1. Al principio di quel medesimo anno [era l'anno 70 dopo Cristo], Cesare Tito, incaricato dal padre di stroncare la rivolta in Giudea,
potendo contare su un prestigio militare risalente a quando entrambi erano solo privati cittadini, operava col
peso di un'influenza ben più rilevante, ora che province ed eserciti gli testimoniavano a gara il loro
attaccamento. E per affermarsi come ancora più grande della sua condizione, si presentava maestoso e audace
nelle armi, conquistandosi simpatie col suo tono affabile e con la presenza pressoché continua fra le truppe, nel
lavoro e nelle marce, pur senza mai intaccare la sua dignità di comandante. Lo accolsero in Giudea tre legioni,
la Quinta, la Decima e la Quindicesima, tutti veterani di Vespasiano. Vi aggiunse la Dodicesima dalla Siria e, da
Alessandria, uomini della Ventiduesima e della Terza; lo accompagnavano venti coorti alleate, otto squadroni di
cavalleria, i re Agrippa e Soemo, rinforzi del re Antioco e un consistente gruppo di Arabi, animati da sentimenti
ostili contro i Giudei, per il solito odio tra popoli vicini, e poi molti altri venuti da Roma e dall'Italia, richiamati
ciascuno dalla speranza di accaparrarsi l'animo, ancora libero, del principe. Con queste forze entrò, in buon
ordine, nel territorio nemico, esplorando ogni zona e pronto a dare battaglia. Il campo lo pose non lontano da
Gerusalemme.
2. Ma poiché mi accingo a raccontare gli ultimi momenti di quella famigerata città, sembra pertinente
richiamarne qui le origini. La tradizione vuole che i Giudei, profughi dall'isola di Creta, si siano insediati nelle
ultime estremità della Libia, nel tempo in cui Saturno, cacciato a forza da Giove, abbandonò il suo regno. La
prova di ciò si evince dal nome: a Creta esiste il celebre monte Ida, i cui abitanti, detti Idei, furono
comunemente chiamati Giudei per un barbarico ampliamento del nome. Secondo alcuni, sotto il regno di Iside,
la strabocchevole popolazione dell'Egitto si sarebbe riversata, seguendo la guida di Ierosolimo e di Giuda, nelle
terre vicine; non pochi, invece, li ritengono di stirpe etiope, spinti a mutar sedi sotto il re Cefeo, dalla paura e
dall'odio. Stando al racconto di altri, sarebbero profughi assiri, gente bisognosa di terra che, impadronitasi di
una parte dell'Egitto, ha poi avuto proprie città, coltivando le terre ebraiche e le zone più vicine alla Siria. Per
altri ancora i Giudei vanterebbero origini illustri: i Solomi, popolo cantato nelle opere di Omero, avrebbero dato
a una città da loro fondata, derivandolo dal proprio, il nome di Ierosolima.
3. Su un punto concorda la maggior parte degli storici: abbattutasi sull'Egitto una pestilenza che deturpava i
corpi e recatosi il re Boccori a consultare l'oracolo di Ammone per chiedere un rimedio, ricevette l'ordine di
purificare il regno, trasferendo in altro paese gli uomini di quella razza, invisa agli dèi. E così tutta quella gente
venne ricercata, raccolta insieme e abbandonata nel deserto. E mentre gli altri, incapaci di agire, piangevano,
uno degli esuli, Mosè, li ammonì a non aspettarsi aiuti né di dèi né di uomini, poiché entrambi li avevano
abbandonati, ma di affidarsi a lui come a guida venuta dal cielo, perché lui per primo li aveva aiutati a superare
le difficoltà presenti. Lo ascoltarono e, ignari di tutto, iniziarono un avventuroso cammino. Ma niente li
tormentava quanto la scarsità d'acqua e, ormai vicini a morire, s'accasciavano a terra su tutto il piano, quando
una mandria d'asini selvaggi, di ritorno dalla pastura, si ritirò sotto una roccia ombreggiata da alberi. Li seguì
Mosè e dal terreno erboso intuì e scoperse una ricca vena d'acqua. Si ripresero. E dopo un cammino ininterrotto
di sei giorni, nel settimo, cacciati gli abitanti, occuparono quelle terre in cui fondarono la città e dedicarono il
tempio.
4. Mosè, al fine di consolidare per l'avvenire il suo potere su quel popolo, introdusse nuovi riti contrastanti con
quelli degli altri mortali. Là sono empie le cose presso di noi sacre e, viceversa, lecito quanto per noi aborrito.
Consacrarono in un santuario, immolando un ariete, quasi in spregio ad Ammone, l'immagine dell'animale da
cui avevano tratto indicazioni per trovare il cammino e scacciare la sete. Fu sacrificato anche un bue, poiché gli
Egiziani adorano Api. Si astengono dalla carne di maiale, a ricordo del flagello, perché li aveva colpiti un tempo
la lebbra, a cui quell'animale è soggetto. Commemorano ancor oggi la lunga fame di un tempo con frequenti
digiuni e, a testimonianza delle messi frettolosamente raccolte, si mantiene l'uso del pane giudaico senza
lievito. Hanno voluto, si dice, come giorno di riposo il settimo, perché esso segnò la fine delle loro fatiche; poi,
lusingati dalla pigrizia, dedicarono all'ozio un anno ogni sette. Alcuni ritengono che lo facciano in onore di
Saturno, sia per aver ricevuto il fondamento del culto dagli Idei, che sappiamo cacciati insieme a Saturno e
fondatori della gente giudaica, sia perché dei sette astri, che regolano il destino dei mortali, quello di Saturno
descrive un'orbita più ampia ed esercita un influsso più determinante, e perché la maggior parte dei corpi
celesti tracciano il loro cammino e il loro corso in multipli di sette.
5. Di questi riti, comunque siano stati introdotti, si giustificano con l'antichità. Le altre usanze, sinistre e laide,
s'imposero con la depravazione. Infatti tutti i delinquenti, rinnegata la religione dei padri, là portavano
contributi di denaro e offerte, per cui s'accrebbe la potenza dei Giudei, ma anche perché fra di loro sono di
un'onestà tetragona e immediatamente disposti alla compassione, mentre covano un odio fazioso contro tutti
gli altri. Mangiano separati, dormono divisi; benché sfrenatamente libidinosi, si astengono dall'accoppiarsi con
donne straniere, ma fra loro l'illecito non esiste. Hanno istituito la circoncisione per riconoscersi con questo
segno particolare e diverso. Chi adotta i loro costumi, segue la medesima pratica, e la prima cosa che imparano
è disprezzare gli dèi, rinnegare la patria, spregiare genitori, figli, fratelli. Sta loro a cuore la crescita della
popolazione; è infatti proibito sopprimere uno dei figli dopo il primogenito e ritengono eterne le anime dei
caduti in battaglia o vittime di supplizi: da qui la loro disponibilità alla procreazione e il disprezzo della morte.
Seppelliscono, non cremano i cadaveri, secondo l'uso e con le stesse cerimonie apprese dagli Egizi; riservano la
stessa cura ai defunti e condividono la stessa credenza sul mondo degli inferi, e ne hanno una contraria sulla
realtà celeste. Gli Egizi adorano moltissimi animali e le loro raffigurazioni in forma composita; i Giudei
concepiscono un unico dio e solo col pensiero; profanazione è per loro costruire con materia caduca immagini
divine in sembianza umana, perché l'essere supremo ed eterno non può subire una rappresentazione ed è
senza fine. Per questo non pongono simulacri di dèi nelle loro città e tanto meno nei loro templi; né riservano
tale forma di adorazione per i loro re, né di onore ai Cesari. Ma poiché i loro sacerdoti cantavano
accompagnandosi a flauti e timpani, poiché si cingevano le tempie di edera e nel loro tempio venne rinvenuta
una vite d'oro, taluni hanno pensato che venerassero il padre Libero, conquistatore dell'Oriente, ma con riti
totalmente diversi: in effetti, Libero ha istituito riti all'insegna della festa e della gioia, mentre le pratiche
giudaiche sono assurde e cupe.
6. Il loro territorio confina a oriente con l'Arabia, a mezzogiorno si stende l'Egitto, a occidente i Fenici e il mare,
verso settentrione s'affacciano per lungo tratto su un lato della Siria. Gli uomini hanno corpi sani e resistenti
alla fatica. Rare le piogge, fertile il suolo; hanno messi come le nostre e in più il balsamo e le palme. Nei
palmeti s'innalzano alberi slanciati e imponenti; il balsamo è arbusto piccolo e quando la linfa gonfia i suoi rami,
se vi accosti il coltello, le vene dell'arbusto ne risentono per la paura: si aprono con una scheggia di pietra o con
un coccio e il liquido è impiegato per usi medicinali. La più alta montagna che si eleva è il Libano: cosa
straordinaria a dirsi, fra terre tanto calde, è ombroso e coperto di nevi perenni; è lui che alimenta e ingrossa il
fiume Giordano. Ma il Giordano non sfocia nel mare, bensì attraversando, senza perdersi, un primo e un
secondo lago, nel terzo finisce. Quest'ultimo, di dimensioni enormi e simile a un mare, ma di sapore più
digustoso e dalle esalazioni pestilenziali per i rivieraschi, non è mosso dal vento né consente la vita a pesci o
uccelli acquatici. Le sue onde inerti sostengono, come fossero solide, quanto vi si getti sopra, e quindi restano a
galla tutti, capaci o no che siano di nuotare. In una certa stagione dell'anno getta fuori bitume, raccolto con una
tecnica insegnata, come le altre attività, dall'esperienza. È un liquido nero allo stato naturale che, sparso
d'aceto, si rapprende e galleggia. Chi è addetto alla raccolta lo prende con le mani e lo issa sul ponte del
natante; qui lo si lascia colare da sé e quando il battello è pieno, si interrompe il flusso. Ma non lo si può
scindere tagliandolo col bronzo o col ferro; fugge davanti al sangue o a un panno impregnato di quel sangue, di
cui le donne ogni mese si liberano. Così secondo gli autori antichi; ma i conoscitori dei posti riferiscono che le
masse galleggianti di bitume sono spinte o trascinate a braccia sulla riva e poi, disseccatesi col calore della
terra e la calura del sole, le fanno a pezzi con scuri e cunei, come fossero travi o pietre.
7. Non lontano è la pianura, che dicono fertile un tempo, abitata da grandi città, bruciate poi dal fulmine;
parlano di tracce residue e che la terra stessa, nel suo aspetto disseccato, non abbia più la forza di produrre. La
vegetazione spontanea, infatti, o quella seminata dall'uomo, sia erba o fiore, appena normalmente sviluppata,
annerisce, si atrofizza e si dissolve come in cenere. Da parte mia, come potrei ammettere che città un tempo
stupende siano bruciate per il fuoco celeste, così credo che la terra s'infetti per le esalazioni del lago, che l'aria
sovrastante si corrompa e quindi imputridiscano messi e frutta, perché egualmente malsani il suolo e il cielo. Il
fiume Belio svanisce anch'esso nel mare di Giudea e attorno alla sua foce si raccoglie una sabbia che, cotta con
l'aggiunta di nitro, diventa vetro. Poco estesa è quella spiaggia ma, per chi cava la sabbia, essa è inesauribile.
8. Gran parte della Giudea è disseminata di borgate; hanno però anche città. La capitale è Gerusalemme, col
suo tempio immensamente ricco. Una prima cerchia di mura chiude la città, una seconda la reggia; infine il
tempio, cinto da una più interna. I Giudei potevano accedere fino alle porte; la soglia era vietata a tutti, eccetto
ai sacerdoti. Finché l'Oriente fu soggetto agli Assiri, ai Medi, ai Persiani, i Giudei furono la parte più spregiata
dei loro sudditi; quando prevalsero i Macedoni, il re Antioco tentò di estirpare il loro fanatismo, introducendo i
costumi greci, ma la guerra contro i Parti gli impedì di incivilire quella gente sconcia; infatti, proprio allora si era
ribellato Arsace. Allora i Giudei, profittando del declino dei Macedoni e della potenza non ancora affermata dei
Parti - e i Romani erano lontani - si diedero propri re. Questi, cacciati dalla volubilità del popolo, ripresero il
dominio con le armi, non indietreggiando di fronte a fughe di cittadini, a distruzioni di città, a uccisioni di
fratelli, di spose, di genitori e di fronte agli altri misfatti propri dei re, e tennero viva quella superstizione,
perché assegnavano alla dignità sacerdotale il ruolo di sostenere la propria potenza.
9. Primo fra i Romani, Gneo Pompeo domò i Giudei e, per diritto di vittoria, entrò nel tempio. Si seppe, allora,
che non vi era alcuna immagine di divinità, che il luogo era vuoto e che il santuario tanto segreto non
nascondeva nulla. Le mura di Gerusalemme furono abbattute, ma il tempio rimase. Più tardi, al tempo delle
guerre civili fra noi Romani, dopo che quelle province finirono sotto il controllo di Marco Antonio, il re dei Parti
Pacoro si impadronì della Giudea, ma venne ucciso da Publio Ventidio e i Parti furono ricacciati oltre l'Eufrate;
Gaio Sosio allora assoggettò i Giudei. Il regno, affidato da Antonio a Erode, subì ingrandimenti per merito di
Augusto, dopo la sua vittoria. Morto Erode, un certo Simone usurpò, senza attendere la volontà dell'imperatore,
il nome di re. Costui venne giustiziato da Quintilio Varo, allora governatore della Siria; il popolo fu ridotto
all'obbedienza e il regno tripartito fra i figli di Erode. Sotto Tiberio ci fu pace; ma, in seguito all'ordine di
Caligola di collocare nel tempio una sua statua, preferirono prendere le armi e solo la sua morte troncò la
rivolta. Morti i re o ridotti a un potere limitato, Claudio affidò la provincia di Giudea a cavalieri romani o a liberti.
Uno di questi, Antonio Felice, esercitò i poteri regali con animo da servo, fra violenze e arbitrii di ogni tipo;
sposò Drusilla, nipote di Cleopatra e Antonio, sicché era progenero di quell'Antonio di cui Claudio era nipote.
10. Tuttavia i Giudei pazientarono fino al procuratore Gessio Floro: con lui scoppiò la guerra. Nei suoi tentativi
di soffocarla, il legato di Siria Cestio Gallo li affrontò in diversi scontri con alterna, ma più spesso avversa,
fortuna. Come questi ebbe a morire, o per destino o per i crucci patiti, Vespasiano, inviato da Nerone, grazie
alla sua fortuna, alla fama e a ottimi collaboratori, nel giro di due estati, occupava col suo esercito vincitore
tutto il piano e tutte le città, tranne Gerusalemme. L'anno seguente, tutto occupato dalla guerra civile, passò
tranquillo per i Giudei. Garantita la pace in Italia, ripresero anche i problemi di politica estera. Il risentimento
cresceva per il fatto che solo i Giudei non avevano ceduto; ma nel contempo sembrava utile che alla testa degli
eserciti rimanesse Tito, per poter far fronte a tutte le evenienze del nuovo principato.
11. Posto dunque il campo, come s'è detto, davanti alle mura di Gerusalemme, Tito presentò le sue legioni
pronte alla battaglia. I Giudei si schierarono proprio a ridosso delle mura, decisi ad avanzare in caso di
successo, ma sicuri della ritirata, se respinti. Li affrontò la cavalleria, col sostegno di truppe leggere, in un
combattimento d'esito incerto; poi il nemico ripiegò e, nei giorni successivi, s'accendevano di frequente scontri
davanti alle porte, finché le continue perdite li ricacciarono dentro le mura. I Romani si accinsero all'assalto,
parendo indegno attendere la resa dei nemici per fame e volevano sfidare il pericolo, alcuni per coraggio, molti
per fierezza e brama di ricompense. A Tito, poi, s'affacciava alla mente Roma con tutte le sue ricchezze e i suoi
piaceri; e gli pareva di tardare a goderli, se Gerusalemme non fosse caduta al più presto. Ma la città, già in
posizione ostica, era difesa da un sistema di solide fortificazioni, bastevole a proteggerla tranquillamente anche
in pianura. Infatti, i suoi due colli alti e scoscesi erano chiusi da mura volutamente oblique e ad angoli
rientranti, perché i fianchi degli assalitori restassero scoperti e sotto tiro. Il lato esterno della roccia era a picco
e le torri, alte sessanta piedi, dove aiutava la costa del monte, salivano a centoventi nelle depressioni, sicché,
viste da lontano, davano la sorprendente impressione d'essere di eguale altezza. Altre mura all'interno
attorniavano la reggia e su tutte spiccava per altezza la torre Antonia, così chiamata da Erode in onore di Marco
Antonio.
12. Sorgeva il tempio a mo' di rocca, con mura particolari, che avevano richiesto maggiore fatica e abilità delle
altre; il porticato avvolgente il tempio costituiva di per sé una valida difesa. Potevano disporre di una fonte
d'acqua perenne, di sotterranei nella montagna, di piscine e cisterne per l'acqua piovana. L'atipicità dei costumi
aveva fatto prevedere ai fondatori guerre frequenti e, quindi, tutto era attrezzato per un assedio anche
lunghissimo; e molto avevano suggerito la paura e l'esperienza dopo l'espugnazione operata da Pompeo.
Profittando dell'avidità del regime claudiano, acquistarono il diritto di costruire fortezze e così innalzarono, in
tempo di pace, mura come per una guerra. E la popolazione s'era ingrossata, per il riversarsi di una massa di
gente dalle altre città distrutte; là avevano, infatti, trovato rifugio i più irriducibili avversari di Roma e lo spirito
ribelle vi era più diffuso. Tre i capi, altrettanti gli eserciti: Simone presidiava la cinta esterna, la più ampia;
Giovanni [chiamato anche Bargiora] il centro della città ed Eleazaro il tempio. Giovanni e Simone traevano la
loro forza dal gran numero di armati, Eleazaro dalla posizione: ma non si contavano, fra loro, scontri,
tradimenti, incendi, e le fiamme s'erano divorate una gran scorta di frumento. Più tardi Giovanni, fingendo di
offrire un sacrificio, manda uomini a massacrare Eleazaro e i suoi, impadronendosi così del tempio. La città si
divise allora in due fazioni, finché, con l'avvicinarsi dei Romani, la guerra esterna riportò la concordia.
13. S'eran verificati dei prodigi; prodigi che quel popolo, schiavo della superstizione ma avverso alle pratiche
religiose, non ha il potere di scongiurare, con sacrifici e preghiere. Si videro in cielo scontri di eserciti e sfolgorio
di armi e, per improvviso ardere di nubi, illuminarsi il tempio. S'aprirono di colpo le porte del santuario e fu
udita una voce sovrumana annunciare: «Gli dèi se ne vanno!» e intanto s'avvertì un gran movimento, come di
esseri che partono. Ma pochi ricavavano motivi di paura; valeva per i più la convinzione profonda di quanto
contenuto negli antichi scritti dei sacerdoti, che proprio in quel tempo l'Oriente avrebbe mostrato la sua forza e
uomini venuti dalla Giudea si sarebbero impadroniti del mondo. Questa oscura profezia annunciava Vespasiano
e Tito, ma il volgo, come sempre sollecitato dalla propria attesa, incapace di fare i conti con la realtà anche nei
momenti più difficili, interpretava a suo favore un destino così glorioso. La massa degli assediati, d'ogni età e
dei due sessi, maschi e femmine, ascendeva, come ci hanno confermato, a seicentomila. Chiunque poteva
imbracciare armi; e ad affrontare i rischi eran pronti più di quanto il numero comportasse. Eguale
determinazione vivevano uomini e donne e, nella prospettiva d'esser costretti a mutar sede, la vita li
spaventava più della morte. Contro questa città e questa gente, poiché la posizione non consentiva un assalto o
improvvisi colpi di mano, Cesare Tito decise di combattere impiegando terrapieni e tettoie. Ripartisce i compiti
fra le legioni e gli scontri furono sospesi, finché non vennero affrontati con tutti i mezzi escogitati dagli antichi e
dai moderni, per espugnare la città.