lunedì 18 marzo 2019

San Giovanni Calabria

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Le nostre radici

Don Giovanni Calabria nasce a Verona, da genitori molto poveri, l'8 ottobre 1873. Compie gli studi preso le scuole del Seminario, e viene consacrato sacerdote l'11 agosto 1901. E’ Curato per sei anni a S. Stefano, poi Rettore a S. Benedetto al Monte. Il 26 novembre 1907 apre la “Casa Buoni Fanciulli” in vicolo Case Rotte, trasferendola l'anno seguente in una sede più ampia a S. Zeno in Monte, su di una collina che domina la città di Verona.

Fonda la Congregazione dei Poveri Servi della Divina Provvidenza, composta di Sacerdoti e Fratelli e quella parallela delle Povere Serve della Divina Provvidenza, con la finalità di vivere e portare nel mondo la fede in Dio Padre e la fiducia nella divina Provvidenza, dedicandosi ai più poveri e agli emarginati. Dopo la sua morte (4 dicembre 1954) sorge in Uruguay la Congregazione delle Sorelle Missionarie dei Poveri. Il 17 aprile 1988 viene beatificato a Verona da Giovanni Paolo II e da lui canonizzato il 18 aprile 1999 in Piazza S. Pietro.

La consegna del Fondatore è chiara, il suo intento, però, non è principalmente di tipo socio-assistenziale: don Calabria intende scuotere il mondo da un uso materialismo, mostrando attraverso i fatti che Dio esiste, che è Provvidenza e non abbandona gli uomini al proprio destino. Perciò nell'inviare i suoi religiosi tra gli emarginati, egli raccomanda uno stile di vita simile a quello degli Apostoli: senza mezzi, senza pubblicità, penserà la Provvidenza a procurare il necessario. Questo abbandono alla volontà divina si traduce in concreto anche in una discreta flessibilità, che permette all'Opera di attuare suoi interventi a partire dalle provocazioni della realtà più che da teorizzazioni sistematiche. È con questo spirito che l'Opera cerca ancora oggi di continuare la sua presenza e la sua attività nella Chiesa.

Un ragazzo che trovò la sua strada
— Va’ via, va’ a fare il prete, che non sei buono ad altro!… Con queste invettive concitate il padrone di Giovannino gli mollava uno scapaccione e lo metteva definitivamente alla porta.

Col grembiule di bottegaio infagottato sotto il braccio Giovannino si avviò verso casa rimuginando pensieri amari: sì, l’aveva fatta grossa più delle altre, aveva imbrattato in modo irrimediabile un diploma che gli avevano dato da mettere in cornice… Eppure ce la metteva tutta, nel suo lavoro. Che colpa ne aveva lui se la mente gli andava via, se talvolta il vetro che teneva tra le mani gli sfuggiva e andava in frantumi? Per quel lavoro non si sentiva tagliato, ecco tutto.

Intanto però bisognava tornare a casa senza lavoro. Come sarebbe rimasta la mamma, che dopo la morte del marito viveva nella miseria con tre figli a carico? Comunque lui voleva essere prete, e non ne faceva mistero a nessuno. Non alla maniera intesa dal bottegaio, ma prete che si sacrifica intorno alla difficile pasta umana, per renderla migliore, per portarla a salvezza. Che importava a lui dei vetri e delle cornici, quando fuori c’era un mondo che bruciava, c’era povertà e miseria a non finire, soprattutto quei figli di nessuno che vagavano per il mondo pallidi e consunti in cerca di pane e di amore?

Quanto alla mamma, Giovannino sapeva che l’avrebbe capito. Con questi pensieri si trovò davanti alla porta di casa ed entrò.

Mamma Angiolina non ebbe bisogno di molte spiegazioni: l’ora insolita del rientro e quel fagotto sotto il braccio del figlio parlavano da sé. Mamma e figlio si guardarono nella penombra di quella stanza povera e buia, poi mamma Angiolina sospirò:
— La Provvidenza non ci mancherà…

I sette guai di Giovannino
Non era la prima volta che veniva licenziato, Giovannino.

Quando il babbo era morto, e lui aveva tredici anni, aveva dovuto interrompere la seconda ginnasiale e mettersi a guadagnare qualcosa per la famiglia rimasta nella miseria. Fu così che era stato assunto come commesso in un piccolo negozio di oggetti vari gestito da un ebreo.

Idealista com’era, Giovannino era più preoccupato di convertire il suo padrone alla fede che di lavorare. Un giorno salì su una sedia e tenne un sermone al suo principale su Gesù Messia e Redentore al quale tutti devono credere per salvarsi. Poi tornò alla carica altre volte.
Il padrone sulle prime lo ascoltò divertito, e poi lo mandò fuori dai piedi.
Povero Giovannino, che disgrazia nascere sognatori, soprattutto in un ambiente come il suo, dove tutto sembrava andargli a rovescio!

Fin da bambino infatti la sua famiglia fu perseguitata dalla povertà: il papà tirava avanti a fatica col suo deschetto di calzolaio, e la malferma salute lo portò presto alla tomba; la mamma dovette faticare come lavandaia e stiratrice per arrotondare un pochino le entrate; poi c’era la Barbara, una donna anziana, entrata in casa chissà come: probabilmente perché solo chi è veramente povero è in grado di pensare che altri sia più povero di lui e di aprirgli il cuore. Poi c’era Teresa, la sorella, e Gaetano, maggiore di lui.

Questa povertà Giovannino l’aveva sentita mordace fin dal giorno della sua prima Comunione. A Verona in un’occasione così singolare per la vita di un fanciullo la tradizione voleva che il padrino regalasse al suo pupillo un orologio.
— Fa’ vedere il tuo orologio, Giovannino! — gridarono i compagni appena usciti dalla chiesa dopo il rito, mostrandosi a vicenda gli orologi avuti dai padrini.
Giovannino rivolse lo sguardo smarrito al padrino, non sapendo che risposta dare. E il padrino lo tolse d’impaccio mostrando col dito l’orologio sul frontone del palazzo Portalupi:
— Il tuo orologio è quello là…
Più tardi Giovannino vide i pochi oggetti di casa portati al Monte di Pietà. Vide bazzicare per casa gli illustri signori della Conferenza di San Vincenzo, e non dimenticò più che un giorno uno di quei signori andò a scoprire la pentola per indagare che cosa contenesse, e che un altro di quei signori mortificò il suo papà perché fumava.
E una volta, e poi un’altra ancora, dopo la morte di papà, dovette spingere per i viottoli di Verona il carrettino con le poche masserizie tarlate, in cerca di un nuovo alloggio, offerto alla famiglia per la carità di un prete. Sloggiarono dapprima nei locali adiacenti alla chiesa di S. Lorenzo, poi furono accolti dalla carità di una buona famiglia.
Ma che fare ora, che Giovannino era stato ributtato nella propria casa senza lavoro?
La mamma si consultò con Don Scapini, il generoso rettore della chiesa di S. Lorenzo, il quale già si era interessato di provvedere all’alloggio di quella famiglia sfortunata.
— Giovanni è deciso di farsi prete. Ebbene, lo sarà. Lo tenga pure a casa, la mamma, e se ne serva per le faccende che a lui si confanno. Gli lasci però il tempo di studiare. Penserà lui, Don Scapini, a prepararlo al seminario.
Così cominciarono subito le lezioni. Ebbe libri e maestri gratis, e sebbene la scuola non potesse essere regolare, tuttavia al termine dei tre anni Giovanni fu giudicato pronto per gli esami. Li diede il 10 novembre 1892, e fu promosso.
Così poté frequentare regolarmente il seminario come esterno. Ma gli anni di studio trascurati, la fatica di quattro viaggi al giorno per recarsi alla scuola, la denutrizione, le preoccupazioni per le fatiche della mamma e altri non piccoli guai gli resero difficile mettersi al passo dei compagni. Giovanni arrancava, arrancava a fatica. Ma nonostante tutto poté cominciare la terza liceo. I superiori erano molto incerti sul suo conto, erano divisi tra loro. E Giovanni doveva subire anche questa umiliazione. Che cosa decidere di questo giovane che ormai aveva compiuto i vent’anni?
— Lo si vedrà dopo il servizio militare…

Il soldato Calabria
E venne il tempo di fare il soldato.

Con quel temperamento, è evidente, Giovanni Calabria non era tagliato per il servizio militare nonostante che ci mettesse tutta la buona volontà, e forse anche perché ce ne metteva troppa, del soldato non poteva uscirne che la caricatura.

Gli capitò di perdere per strada l’otturatore del fucile. Gli capitò perfino, durante una parata militare in Piazza d’Armi di Verona — dove era stato destinato — di rimanere imbrogliato nell'inastare la baionetta al momento del « presentat’arm » sotto gli occhi del comandante supremo: i secondi passano, lui suda, si imbroglia, perde il controllo, i movimenti si fanno goffi e maldestri mentre la baionetta luccica sinistramente al sole sotto gli sguardi di tutti! Il giorno dopo, naturalmente, arriva la nota di biasimo del comandante per l’intera compagnia di sanità con l'invito a punire il colpevole.

Per colmo d’ironia — non certo per meriti di spirito militaresco — fu fatto perfino caporale! Capacità disciplinare zero assoluto: tanto è vero che una volta, precedendo un plotone che doveva spalare la neve, voltatosi allo «squadra alt» si accorse che i suoi commilitoni se l'erano svignata alla chetichella, lasciandolo solo all'improba fatica. E un'altra volta rischiò di essere consegnato perché il tenente si era accorto che i suoi soldati non erano a letto, ma avevano camuffato la loro assenza mettendo tra le lenzuola e i cuscini i propri zaini.

Eppure il soldato Calabria era benvoluto da tutti, come diceva lui stesso: « Sono stati gli anni più belli della mia vita ». Se l’aspetto militaresco non gli era affatto congeniale, la naia gli offriva tuttavia un campo molto vasto di espansione in ciò che costituiva la sua forza personale: il calore umano, la passione per le persone.

— Mi sono accorto — dirà — che nel soldato è nascosto il fanciullino, che lontano dalla propria casa ha ancora bisogno della mamma.
Soprattutto se il fanciullino era malato. Per sua fortuna il soldato Calabria fu assegnato alla compagnia di sanità dell’ospedale militare di Verona. Lì si fece un nome per la sua bontà, per l’amore veramente materno con cui si prodigava per quei giovanottoni ammalati.

Non brillava certo per chiarezza, tanto che una suora gli gettò in faccia il registro sul quale egli annotava le ricette con una scrittura impossibile. Più di una volta rischiò la consegna per il disordine del proprio letto: «Non ho tempo di farlo», si scusava, ed era vero. A se stesso non aveva tempo di pensare, pensava agli altri senza risparmiarsi. E durante un’epidemia di tifo si prodigò talmente da esserne infetto lui stesso per quaranta giorni. Tutti allora gli furono intorno pieni di premure, superiori compresi, i quali si erano ormai abituati a chiudere un occhio sulle sue sbadataggini, come quando rovesciava la cesta dei medicinali o mandava in frantumi qualche termometro.

Anche dopo il servizio militare, la porta dell’ospedale militare gli rimase sempre aperta, ed egli ne approfittò per fare molto bene a tutti.

Segno di contraddizione
— Oh, bentornato, Giovannino! Come ti è andata la naia?…
Il vociare chiassoso degli amici di un tempo diede a Giovanni un po’ di coraggio, anche se l’anno scolastico non cominciava precisamente sotto propizia stella. Sapeva benissimo, Giovanni, che il servizio militare era stato voluto dai superiori per rimandare la difficile decisione che riguardava il suo sacerdozio. Si adagiò nel suo banco, in attesa che cominciasse la lezione.

Ed ecco che entra in classe il professore, poi nientemeno che lo stesso rettore!
— Oh, Calabria, voi qui?
— Sì. Don Scapini mi ha detto di venire in teologia.
Il rettore tace. Cammina avanti e indietro, finalmente emette la sentenza, in tono duro:
— E’ meglio che ripetiate l’ottava. Sì, ritornate in ottava (terza liceo).
Giovanni Calabria si alza, raccoglie i suoi libri, esce trepidante dal banco, riverisce rettore e professore e si avvia in silenzio verso l'aula della terza liceo. I piedi non lo reggono bene, ma ha il coraggio di aprire la porta e di affidarsi all'altra scolaresca, che lo accoglie sorpresa. L'andamento dell'anno scolastico non è troppo incoraggiante, e all'esame di greco — l'osso duro di Giovanni — Don Scapini si reca in seminario per sostenerne le sorti.

— Gliel’hai dato un sei? — chiede dopo l’esame al professore di greco, suo vecchio amico.
— No, non gliel’ho potuto dare. Non se l’è meritato…
— Possibile!… Possibile?… — esclama desolato Don Scapini.
— Le ripeto, non gliel’ho potuto dare…
Nuovo smarrimento di Don Scapini. Poi l’esaminatore esclama:
— Non gli ho dato un sei. Gli ho dato sette, perché se l’è meritato.
I due amici si presero a braccetto e andarono a prendersi «el nosin», la specialità che Don Scapini teneva in serbo per le grandi occasioni.

Ma le difficoltà non erano finite per Giovanni. Si trattava di decidere se Calabria dovesse vestire o no l’abito clericale, e il rettore rimaneva perplesso, i professori divisi. Allora, nella seduta finale, intervenne Don Scapini:
— Non conosco studente più pio, più umile e più obbediente di Calabria. Nessuno più di lui merita di indossare l'abito sacro. Se decidete in contrario, respingo ogni responsabilità: risponderete voi al tribunale di Dio per questa vocazione!
La fermezza e l'autorità che godeva Don Scapini riportarono vittoria, e Giovanni Calabria poté portare l'abito clericale e iniziare la teologia, ma le difficoltà non cessarono ancora. Quante persone dotte sarebbero ricorse a Don Calabria per avere consigli anche in questioni molto intricate! E quale intelligenza avrebbe rivelato, certo grazie al dono straordinario del consiglio che tutti gli riconoscono, nella difficile arte di dirigere le persone che gli sarebbero state affidate in seguito dalla Provvidenza.

Ma intanto bisognava affrontare la teologia. La sua intelligenza era concreta, intuitiva e non discorsiva; in più gli rimaneva il vuoto di studi degli anni in cui l’intelligenza discorsiva si forma. Quindi la teologia lo fece sudare. Fortunatamente aveva una memoria tenace, e alla fine se la cavò. Gli ultimi esami li fece addirittura con l’antico rettore, che nel frattempo era stato fatto vescovo di Verona: il futuro cardinale Bacilieri.

Al suo turno si estrae la tesi. Giovanni comincia la dimostrazione in latino:
— Primo punto, dalla Scrittura… — e giù gli argomenti.
— Secondo punto, dai Padri della Chiesa —, e le argomentazioni scorrono una dietro l’altra che è una meraviglia.
— Et nunc venio ad tertium punctum, quod est cornutum (E ora vengo al terzo punto, che ha due parti)…
— Basta così — interruppe il Vescovo, trasecolato per tanto sapere. E fu una provvidenza, perché Giovanni il terzo punto non l’aveva preparato.
Come era diventato proverbio, «Calabria cascava sempre in piedi», così fu ammesso al sacerdozio.

Sul giusto binario
In seminario lo studente Calabria fu rimproverato dai professori perché disperdeva il tempo in opere di carità e di apostolato a scapito dello studio. In realtà però non era così: gli altri occupavano il tempo libero a ricrearsi, lui trovava gusto a catechizzare i fanciulli e a consolare gli infermi. In questo comprensibile sfogo ridonava equilibrio a se stesso e l'entusiasmo necessario per proseguire in una vita di studio che non gli dava nessuna soddisfazione. Non era un teorico, lui, e l'apparato scolastico senza questa evasione lo avrebbe inibito. Si sentiva fatto per la vita, vibrava soprattutto per le opere di carità. Sua passione erano le persone vive, specialmente le più sprovvedute. Così nel periodo degli studi continuò a frequentare l’ospedale militare, e con il suo confessore studiò un progetto di assistenza con tanto di regolamento, di impegni precisi e perfino d’indulgenza, concessa dal Vescovo: la pia opera di sollievo ai malati poveri. E intorno ad essa una rete di benefattori.
Si applicò pure a spiegare il catechismo ai fanciulli nella chiesa di S. Lorenzo. E come lo seguivano volentieri! Ci fu anzi un piccolo scavezzacollo protestante che gli divenne amico al punto da farsi battezzare, cresimare e diventare sacerdote!

A orientare definitivamente Giovanni Calabria sul binario della carità intervenne un fatto provvidenziale. Era una tarda sera di novembre, nel 1897, e il chierico Calabria tornava dalla visita a un giovanetto ammalato. Giunto al cancelletto d’ingresso di quella casa, gli parve d'intravedere per terra un mucchio di stracci: si chinò su di esso e sentì il respiro regolare di un bimbo che dormiva.
Lo scosse dolcemente, e riconobbe in lui quel piccolo mendicante di sei anni che in corso Castelvecchio chiedeva l’elemosina ai passanti mostrando il topino ammaestrato che sapeva estrarre il «pianeta della fortuna» coi numeri del lotto. Quante volte si era fermato a dirgli una buona parola e a dargli l’elemosina! Se lo era fatto amico, e il fanciullo aveva fiducia in lui.
— Che fai qui, a quest’ora? — gli chiede.
— Mi hanno battuto, mi battono sempre…!
— Chi ti batte? Perché?
— Mi dicono che sono buono a nulla… Vogliono che porti a casa tanti soldi ogni sera, se no sono botte. Anche oggi le ho prese. E sono scappato…
Il singhiozzo interrotto e soffocato si trasformò in uno scroscio di pianto.
— Vieni con me — gli disse Giovanni. E gli prese la mano, mentre con l’altra il bimbo teneva stretta la gabbia col topolino e la scatola dei pianeti. Mamma Angiolina non mosse lamento. La magra cena apparecchiata fu divisa in due. Poi, aggiustato il materasso su tre sedie, Giovanni vi collocò il bambino. Lui si accontentò dei pagliericcio.
Il mattino dopo Giovanni si consigliò con Don Scapini:
— Che ne facciamo?
— Bisogna esser cauti, raccogliere informazioni…
Le responsabilità giuridiche sono tutt’altro che trascurabili. Padre Natale, confessore di Giovanni, aggiunse il consiglio di chiedere un «segno». E il segno venne: un vestito per il bambino, dono di un ebreo. Poi un aiuto in denari… Si poté desumere che il fanciullo facesse parte di una compagnia di zingari, che probabilmente l’aveva rapito in un paese della riviera ligure e forse per questo si guardava bene dal ricercarlo.
Il bimbo comunque trovò una sistemazione presso gli Artigianelli di Brescia. E Giovanni Calabria, fatto sacerdote, fu condotto a interessarsi della gioventù derelitta.

Le radici in su
— Le opere degli uomini sono come una piramide che poggia in terra e termina a punta; le opere di Dio invece appoggiano in terra appena la punta. Noi abbiamo le radici in su —–. Così dice Don Giovanni.
La sua opera, che si sarebbe tanto estesa, ebbe inizi umili e sofferti. I primi sei anni di sacerdozio Don Giovanni li spese in varie opere di bene che lo arricchirono di preziose esperienze pastorali.
Soprattutto il suo confessionale era molto frequentato: la gente, che fiuta il santo, lo assediava per averne assoluzione, conforto, consigli. Quando c’era un malato difficile, un moribondo, chiamavano lui. E il Cardinale pensò di farlo confessore dei seminaristi.

Ritornò allora in seminario con un certo imbarazzo, rasentando i muri per non farsi notare. Ma un gruppo degli antichi professori gli sbarrò il passo:
— Che siete venuto a fare voi qui?
— Mi hanno chiamato a confessare — risponde umilmente Don Calabria. Allora Mons. Grancelli proclamò con il noto versetto biblico:
— La pietra scartata dai costruttori è stata posta a testata d'angolo.

Nei continui contatti pastorali gli saltò presto all'occhio la condizione di molti ragazzi e giovani trascurati dalle famiglie e abbandonati a se stessi, talvolta nella fame e nel vizio. Ebbe particolare cura degli spazzacamini che scendevano dai monti nei mesi invernali.
Ai fanciulli e ragazzi abbandonati si prodigava per cercare un alloggio, una sistemazione presso qualche istituto, ma non sempre vi riusciva. Allora li portava a casa sua per settimane e anche per mesi, affidandoli alla mamma o a qualche persona buona del vicinato. Cominciò con un frugoletto vivacissimo, nel 1906.

Le noie che questi monelli procurarono alla mamma Angiolina furono tali che essa si ammalò in modo grave. Giovanni temette di perderla. Si confidò allora con il suo amico e benefattore, il conte Francesco Perez, al quale la sistemazione dei fanciulli abbandonati stava a cuore come a Don Calabria. Occuparsi ancora di loro? Ma come avrebbe potuto con la mamma in tali condizioni? Alla fine Don Calabria decise:
— Se il Signore vuole che m’interessi dei fanciulli poveri, ridoni alla mamma la salute almeno per un anno.

Contro ogni previsione, improvvisamente la mamma guarì. E i fanciulli abbandonati continuarono ad avere ricovero presso di lui: uno, due tre…, sei. In quella casa non ce ne stavano di più.
Trovarono allora una casa più ampia. Il 26 novembre 1907 il primo drappello di sette «buoni fanciulli» entrava, in vicolo Case Rotte, nella prima casa dei Buoni Fanciulli.

I commenti maligni del buon senso intanto galoppavano per la città secondo il rituale obbligato di tutte le vite dei fondatori:
— E’ diventato matto! Non ne aveva altre da pensare! — e così via. I giudizi maligni arrivavano, naturalmente, anche in seminario. Arrivò pure, in seguito, la notizia che Don Calabria stava per prendere la casa di S. Zeno in Monte. Il suo ex professore di teologia dogmatica un giorno lo incontrò per strada e lo apostrofò:
— Cosa ti metti in mente di fare, Don Giovanni? Apri una casa così grande, senza mezzi? Pensa bene a ciò che fai, perché corri il pericolo di screditare tutto il clero veronese. Mettiti quieto, fa’ il prete, e non cacciarti in testa di fare tante cose…!
— Lei, professore, mi ha insegnato la dogmatica. — replicò Don Calabria.
— Sì, mi ricordo…
— E mi ha insegnato le tesi sulla Provvidenza…
— Sì.
— Ebbene, professore: io cerco di mettere in pratica quelle tesi. Lei mi aiuti con la preghiera!

Stanotte ho scoperto il Vangelo
— Ho bisogno di parlarti.
— C’è qualche disgrazia?
— Tutt’altro che disgrazia. Ti devo dire una cosa grande.
— Una cosa grande?!
— Sì! Ho letto tutto il Vangelo!
Con questo dialogo Don Calabria comunicava a un amico un fatto decisivo della sua vita. E aggiungeva:
— Il Vangelo l’avevo letto e anche predicato, come prete. Ma ier l’altro, dopo un giorno amaro, non riuscendo a dormire presi in mano il Vangelo e lo lessi tutto, tutto in una notte. E n’ebbi una sensazione insolita. Che cosa grande il Vangelo! Ne restai ammirato, stordito, senti, senti…
E voltava le pagine a salto, segnate in margine a matita.
— Senti! Non vi affannate per il cibo. Gli uccelli non seminano né mietono, e il Padre mio li pasce… Se avrete tanta fede quanto un granello di senape, direte a questo monte «spostati in là» e il monte si sposterà al vostro cenno!

Era l’intuizione di grazia che avrebbe fondato e guidato d'ora in poi tutta la sua Opera. Il numero dei fanciulli e ragazzi abbandonati aumentava, e umanamente non si sapeva come mantenerli. Ma la Provvidenza cominciava a venire incontro a Don Calabria nei modi più impensati.

Una mattina gli si presenta una vecchietta così mal ridotta, che Don Giovanni, prima ancora che questa gli sia vicina, porta la mano in tasca per darle una moneta in elemosina. — No, no, reverendo. Non ho bisogno — gli disse la vecchietta. — Sono io che voglio dare qualcosa per i suoi ragazzi —. E gli consegnò un biglietto di mille lire, che allora valevano assai.

Gente umile e famiglie abbienti andarono a gara per aiutarlo. Le fruttivendole di Piazza Erbe gli portavano frutta e verdura che rischiava di andare a male, e spesso la Provvidenza gli veniva in aiuto in modi miracolosi, come quando gli capitava di impegnare i suoi piccoli a pregare per gravi necessità della Casa.

Quando la casa divenne piccola per il numero crescente dei fanciulli, pensò di comprare un caseggiato più vasto. Cercò, contrattò, e finalmente decise di comprare il grande caseggiato di S. Zeno in Monte, che dominava dall’alto la città di Verona adagiata sul verde intorno al nastro scintillante del fiume Adige.
Vi entrò il 6 novembre 1908 e vi stabilì il suo quartiere generale.

Di lì l’opera dei Buoni Fanciulli si estese ad altre città, e giunse anche lontano, molto lontano! Dapprima si portò a Costozza di Vicenza, a Este in quel di Padova; poi a S. Giacomo di Vago, a Negrar… Giunse a Roma, a Milano, a Ferrara, a Napoli, in Calabria. Infine varcò i confini dell’Italia per raggiungere le terre lontane dell’India, del Brasile e dell’Uruguay, Argentina, Paraguay e Angola, in Africa; Russia e Romania, in Europa…

Ogni fondazione è una storia di fede e di Provvidenza. Quando Don Calabria trovava forti difficoltà, metteva nel terreno della fondazione la sua «mina», cioè una medaglia di S. Benedetto; questa col tempo funzionava, buttava all’aria gli ostacoli, e i Buoni Fanciulli avevano una nuova casa.
Evidentemente un'opera così vasta non poteva sostenersi senza le braccia di collaboratori generosi, pronti ad ogni sacrificio. Ed ecco che, insieme coi fanciulli e i giovani abbandonati, la Provvidenza mandava a Don Calabria persone coraggiose e ricche di virtù, come il conte Francesco Perez, che già si era appassionato alle sue opere caritative, Don Desenzani, e tanti altri che col tempo divennero centinaia. Non senza travaglio Don Calabria diede loro una regola di vita, che, ancor prima del Concilio, dava parità di diritti a sacerdoti e laici, uniti in un solo vincolo d'amore nell'istituto dei Poveri Servi della Divina Provvidenza.

Poi vennero anche le donne: grandi figure femminili impegnate in ogni esercizio di carità sotto il nome di Povere Serve della Divina Provvidenza.

Tutto gli si allargava nelle mani, e anche il suo cuore si dilatava. Difficoltà insormontabili sembrarono più volte rovesciarsi sulla sua grande famiglia, ma Don Calabria sapeva che l'Opera non veniva da lui: la Provvidenza l'avrebbe sorretta in mezzo a tutte le tempeste. Insieme con le opere caritative a favore della gioventù abbandonata, Don Calabria si prese a cuore tutti i grandi interessi della Chiesa, fondando, ancor prima del Concilio, un centro di ecumenismo nell'abbazia di Maguzzano (Brescia), assumendosi il sostegno dell'Unione Medico Missionaria Italiana che invia medici volontari in aiuto dei popoli sottosviluppati, sostenendo le vocazioni sacerdotali e religiose senza distinzione di orientamenti, appoggiando ogni iniziativa del Papa, dei Vescovi e della Chiesa.

Negli anni burrascosi della seconda guerra mondiale Don Calabria era un nome aureolato di prestigio carismatico, la sua parola era accolta come una profezia, e i protagonisti della vita della Chiesa gli furono amici, come il card. Schuster di Milano che gli scriveva per chiedergli consiglio e per consolarlo durante la malattia.

Il grande servo della Provvidenza
— Padre, non ce la facciamo più. Manca ogni cosa, nessuno ci viene in aiuto…
Don Calabria ascolta in silenzio il discorso di quel Superiore di una delle case dell'Istituto, poi si raccoglie a meditare la decisione. Alza infine gli occhi e dice al Superiore: — Qui la Provvidenza vi prova al sommo grado. Per questo, non avendo altro da mandarti, ti mando questa povera creatura, che costa il sangue di Dio. Ricevila in suo nome e per amore, e la casa acquisterà un nuovo miliardo… —. E gli affida un bambino.
Un’altra volta, consegnando un fanciullo deficiente ai Fratelli dell’Ospedale di Negrar, disse loro: — Tenetelo caro. Con la fede vale un miliardo!

Don Calabria sapeva quanto vale un uomo, quanto vale soprattutto un cuore in grazia di Dio. Ed era convinto che la Provvidenza non può mancare. Quante volte, anche di notte, meditava la parola del Vangelo:
— Cercate prima di tutto il regno di Dio. Il resto vi sarà dato in sovrappiù.
E ci credeva sul serio. E voleva che i suoi figli ne avessero la stessa fede.
— Urge il ritorno pratico alle pure sorgenti del Vangelo… O si crede, o non si crede; se non si crede, si stracci il Vangelo — diceva.

Per inculcare ai suoi figli queste convinzioni Don Calabria, come gli altri grandi testimoni della Provvidenza, ricorreva a fatti molto concreti di forte pedagogia. Una volta mandò un sacerdote sulla terrazza a battere i secchi. La gente pensava che battesse per arrestare le api che sciamavano, ed era invece per attirare la Provvidenza, e questa venne.
Un’altra volta mandò un sacerdote a battere alla porticina del tabernacolo di Gesù. Il sacerdote bussa con le nocche della mano, e poco dopo la Provvidenza arriva generosa. La storia dell’opera di Don Calabria è tutta intessuta di fatti del genere, tanto che anche i suoi figli ormai ricorrevano ai metodi del Padre.

Un giorno dell'ultima guerra, ad esempio, venne a mancare il sale in una casa. Il Fratello Economo mandò allora un bambino di quinta elementare in chiesa a invocare la Provvidenza. Il bambino va, prega, ma il sale non arriva. Il Fratello allora manda un altro, poi un altro. Alla porta intanto si presenta un povero e domanda la carità di un pizzico di sale. Il Fratello va in cucina e lo domanda alla Suora. Ce n'è solo un bicchiere, il povero può essere contento: lo riceve e ringrazia. In casa il sale è proprio del tutto esaurito.
Allora arriva una telefonata che avverte di andare a prendere oltre dieci chili di sale. Gratuitamente! Un giorno Don Calabria si trovava privo di denaro e pressato dalla necessità. Andò a rovistare nella buca delle lettere, e vi trovò cinquanta lire. Prese con sé un sacerdote di casa, e andò a «seminarle» tra i poveri delle vicinanze, convinto che la Provvidenza lo avrebbe aiutato in pieno. E così fu.

Un'altra volta volle dare lezione di fiducia nella Provvidenza ai suoi novizi. E diede a ciascuno di essi dieci lire.
— Son venuto a rifornirmi — disse loro —. Il noviziato è il luogo di rifornimento. La Provvidenza ci protegge in modo miracoloso…
Usciti di chiesa, dopo la visita all’Eucaristia, disse loro:
— Vi avevo dato una piccola offerta…
— Sì, — risposero — dieci lire.
— Ecco, — soggiunse — le avete fatte fruttare. E consegnò al Maestro settecentocinquanta lire che nel frattempo la Provvidenza gli aveva mandato.

Questo ricorso alla Provvidenza non esimeva dal lavoro o dalle ragionevoli industrie umane:
— La prima Provvidenza è la testa sul collo — soleva dire. — Anche agli uccelli il Signore ha dato la testa e il becco.
Ma al di là di ogni umana diligenza, Lui e il suo Istituto avrebbero dovuto gridare al mondo la pagina dimenticata del Vangelo della Provvidenza:
— Il fine speciale della Congregazione — scriveva nelle Costituzioni della sua Opera — è di ravvivare nel mondo la fede e la fiducia in Dio, Padre di tutti gli uomini, mediante l’abbandono totale nella sua divina Provvidenza per tutto ciò che riguarda le cose necessarie alla vita, secondo l’insegnamento del Signore: «Cercate in primo luogo il Regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato in sovrappiù ».

Sento che il Signore mi vuole bene
Siamo al 3 dicembre 1954.
Al mattino la radio mette in allarme il mondo per la salute del Papa Pio XII. Don Calabria ne è informato da uno degli assistenti:
— Padre, bisogna pregare tanto per il Papa, perché sta molto male.

Don Calabria allarga le braccia, leva lo sguardo al cielo e con un filo di voce esclama:
— Offro ben volentieri la mia povera vita per lui.
Poi si raccoglie e prega.
A un tratto si scuote e dice — E’ accettata!

Il pomeriggio è un po' più tranquillo. Sembra anzi assorto in un pensiero che lo consola. A un certo momento con grande serenità sospira:
«Sento che il Signore mi vuole tanto bene». Anche il pensiero della Mamma celeste gli dà fiducia, e quasi preso da un entusiasmo giovanile che meravigliò i presenti, si mise a canticchiare la nota canzone :— Quando penso alla mia sorte — che son figlio di Maria, — ogni affanno, o Madre mia, — s’allontana allor da me.

Dolcemente cade nel sonno, e si risveglia solo nella luce di Dio.

Il vocabolario di don Calabria
Amare
— Credi, l’importante è conoscere e fare la volontà di Dio.
— Ma cosa vuole da me il Signore? — pare che tu mi dica.
— Ama!

Attenti!
Attenti alle arti del nemico: vorrebbe rovinare il disegno meraviglioso che il Signore ha su ciascuno di voi. Lasciatevi condurre dal Signore, sotto il manto della cara Mamma celeste.

Bontà
Sii buono e sarai sempre giovane
sii buono e sarai sempre ricco
sii buono e sarai sempre felice.

Carità
È come il sole: penetra dappertutto.

Demonio
Satana non teme la mediocrità, ma non può far nulla con le anime generose.

Dio
Dio tiene gli occhi fissi su di voi: vi attende, aspetta che vi leghiate a Lui, per poi affidarvi grandi imprese.

Elemosina
L'Eucaristia è il cibo di Dio per gli uomini, l’elemosina è il cibo degli uomini per Dio.

Fiducia
Fidiamoci del Signore. In un mondo che si allontana sempre più da Dio, accendiamo in noi la fiamma della fede che rischiari anche ad altri il cammino.

Gesù
Gesù ti ama, Gesù ti vuol bene, Gesù ti è vicino.
Non guardare ai più:
guarda ai pochi e segui Gesù.

Lontananza
Fra voi e il povero che beneficate non vi sia lontananza, perché tanto voi quanto quei poveretti avete lo stesso Padre, lo stesso Redentore, lo stesso fine.

Mondo
Dobbiamo guardare al mondo come se fosse cosparso di perle preziose: sono le anime che aspettano Dio.

Nave
Al timone della nave c'è il nostro Padre celeste: di che temere? Verranno le tempeste: niente paura! Il Timoniere non fallirà il suo compito e noi giungeremo sicuri al porto della salvezza.

Orfani
Sono i nostri miliardi.

Oro
Appoggiato alle grucce dell’oro, il Vangelo non farà molta strada.

Poveri
I poveri ci sono per la salvezza dei ricchi.

Provvidenza
La prima Provvidenza è le testa sul collo. Anche agli uccelli il Signore ha dato la testa e il becco. Ma soprattutto «Cercate in primo luogo il Regno di Dio e la sua giustizia, e il resto vi sarà dato in sovrappiù».

Redentore
Se i redenti vivessero da redenti sarebbe più facile credere al Redentore.

Servire
Nel regno di Dio il più grande è chi serve.

Tesori
I nostri tesori sono: le creature abbandonate, reiette, disprezzate: vecchi, malati, peccatori…

Unione
Un legno non fa fuoco, due legni un focherello, tre legni un fuoco bello.

Vangelo
Studiate di essere tanti Vangeli viventi. Il mondo ha bisogno solo di questo.
Urge il ritorno pratico alle pure sorgenti del Vangelo.
O si crede, o non si crede; se non si crede, si stracci il Vangelo.
Zero
Zero e miseria, buone condizioni!

Dopo un giorno amaro, non riuscendo a dormire presi in mano il Vangelo e lo lessi tutto, tutto in una notte. E n’ebbi una sensazione insolita. Che cosa grande il Vangelo! Senti, senti…

D. Calabria

(storia di don Calaria a cura di Vittorio de Bernardi, S.J.)

Caritas omnia sperat.


Chi ama Gesù Cristo
spera tutto da Gesù Cristo.
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16. La maggior pena delle anime sante del purgatorio è il desiderio che hanno di possedere Dio che non ancora possedono. E questa pena specialmente affliggerà quelle anime che poco in vita han desiderato il paradiso. Anzi dice il cardinal Bellarmino (Lib. II. De Purgat. c. 7) che nel purgatorio vi è un certo carcere detto carcer honoratus, ove alcune anime non patiscono alcuna pena di senso, ma solamente la privazione della vista di Dio. Di ciò ne riferiscono più esempi S. Gregorio, il Ven. Beda, S. Vincenzo Ferrerio e S. Brigida. E questa pena si dà non per li peccati commessi, ma per la freddezza nel desiderare il paradiso. Molte anime aspirano alla perfezione, e poi sono troppo indifferenti all'andare a veder Dio o al seguire a vivere in questa terra. Ma la vita eterna è un bene troppo grande che Gesù Cristo ci ha meritato colla sua morte, ond'egli castiga poi quelle anime che poco l'han desiderato nella lor vita.

Affetti e preghiere.

O Dio, mio Creatore e mio Redentore, voi mi avete creato per lo paradiso, mi avete redento dall'inferno per condurmi in paradiso, ed io tante volte con offendervi vi ho rinunziato in faccia il paradiso, e mi son contentato di vedermi condannato all'inferno! Ma sia sempre benedetta la vostra misericordia infinita che perdonandomi, come spero, tante volte mi ha cacciato dall'inferno. Ah, Gesù mio, non vi avessi mai offeso! oh vi avessi sempre amato! Mi consolo che ancora mi resta tempo di farlo.
V'amo, o amore dell'anima mia, v'amo con tutto il mio cuore, v'amo più di me stesso.
Vedo che voi mi volete salvo, acciocch'io v'ami per tutta l'eternità in quel regno di amore. Vi ringrazio, e vi prego ad assistermi nella vita che mi resta, nella quale voglio amarvi assai per amarvi assai poi in eterno.
Ah Gesù mio, quando sarà quel giorno ch'io mi vedrò libero dal pericolo di potervi più perdere, e consumato dall'amore verso di voi in vedere alla scoverta la vostra infinita bellezza, sì ch'io sarò necessitato ad amarvi? Oh dolce necessità! oh felice, oh amata, oh desiderata necessità, che mi esimerà da ogni timore di darvi disgusto e mi costringerà ad amarvi con tutte le mie forze!
La mia coscienza mi spaventa, e mi dice: Come tu puoi pretendere il paradiso? Ma i meriti vostri, caro mio Redentore, sono la speranza mia.
O regina del paradiso Maria, la vostra intercessione è onnipotente appresso Dio, in voi confido.


AMDG et DVM

A controbattere le teorie colpevoli di troppi pseudo-sapienti.



A Maria Valtorta Gesù non da spiegazioni diverse da quelle classiche sulla figura di Adamo ed Eva: Eva che cede per prima al serpente e poi coinvolge il compagno. Probabilmente il tempo non era maturo. Però descrive la figura di Caino con una sorprendente somiglianza alla rivelazione fatta a Don Guido.



"... (Adamo ed Eva) non maledissero neppure Caino, ma piansero sul morto nella carne e sul morto nello spirito in uguale misura, riconoscendo che giusto era il dolore da Dio permesso, perché essi avevano creato il Dolore col loro peccato e per primi dovevano sperimentarlo in tutti i suoi rami. Rimasero perciò figli di Dio e con loro i discendenti venuti dopo questo dolore. Caino peccò contro l'amore di Dio e contro l'amore di prossimo. Infranse l'amore totalmente, e Dio lo maledisse, e Caino non si pentì. Perciò egli e i propri figli non furono che figli dell'animale detto uomo.

Se il primo peccato di Adamo ha fatto di tanto decadere l'uomo, che avrà prodotto di decadenza il secondo al quale si univa la maledizione di Dio? Quali fomiti di peccato nel cuore dell'uomo-animale perché privo di Dio, e a quale potenza saranno giunti, dopo che Caino ebbe non soltanto ascoltato il consiglio del Maledetto, ma lo ebbe abbracciato come suo padrone diletto, uccidendo per ordine suo? La discesa di un ramo, di quello avvelenato dal possesso di Satana, non ebbe sosta ed ebbe mille volti. Quando Satana prende, corrompe in tutti i rami. Quando Satana è re, il suddito diviene un satana. Un satana con tutte le sfrenatezze di Satana. Un satana che va contro la legge divina e umana. Un satana che viola anche le più elementari e istintive norme di vivere da uomini dotati di anima, e si abbrutisce nei più laidi peccati dell'uomo bruto.





Dove non è Dio è Satana. Dove l'uomo non ha più anima viva è l'uomo-bruto. Il bruto ama i bruti. La lussuria carnale, più che carnale perché afferrata ed esasperata da Satana, lo fa avido di tutti i connubi. Bello e seducente gli pare ciò che e orrido e sconvolgente come un incubo. Il lecito non lo appaga. E' troppo poco e troppo onesto. E pazzo di libidine cerca l'illecito, il degradante, il bestiale.

Quelli che non erano più figli di Dio, perché col padre e come il padre avevano fuggito Dio per accogliere Satana, si spinsero a questo illecito, degradante, bestiale. Ed ebbero mostri per figli e figlie. Quei mostri che ora colpiscono i vostri scienziati e li traggono in errore. Quei mostri che, per la potenza delle forme e per una selvaggia bellezza e un'ardenza belluina, frutti del connubio fra Caino e i bruti, fra i brutissimi figli di Caino e le fiere, sedussero i figli di Dio, ossia i discendenti di Set per Enos, Cainan, Malaleel, Jared, Enoc di Jared — da non confondersi coll'Enoc di Caino — Matusala, Lamec e Noè padre di Sem, Cam e Jafet. Fu allora che Dio, ad impedire che il ramo dei figli di Dio si corrompesse tutto con il ramo dei figli degli uomini, mandò il generale diluvio a spegnere sotto il peso delle acque la libidine degli uomini e a distruggere i mostri generati dalla libidine dei senza Dio, insaziabili nel senso perché arsi dai fuochi di Satana.

E l'uomo, l'uomo attuale, farnetica sulle linee somatiche e sugli angoli zigomatici, e non volendo ammettere un Creatore, perché troppo superbo per poter riconoscere di essere stato fatto, ammette la discendenza dai bruti! Per potersi dire: "Noi, da soli, ci siamo evoluti da animali a uomini". Si degrada, si autodegrada, per non volersi umiliare davanti a Dio. E discende. Oh! se discende! Ai tempi della prima corruzione ebbe di animale l'aspetto. Ora ne ha il pensiero ed il cuore, e la sua anima, per sempre più profondo connubio col male, ha preso il volto di Satana in troppi.




Scrivilo questo dettato nel libro. Più ampiamente avrei trattato l'argomento, come ti avevo detto nel luogo del tuo esilio, a controbattere le teorie colpevoli di troppi pseudo-sapienti. Ma deve bene esservi un castigo per coloro che non mi vogliono sentire nelle parole che scrivi sotto dettatura mia. Avrei svelato grandi misteri. Perché l'uomo sapesse, ora che i tempi sono maturi. Non è più il tempo da contentare le folle con le favolette. Sotto la metafora delle antiche storie sono le verità chiave a tutti i misteri dell'universo, ed Io li avrei spiegati attraverso il mio piccolo, paziente Giovanni [ossia Maria Valtorta]. Perché l'uomo dal sapere la verità traesse forza a risalire l'abisso per essere sullo stesso piano del nemico nell'ultima lotta che precederà la fine di un mondo che, nonostante tutti gli aiuti di Dio, non volle diventare un pre-paradiso, ma preferì divenire un pre-inferno."

Maria Valtorta, Quaderni dal 1945 al 1950, pag. 340-341

AMDG et DVM

domenica 17 marzo 2019

Catechesi-Perla sul ruolo dei Sacramenti: Battesimo-Eucarestia- e Matrimonio

Benedetto XVI Udienze 2008
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BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Aula Paolo VI
Mercoledì, 10 dicembre 2008



San Paolo (16)

Il ruolo dei Sacramenti

Cari fratelli e sorelle,

seguendo san Paolo abbiamo visto nella catechesi di mercoledì scorso due cose. La prima è che la nostra storia umana dagli inizi è inquinata dall'abuso della libertà creata, che intende emanciparsi dalla Volontà divina. E così non trova la vera libertà, ma si oppone alla verità e falsifica, di conseguenza, le nostre realtà umane. Falsifica soprattutto le relazioni fondamentali: quella con Dio, quella tra uomo e donna, quella tra l'uomo e la terra. Abbiamo detto che questo inquinamento della nostra storia si diffonde sull’intero suo tessuto e che questo difetto ereditato è andato aumentando ed è ora visibile dappertutto. Questa era la prima cosa. La seconda è questa: da san Paolo abbiamo imparato che esiste un nuovo inizio nella storia e della storia in Gesù Cristo, Colui che è uomo e Dio. Con Gesù, che viene da Dio, comincia una nuova storia formata dal suo sì al Padre, fondata perciò non sulla superbia di una falsa emancipazione, ma sull'amore e sulla verità.

Ma adesso si pone la questione: come possiamo entrare noi in questo nuovo inizio, in questa nuova storia? Come questa nuova storia arriva a me? Con la prima storia inquinata siamo inevitabilmente collegati per la nostra discendenza biologica, appartenendo noi tutti all'unico corpo dell'umanità. Ma la comunione con Gesù, la nuova nascita per entrare a far parte della nuova umanità, come si realizza? Come arriva Gesù nella mia vita, nel mio essere? La risposta fondamentale di san Paolo, di tutto il Nuovo Testamento è: arriva per opera dello Spirito Santo. Se la prima storia si avvia, per così dire, con la biologia, la seconda si avvia nello Spirito Santo, lo Spirito del Cristo risorto. Questo Spirito ha creato a Pentecoste l'inizio della nuova umanità, della nuova comunità, la Chiesa, il Corpo di Cristo.

Però dobbiamo essere ancora più concreti: questo Spirito di Cristo, lo Spirito Santo, come può diventare Spirito mio? La risposta è che ciò avviene in tre modi, intimamente connessi l'uno con l'altro. Il primo è questo: lo Spirito di Cristo bussa alle porte del mio cuore, mi tocca interiormente. Ma poiché la nuova umanità deve essere un vero corpo, poiché lo Spirito deve riunirci e realmente creare una comunità, poiché è caratteristico del nuovo inizio il superare le divisioni e creare l’aggregazione dei dispersi, questo Spirito di Cristo si serve di due elementi di aggregazione visibile: della Parola dell'annuncio e dei Sacramenti, particolarmente del Battesimo e dell'Eucaristia. Nella Lettera ai Romani, dice san Paolo: «Se con la tua bocca proclamerai: ‘Gesù è il Signore’, e con il tuo cuore crederai che Dio lo ha risuscitato dai morti, sarai salvo» (10, 9), entrerai cioè nella nuova storia, storia di vita e non di morte. Poi san Paolo continua: «Ora, come invocheranno colui nel quale non hanno creduto? Come crederanno in colui del quale non hanno sentito parlare? Come ne sentiranno parlare senza qualcuno che lo annunci? E come lo annunceranno, se non sono stati inviati?» (Rm 10, 14-15). In un successivo passo dice ancora: «La fede viene dall'ascolto» (Rm 10,17). La fede non è prodotto del nostro pensiero, della nostra riflessione, è qualcosa di nuovo che non possiamo inventare, ma solo ricevere come dono, come una novità prodotta da Dio. E la fede non viene dalla lettura, ma dall'ascolto. Non è una cosa soltanto interiore, ma una relazione con Qualcuno. Suppone un incontro con l'annuncio, suppone l'esistenza dell'altro che annuncia e crea comunione.

E finalmente l'annuncio: colui che annuncia non parla da sé, ma è inviato. Sta entro una struttura di missione che comincia con Gesù inviato dal Padre, passa agli apostoli - la parola apostoli significa «inviati» - e continua nel ministero, nelle missioni trasmesse dagli apostoli. Il nuovo tessuto della storia appare in questa struttura delle missioni, nella quale sentiamo ultimamente parlare Dio stesso, la sua Parola personale, il Figlio  parla con noi, arriva fino a noi. La Parola si è fatta carne, Gesù, per creare realmente una nuova umanità. Perciò la parola dell'annuncio diventa Sacramento nel Battesimo, che è rinascita dall'acqua e dallo Spirito, come dirà san Giovanni. Nel sesto capitolo della Lettera ai Romani san Paolo parla in modo molto profondo del Battesimo. Abbiamo sentito il testo. Ma forse è utile ripeterlo: «Non sapete che quanti siamo stati battezzati in Cristo Gesù, siamo battezzati nella sua morte? Per mezzo del Battesimo siamo dunque stati sepolti insieme a Lui nella morte, perché come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova» (6,3-4).

In questa catechesi, naturalmente, non posso entrare in una interpretazione dettagliata di questo testo non facile. Vorrei brevemente notare solo tre cose. La prima: «siamo stati battezzati» è un passivo. Nessun può battezzare se stesso, ha bisogno dell'altro. Nessuno può farsi cristiano da se stesso. Divenire cristiani è un processo passivo. Solo da un altro possiamo essere fatti cristiani. E questo “altro” che ci fa cristiani, ci dà il dono della fede, è in prima istanza la comunità dei credenti, la Chiesa. Dalla Chiesa riceviamo la fede, il Battesimo. Senza lasciarci formare da questa comunità non diventiamo cristiani. Un cristianesimo autonomo, autoprodotto, è una contraddizione in sé. In prima istanza, questo altro è la comunità dei credenti, la Chiesa, ma in seconda istanza anche questa comunità non agisce da sé, secondo le proprie idee e desideri. Anche la comunità vive nello stesso processo passivo: solo Cristo può costituire la Chiesa. Cristo è il vero donatore dei Sacramenti. Questo è il primo punto: nessuno battezza se stesso, nessuno fa se stesso cristiano. Cristiani lo diventiamo.

La seconda cosa è questa: il Battesimo è più che un lavaggio. È morte e risurrezione. Paolo stesso parlando nella Lettera ai Galati della svolta della sua vita realizzatasi nell'incontro con Cristo risorto, la descrive con la parola: sono morto. Comincia in quel momento realmente una nuova vita. Divenire cristiani è più che un’operazione cosmetica, che aggiungerebbe qualche cosa di bello a un’esistenza già più o meno completa. È un nuovo inizio, è rinascita: morte e risurrezione. Ovviamente nella risurrezione riemerge quanto era buono nell'esistenza precedente.

La terza cosa è: la materia fa parte del Sacramento. Il cristianesimo non è una realtà puramente spirituale. Implica il corpo. Implica il cosmo. Si estende verso la nuova terra e i nuovi cieli. Ritorniamo all'ultima parola del testo di san Paolo: così - dice - possiamo “camminare in una nuova vita”. Elemento di un esame di coscienza per noi tutti: camminare in una nuova vita. Questo per il Battesimo.

Veniamo adesso al Sacramento dell'Eucaristia. Ho già mostrato in altre catechesi con quale profondo rispetto san Paolo trasmetta verbalmente la tradizione sull'Eucaristia che ha ricevuto dagli stessi testimoni dell'ultima notte. Trasmette queste parole come un prezioso tesoro affidato alla sua fedeltà. E così sentiamo in queste parole realmente i testimoni dell'ultima notte. Sentiamo le parole dell'Apostolo: «Io infatti ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso. Il Signore Gesù nella notte in cui veniva tradito prese del pane e dopo aver reso grazie lo spezzò e disse: questo è il mio Corpo che è per voi, fate questo in memoria di me. Allo stesso modo dopo aver cenato prese anche il calice dicendo: questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue, fate questo ogni volta che ne bevete in memoria di me» (1 Cor 11,23-25). È un testo inesauribile. Anche qui, in questa catechesi, solo due brevi osservazioni. Paolo trasmette le parole del Signore sul calice così: questo calice è «la nuova alleanza nel mio sangue». In queste parole si nasconde un accenno a due testi fondamentali dell'Antico Testamento. Il primo accenno è alla promessa di una nuova alleanza nel Libro del profeta Geremia. Gesù dice ai discepoli e dice a noi: adesso, in questa ora, con me e con la mia morte si realizza la nuova alleanza; dal mio sangue comincia nel mondo questa nuova storia dell'umanità. Ma è presente, in queste parole, anche un accenno al momento dell'alleanza del Sinai, dove Mosè aveva detto: “Ecco il sangue dell'alleanza che il Signore ha concluso con voi sulla base di queste parole” (Es 24,8). Là si trattava di sangue di animali. Il sangue degli animali poteva essere solo espressione di un desiderio, attesa del vero sacrificio, del vero culto. Col dono del calice il Signore ci dona il vero sacrificio. L'unico vero sacrificio è l'amore del Figlio. Col dono di questo amore, amore eterno, il mondo entra nella nuova alleanza. Celebrare l'Eucaristia significa che Cristo ci dà se stesso, il suo amore, per conformarci a se stesso e per creare così il mondo nuovo.

Il secondo importante aspetto della dottrina sull'Eucaristia appare nella stessa prima Lettera ai Corinzi dove san Paolo dice: «Il calice della benedizione che noi benediciamo, non è forse comunione con il sangue di Cristo? Il pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il Corpo di Cristo? Poiché vi è un solo pane, noi siamo, benché molti, un corpo solo: tutti infatti partecipiamo all'unico pane» (10, 16-17). In queste parole appare ugualmente il carattere personale e il carattere sociale del Sacramento dell'Eucaristia. Cristo si unisce personalmente ad ognuno di noi, ma lo stesso Cristo si unisce anche con l'uomo e con la donna accanto a me. E il pane è per me e anche per l'altro. Così Cristo ci unisce tutti a sé e unisce tutti noi, l’uno con l'altro. Riceviamo nella comunione Cristo. Ma Cristo si unisce ugualmente con il mio prossimo: Cristo e il prossimo sono inseparabili nell'Eucaristia. E così noi tutti siamo un solo pane, un solo corpo. Un’Eucaristia senza solidarietà con gli altri è un’Eucaristia abusata. E qui siamo anche alla radice e nello stesso tempo al centro della dottrina sulla Chiesa come Corpo di Cristo, del Cristo risorto.

Vediamo anche tutto il realismo di questa dottrina. Cristo ci dà nell'Eucaristia il suo corpo, dà se stesso nel suo corpo e così ci fa suo corpo, ci unisce al suo corpo risorto. Se l'uomo mangia pane normale, questo pane nel processo della digestione diventa parte del suo corpo, trasformato in sostanza di vita umana. Ma nella santa Comunione si realizza il processo inverso. Cristo, il Signore, ci assimila a sé, ci introduce nel suo Corpo glorioso e così noi tutti insieme diventiamo Corpo suo. Chi legge solo il cap. 12 della prima Lettera ai Corinzi e il cap. 12 della Lettera ai Romani potrebbe pensare che la parola sul Corpo di Cristo come organismo dei carismi sia solo una specie di parabola sociologico-teologica. Realmente nella politologia romana questa parabola del corpo con diverse membra che formano una unità era usata per lo Stato stesso, per dire che lo Stato è un organismo nel quale ognuno ha la sua funzione, la molteplicità e diversità delle funzioni formano un corpo e ognuno ha il suo posto. Leggendo solo il cap. 12 della prima Lettera ai Corinzi si potrebbe pensare che Paolo si limiti a trasferire soltanto questo alla Chiesa, che anche qui si tratti solo di una sociologia della Chiesa. Ma tenendo presente questo capitolo decimo vediamo che il realismo della Chiesa è ben altro, molto più profondo e vero di quello di uno Stato-organismo. Perché realmente Cristo dà il suo corpo e ci fa suo corpo. Diventiamo realmente uniti col corpo risorto di Cristo, e così uniti l'uno con l'altro. La Chiesa non è solo una corporazione come lo Stato, è un corpo. Non è semplicemente un’organizzazione, ma un vero organismo.

Alla fine, solo una brevissima parola sul Sacramento del matrimonio. Nella Lettera ai Corinzi si trovano solo alcuni accenni, mentre la Lettera agli Efesini ha realmente sviluppato una profonda teologia del Matrimonio. Paolo definisce qui il  Matrimonio «mistero grande». Lo dice «in riferimento a Cristo e alla sua Chiesa» (5, 32). Va rilevata in questo passo una reciprocità che si configura in una dimensione verticale. La sottomissione vicendevole deve adottare il linguaggio dell'amore, che ha il suo modello nell'amore di Cristo verso la Chiesa. Questo rapporto Cristo-Chiesa rende primario l'aspetto teologale dell'amore matrimoniale, esalta la relazione affettiva tra gli sposi. Un autentico matrimonio sarà ben vissuto se nella costante crescita umana e affettiva si sforzerà di restare sempre legato all'efficacia della Parola e al significato del Battesimo. Cristo ha santificato la Chiesa, purificandola per mezzo del lavacro dell'acqua, accompagnato dalla Parola. La partecipazione al corpo e sangue del Signore non fa altro che cementare, oltre che visibilizzare, una unione resa per grazia indissolubile.

E alla fine sentiamo la parola di san Paolo ai Filippesi: “Il Signore è vicino” (Fil 4,5). Mi sembra che abbiamo capito che, mediante la Parola e mediante i Sacramenti, in tutta la nostra vita il Signore è vicino. Preghiamolo affinché possiamo sempre più essere toccati nell'intimo del nostro essere da questa sua vicinanza, affinché nasca la gioia – quella gioia che nasce quando Gesù è realmente vicino.

Saluti:

Je suis heureux d’accueillir les pèlerins francophones, en particulier les religieuses du cours de formation de formatrices à la vie consacrée et le groupe de la République du Congo. Que l’enseignement de saint Paul vous aide à approfondir votre communion au Christ et à l’Église, notamment par la vie sacramentelle. Avec ma Bénédiction apostolique!

I am pleased to welcome the English-speaking pilgrims and visitors here today, including groups from Australia and the United States. I greet especially the newly professed Missionaries of Charity from various countries. Upon all of you, and upon your families and loved ones, I invoke God’s blessings of joy and peace.

Gerne grüße ich alle deutschsprachigen Pilger und Besucher. Gottes Wort ist wirkmächtig. Wir wollen seine Botschaft in unsere Herzen aufnehmen und als Kinder Gottes mitwirken, daß sein Heil zu den Menschen gelangt. Gottes Segen begleite euch durch diese Zeit des Advents.

Saludo con afecto a los peregrinos de lengua española, en particular a los fieles de la Parroquia de San Benito, de Gondomar, Pontevedra, y a los demás grupos venidos de España, México y otros países latinoamericanos. Que la doctrina del Apóstol Pablo renueve en vosotros la gracia recibida en los sacramentos y os ayude a tomar conciencia de vuestra condición de discípulos de Cristo y miembros vivos de la Iglesia. Muchas gracias.

Amados peregrinos de língua portuguesa, as minhas boas-vindas a todos, com uma saudação deferente e amiga aos Presidentes das Câmaras e respectivos munícipes do Alto Tâmega. Imploro as bênçãos de Deus sobre os respectivos compromissos institucionais para que, inspirados pela solidariedade cristã, possam servir e promover o bem comum da sociedade. Com estes votos e a certeza da minha oração pelas intenções que vos trouxeram a Roma, vos abençoo a vós, aos vossos familiares e comunidades cristãs.

Saluto in lingua croata:

Srdačno pozdravljam hrvatske hodočasnike, a osobito djelatnike Ministarstva prosvjete, znanosti, kulture i športa Zapadnohercegovačke županije iz Bosne i Hercegovine. Iščekujući u nadi slavni Kristov dolazak, živimo dostojno sakramenta krštenja po kojem smo postali njegovi učenici. Hvaljen Isus i Marija!

Traduzione italiana:

Saluto di cuore i pellegrini croati, particolarmente gli impiegati del Ministero dell’educazione, scienza, cultura e sport della Contea di Nord-Erzegovina della Bosnia ed Erzegovina. Aspettando nella speranza la gloriosa venuta di Cristo, viviamo in conformità al Sacramento del Battesimo per mezzo del quale siamo divenuti i suoi discepoli. Siano lodati Gesù e Maria!

Saluto in lingua polacca:

Pozdrawiam serdecznie obecnych tu Polaków. Zachęceni nauczaniem świętego Pawła korzystajmy często z sakramentów świętych. Ich owocem jest nasza szczególna więź z Chrystusem, duch wzajemnej miłości i odwaga w dawaniu świadectwa. Czas Adwentu niech będzie dla nas okazją do pogłębienia życia sakramentalnego. Niech będzie pochwalony Jezus Chrystus.

Traduzione italiana:

Saluto cordialmente tutti i Polacchi qui presenti. Incoraggiati dell’insegnamento di San Paolo, accostiamoci spesso ai Sacramenti della Chiesa. I loro frutti sono il nostro particolare legame con Cristo, lo spirito d’amore vicendevole e il coraggio nel rendere testimonianza. Il tempo d’Avvento sia un’occasione concreta per l’approfondimento della nostra vita sacramentale. Sia lodato Gesù Cristo.

Saluto in lingua slovacca:

S láskou pozdravujem slovenských pútnikov z Bratislavy ako aj študentov Grécko-katolíckeho gymnázia svätého Jána Krstiteľa z Trebišova. Bratia a sestry, milí mladí, prajem vám, aby ste prežívali tento Advent podľa vzoru Panny Márie v radostnom očakávaní Spasiteľa. Zo srdca vás žehnám. Pochválený buď Ježiš Kristus!

Traduzione italiana:

Saluto con affetto i pellegrini slovacchi provenienti da Bratislava come pure gli studenti del Ginnasio greco-cattolico San Giovanni Battista di Trebišov. Fratelli e sorelle, cari giovani, vi auguro di vivere questo tempo di Avvento come la Vergine Maria nella gioiosa attesa del Salvatore. Di cuore vi benedico. Sia lodato Gesù Cristo!

Saluto in lingua slovena:

Lepo pozdravljam člane skupnosti Barka iz Slovenije! Naj vam to romanje ob deseti obletnici vašega druženja pomaga, da boste imeli vedno bolj radi drug drugega pa tudi Jezusa, našega Brata in Gospoda. Naj bo z vami moj blagoslov!

Traduzione italiana:

Rivolgo un cordiale saluto ai membri della Comunità dell’Arca provenienti dalla Slovenia! Questo pellegrinaggio in occasione del 10° Anniversario del vostro stare insieme vi sia d’aiuto affinché possiate sempre di più volervi bene gli uni gli altri, ed amare anche Gesù, nostro Fratello e Signore. Vi accompagni la mia Benedizione!

* * *

Rivolgo ora un cordiale benvenuto ai pellegrini di lingua italiana. In particolare, saluto i rappresentanti della Federazione Italiana Gioco Calcio dell’Umbria e i fedeli della Cappellania Beato Giovanni XXIII e Beato Andrea Ferrari di Milano. Saluto inoltre la Delegazione del Comune di Mazzarrone, che ringrazio per il generoso dono dell’uva destinata ai poveri di Roma.

Il mio pensiero va, infine, ai giovani, ai malati e agli sposi novelli. La Beata Vergine di Loreto, di cui oggi facciamo memoria, aiuti voi, cari giovani, a disporre i vostri cuori ad accogliere Gesù, che ci salva con la potenza del suo amore; conforti voi, cari malati, che nella vostra esperienza di malattia condividete con Cristo il peso della Croce, e incoraggi voi, cari sposi novelli che da poco tempo avete fondato la vostra famiglia, a crescere sempre più in quell'amore che Gesù ci ha donato nel suo Natale.



© Copyright 2008 - Libreria Editrice Vaticana
AMDG et DVM

UN ASSAGGIO DI QUELLO CHE SAREMO... se ci vorremo bene gli uni gli altri con amore fraterno, se benediremo e mai malediremo, se serviremo il Signore, lieti nella speranza

CCCXLIX. La Trasfigurazione sul monte Tabor e l’epilettico guarito ai piedi del monte. Un commento per i prediletti. 
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3 Dicembre 1945

 1 Chi mai fra gli uomini non ha visto, almeno per una volta, un’alba serena di marzo? Se quest’uno c’è, è un grande infelice, perché ignora una delle grazie più belle della natura risvegliata da primavera, tornata vergine, fanciulla, quale doveva esserlo nel primo giorno.
   In questa grazia, che è pura in ogni suo aspetto e cosa – dalle erbe novelle e rugiadose ai fioretti che si dischiudono, come bimbi che nascono, al primo ridere della luce del giorno; agli uccelli che si destano con un frullo d’ali e dicono il primo cip? interrogativo, preludio a tutti i loro canori discorsi della giornata; all’odore stesso dell’aria che ha perduto nella notte, per il lavacro delle rugiade e l’assenza dell’uomo, ogni corruzione di polvere, fumo e sentore di corpi umani – vanno Gesù, gli apostoli e i discepoli. È con essi anche Simone d’Alfeo.
   Vanno in direzione sud-est, valicando i colli che fanno corona a Nazaret, superando un torrente, traversando una pianura stretta fra i colli nazareni e un gruppo di monti verso est.

 2 Questi monti sono preceduti dal cono semimonco del Tabor che mi ricorda stranamente, nella sua vetta, la lucerna dei nostri carabinieri vista di profilo.

   Lo raggiungono. 
   Gesù si ferma e dice: «Pietro, Giovanni e Giacomo di Zebedeo vengano con Me sul monte. Voi spargetevi alla sua base, dividendovi verso le strade che la costeggiano, e predicate il Signore. Verso sera voglio essere di nuovo a Nazaret. Non allontanatevi dunque molto. La pace sia con voi». E volgendosi ai tre chiamati dice: «Andiamo».
   E prende la salita senza più volgersi indietro e con un passo così sollecito che fa faticare Pietro a stargli dietro.
   In un momento di sosta Pietro, rosso e sudato, gli chiede col fiato grosso: «Ma dove andiamo? Non ci sono case sul monte. Sulla cima quella vecchia fortezza. Vuoi andare a predicare la?».
   «Avrei preso l’altro versante. Ma tu vedi che gli volgo le spalle. Non andremo alla fortezza, e chi è in essa non ci vedrà neppure. Vado ad unirmi col Padre mio, e vi ho voluti con Me perché vi amo. Su, lesti!».
   «Oh! mio Signore! Non potremo andare un poco più adagio, invece, e parlare di quanto abbiamo sentito e visto ieri, che ci ha tenuti desti tutta la notte per parlarne?».
   «Agli appuntamenti di Dio si va sempre veloci. Forza Simon Pietro! Lassù vi farò riposare». E riprende a salire…


 3 Dice Gesù: 
   «Qui innestate la Trasfigurazione avuta il 5 agosto 1944, ma senza il dettato unito alla stessa. Finito di copiare la Trasfigurazione dello scorso anno, P.M. copierà ciò che ti mostro ora».
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   5 Agosto 1944

 4 Sono col mio Gesù su un alto monte. Con Gesù sono Pietro, Giacomo e Giovanni. Salgono ancor più in alto e l’occhio spazia per aperti orizzonti che un bel giorno sereno rende netti nei particolari fin nelle lontananze.
   Il monte non fa parte di un sistema montano come è quello della Giudea; sorge isolato avendo, rispetto al luogo dove ci troviamo, l’oriente in faccia, il nord alla sinistra, il sud a destra e dietro, a ovest, la vetta che si alza di ancora qualche centinaio di passi. 
   È molto elevato e l’occhio è libero di vedere per un largo raggio. Il lago di Genezaret pare un lembo di cielo sceso a incastonarsi fra il verde della terra, una turchese ovale chiusa da smeraldi di diverse gradazioni, uno specchio che tremula e si increspa a un vento lieve e sul quale scivolano, con agilità di gabbiani, le barche dalle vele spiegate, leggermente curvate verso l’onda azzurrina, proprio con la grazia del volo candido di un alcione, scorrente l’onda in cerca di preda. Poi ecco che dalla vasta turchese esce una vena, di azzurro più pallido là dove il greto è più ampio, e più scuro là dove le rive si stringono e l’acqua è più profonda e cupa per l’ombra che vi gettano gli alberi che crescono vigorosi presso il fiume, nutriti dal suo umore. Il Giordano pare una pennellata quasi rettilinea nel verde della pianura.
   Dei paeselli sono sparsi per la pianura al di qua e al di là del fiume. Alcuni sono proprio un pugno di case, altri sono più vasti, già arieggianti a cittadine. Le vie maestre sono rughe giallognole fra il verde. Ma qua, dalla parte del monte, la pianura è molto più coltivata e fertile, molto bella. Si vedono le diverse colture coi loro diversi colori ridere al bel sole che scende dal cielo sereno.
   Deve essere primavera, forse marzo, se calcolo la latitudine della Palestina, perché vedo i grani già alti, ma ancora verdi, ondulare come un mare glauco, e vedo i pennacchi dei più precoci fra gli alberi da frutto mettere come delle nuvolette bianche e rosee su questo piccolo mare vegetale, poi prati tutti in fiore per gli alti fieni sui quali pecorelle pascolanti paiono mucchietti di neve ammucchiata qua e là sul verde.
   Proprio vicino al monte, sulle colline che ne sono la base, basse e brevi colline, sono due cittadine, una verso sud, una verso nord. La pianura fertilissima si estende specialmente e più ampiamente verso il sud.

 5 Gesù, dopo una breve sosta al fresco di un ciuffo di alberi, certo concessa per pietà di Pietro che nelle salite fatica palesemente, riprende a salire. Va fin quasi sulla vetta, là dove è un pianoro erboso che ha un semicerchio di alberi verso la costa. 
   «Riposate, amici. Io vado là a pregare». E accenna con la mano ad un ampio sasso, una roccia che affiora dal monte e che si trova perciò non verso la costa ma verso l’interno, la vetta.
   Gesù si inginocchia sulla terra erbosa e appoggia le mani e il capo al masso, nella posa che prenderà anche nella preghiera al Getsemani. Il sole non lo colpisce perché la vetta lo ripara. Ma il resto dello spiazzo erboso è tutto lieto di sole, sino al limite d’ombra dello scrimolo alberato sotto il quale si sono seduti gli apostoli.
   Pietro si leva i sandali e se ne scuote via polvere e sassolini e sta così, scalzo, coi piedi stanchi fra l’erba fresca, quasi steso, col capo su un ciuffo smeraldino che sporge più degli altri sulla sua zolla come un guanciale. Giacomo lo imita, ma per stare comodo cerca un tronco d’albero al quale appoggia il suo mantello e su questo le spalle. Giovanni resta seduto e osserva il Maestro. Ma la calma del luogo, il venticello fresco, il silenzio e la stanchezza vincono anche lui, e la testa gli si abbassa sul petto e così le palpebre sugli occhi. Non dormono profondamente nessuno dei tre, ma sono in quella sonnolenza estiva che intontisce.

 6 Li scuote una luminosità così viva che annulla quella del sole e dilaga e penetra fin sotto il verde dei cespugli e alberi sotto cui si sono messi.
   Aprono gli occhi stupiti e vedono Gesù Trasfigurato. Egli è ora tale e quale come lo vedo nelle visioni del Paradiso. Naturalmente senza le Piaghe e senza il vessillo della Croce. Ma la Maestà del volto e del corpo è uguale, uguale ne è la luminosità, e uguale la veste che da un rosso cupo si è mutata nel diamantifero e perlifero tessuto immateriale che lo veste in Cielo. Il suo viso è un sole dalla luce siderale ma intensissima, nel quale raggiano gli occhi di zaffiro. Sembra più alto ancora, come la sua glorificazione ne avesse aumentato la statura. Non saprei dire se la luminosità, che rende perfino fosforescente il pianoro, provenga tutta da Lui o se alla sua propria si mesca quella che ha concentrata sul suo Signore tutta la luce che è nell’universo e nei cieli. So che è qualche cosa di indescrivibile.  
   Gesù è ora in piedi, direi anzi che è alzato da terra, perché fra lui e il verde del prato vi è come un vaporare di luce, uno spazio dato unicamente da una luce sul quale pare Egli si erga. Ma è tanto viva che potrei anche ingannarmi, e il non vedere più il verde dell’erba sotto le piante di Gesù potrebbe esser provocato da questa luce immensa che vibra e fa onde come si vede talora nei grandi fuochi. Onde, qui, di un colore bianco,incandescente. Gesù sta col Volto alzato verso il cielo e sorride ad una sua visione che lo sublima.
   Gli apostoli ne hanno quasi paura e lo chiamano, perché non pare più a loro che sia il loro Maestro tanto è trasfigurato. «Maestro, Maestro», chiamano piano ma con ansia. 
   Egli non sente. 
   «È in estasi», dice Pietro tremante. «Che vedrà mai?».
   I tre si sono alzati in piedi. Vorrebbero accostarsi a Gesù, ma non osano.

 7 La luce aumenta ancora per due fiamme che scendono dal cielo e si collocano ai lati di Gesù. Quando sono stabilite sul pianoro, il loro velo si apre e ne appaiono due maestosi e luminosi personaggi. L’uno più anziano, dallo sguardo acuto e severo e da una lunga barba bipartita. Dalla sua fronte partono corni di luce che me lo indicano per Mosè. L’altro è più giovane, scarno, barbuto e peloso, su per giù come il Battista, al quale direi assomiglia per statura, magrezza, conformazione e severità. Mentre la luce di Mosè è candida come è quella di Gesù, specie nei raggi della fronte, quella che emana Elia è solare, di fiamma viva.
   I due Profeti prendono una posa di riverenza davanti al loro Dio Incarnato e, sebbene Questi parli loro con famigliarità, essi non abbandonano la loro posa riverente. Non comprendo neppure una delle parole dette.
   I tre apostoli cadono a ginocchio tremanti, col volto fra le mani. Vorrebbero vedere ma hanno paura.
   Finalmente Pietro parla: «Maestro, Maestro. Odimi». Gesù gira lo sguardo con un sorriso verso il suo Pietro, che si rinfranca e dice: «E’ bello stare qui con Te, Mosè e Elia. Se vuoi facciamo tre tende per Te, per Mosè e per Elia, e noi stiamo qui a servirti… ».
   Gesù lo guarda ancora e sorride più vivamente. Guarda anche Giovanni e Giacomo. Uno sguardo che li abbraccia con amore. Anche Mosè e Elia guardano i tre fissamente. I loro occhi balenano. Devono essere come raggi che penetrano i cuori. 
   Gli apostoli non osano dire altro. Intimoriti, tacciono. Sembrano un poco ebbri come chi è sbalordito. Ma quando un velo che non è nebbia, che non è nuvola, che non è raggio, avvolge e separa i Tre gloriosi dietro uno schermo ancor più lucido di quello che già li circondava e li nasconde alla vista dei tre, e una Voce
potente e armonica vibra ed empie di sé lo spazio, i tre cadono col volto contro l’erba.
   «Questo è il mio Figliuolo diletto, nel quale mi sono compiaciuto. Ascoltatelo».
   Pietro nel gettarsi bocconi esclama: «Misericordia di me, peccatore! È la Gloria di Dio che scende!». Giacomo non fiata. Giovanni mormora con un sospiro, come fosse prossimo a svenire: «Il Signore parla!».

 8 Nessuno osa alzare la testa anche quando il silenzio si è rifatto assoluto. Non vedono perciò neppure il tornare della luce alla sua naturalezza di luce solare e mostrare Gesù rimasto solo e tornato il Gesù solito nella sua veste rossa.
   Egli cammina verso loro sorridendo e li scuote e tocca e chiama per nome.
   «Alzatevi. Sono Io. Non temete», dice, perché i tre non osano alzare il volto e invocano misericordia sui loro peccati, temendo che sia l’Angelo di Dio che vuol mostrarli all’Altissimo. 
   «Levatevi, dunque. Ve lo comando», ripete Gesù con imperio. Essi alzano il volto e vedono Gesù che sorride.
   «Oh! Maestro, Dio mio!», esclama Pietro. «Come faremo a viverti accanto ora che abbiamo visto la tua glo-ria? Come faremo a vivere fra gli uomini, e noi, uomini peccatori, ora che abbiamo udito la voce di Dio?».
   «Dovrete vivermi accanto e vedere la mia gloria sino alla fine. Siatene degni perché il tempo è vicino. Ubbidite al Padre mio e vostro. Torniamo ora fra gli uomini, perché sono venuto per stare fra essi e per portare a essi Dio. Andiamo. Siate santi per ricordo di quest’ora, forti, fedeli. Avrete parte alla mia più completa gloria. Ma non parlate ora di questo che avete visto ad alcuno. Neppure ai compagni. Quando il Figlio dell’uomo sarà risuscitato dai morti e tornato nella gloria del Padre, allora parlerete. Perché allora occorrerà credere per aver parte nel mio Regno».
   «Ma non deve venire Elia per preparare al tuo Regno? I rabbi dicono così».
   «Elia è già venuto ed ha preparato le vie al Signore. Tutto avviene come è stato rivelato. Ma coloro che insegnano la rivelazione non la conoscono e non la comprendono, e non vedono e riconoscono i segni dei tempi e i messi di Dio. Elia è tornato una volta. La seconda verrà quando il tempo ultimo sarà vicino per preparare gli ultimi a Dio. Ma ora è venuto per preparare i primi al Cristo, e gli uomini non lo hanno voluto riconoscere e lo hanno tormentato e messo a morte. Lo stesso faranno col Figlio dell’uomo, perché gli uomini non vogliono riconoscere ciò che è loro bene».
   I tre chinano la testa pensosi e tristi, e scendono per la via dalla quale sono saliti insieme a Gesù.
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   [3 Dicembre 1945]

 9 … Ed è ancora Pietro che dice, in una sosta a mezza via: «Ah! Signore! Dico anche io come tua Madre ieri: “Perché ci hai fatto questo?”; e anche dico: “Perché ci hai detto questo?”. Le tue ultime parole hanno cancellato la gioia della gloriosa vista dai nostri cuori! Gran giorno di paure questo! Prima ci ha fatto paura la grande luce che ci ha destati, più forte che se il monte ardesse o che se la luna fosse scesa a raggiare sul ripiano, sotto i nostri occhi; poi il tuo aspetto e il tuo staccarti dal suolo come fossi per volare via. Ho avuto paura che Tu, disgustato dalle nequizie di Israele, te ne tornassi ai Cieli, magari per ordine dell’Altissimo. Poi ho avuto paura di vedere apparire Mosè, che i suoi del suo tempo non potevano più vedere senza velo tanto splendeva sul suo volto il riflesso di Dio, e ancora era uomo, mentre ora è spirito beato e acceso di Dio, e Elia… Misericordia divina! Ho creduto essere giunto al mio ultimo momento, e tutti i peccati della mia vita, da quando rubavo le frutta nella dispensa da piccino, all’ultimo di averti mal consigliato giorni or sono, mi sono venuti alla mente. Con che tremore me ne sono pentito! Poi mi parve che mi amassero quei due giusti… e ho osato parlare. Ma anche il loro amore mi faceva paura, perché io non merito l’amore di simili spiriti. E dopo… e dopo!… La paura delle paure! La voce di Dio!… Geové che ha parlato! A noi! Ci ha detto: “Ascoltatelo!”. Tu. E ti ha proclamato “suo Figlio diletto nel quale Egli si compiace”. Che paura! Geové!… a noi!… Certo solo la tua forza ci ha tenuti in vita!… Quando Tu ci hai toccato, e le tue dita ardevano come punte di fuoco, io ho avuto l’ultimo spavento. Ho creduto che fosse l’ora di essere giudicato e che l’Angelo mi toccasse per prendermi l’anima e portarla all’Altissimo… Ma come ha fatto tua madre a vedere… a sentire… a vivere, insomma, quell’ora che Tu hai detto ieri, senza morire, Lei che era sola, giovanetta, senza di Te?»
   «Maria, la Senza Macchia, non poteva avere paura di Dio. Eva non ne aveva paura finché fu innocente. Ed Io c’ero. Io, il Padre e lo Spirito, Noi che siamo in Cielo e in Terra e in ogni luogo, e che avevamo il nostro Tabernacolo nel cuore di Maria», dice dolcemente Gesù.
   «Che cosa! Che cosa!… Ma dopo che Tu hai parlato di morte… E ogni gioia è finita… Ma perché proprio a noi tre tutto questo? Non era bene darla a tutti questa visione della tua gloria?».
   «Appunto perché tramortite udendo parlare di morte, e morte per supplizio, del Figlio dell’uomo, l’Uomo-Dio vi ha voluto fortificare per quell’ora e per sempre con la precognizione di ciò che Io sarò dopo la Morte. Ricordatevi tutto questo, per dirlo a suo tempo… Avete capito?».
   «Oh! si, Signore. Non è possibile dimenticare. E sarebbe inutile raccontare. Ci direbbero “ebbri”».

10 Tornano ad andare verso la valle. Ma, giunti ad un punto, Gesù piega per un viottolo ripido in direzione di Endor, ossia dal lato opposto di quello nel quale ha lasciato i discepoli.
   «Non li troveremo», dice Giacomo. «Il sole inizia la discesa. Si staranno radunando in tua attesa nel luogo dove li lasciasti».
   «Vieni e non crearti stolti pensieri».
   Infatti, come la boscaglia si apre in una prateria che scende mollemente a toccare la via maestra, vedono tutta la massa dei discepoli, accresciuta da viandanti curiosi, da scribi venuti da non so dove, agitarsi alla base del monte.
   «Ohimè! Scribi!… E disputano già!», dice Pietro accennandoli. E scende gli ultimi metri a malincuore.
   Ma anche quelli giù in basso li hanno visti e se li accennano e poi si danno a correre verso Gesù, gridando: «Come mai, Maestro, da questa parte? Stavamo per venire al posto detto. Ma ci hanno trattenuto in dispute gli scribi e in suppliche un padre affannato».
   «Di che disputavate fra voi?».
   «Per un indemoniato. Gli scribi ci hanno scherniti perché non abbiamo potuto liberarlo. Ci si è meso Giuda di Keriot da capo, di puntiglio. Ma fu inutile. Allora abbiamo detto: “Mettetevici voi”. Hanno risposto: “Non siamo esorcisti”. Per caso sono passati alcuni venienti da Caslot-Tabor, fra i quali erano due esorcisti. Ma anche loro niente. Ecco il padre che viene a pregarti. Ascoltalo».

11 Un uomo, infatti, viene avanti supplichevole e si inginocchia davanti a Gesù rimasto sul prato in pendenza, di modo che è più alto della via di almeno tre metri e ben visibile a tutti, perciò.
   «Maestro», gli dice l’uomo, «io venivo a Cafarnao con il figlio mio per cercare Te. Te lo portavo, l’infelice figlio mio, perché tu lo liberassi, Tu che cacci i demoni e guarisci ogni malattia. Egli è preso spesso da uno spirito muto. Quando lo prende, egli non può più che fare gridi rochi, come una bestia che si strozza. Lo spirito lo butta a terra ed egli la si rotola digrignando i denti, spumando come un cavallo che morda il morso, e si ferisce o rischia di morire affogato o bruciato, oppure sfracellato, perché lo spirito più di una volta lo ha buttato nell’acqua, nel fuoco, o giù dalle scale. I tuoi discepoli ci si sono provati, ma non hanno potuto. Oh! Signore buono! Pietà di me e del mio fanciullo».
   Gesù fiammeggia di potenza mentre grida: «O generazione perversa, o turba satanica, legione ribelle, popolo dell’inferno incredulo e crudele, fino a quando dovrò stare a contatto con te? Fino a quando ti dovrò sopportare?». È imponente, tanto che si fa un silenzio assoluto e cessano i sogghigni degli scribi.

12 Gesù dice al padre: «Alzati e portami qui tuo figlio».
   L’uomo va e torna con altri uomini, al centro dei quali è un ragazzo sui dodici-quattordici anni. Un bel fanciullo, ma dallo sguardo un poco ebete, come fosse sbalordito. Sulla fronte rosseggia una lunga ferita e più sotto biancheggia una cicatrice antica. Non appena vede Gesù che lo fissa coi suoi occhi magnetici, ha un grido roco e un contorcimento convulsivo di tutto il corpo, mentre cade a terra spumando e rotando gli occhi, di modo che appare solo il bulbo bianco, mentre si rotola per terra nella caratteristica convulsione epilettica.
   Gesù viene avanti qualche passo per giungergli vicino e dice: «Da quando gli avviene ciò? Parla forte, che tutti sentano».
   E l’uomo, urlando, mentre il cerchio della folla si stringe e gli scribi si mettono più in alto di Gesù per dominare la scena, dice: «Fin da bambino. Te l’ho detto: spesso cade nel fuoco, nell’acqua o giù dalle scale e dagli alberi, perché lo spirito lo assale all’improvviso e lo scaraventa così per finirlo. È tutto pieno di cicatrici e di bruciature. Molto è se non è rimasto accecato dalle fiamme del focolare. Nessun medico, nessun esorcista, neppure i tuoi discepoli lo hanno potuto guarire. Ma Tu, se, come credo fermamente, puoi qualche cosa, abbi pietà di noi e soccorrici».
   «Se puoi credere così, tutto mi è possibile, perché tutto è concesso a chi crede».
   «Oh! Signore, se io credo! Ma se ancora non credo a sufficienza, aumenta Tu la mia fede, perché sia completa e ottenga il miracolo», dice l’uomo piangendo, inginocchiato presso il figlio più che mai in convulsione.

13 Gesù si raddrizza, si tira in dietro due passi e, mentre la folla più che mai stringe il suo cerchio, grida forte: «Spirito maledetto, che fai sordo e muto il fanciullo e lo tormenti, Io te lo comando: esci da lui e non entrarvi mai più!».
   Il fanciullo, pur stando coricato al suolo, fa dei balzi paurosi, puntando testa e piedi ad arco, e ha gridi disumani; poi, dopo un ultimo balzo, nel quale si rivolta bocconi battendo la fronte e la bocca su un masso emergente dall’erba, che si fa rossa di sangue, resta immoto.
   «È morto!», gridano in molti. «Povero fanciullo!», «Povero padre!», compiangono i migliori. 
   E gli scribi, ghignando: «Ti ha servito bene il Nazareno!», oppure: «Maestro, come è? Questa volta belzebù ti ha fatto fare brutta figura…», e ridono velenosamente.
   Gesù non risponde a nessuno. Neppure al padre, che ha rivoltato il figlio e gli asciuga il sangue della fronte e delle labbra ferite, gemendo, invocando Gesù. Ma si china, il Maestro, e prende per mano il fanciullo. E questo apre gli occhi con un sospirone, come si destasse da un sonno, si siede e sorride. Gesù lo attira a Sé, lo fa alzare in piedi e lo consegna al padre, mentre la folla grida di entusiasmo e gli scribi fuggono, inseguiti dalle beffe della folla…
   «E ora andiamo», dice Gesù ai suoi discepoli. E, congedata la folla, gira il fianco del monte portandosi sulla via fatta al mattino.


14 Dice Gesù:

«E ora qui P.M. può mettere il commento alla visione del 5 agosto 1944 cominciando dalle parole: “Non ti eleggo soltanto a conoscere le tristezze del tuo Maestro e i suoi dolori. Chi sa stare meco nel dolore deve avere parte meco nella gloria”. E tu riposa, fedele, piccolo Giovanni, ché il tuo riposo è ben meritato. La mia pace sia gioia in te».
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   [5 Agosto 1944]

15 Dice Gesù:
   
   «Ti ho preparata a meditare la mia Gloria. Domani la chiesa la celebra. Ma Io voglio che il mio piccolo Giovanni la veda nella sua verità per comprenderla meglio. Non ti eleggo soltanto a conoscere le tristezze del tuo Maestro e i suoi dolori. Chi sa stare meco nel dolore deve avere parte meco nella gioia. 
   Voglio che tu, davanti al tuo Gesù che ti si mostra, abbia gli stessi sentimenti di umiltà e pentimento dei miei apostoli.
   Mai superbia. Saresti punita perdendomi.
   Continuo ricordo di Chi sono Io e di chi sei tu.
   Continuo pensiero alle tue manchevolezze e alla mia perfezione per avere un cuore lavato dalla contrizione. Ma insieme anche tanta fiducia in Me.
   Io ho detto: “Non temete. Alzatevi. Andiamo. Andiamo fra gli uomini perché sono venuto per stare con essi. Siate santi, forti e fedeli per ricordo di quest’ora”. Lo dico anche a te e a tutti i miei prediletti fra gli uomini, a quelli che mi hanno in maniera speciale.
   Non temete di Me. Mi mostro per elevarvi, non per incenerirvi.


   Alzatevi: la gioia del dono vi dia vigoria e non vi ottunda nel sopore del quietismo, credendovi già salvi perché vi ho mostrato il Cielo.
   Andiamo insieme fra gli uomini. Vi ho inviati a sovrumane opere con sovrumane visioni e lezioni perché possiate essermi di maggiore aiuto. Vi associo alla mia opera. Ma Io non ho conosciuto e non conosco riposo. Perché il male non riposa mai e il bene deve essere sempre attivo per annullare il più che si può l’opera del nemico. Riposeremo quando il Tempo sarà compiuto. Ora occorre andare instancabilmente, operare continuamente, consumarsi indefessamente per la messe di Dio. Il mio contatto continuo vi santifichi, la mia lezione continua vi fortifichi, il mio amore di predilezione vi faccia fedeli contro ogni insidia.

   Non siate come gli antichi rabbini che insegnavano la rivelazione e poi non le credevano al punto da non riconoscere il segno dei tempi e i messi di Dio. Riconoscete i precursori del Cristo nel suo secondo avvento, poiché le forze dell’anticristo sono in marcia e, facendo eccezione alla misura che mi sono imposta, perché conosco che bevete a certe verità non per spirito soprannaturale ma per sete di curiosità umana, vi dico in verità che quello che molti crederanno vittoria sull’anticristo, la pace ormai prossima, non sarà che sosta per dare tempo al nemico del Cristo di ritemprarsi, medicarsi le ferite, riunire il suo esercito per una più crudele lotta.
   Riconoscete, voi che siete le “voci” di questo nostro Gesù, del Re dei re, del Fedele e Verace che giudica e combatte con giustizia e sarà il Vincitore della bestia e dei suoi servi e profeti, riconoscete il vostro Bene e seguitelo sempre. Nessun bugiardo aspetto vi seduca e nessuna persecuzione vi atterri. La vostra “voce” dica le mie parole. La vostra vita sia per quest’opera. E se avrete sorte, sulla Terra, comune al Cristo, al suo precursore e ad Elia, sorte cruenta o sorte tormentata da sevizie morali, sorridete alla vostra sorte futura e sicura che avrete comune con Cristo, con il suo Precursore, col suo Profeta.
   Pari nel lavoro, nel dolore e nella gloria. Qui Io Maestro ed Esempio. Là Io Premio e Re. Avermi sarà la vostra beatitudine. Sarà dimenticare il dolore. Sarà quanto ogni rivelazione e ancora insufficiente a farvi capire, perché troppo superiore è la gioia della vita futura alla possibilità di immaginare della creatura ancora unita alla carne».     


AMDG et DVM