oggi la nuova edizione del Martyrologium Romanum riporta al 13 aprile il martire Sant’Ermenegildo.

E’ infine degno di nota, in quanto dedicato alla memoria del santo, l’Ordine Militare di Sant’Ermenegildo istituito dal re Ferdinando VII di Spagna il 28 novembre 1814 e destinato a ricompensare il servizio reso dai militari in Spagna e nelle Indie. L’Ordine si divide in tre classi: Cavalieri di Gran Croce, Cavalieri di seconda classe e Cavalieri di terza classe. La decorazione consiste in una croce patente d’oro, smaltata di bianco, sormontata dalla corona reale. Caricato in cuore uno scudetto d’azzurro con l’immagine di Sant’Ermenegildo. Lo scudetto risulta circondato dal motto “Premio a la constancia militare”; nel retro la cifra del sovrano. Il nastro dell’Ordine è di bianco al palo di rosso.

L’iconografia è solita rappresentare il santo con tutte le insegne tipiche dei martiri e dei sovrani: palma, ascia, scettro, corona. Celebri sono due sue raffigurazioni pittoriche: “Trionfo di Sant’Ermenegildo” di Francisco de Herrera, custodita presso il Museo del Prado, e “Sant’Ermenegildo in carcere” di Francisco Goya y Lucientes, presso il Museo Lazaro Galdiano in Madrid. Non mancano però anche icone orientali, in quanto il santo è talvolta venerato anche dalle Chiese Ortodosse.


Autore: 
Fabio Arduino

AMDG et DVM

Dignare me laudare Te, Virgo Sacrata.

  
PSALMUS 1 
                         
Beatus vir qui diligit nomen tuum, Maria Virgo:
*gratia tua animam ejus confortabit.

Tanquam aquarum fontibus irrigatum uber:
*in eo fructum justitiae propagabis.

Benedicta tu inter mulieres:
*per credulitatem cordis sancti tui.

Universas enim foeminas vincis pulchritudine carnis:
*superas angelos et archangelos excellentia sanctitatis.

Misericordia tua et gratia ubique praedicatur:
*Deus operibus manuum tuarum benedixit.

Gloria Patri, etc.

PSALMUS     2

Quare fremuerunt inimici nostri:
*et adversum nos meditati sunt inania?

Protegat nos dextera tua, Mater Dei:
*ut acies terribilis, confundens et destruens eos.

Venite ad eam, qui laboratis et tribulati estis:
*et dabit refrigerium animabus vestris.

Accedite ad eam in tentationibus vestris:
*et stabilitet vos serenitas vultus ejus

Benedicite illam in toto corde vestro:
*misericordia enim illius plena est terra.

Gloria Patri, etc.

PSALMUS 3

Domina, quid multiplicati sunt qui tribulant me?
*in tempestate tua persequeris et dissipabis eos.

Dissolve colligationes impietatis nostrae:
*tolle fasciculos peccatorum nostrorum.

Miserere mei, Domina, et sana infirmitatem meam:
*tolle dolorem et angustiam cordis mei.

Ne tradas me manibus inimicorum meorum:
*et in die mortis meae conforta animam meam.

Deduc me ad portum salutis:
*et spiritum meum redde Factori et Creatori meo.

Gloria Patri, etc.

PSALMUS 4

Cum invocarem exaudisti me, Domina:
*et e sublimi solio tuo, mei dignata es recordari.

A rugientibus praeparatis ad escam:
*et de manibus quaerentium liberabit me gratia tua.

Quoniam benigna est misericordia et pietas tua:
*in omnes, qui invocant nomen sanctum tuum.

Benedicta sis, Domina, in aeternum:
*et majestas tua in saeculum.

Glorificate eam, omnes gentes, in virtute vestra:
*et cuncti populi terrae, extollite magnificentiam ejus.

Gloria Patri, etc.

PSALMUS 5

Verba mea auribus percipe, Domina:
*et ne avertas a me speciositatem vultus tui.

Converte luctum nostrum in gaudium:
*et tribulationem nostram in jubilationem.

Corruant ante pedes nostros inimici nostri:
*virtute tua eorum capita conterantur.

Benedicat te omnis lingua:
*et nomen sanctum tuum confiteatur omnis caro.

Spiritus enim tuus super mel dulcis:
*et haereditas super mel et favum.

Gloria Palri, etc.


AVE MARIA PURISSIMA!
DIO CI BENEDICA 
E LA VERGINE CI PROTEGGA!

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI - MAGISTRALE OMELIA -

Benedetto XVI: L’Eucaristia è il Sacramento del Dio che non ci lascia soli nel cammino, ma si pone al nostro fianco e ci indica la direzione. In effetti, non basta andare avanti, bisogna vedere verso dove si va! Non basta il “progresso”, se non ci sono dei criteri di riferimento. Anzi, se si corre fuori strada, si rischia di finire in un precipizio, o comunque di allontanarsi più rapidamente dalla meta. Dio ci ha creati liberi, ma non ci ha lasciati soli: si è fatto Lui stesso “via” ed è venuto a camminare insieme con noi, perché la nostra libertà abbia anche il criterio per discernere la strada giusta e percorrerla

SANTA MESSA E PROCESSIONE EUCARISTICA ALLA BASILICA DI SANTA MARIA MAGGIORE NELLA SOLENNITÀ DEL SANTISSIMO CORPO E SANGUE DI CRISTO

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI


Sagrato della Basilica di San Giovanni in Laterano
Giovedì, 22 maggio 2008

Cari fratelli e sorelle!

Dopo il tempo forte dell’anno liturgico, che incentrandosi sulla Pasqua si distende nell’arco di tre mesi – prima i quaranta giorni della Quaresima, poi i cinquanta giorni del Tempo pasquale –, la liturgia ci fa celebrare tre feste che hanno invece un carattere “sintetico”: la Santissima Trinità, quindi il Corpus Domini, e infine il Sacro Cuore di Gesù. Qual è il significato proprio della solennità odierna, del Corpo e Sangue di Cristo? 

Ce lo dice la celebrazione stessa che stiamo compiendo, nello svolgimento dei suoi gesti fondamentali: prima di tutto ci siamo radunati intorno all’altare del Signore, per stare insieme alla sua presenza; in secondo luogo ci sarà la processione, cioè il camminare con il Signore; e infine l’inginocchiarsi davanti al Signore, l’adorazione, che inizia già nella Messa e accompagna tutta la processione, ma culmina nel momento finale della benedizione eucaristica, quando tutti ci prostreremo davanti a Colui che si è chinato fino a noi e ha dato la vita per noi. Soffermiamoci brevemente su questi tre atteggiamenti, perché siano veramente espressione della nostra fede e della nostra vita.


Il primo atto, dunque, è quello di radunarsi alla presenza del Signore. E’ ciò che anticamente si chiamava “statio”. Immaginiamo per un momento che in tutta Roma non vi sia che quest’unico altare, e che tutti i cristiani della città siano invitati a radunarsi qui, per celebrare il Salvatore morto e risorto. Questo ci dà l’idea di che cosa sia stata alle origini, a Roma e in tante altre città dove giungeva il messaggio evangelico, la celebrazione eucaristica: in ogni Chiesa particolare vi era un solo Vescovo e intorno a Lui, intorno all’Eucaristia da lui celebrata, si costituiva la Comunità, unica perché uno era il Calice benedetto e uno il Pane spezzato, come abbiamo ascoltato dalle parole dell’apostolo Paolo nella seconda Lettura (cfr 1 Cor 10,16-17). Viene alla mente quell’altra celebre espressione paolina: “Non c’è più giudeo né greco; non c’è più schiavo né libero; non c’è più uomo né donna, perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù” (Gal 3,28). “Tutti voi siete uno”! In queste parole si sente la verità e la forza della rivoluzione cristiana, la rivoluzione più profonda della storia umana, che si sperimenta proprio intorno all’Eucaristia: qui si radunano alla presenza del Signore persone diverse per età, sesso, condizione sociale, idee politiche. 

L’Eucaristia non può mai essere un fatto privato, riservato a persone che si sono scelte per affinità o amicizia. L’Eucaristia è un culto pubblico, che non ha nulla di esoterico, di esclusivo. Anche qui, stasera, non abbiamo scelto noi con chi incontrarci, siamo venuti e ci troviamo gli uni accanto agli altri, accomunati dalla fede e chiamati a diventare un unico corpo condividendo l’unico Pane che è Cristo. Siamo uniti al di là delle nostre differenze di nazionalità, di professione, di ceto sociale, di idee politiche: ci apriamo gli uni agli altri per diventare una cosa sola a partire da Lui. Questa fin dagli inizi è stata una caratteristica del cristianesimo realizzata visibilmente intorno all’Eucaristia, e occorre sempre vigilare perché le ricorrenti tentazioni di particolarismo, seppure in buona fede, non vadano di fatto in senso opposto. Pertanto, il Corpus Domini ci ricorda anzitutto questo: che essere cristiani vuol dire radunarsi da ogni parte per stare alla presenza dell’unico Signore e diventare in Lui una sola cosa.


Il secondo aspetto costitutivo è il camminare con il Signore. E’ la realtà manifestata dalla processione, che vivremo insieme dopo la Santa Messa, quasi come un suo naturale prolungamento, muovendoci dietro Colui che è la Via, il Cammino. Con il dono di Se stesso nell’Eucaristia, il Signore Gesù ci libera dalle nostre “paralisi”, ci fa rialzare e ci fa “pro-cedere”, ci fa fare cioè un passo avanti, e poi un altro passo, e così ci mette in cammino, con la forza di questo Pane della vita. Come accadde al profeta Elia, che si era rifugiato nel deserto per paura dei suoi nemici, e aveva deciso di lasciarsi morire (cfr 1 Re 19,1-4). Ma Dio lo svegliò dal sonno e gli fece trovare lì accanto una focaccia appena cotta: “Alzati e mangia – gli disse – perché troppo lungo per te è il cammino” (1 Re 19, 5.7). 
La processione del Corpus Domini ci insegna che l’Eucaristia ci vuole liberare da ogni abbattimento e sconforto, ci vuole far rialzare, perché possiamo riprendere il cammino con la forza che Dio ci dà mediante Gesù Cristo

E’ l’esperienza del popolo d’Israele nell’esodo dall’Egitto, la lunga peregrinazione attraverso il deserto, di cui ci ha parlato la prima Lettura. Un’esperienza che per Israele è costitutiva, ma risulta esemplare per tutta l’umanità. Infatti l’espressione “l’uomo non vive soltanto di pane, ma … di quanto esce dalla bocca del Signore” (Dt 8,3) è un’affermazione universale, che si riferisce ad ogni uomo in quanto uomo. Ognuno può trovare la propria strada, se incontra Colui che è Parola e Pane di vita e si lascia guidare dalla sua amichevole presenza. Senza il Dio-con-noi, il Dio vicino, come possiamo sostenere il pellegrinaggio dell’esistenza, sia singolarmente che in quanto società e famiglia dei popoli? 

L’Eucaristia è il Sacramento del Dio che non ci lascia soli nel cammino, ma si pone al nostro fianco e ci indica la direzione. In effetti, non basta andare avanti, bisogna vedere verso dove si va! Non basta il “progresso”, se non ci sono dei criteri di riferimento. Anzi, se si corre fuori strada, si rischia di finire in un precipizio, o comunque di allontanarsi più rapidamente dalla meta. Dio ci ha creati liberi, ma non ci ha lasciati soli: si è fatto Lui stesso “via” ed è venuto a camminare insieme con noi, perché la nostra libertà abbia anche il criterio per discernere la strada giusta e percorrerla.

E a questo punto non si può non pensare all’inizio del “decalogo”, i dieci comandamenti, dove sta scritto: “Io sono il Signore, tuo Dio, che ti ho fatto uscire dal paese d’Egitto, dalla condizione di schiavitù: non avrai altri dèi di fronte a me” (Es 20,2-3). Troviamo qui il senso del terzo elemento costitutivo del Corpus Domini: inginocchiarsi in adorazione di fronte al Signore. Adorare il Dio di Gesù Cristo, fattosi pane spezzato per amore, è il rimedio più valido e radicale contro le idolatrie di ieri e di oggi. 

Inginocchiarsi davanti all’Eucaristia è professione di libertà: chi si inchina a Gesù non può e non deve prostrarsi davanti a nessun potere terreno, per quanto forte. Noi cristiani ci inginocchiamo solo davanti al Santissimo Sacramento, perché in esso sappiamo e crediamo essere presente l’unico vero Dio, che ha creato il mondo e lo ha tanto amato da dare il suo Figlio unigenito (cfr Gv 3,16). Ci prostriamo dinanzi a un Dio che per primo si è chinato verso l’uomo, come Buon Samaritano, per soccorrerlo e ridargli vita, e si è inginocchiato davanti a noi per lavare i nostri piedi sporchi. 

Adorare il Corpo di Cristo vuol dire credere che lì, in quel pezzo di pane, c’è realmente Cristo, che dà vero senso alla vita, all’immenso universo come alla più piccola creatura, all’intera storia umana come alla più breve esistenza. L’adorazione è preghiera che prolunga la celebrazione e la comunione eucaristica e in cui l’anima continua a nutrirsi: si nutre di amore, di verità, di pace; si nutre di speranza, perché Colui al quale ci prostriamo non ci giudica, non ci schiaccia, ma ci libera e ci trasforma.

Ecco perché radunarci, camminare, adorare ci riempie di gioia. Facendo nostro l’atteggiamento adorante di Maria, che in questo mese di maggio ricordiamo particolarmente, preghiamo per noi e per tutti; preghiamo per ogni persona che vive in questa città, perché possa conoscere Te, o Padre, e Colui che Tu hai mandato, Gesù Cristo. E così avere la vita in abbondanza. Amen.

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AMDG et DVM