“Liturgiam authenticam”
Quinta Istruzione per la retta Applicazione della Costituzione sulla Sacra Liturgia del Concilio Vaticano II (Sacrosanctum Concilium, art. 36)
Breve riassunto
ANTECEDENTI
Le Grandi Istruzioni Postconciliari
Il 4 dicembre 1963 i Padri del Concilio Vaticano II hanno approvato la Costituzione sulla sacra Liturgia, Sacrosanctum Concilium. Per facilitare l’applicazione del rinnovamento liturgico auspicato dai Padri conciliari, la Santa Sede ha successivamente pubblicato cinque documenti di speciale importanza, ciascuno dei quali numerati in un’unica serie come delle “Istruzioni per la retta Applicazione della Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II”.
La prima, Inter Oecumenici, fu emanata dalla Sacra Congregazione dei Riti e dal “Consilium” per l’applicazione della Costituzione Liturgica, il 26 settembre 1964, e conteneva i principi generali di base per l’ordinata applicazione del rinnovamento liturgico. Tre anni dopo, il 4 maggio 1967, è stata pubblicata una seconda Istruzione, Tres abhinc annos. Questa stabiliva ulteriori adattamenti all’Ordine della Messa. La terza Istruzione, Liturgicae instaurationes, del 5 settembre 1970, che fu preparata dalla Sacra Congregazione per il Culto Divino, organismo che successe alla Sacra Congregazione dei Riti e al “Consilium”. Questa Istruzione forniva innanzitutto direttive sul ruolo centrale del Vescovo nel rinnovamento della liturgia in tutta la diocesi.
In seguito il rinnovamento liturgico si incentrava sull’intensa attività della revisione delle edizioni in lingua latina dei libri liturgici e della loro traduzione nelle varie lingue moderne. Terminata generalmente questa fase, c’è stato un periodo di esperienza pratica, la quale necessariamente richiedeva un notevole spazio di tempo. Con la Lettera Apostolica Vicesimus quintus annus del 4 dicembre 1988 di Giovanni Paolo II, che commemorava il 25° anniversario della Costituzione Conciliare, si è iniziata una nuova fase di una graduale rivalutazione, di completamento e consolidamento. Il 25 gennaio 1994, la Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti ha fatto avanzare ancora tale processo con l’emanazione della quarta “Istruzione per la retta Applicazione della Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II”, la Varietates legitimae, che tratta delle questioni difficili circa la Liturgia romana e l’inculturazione.
Una Quinta Istruzione
Nel febbraio del 1997 il Santo Padre ha chiesto alla Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti di fare ancora un passo in avanti con la codificazione delle conclusioni del suo lavoro intrapreso in collaborazione con i Vescovi lungo gli anni riguardante la questione delle traduzioni liturgiche, argomento all’ordine del giorno, come si è già detto, dal 1988.
Di conseguenza, il 20 marzo 2001 la quinta postconciliare “Istruzione per la retta Applicazione della Costituzione sulla sacra Liturgia del Concilio Vaticano II”, Liturgiam authenticam, fu approvata dal Santo Padre nell’udienza concessa al Cardinale Segretario di Stato e il 28 marzo fu emanata dalla Congregazione per il Culto divino e la Disciplina dei Sacramenti. Entrerà in vigore il 25 aprile 2001.
L’Istruzione Liturgiam authenticam serve da commentario intorno alle traduzioni nel vernacolare dei testi della Liturgia romana, come stabilito dall’articolo 36 della Costituzione liturgica:
§ 1. L’uso della lingua latina, salvo un diritto particolare, sia conservato nei Riti latini.
§ 2. Dato però che, sia nella messa sia nell’amministrazione dei Sacramenti, sia in altre parti della Liturgia, non di rado l’uso della lingua volgare può riuscire assai utile per il popolo, si possa concedere ad essa una parte più ampia, e specialmente nelle letture e nelle monizioni, in alcune preghiere e canti, secondo le norme che vengono fissate per i singoli casi nei capitoli seguenti.
§3. In base a queste norme, spetta alla competente autorità ecclesiastica territoriale, di cui all’art. 22 § 2, consultati anche, se è il caso, i Vescovi delle regioni limitrofe della stessa lingua, decidere circa l’uso e l’estensione della lingua volgare. Tali decisioni devono essere approvate ossia confermate dalla Sede Apostolica.
§ 4. La traduzione del testo latino in lingua volgare da usarsi nella Liturgia, deve essere approvata dalla competente autorità ecclesiastica territoriale di cui sopra.
Si deve accennare che nel frattempo ci sono stati alcuni sviluppi sul piano giuridico e altro, tra cui alcune misure che hanno precisato il riferimento della Costituzione alle “competenti autorità ecclesiastiche territoriali”. In pratica queste sono diventate ciò che si chiamano oggi le Conferenze dei Vescovi.
VISIONE D’INSIEME
La quinta Istruzione inizia facendo accenno all’iniziativa del Concilio e agli sforzi compiuti dai Sommi Pontefici e dai Vescovi in tutto il mondo, costatando il successo del rinnovamento liturgico e notando allo stesso tempo la necessità di una continuata vigilanza per garantire l’identità del Rito romano sul piano mondiale. A questo proposito, l’Istruzione riprende le osservazioni fatte nel 1988 dal Papa Giovanni Paolo II, cioè il suo auspicio che si passi oltre la fase iniziale per entrare in un periodo di traduzioni dei testi liturgici migliorate. Perciò la Liturgiam authenticam offre alla Chiesa Latina una nuova formulazione di principi che debbono governare le traduzioni alla luce di oltre trent’anni di esperienza nell’uso del vernacolare nelle celebrazioni liturgiche.
La Liturgiam authenticam sostituisce tutte le norme pubblicate in precedenza sulle traduzioni liturgiche, tranne le direttive della quarta Istruzione, la Varietates legitimae, e precisa che le due Istruzioni vanno lette complementariamente. Il nuovo documento più di una volta fa appello ad una nuova epoca nelle traduzioni dei testi liturgici.
Occorre notare che la presente Istruzione sostituisce tutte le norme anteriori, di cui assume molti dei contenuti, fornendo loro una disposizione più ordinata e sistematica, completandoli con alcune precisazioni e collegandoli con questioni affini che finora sono state trattate in maniera distaccata. Inoltre, il documento deve affrontare il compito di presentare in poche pagine i principi suscettibili di applicazione alle diverse centinaia di lingue attualmente usate nella celebrazione liturgica in ogni parte del mondo. L’Istruzione non fa ricorso alla terminologia tecnica della linguistica o delle scienze umane, ma limita le sue considerazioni principalmente al campo dell’esperienza pastorale.
In quanto segue, si illustra lo sviluppo generale dell’argomentazione del nuovo documento, senza seguirne ad ogni punto le espressioni precise o la sequenza dei vari punti.
La scelta delle lingue vernacole
Si dovrebbero utilizzare nella Liturgia soltanto le lingue più diffusamente parlate, evitando l’introduzione di troppe lingue, con il rischio di provocare una frammentazione del popolo in piccoli gruppi e forse dare luogo a dei dissapori. Nel fare la scelta delle lingue da introdurre nella liturgia, bisogna tener conto di fattori quali il numero di sacerdoti, diaconi e collaboratori laici che possono servirsi senza difficoltà di una determinata lingua, la disponibilità di traduttori per quella lingua, e le possibilità pratiche, compresi i problemi economici, di produrre e pubblicare traduzioni affidabili della Liturgia.
I dialetti, che non hanno l’appoggio di risorse di formazione accademica e culturale, non vanno accettate come lingue liturgiche in senso stretto, anche se possono essere utilizzate nella Preghiera dei Fedeli, per il testo dei canti, o per alcune parti dell’omelia. L’Istruzione poi dà un riassunto aggiornato della procedura da seguire da parte delle Conferenze dei Vescovi nel decidere in comunione con la Santa Sede la piena o parziale ammissione nella Liturgia di una determinata lingua.
La Traduzione dei Testi Liturgici
Il cuore dell’Istruzione è una nuova e fresca esposizione, con toni riflessivi, dei principi che devono regolare la traduzione in lingua vernacolare dei testi liturgici. Il documento sottolinea sin dall’inizio l’indole sacra della Liturgia e l’esigenza che anche le traduzioni rispecchino attentamente tale caratteristica.
Il Rito romano, come tutte le grandi famiglie liturgiche storiche della Chiesa cattolica, ha uno stile e una struttura propria che vanno rispettate in quanto possibile anche per le traduzioni. L’Istruzione ribadisce l’appello a vari documenti pontifici precedenti per un approccio alla traduzione dei testi liturgici, che risponda a un criterio non tanto di esercizio di una creatività, quanto di cura per la fedeltà e l’esattezza nella resa dei testi latini in lingua vernacolare, tenendo anche conto, ovviamente, del modo caratteristico in cui ogni lingua si esprime. Ci sono dei requisiti particolari da affrontare nella preparazione di traduzioni che sono destinate ai territori evangelizzati in tempi più recenti e l’Istruzione considera anche le condizioni in cui degli adattamenti di maggiore entità dei testi e dei riti possono realizzarsi, rinviando la soluzione di tali problemi a quanto esposto nell’Istruzione Varietates legitimae.
Il ricorso ad altri testi per facilitare la traduzione
Il vantaggio della consultazione dei testi delle antiche fonti liturgiche viene riconosciuto e incoraggiato, anche se si nota che il testo dell’editio typica, cioè l’edizione moderna latina, è sempre il punto di partenza per la traduzione. Là dove il testo latino si serve di termini provenienti da atre lingue antiche (ad es., alleluia, Amen, oppure Kyrie eleison), tali espressioni possono essere conservate nella lingua originale. Le traduzioni liturgiche sono da farsi in base all’editio typica del latino e mai in base alle altre traduzioni. La Neo-Volgata,la versione corrente della Bibbia latina, deve essere presa in considerazione come uno strumento supplementare nella preparazione delle traduzioni bibliche per l’uso liturgico.
Lessico
Il lessico prescelto per una traduzione liturgica deve essere al contempo di facile comprensione per la persona ordinaria ed espressivo della dignità e del ritmo retorico dell’originale, un linguaggio finalizzato alla lode e al culto che esprima reverenza e gratitudine per la gloria di Dio. La lingua di questi testi non va, inoltre, intesa come espressione della disposizione interna del fedele, ma piuttosto della parola di Dio rivelata.
Le traduzioni devono essere svincolate da ogni esagerata dipendenza da modi espressivi moderni e, in generale, da una lingua di tono psicologizzante. Forme di colorito arcaizzante possono talora rivelarsi appropriate a un vocabolario propriamente liturgico.
I testi liturgici non si configurano come completamente autonomi o separabili dal contesto generale della vita cristiana. Spetta all’omelia e alla catechesi contribuire a delucidarne e spiegarne il senso e a chiarificare il contenuto di alcuni testi. Non esistono nella Liturgia testi che incentivino attitudini discriminatorie o ostili verso i cristiani non cattolici, la comunità ebraica o le altre religioni, o che negano in qualche modo l’uguaglianza universale della dignità umana. L’insorgenza di una scorretta interpretazione di senso contrario può essere chiarita dalle traduzioni, ma non è questo il loro compito primario.
Genere
Molte lingue possiedono nomi e pronomi che si riferiscono tanto al genere maschile quanto al femminile. L’abbandono di questi termini, soprattutto se risultante da una tendenza iniziale dell’evoluzione semantica, non è mai prudente né necessario, poiché non costituisce un punto di passaggio obbligato dello sviluppo linguistico. L’uso dei nomi collettivi va preferito e quello di termini tradizionali mantenuto in espressioni in cui la loro abolizione possa compromettere il significato o dare luogo a una mancanza di vocaboli che esprimano l’essere umano nella sua unitarietà, come nella traduzione dell’ebraico adam, del greco anthropos o del latino homo. Allo stesso modo, un quasi meccanico cambio del numero grammaticale o dalla creazione di coppie di termini che accostano maschile e femminile non è un modo lecito di raggiungimento di uno scopo di una vera inclusività.
Il tradizionale genere grammaticale delle persone della Trinità deve essere mantenuto. Espressioni o termini come Filius hominis(Figlio dell’uomo) e Patres (Padri) vanno resi nella traduzione con esattezza, ogni volta che si riscontrano nei testi biblici o liturgici. Il pronome femminile va mantenuto ogniqualvolta si riferisce alla Chiesa. Termini esprimenti affinità o parentela e il genere grammaticale di angeli, demoni e divinità pagane vanno tradotti e il loro genere mantenuto, tenendo presente l’uso del testo originale e quello tradizionale di una determinata lingua moderna.
La traduzione di un testo
Le traduzioni devono cercare di non estendere o restringere il significato dei termini originali, mentre vocaboli che richiamino frasi stereotipate propagandistiche di contenuto commerciale o dalle connotazioni politiche, ideologiche o simili vanno evitati. I manuali di stilistica ad uso accademico o profano per le lingue vernacolari non si possono utilizzare acriticamente, poiché la Chiesa possiede temi specifici da comunicare e uno stile espressivo ad essi appropriato.
La traduzione si caratterizza come sforzo collaborativo finalizzato a preservare la massima continuità possibile tra l’originale e il testo in lingua vernacolare. Il traduttore deve possedere non soltanto abilità specifica, ma anche fiducia nella misericordia divina e spirito di preghiera, nonché disposizione ad accettare la revisione della sua opera da altri. Quando sono necessarie modifiche sostanziali per conformare un determinato libro liturgico alla presente Istruzione, tali revisioni vanno effettuate in una sola volta, al fine di evitare ripetuti disagi e l’impressione di una continua instabilità nella preghiera liturgica.
Traduzioni bibliche
Un’attenzione particolare va riservata alla traduzione della Sacra Scrittura per uso liturgico, opera che deve alla volta badare ad una fondata esegesi, ma pure mirare a un testo adatto alla funzione liturgica. Una unica traduzione va usata universalmente nell’area di una determinata Conferenza dei Vescovi e deve essere la stessa per lo stesso passo occorrente in più parti nell’insieme dei libri liturgici. Lo scopo deve essere per ogni lingua uno stile specificamente sacro, consono al lessico fissato dall’uso cattolico popolare e, per quanto possibile, dai principali testi catechetici. Tutti i casi dubbi relativi alla canonicità e alla esatta disposizione del testo vanno risolti facendo ricorso alla Neo-Vulgata.
Le immagini concrete fornite da alcune parole, secondo uno stile linguistico propriamente figurato, come il “dito”, la “mano”, il “volto” di Dio, o il suo “camminare”, e termini come “carne” e simili, vanno tradotti letteralmente ogniqualvolta usati e non rimpiazzati da astratti. Sono queste, infatti, figure tipiche del testo biblico, che vanno in quanto tali mantenute.
Altri testi liturgici
Le norme per la traduzione della Bibbia in uso nella Liturgia si applicano, in generale, anche alle traduzioni delle preghiere liturgiche. Al tempo stesso, si deve riconoscere che, mentre la formulazione della preghiera liturgica è soggetta ad essere in qualche senso determinata dalla cultura che ne fa uso, essa entra a sua volta a far parte di un processo di formazione di quella stessa cultura, in una tipologia di relazione non meramente passiva. La lingua liturgica può, pertanto, ragionevolmente divergere dal parlato ordinario, ma rifletterne al tempo stesso gli elementi migliori. L’ideale sarà lo sviluppo in un determinato contesto culturale di un volgare dignitoso, atto ad essere destinato al culto.
Il lessico liturgico deve includere le principali caratteristiche del Rito romano, radicarsi nelle fonti patristiche e armonizzarsi con i testi biblici. Si consiglia qui di armonizzare la traduzione in lingua moderna con gli usi del Catechismo della Chiesa Cattolica e di adoperare termini distintivi, ogniqualvolta ci si riferisca a persone o ad oggetti sacri, in modo tale da evitare confusioni con quelli adottati per cose della vita quotidiana.
La sintassi, lo stile e il genere letterario sono anch’essi elementi di importanza fondamentale per l’elaborazione di una traduzione fedele. La relazione tra i periodi, soprattutto quando espressi per il tramite della subordinazione, e figure come il parallelismo vanno accuratamente ritenute. I verbi vanno tradotti con precisione, rispettando la persona, il numero, la voce. Maggiore libertà si può, invece, avere nel tradurre strutture sintattiche più complesse.
Si tenga sempre in considerazione che i testi liturgici sono rivolti alla pubblica declamazione o al canto.
Tipologie specifiche di testo
Norme specifiche vengono, inoltre, fornite per la traduzione delle Preghiere Eucaristiche, del Credo (nel quale il verbo va posto alla prima persona singolare: “credo”, e non “crediamo”), per l’impostazione e l’ordinamento interno dei libri liturgici e per i loro decreti preliminari e i testi introduttivi. Esse sono seguite da una descrizione nella preparazione delle traduzioni da parte della Conferenza dei Vescovi e delle procedure necessarie per giungere all’approvazione e alla conferma dei testi liturgici dalla Santa Sede. Gli attuali requisiti specifici dell’approvazione pontificia per le formule sacramentali, come anche l’esigenza che ci sia una unica traduzione della Liturgia per ogni determinato gruppo linguistico, specialmente per quanto attiene all’Ordo Missae, vengono riaffermati.
L’organizzazione del lavoro di traduzione e le Commissioni
La preparazione delle traduzioni è un onere gravante anzitutto sui Vescovi, per quanto essi debbano, naturalmente, ricorrere all’aiuto di esperti. In ogni lavoro di traduzione alcuni almeno dei Vescovi devono essere direttamente coinvolti, non soltanto nel diretto e personale controllo dei testi definitivi, ma anche nel prendere parte sempre attiva alle varie fasi di preparazione. Benché non tutti i Vescovi di una Conferenza siano esperti in una determinata lingua in uso nel loro territorio, essi devono assumere una responsabilità collegiale per i testi liturgici e una strategia d’insieme per l’uso delle varie lingue nel campo pastorale.
L’Istruzione espone chiaramente le procedure (in linea di massima corrispondenti a quelle già attualmente in vigore) per l’approvazione dei testi da parte dei Vescovi e la loro successiva presentazione per la revisione e la conferma da parte della Congregazione per il Culto Divino. Il documento dedica un certo spazio a sottolineare l’importanza del rimando degli affari liturgici alla Santa Sede, parzialmente basandosi sul Motu Proprio di Sua Santità Giovanni Paolo II “Apostolos suos” del 1998, in cui si chiariva la natura e la funzione delle Conferenze dei Vescovi. La procedura di rimando, oltre che segno della comunione dei Vescovi con il Papa, ha anche un valore di consolidamento di questa relazione. Essa è garanzia della qualità dei testi e ha per fine che le celebrazioni liturgiche delle Chiese particolari (diocesi) siano in piena armonia con la tradizione della Chiesa Cattolica lungo i secoli e in tutti i luoghi del mondo.
Laddove una cooperazione tra Conferenze dei Vescovi facenti uso della stessa lingua risulti appropriata o necessaria, spetta unicamente alla Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti erigere commissioni congiunte o “miste”, di solito in séguito a richiesta dei Vescovi. Tali Commissioni non sono autonome e non costituiscono un canale di comunicazione tra la Santa Sede e le Conferenze dei Vescovi; non ricoprono un ruolo decisionale, ma sono semplicemente al servizio del ministero pastorale dei Vescovi; sono incaricate esclusivamente della traduzione delle editiones typicae latine, ma non della composizione di nuovi testi in volgare, né di considerazioni su questioni teoretiche, né di adattamenti culturali, e non hanno relazione con organismi analoghi di altri gruppi linguistici.
La quinta Istruzione raccomanda che almeno alcuni dei Vescovi componenti la commissione siano pure membri della commissione liturgica della Conferenza dei Vescovi a cui appartengono. Ad ogni modo, la commissione “mista” è diretta dai Vescovi membri, in accordo con gli statuti, che vanno confermati dalla Congregazione per il Culto Divino. Tali statuti devono, di solito, ricevere l’approvazione di tutte le Conferenze partecipanti dei Vescovi; se ciò non risulta possibile, la Congregazione per il Culto Divino può intervenire per redigere e approvare di sua autorità gli statuti.
Tali Commissioni – a quanto espone il documento – operano in particolare nel coordinare l’uso delle risorse disponibili per le singole Conferenze dei Vescovi, in modo che, per esempio, una determinata Conferenza possa produrre un primo abbozzo di traduzione, successivamente rifinito dalle altre Conferenze dei Vescovi, per giungere così a un testo migliorato per divenire universalmente utilizzabile.
Le commissioni “miste” non sono volte a sostituire le commissioni liturgiche nazionali e diocesane e non possono, pertanto, ricoprire alcuna delle funzioni di queste ultime.
Data l’importanza della loro opera, tutte le persone, salvo i Vescovi, coinvolte nell’attività di una commissione “mista” devono ottenere il nihil obstat da parte della Congregazione per il Culto Divino e la Disciplina dei Sacramenti prima di assumere il proprio incarico. Come tutti, quanti risultano collegati con la commissione collaborano con essa solo a tempo determinato e sono vincolati da contratto a svolgere le loro funzioni in assoluta segretezza e in anonimato.
Le commissioni esistenti devono conformare i propri statuti con questa Istruzione e sottoporli alla Congregazione per il Culto Divino entro due anni dalla data della sua emanazione.
Il documento pone l’accento anche sul bisogno della stessa Santa Sede di traduzioni liturgiche, soprattutto nelle principali lingue, e sul suo desiderio di essere più strettamente coinvolta in avvenire nella loro preparazione. Esso fa accenno anche, in modo generale, ai vari tipi di organismi che la Congregazione per il Culto Divino può costituire per la soluzione dei problemi di traduzione in una o più lingue.
Nuovi testi
Una sezione sulla composizione di nuovi testi sottolinea che loro scopo è essenzialmente quello di venire incontro ai genuini bisogni culturali e pastorali. Essi, pertanto, spettano esclusivamente alle Conferenze dei Vescovi, e in nessun modo alle commissioni “miste” per le traduzioni. Essi devono rispettare stile, struttura, lessico e le altre tradizionali caratteristiche del Rito romano. Particolarmente importanti, in virtù del loro impatto sulla persona e sulla memoria, sono gli inni e i canti. Questo materiale in lingua moderna deve essere sottoposto ad una revisione generale e le Conferenze dei Vescovi sono invitate a regolare la questione in accordo con la Congregazione entro cinque anni.
L’Istruzione conclude con una serie di brevi sezioni tecniche contenenti direttive in merito alla pubblicazione delle edizioni dei libri liturgici, ivi inclusi il copyright, e alle procedure per la traduzione dei testi liturgici propri delle singole diocesi e famiglie religiose.
AMDG et BVM
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