venerdì 29 luglio 2016

Martirio di Otranto

22 novembre 2013

Nel bellissimo film “Mission”, padre Gabriel, il gesuita responsabile della missione tra i guaranì stanziati nel territorio dell’attuale Paraguay, dice al suo confratello Rodrigo, ex mercenario di schiavi che intende combattere con le armi i soldati portoghesi inviati a porre fine alla missione perché commercialmente concorrenziale con i traffici dei coloni portoghesi, «se è la forza a creare il diritto, non c’è posto per l’Amore di Cristo in questo mondo». La scena successiva si chiude con padre Gabriel che, attorniato dai suoi indios, va incontro alla fucileria dei portoghesi innalzando l’ostensorio con il Santissimo Sacramento, fino a quando non viene raggiunto da una fucilata e cade a terra mentre il Santissimo è significativamente raccolto da uno degli indios. Era successo che il massone marchese di Pombal, padrone della corte lusitana, con la minaccia (poi comunque messa in atto) di cacciare l’ordine di sant’Ignazio dal Portogallo e con quella dello scisma, aveva costretto il Papa a mettere fine all’esperimento delle reducciones in America Latina (1)
Le reducciones si erano sviluppate nei territori coloniali ispanici, dove erano tutelate, contro gli scalpitanti coloni spagnoli, dalle leggi della Corona, risalenti ad Isabella La Cattolica, le quali vietavano la schiavitù degli indios. Nella prima metà del settecento un trattato internazionale aveva assegnato parte di quei territori, al confine tra l’attuale Paraguay e l’attuale Brasile, al Portogallo. Nel regno portoghese la schiavitù, sia quella indiana sia quella negra, era invece pratica legale da secoli. Di lì a poco – siamo in pieno XVIII secolo – le monarchie illuminate europee avrebbero varato una serie di riforme antiecclesiali e cacciato i gesuiti, odiati dalla massoneria, ormai padrona delle corti, perché a suo tempo avevano fermato l’avanzata del protestantesimo in Europa e recuperato metà continente alla fede cattolica.
“Se è la forza a creare il diritto, non c’è posto per l’Amore di Cristo in questo mondo”! Dovremmo, in quanto cristiani, tenere sempre nei nostri pensieri questo ammonimento, perché contiene tutta la Verità dell’intera storia umana sospesa tra la salvezza e la dannazione, tra Giustizia e realpolitik, tra l’Amore salvifico di Nostro Signore e l’avidità di denaro e di potere. Se l’Amore di Cristo sembra, in apparenza, non aver posto nel mondo è anche perché troppo spesso è stato tradito proprio dai sedicenti “cristianissimi” monarchi.
Non è, però, della eroica e drammatica vicenda delle missioni gesuitiche in America Latina che voglio qui parlare ma di un’altra anteriore vicenda dalla quale trapela l’eroismo del martirio di tanta povera gente cristiana e il calcolo di potere di governi che pur si fregiavano della Croce di Cristo, a chiacchiere. Voglio parlarvi di chi, in realtà, armò la mano di Gedik Ahmed Pascià, il martirizzatore degli ottocento otrantini canonizzati dalla Chiesa.
Ma andiamo con ordine.
Partiamo da quanto le cronache ci tramandano circa il ruolo di “Cassandra” che, in quei frangenti, fu assunto da san Francesco di Paola, il quale a proposito della guerra in quel momento in corso in Toscana – vedremo poi in quale contesto era scoppiata tale guerra – così rispondeva a chi gli chiedeva quando sarebbe terminata «Oh! Non è per la Toscana, ma per questo nostro regno che dovremo temere. Io vedo il turco che tra poco porrà piede sulla nostra misera terra. Miseri noi, miseri noi …». Il santo, poi, rivolgendosi verso Otranto invitava tutti a pregare per quella “infelice città” esclamando: «Di quanti cadaveri vedo coperte le tue strade! Di quanto sangue cristiano ti vedo inondata!». Agli emissari del re di Napoli, Ferdinando I di Aragona, il santo intimava di dire al sovrano: «… che ormai è tempo di calmare lo sdegno del Signore con pronto ravvedimento: che Dio tiene alzata la sua destra per colpirlo; che si valesse del tempo concessogli per evitare il castigo. L’armata dei turchi minaccia l’Italia, ma più da vicino il suo regno: ritirasse le soldatesche dalla Toscana, non curasse l’altrui mentre trattasi di difendere il proprio».
Il re tuttavia, come i sovrani ebrei a cospetto dei profeti biblici, non diede alcuna importanza alle ammonizione del santo calabrese. Re Ferrante, come era denominato Ferdinando I, era un abile tessitore di alleanze volte a contendere l’egemonia sul mediterraneo alla Serenissima Repubblica di Venezia. La quale, a sua volta, voleva fermare l’emergente potere aragonese. Questo contrasto veneziano-napoletano aveva per scenario il confronto all’epoca in corso tra l’Impero Ottomano e gli Stati europei, ormai sulla strada del passaggio dalla tramontante Res Publica Christiana all’Europa delle monarchie nazionali che sarà consacrata poi a Westfalia nel 1648.
Un avvenimento di portata epocale si era verificato nel 1453: i turchi ottomani, guidati dal sultano Maometto II, avevano posto fine all’Impero Romano. Sì, all’Impero Romano! Noi siamo abituati a datare la fine di Roma antica al 476 d. Cr.. In realtà, Bisanzio, ovvero Costantinopoli, la città capitale dell’oriente romano, fu non l’erede ma la continuatrice legittima di Roma, come ben sapeva un Carlo Magno che, dopo la notte di Natale dell’anno 800, cercò in tutti i modi di stabilire rapporti cordiali e di alleanza con l’Impero d’Oriente del quale, evidentemente, riconosceva l’Autorità e dal quale sperava una legittimazione, che non arrivò mai in termini palesi, del suo nuovo Impero occidentale. L’Impero bizantino, dunque, era – senza soluzioni di continuità – la pars Orientis dell’impero romano come ridefinito dalla riforma teodosiana del 395. Ed ecco perché è possibile affermare che i turchi nel maggio 1453 posero fine all’Impero romano.
La caduta di Costantinopoli provocò nel mondo cristiano un’ondata di paura che ben presto si vestì di immagini apocalittiche rinfocolando le mai sopite pulsioni millenaristiche. Ci fu una nuova esplosione delle antiche profezie medioevali che associavano la caduta di Roma alla imminente comparsa dell’Anticristo ed alla fine dei tempi. Papa Nicolò V, il 30 settembre 1453, chiamò i popoli cristiani alla “crociata” indicando in Maometto II un precursore dell’Anticristo. Non senza effetti: la secolare guerra dei cent’anni tra Inghilterra e Francia venne chiusa per far fronte al pericolo comune mentre in Italia veniva stipulata nel 1454 la “Pace di Lodi” con la quale si pose termine alle endemiche guerre tra Stati italiani. Un “equilibrio”, questo nato con la Pace di Lodi, che durò sostanzialmente fino allo sconquasso provocato nel 1796-99 dai francesi invasori. Ancora una volta veniva riconfermata l’antica regola della politica, che più tardi Carl Schmitt chiamò dell’“amico/nemico”, e che sancisce il costituirsi delle alleanze politiche in funzione di un comune nemico, sicché l’amicizia sarebbe fondata sull’inimicizia e la sussistenza di un nemico sarebbe il presupposto sempre necessario della convivenza tra gli uomini. Una regola – diciamolo chiaramente – post-adamitica e nient’affatto originaria. Infatti essa è del tutto incompatibile con la concezione cristiana della convivenza originariamente fondata sull’amicizia e sul bene comune ma guastata dal peccato ossia, appunto, dal comparire nella storia umana, proprio a causa del peccato, dell’inimicizia.
Ma, al di là della “crociata” bandita dal Papa e delle visioni apocalittiche che fomentavano la paura in Europa, ben altre concrete preoccupazioni avevano gli Stati europei. L’emergente potenza ottomana ora controllava, da Costantinopoli, gli stretti e tutto il mediterraneo orientale. Minacciava così gli interessi commerciali genovesi e veneziani che sulla rotta tra il mar Nero ed il mar Egeo avevano creato una fitta rete di mercati sotto il benestare bizantino. Il subentrare del potere turco a quello bizantino non solo metteva in crisi il dominio veneziano-genovese ma poneva anche le basi di una crisi economica e di nuove carestie dal momento che il frumento arrivava in Europa occidentale dalla Crimea sulle galee di Venezia e di Genova.
Il comparire della potenza ottomana sullo scenario geopolitico europeo-mediterraneo aveva sconvolto diversi consolidati equilibri. Gli ottomani premevano ormai sui Balcani e sull’Adriatico. Fermati solo provvisoriamente a Belgrado si affacciarono ben presto di fronte alla stessa Venezia e poi a Vienna. Lo stesso regno aragonese di Napoli era terribilmente esposto a questa pressione e le sue coste continua preda di incursioni “prendi e fuggi” dei pirati turchi. Tutto questo alimentava l’impressione di una imminente invasione turca dell’intera Europa. Oggi gli storici sanno molto bene che, sia per carenze tecnologiche (i turchi acquistavano tecnologia militare, e persino le prestazioni degli ingegneri, dall’Europa, non essendo in grado di produrla in proprio) sia per le lotte intestine che dilaniavano la corte della Sublime Porta, un’invasione continentale era del tutto fuori dalla portata delle possibilità ottomane. Ma, in quei tempi, l’impressione era quella ed essa giocava il suo ruolo politico.
Del resto, la Cristianità occidentale iniziava a pagare la cambiale firmata qualche secolo prima ai danni del Sacro Romano Impero. Venuto meno quest’ultimo, ormai poco più che un regno germanico-danubiano, a causa delle spinte centrifughe delle embrionali monarchie nazionali e regionali, era venuto meno anche l’universalismo politico medioevale e questo aveva indebolito l’Europa. Come conseguenza del ritrarsi del Potere imperiale anche l’Auctoritas, ossia il potere indiretto, del Papa, subì un ridimensionamento. Nel XV secolo il Papa poteva tutt’al più ambire alla simbolica funzione di “presidente” di questa o quella lega di regni cristiani. Nulla, però, di veramente decisivo. Tuttavia i Papi di quell’epoca cercarono perlomeno di far funzionare queste “Leghe Sante” per tentare – impresa davvero disperata per molti versi – di tenere uniti i regni cristiani. In tal senso, il bandire nuove “crociate”, impossibili nel nuovo quadro storico e politico, come anche il soffiare sulle ansie millenaristiche poteva servire allo scopo. Pio II arrivò persino a scrivere una lettera – forse mai recapitata – nella quale, parlando a nuora affinché suocera intendesse, prometteva al sultano, se solo si fosse battezzato, la corona imperiale, della quale a suo giudizio nessun principe cristiano si dimostrava degno.
Abbiamo parlato di impresa disperata perché gli interessi politici, geopolitici ed economici dei regni cristiani erano divergenti. Mettere insieme le mire del re d’Ungheria e del re di Francia o quelle di Venezia e di Napoli era davvero una impresa disperata. Per capire come possa essere difficile comporre dissidi interni anche di fronte ad un comune pericolo esterno, bisogna tener presente che la regola dell’amico-nemico va sempre a braccetto con quell’altra che sancisce che “il nemico del mio nemico è mio potenziale amico”. Alla luce di questa seconda regola è possibile spiegarsi come mai ben presto, passato il primo momento di allarme di fronte alla caduta di Costantinopoli, gli Stati europei avevano iniziato a capire che se, da un lato, i turchi rappresentavano certamente un comune pericolo, dall’altro si prestavano benissimo a diventare il pretesto per ridisegnare tra loro alleanze intese a far passare, dietro l’alibi della “crociata contro il Turco”, i propri interessi nazionali contro quelli dei vicini. Dietro l’ipocrisia ufficiale – quella che faceva finta di rispondere alla chiamata del Papa in difesa della fede cristiana – in realtà si giocavano partite geopolitiche immonde tra gli stessi regni cristiani. E’ noto che la Francia, in barba agli Asburgo, simpatizzasse, con concreti rapporti commerciali, con la Sublime Porta. Il sultano, d’altro canto alle prese con le lotte intestine al suo impero, che sconvolgevano la sua stessa corte, e con la pressione esterna, in oriente, degli altri potentati islamici, conosceva molto bene i machiavellismi delle cancellerie e delle corti europee. Maometto II, ricevendo gli ambasciatori di quelle stesse potenze cristiane i cui sovrani erano esperti nel prodigarsi retorico al richiamo alla “crociata”, in apparente risposta all’appello dei Papi, si divertiva ad inserirsi, pro domo sua, in quel sottile gioco diplomatico in atto tra i regni europei. Al sultano, insomma, non dispiaceva di far la parte del “cattivo” o dell’“alleato segreto” purché il suo controllo sul Mediterraneo orientale e sui Balcani, perché a questo egli realisticamente mirava, fosse consolidato.
«La crociata – è stato argutamente osservato – nell’Europa del secondo Quattrocento era come l’antifascismo nell’Europa del secondo Novecento: tutti ne parlavano, tutti erano d’accordo, ciascuno cercava di farla coincidere con i propri interessi e di accusare gli altri di non servire con altrettanta energia tale nobile ideale, nessuno o quasi ci credeva sul serio e quasi tutti erano pronti a tradirla alla prima redditizia occasione. In fondo, che Venezia fosse minacciata dal Turco non dispiaceva affatto né al re di Napoli, né al duca di Milano; e il re di Francia non chiedeva di meglio che gli ottomani se la prendessero con gli interessi oltremarini di Genova in modo da poter esser pronto a difendere il prestigioso porto ligure che da decenni ambiva, in contrasto con il duca di Milano, a sottomettere. Con tali premesse, e in un tale contesto, era chiaro che alternando sapientemente la guerra alla diplomazia il sultano poteva tranquillamente giocare le potenze cristiane: ed è quanto fece. Peraltro, Maometto II era un politico troppo realista e intelligente per puntare davvero a conquistare l’Europa e a sottomettere all’islam i popoli cristiani. Gli conveniva però che così si temesse, o si fingesse di temere. Il pericolo, ad ogni modo, era costante e reale. Fermati per miracolo davanti a Belgrado nel 1456, gli ottomani alternavano la minaccia navale attraverso l’Egeo, lo Ionio e l’Adriatico, a quella terrestre lungo la via del Danubio. Nel 1469 c’erano state incursioni in Carniola, Stiria e Carinzia, destinate a diventar periodiche: nel 1470 i turchi avevano occupato l’isola veneziana di Negroponte; nel ’77 e nel ’78 le loro incursioni avevano toccato il Friuli. La pressione era così forte che i veneziani, i quali da circa un quindicennio erano in guerra aperta con il sultano sobbarcandosi quasi da soli il compito di aiutare gli ungheresi di Mattia Corvino – sostenuto peraltro nella sua guerra anche dal danaro della Curia pontificia – e gli albanesi che comunque, da ormai un decennio, erano privi della guida del loro eroe Scander Beg, alla fine chiesero e ottennero dal sultano una pace, siglata appunto nel 1479» (2).
Ma vi erano altre motivazioni che spingevano Venezia a cercare una tregua con il sultano ottomano. E per comprenderle è necessario inquadrare la conquista mussulmana di Otranto in un progetto elaborato dagli ottomani ed inteso al controllo navale del canale che prende appunto nome dalla cittadina pugliese.
Il 28 luglio 1480 Otranto veniva assediata dalla flotta turca alla guida della quale vi era Gedik Ahmed Pascià, grande ammiraglio della Sublime Porta. Gli aragonesi abbandonarono la città senza combattere sicché l’11 agosto i musulmani entrarono nella città disperatamente difesa dai soli otrantini. Ne seguì un massacro indiscriminato di tre giorni e tra i caduti si annoverò anche il vescovo Stefano Pendinelli che fu ucciso nella cattedrale. Le cronache raccontano che il 14 agosto Ahmed Pascià fece riunire i superstiti di sesso maschile ed in età adulta, ossia per i canoni dell’epoca dai quindici anni in sù. Erano pressappoco ottocento anime alle quali fu posta la scelta tra l’apostasia e la decapitazione. Pare che la risposta arrivò da un vecchio conciatore di lana, tal Antonio Primaldo: «Fin qui – egli disse – ci siamo battuti per la patria e per salvare i nostri beni e la vita: ora bisogna battersi per Gesù Cristo e per salvare le nostre anime». Furono tutti decapitati a gruppi cinquanta ed i loro corpi furono lasciati insepolti per un anno fino al 15 agosto del 1481, quando la città fu ripresa dai cristiani e si seppellirono con tutti gli onori i loro resti mortali. La beatificazione fu pronunciata nel 1771. Nel 1983 sono stati proclamati santi.
Dal punto di vista coranico la martirizzazione degli otrantini era un misfatto. Il Corano infatti distingue tra la “gente del Libro”, ossia ebrei e cristiani, ed i “pagani”, ossia tutti gli altri. I primi, in quanto abramitici, secondo i precetti islamici, conoscono il vero Dio e pertanto non possono essere convertiti con la forza, benché devono essere sottomessi al governo islamico. I pagani invece devono essere combattuti senza tregua. Quindi l’alternativa posta agli otrantini tra la conversione e la morte era coranicamente illegittima. Essa poteva essere imposta solo ai pagani ma non alla “gente del Libro”. Quindi Ahmed Pascià infranse i precetti coranici perché trattò dei cristiani come fossero pagani. Lo scarto tra la precettistica e la sua effettiva applicazione, del resto, è una cosa nota anche al mondo cristiano. Sicché se conversioni forzate di cristiani all’islam sono state storicamente registrate, insieme a duri maltrattamenti, dalla Spagna fino alla Persia ed all’India, abbiamo episodi analoghi di conversioni forzate, anche queste illegittime perché contrarie all’Amore di Cristo che vuole la conversione del cuore e non la sua costrizione, di islamici ed ebrei al Cristianesimo durante la prima crociata del 1096-99 come anche nel corso della Reconquista iberica. Anche gli ebrei, quando hanno potuto non si sono dimostrati da meno. Come ad esempio nell’VIII secolo quando, a seguito della conversione all’ebraismo dei Kazhari, un popolo caucasico dal quale discende il ramo askenazita dell’ebraismo attuale, si installò presso la corte del monarca kazaro un sinedrio che per prima cosa mise fuorilegge la fede cristiana e recluse i cristiani nei loro quartieri trasformati in ghetti. I Turchi, oltretutto, provenienti dalle steppe dell’area centrale del continente asiatico, erano giunti tardi alla fede islamica e come accade a tutti i neofiti, di qualsiasi religione, si dimostrarono particolarmente zelanti e quindi eccessivamente rigoristi. Senza, poi, dimenticare che spesso i comandanti, fossero islamici o cristiani, dovevano fare i conti con le aspettative di bottino che le truppe nutrono ad ogni conquista.
Tornando al problema geopolitico del basso Adriatico, la base ottomana stanziatasi nel 1480 ad Otranto parve subito come l’inizio di un progetto più ampio che probabilmente contemplava la conquista dell’intera Puglia meridionale. Infatti, fra il 1480 ed il 1481, da Otranto, ormai saldamente in mano ottomana, partirono una serie di incursioni corsare turche alla volta di Taranto, Brindisi e Lecce. L’intenzione di Maometto II, e del suo gran visir, di creare una base ottomana sulle coste pugliesi, allo scopo di controllare i traffici marini e commerciali sul canale che unisce il mar Adriatico e lo Jonio, era evidente. Venezia sarebbe rimasta prigioniera nel suo stesso mare. D’altro canto la Serenissima era in conflitto con gli aragonesi di Napoli proprio sulla questione del controllo dello sbocco adriatico al mediterraneo e per questo si opponeva alle ambizioni che il re di Napoli aveva circa l’estensione del suo dominio indiretto a tutta la penisola italiana attraverso accorte alleanze e qualche ampliamento dei suoi territori. Per Venezia era questione di vita o di morte. Doveva necessariamente combattere o allearsi con chi deteneva o ambiva a detenere il controllo del canale tra Adriatico e Jonio.
Conosciamo, dalle stesse fonti veneziani, dunque da insospettabili “confessioni”, che il rappresentante della Serenissima a Costantinopoli, ora Istanbul, Andrea Gritti, fu incaricato di una ambasceria presso il sultano per informarlo che Venezia non si sarebbe affatto opposta all’eventualità di una conquista ottomana della Puglia. Quei territori erano appartenuti a Bisanzio e pertanto, così Venezia solleticava la Sublime Porta, potevano essere ora rivendicati da Istanbul.
Venezia non era però da sola in questa ricerca di una cordiale intesa con l’Impero Ottomano. Anche la Firenze di Lorenzo il Magnifico aveva tutto l’interesse a stabilire buoni rapporti con la Sublime Porta. Da tempo tra Maometto II e Lorenzo de’ Medici sussisteva una certa cordialità. Firenze aveva inviato ad Istanbul i suoi artisti – gli incisori toscani coniarono una serie di medaglie commemorative delle vittorie asiatiche del Gran Sultano – ed il sultano ricambiò facendo arrestare, e deportare a Firenze, Bernardo Bandini, uno dei congiurati che avevano attentato alla vita del Magnifico, uccidendone il fratello Giuliano, in quella che fu chiamata la “congiura dei Pazzi”.
In questo quadro politico, una chiave di comprensione per capire l’assalto ottomano ad Otranto sta, più che nei progetti del sultano di conquista delle Puglie, che pur contribuiscono a spiegarlo, nelle trame diplomatiche che dividevano i “cristianissimi” sovrani italiani del tempo ed in particolare nel contrasto di interessi che abbiamo visto sussisteva tra la volontà egemonica sull’intera Italia nutrita dal re di Napoli e quella di Venezia sull’Adriatico conteso proprio agli aragonesi. La già citata “congiura dei Pazzi” a Firenze, a sua volta un episodio della lotta interna al mondo cristiano italico, è poi l’elemento che fa chiarezza anche sul ruolo del Papa, ossia di Sisto IV, al secolo Francesco della Rovere, salito al soglio di Pietro nel 1471. La guerra di Toscana, della quale, come abbiamo visto, si lamentava San Francesco di Paola, era nata dal contrasto che vedeva Roma e Napoli alleate contro Firenze. La Toscana era una terra, in quel momento, sorretta da un instabile equilibrio politico. Siena, timorosa della potenza sempre più crescente della sua vicina e temendo per la propria indipendenza, osteggiava l’espansionismo mediceo ed aveva accolto i fuoriusciti fiorentini contrari al governo della dinastia bancaria dei Medici. Ferdinando I d’Aragona, dal canto suo, sosteneva la politica antifiorentina dei senesi. Papa Sisto IV mirava ad abbattere, con l’aiuto degli oppositori dei Medici ancora forti nell’aristocrazia fiorentina, il governo mediceo per installare a Firenze quello del nipote Girolamo Riario. Quest’ultimo aveva un vecchio conto da regolare con Lorenzo il Magnifico che aveva fatto, a suo tempo, fallire il suo tentativo di fondare una signoria ad Imola.
Queste furono le premesse della congiura detta dei Pazzi dal nome dei componenti della ricca famiglia che in Firenze contendeva la signoria ai Medici. La congiura, come noto, fallì e la repressione contro i congiurati, che coinvolse anche il clero fiorentino, fu feroce. A quel punto il Papa scomunicò il Magnifico e gettò l’interdetto contro Firenze, riunendo in una “lega” il regno di Napoli, la repubblica di Siena ed il signore del Montefeltro, Federico. Firenze trovò dalla sua parte Venezia e Milano che da nemiche avevano messo da parte gli antichi contrasti di fronte al comune pericolo dell’espansionismo aragonese-napoletano. Tuttavia la situazione si mise male per Lorenzo. Se il re di Francia aveva fatto sapere che si rifiutava di sostenere economicamente la guerra del Papa in Toscana perché si trattava di una guerra contro i cristiani – ma in realtà al sovrano d’oltralpe interessava solo risparmiare denaro ed uomini visto che poi lui per primo trescava con la Sublime Porta – invece Milano, alle prese con i suoi problemi interni, e Venezia, ancora impegnata a fronteggiare i turchi sotto casa, non potevano intervenire direttamente in terra Toscana. Firenze era rimasta sola a fronteggiare le truppe papali-senesi-napoletane. Ed oltretutto su di essa e su Lorenzo era caduto l’interdetto pontificio e l’accusa di impedire l’unità dei cristiani contro il pericolo turco alle porte. Il comandante dell’esercito fiorentino era il duca di Ferrara, Ercole d’Este, imparentato, in quanto genero, proprio con Ferdinando I re di Napoli, quindi visto con sospetto dal Magnifico.
La guerra in Toscana, dunque, si era messa molto male per Lorenzo. Per rompere l’accerchiamento il Magnifico ricorse alla diplomazia e riuscì a convincere Ferdinando che rischiava grosso a legarsi troppo alla politica di Sisto IV ormai anziano. Nessuno poteva dare garanzie al re di Napoli che il successivo Pontefice avrebbe continuato nella politica, mossa da motivi nepotistici, di Sisto IV. Si giunse così, il 25 marzo 1480, ad un patto di pace tra Firenze e Napoli. Questo fatto causò a sua volta un riavvicinamento della Serenissima al Papa. Venezia, infatti, non poteva guardare di buon occhio chiunque non si opponesse al re di Napoli, come aveva ora mostrato di fare Lorenzo il Magnifico. Persino il re di Francia, che rivendicava gli antichi diritti angioini su Napoli contro gli aragonesi, non aveva apprezzato la svolta filo-napoletana di Firenze.
Chi approfittò di questa congiuntura, allo scopo di rafforzare il suo dominio sui Balcani e sullo Jonio, fu il sultano. Sembra che tra il ‘78 e l’’80 giungessero a Maometto II sollecitazioni da Firenze affinché invadesse la Puglia. Anche Venezia, che nel frattempo aveva siglato nel 1479 una pace con Istanbul, istigava il sultano a rivendicare la terra d’Otranto quale erede di Bisanzio. Sicché quando, nel 1480, Ferdinando inviò aiuti ai cavalieri di Rodi, sotto assedio da parte turca, Maometto II, per ritorsione, fece occupare Valona ed inviò Ahmed Pascià ad Otranto. Le galee veneziane appoggiarono, dalla distanza, rifornendola di viveri, la flotta turca in avvicinamento alla città pugliese. Maometto II sapeva che la sua iniziativa in Puglia avrebbe dato il pretesto per la proclamazione della “crociata” determinando la riappacificazione degli Stati cristiani. Ed, infatti, così fu. Il Papa proclamò la crociata, i predicatori percorsero tutta l’Europa per sollecitare re e popoli a “prendere la croce”, Venezia ed il re di Francia giunsero ad una tregua nelle loro contese e insieme misero momentaneamente da parte ogni contesa verso il regno di Napoli, lo stesso Papa fece subito pace con Firenze e le truppe napoletano-pontificie lasciarono la Toscana meridionale. Il 31 maggio 1481 morì Maometto II. Ne derivò una lotta dinastica tra i suoi figli che facilitò la riconquista cristiana di Otranto da parte di Alfonso di Calabria, figlio di re Ferdinando.
L’esame storico dei fatti relativi al martirio di Otranto, dimostra che la storia, anche di fatti eroici di fede come quello accaduto nel 1480, è sempre straordinariamente complessa e mai riducibile, come pretende la vulgata dello “scontro di civiltà”, a schemi semplicistici per i quali tutti i buoni sarebbero da una parte e tutti i cattivi dall’altra. In realtà non sono mai esistite due civiltà monolitiche e reciprocamente impenetrabili ed in perenne conflitto tra esse. Dietro la parvenza di un conflitto militare tra Cristianesimo ed islam, agivano in realtà ben altre motivazioni geopolitiche, di potere, di ambizioni, di interessi sovrani che usavano strumentalmente le reciproche fedi “cugine”. Cosa che ci da la certezza che quelle non furono guerre di religione o guerre sante o scontri di civiltà e, quindi, che la fede, nella sua integrità, non è, come accusa il pensiero ateo e laicista, fonte di intolleranza, violenza e guerra. Tutte cose – la “crociata”, la “guerra santa” – buone per la propaganda, ed in effetti furono ampiamente usate nella propaganda anche all’epoca, ma del tutto inservibili per spiegare le reali motivazioni di quei conflitti, compreso quello cui conseguì il martirio degli ottocento cristiani di Otranto che pur resta un esempio fulgido di testimonianza eroica della nostra fede cristiana.
Ad Otranto, nel 1480, i turchi hanno avuto il ruolo di risolutori delle contese interne al mondo cristiano. Avranno tale ruolo anche in successive occasioni, alle porte di Vienna. Il loro apparire sullo scenario geopolitico del tempo rianimò gli appelli alla “crociata”: un appello sulla cui sincerità, in chi lo proclamava, non possiamo avere dubbi ma che fu strumentalmente usato per giochi di potere. Gli ottomani furono l’elemento per la schmittiana “esportazione della violenza” e per ricostruire o conservare l’equilibrio interno al mondo cristiano. La stessa identità europea deve molto al “pericolo turco”, senza del quale gli Stati “cristianissimi” si sarebbero dilaniati tra loro con qualche secolo di anticipo (infatti lo fecero più tardi, quando non si dichiaravano più cristiani, con due secoli di guerre intestine iniziate nel ‘700 e culminate con le guerre mondiali del XX secolo). L’identità europea deve, del resto, molto anche alle stesse crociate medioevali, quelle che storicamente corrispondono al concetto autentico di “crociata” o meglio di “peregrinatio”, che, come detto, mai assunsero il carattere di guerre sante(3) né quello di guerre di religione (queste ultime invece furono ferocemente combattute all’interno del mondo cristiano tra cattolici e protestanti, a causa dello sconquasso luterano).
Ma, per concludere tornando alla vicenda del 1480, in tutta la tragicomica commedia, fatta di intrighi diplomatici, di guerre e di alleanze segrete o palesi, che abbiamo raccontato, gli unici ad averci rimesso la vita, testimoniando con il loro martirio la fede in Cristo, furono i poveri 813 martiri di Otranto. E qui tornano, potenti, le parole di padre Gabriel: «se è la forza – ed aggiungiamo noi, l’intrigo, il machiavellismo, le ambizioni personali e politiche – a creare il diritto, non c’è posto per l’Amore di Cristo in questo mondo». A queste parole, nel film, padre Gabriel ne faceva seguire altre, rivolte al suo confratello: «Ed io non ho la forza di vivere in un mondo così». Ma alla fine il gesuita quella forza l’ha trovata ed è andato, insieme ai suoi indios, incontro al martirio, per mano dei soldati di un re, il portoghese, che si proclamava “cristianissimo” ma approvava la politica anticristiana del suo ministro massone. Una politica che stava facendo del Portogallo un regno potente e ricco, anche se a scapito dell’Amore di Cristo portato dai gesuiti agli indios guaranì. 
Una forza, quella che dispose padre Gabriel al martirio, che può essere solo dono del Signore. La stessa forza che, al momento supremo, trovarono i poveri martiri di Otranto uccisi per mano islamica ma per responsabilità e mandato di sedicenti governi “cristianissimi”, più attenti ai loro affari ed alle loro ambizioni geopolitiche che alla difesa della Cristianità. Governi, soprattutto, dimentichi della Misericordia Divina, unico metro di Vera Giustizia in questo mondo.
Alla fine, quando giungerà il giorno del rendiconto, del redde rationem, padre Gabriel ed i martiri di Otranto rifulgeranno, davanti a tutti, nella Gloria. Ma, nel Giorno del Giudizio, tramontata per sempre la “gloria umana”, quella che la storiografia è capace di costruire e perpetuare, quale sarà, a cospetto dell’Altissimo, la sorte eterna di Lorenzo il Magnifico, di Sisto IV, di Maometto II, di Ahmed Pascià, di Ferdinando I, del marchese di Pombal? Pur conscio dei miei tanti e pesanti peccati, e per questo affidato solo alla Sua Misericordia, non vorrei mai essere nei loro panni.
                                                                                                             
Luigi Copertino
NOTE
1) Il Pombal, tra le altre “riforme” illuminate che promosse, durante il suo governo, introdusse anche l’imposizione per le famiglie aristocratiche di “antica cristianità”, ossia che vantavano radici cristiane precedenti al XVI secolo, di far sposare i propri figli con i figli delle famiglie aristocratiche ebree o di “nuova cristianità” ossia di origini converse. La storiografia racconta che un provvedimento del genere serviva, nobilmente, ad abbattere l’antigiudaismo cristiano tradizionale e certe forme di razzismo che pretendevano, illegittimamente, una giustificazione di tipo teologico. Senza negare che un obiettivo di questo genere poteva anche essere presente al Pombal, ci permettiamo, da parte nostra, di suggerire agli storici che forse qualcosa, di molto meno nobile, pur c’entrava. Ci riferiamo al fatto che il Pombal, massone confesso e per questo imbevuto di cultura cabalista, avesse come vero obiettivo quello di “cabalizzare” ossia “massonizzare” la fede cristiana mediante gli influssi culturali di una certa ambigua mistica ebraica. Se l’ebraismo postbiblico è cosa assolutamente diversa dal Cristianesimo, il quale ultimo ha la pretesa, più che fondata, di essere l’universalizzazione del vero ebraismo, e quindi il suo adempimento e superamento, non bisogna dimenticare che il cabalismo a sfondo gnostico, coltivato in seno all’ebraismo postbiblico, non corrisponde alla vera mistica cabalista, del tutto coincidente quest’ultima, come ha spiegato Julio Meinvielle, con la Rivelazione, e per questo ben nota ai profeti ed ai mistici biblici e che ha trovato continuazione nella mistica cristiana. L’avversione massonica alla fede cristiana, insieme agli interessi commerciali portoghesi messi in crisi dalle reducciones, che in termini moderni potrebbero definirsi vere e proprie “imprese sociali”, nelle quali i proventi del lavoro erano redistribuiti tra gli indios, fu la vera causa della politica antigesuitica del Pombal: su questo non ci piove.
2) Cfr. Franco Cardini “I martiri di Otranto”, Il Sabato, 21.8.1993, n. 34, p. 47s. Questo nostro contributo è ampiamente debitore del citato articolo del noto storico.
3) Per il Cristianesimo può esserci, con mille dubbi e mille restrizioni, solo la “guerra giusta”, che tuttavia rimane una colpa anche se necessitata, mentre mai può darsi una “guerra santa”, ossia capace di santificare attraverso l’uccisione del prossimo. Anche il concetto islamico di jihad fa innanzitutto riferimento a quella che cristianamente si chiama “pugna spiritualis” ovvero la lotta ai propri vizi, più che richiamare la guerra verso gli infedeli. Circa i quali, come detto, l’islam distingue tra cristiani ed ebrei, “gente del Libro”, che benché sottomessi non devono essere costretti alla conversione, e pagani verso i quali la guerra può anche essere, a certe condizioni, senza quartiere e che possono essere non solo sottomessi ma costretti a scegliere tra conversione e morte. Cosa, questa, molto veterotestamentaria a dimostrazione del carattere, appunto, veterotestamentario dell’islam che, insieme al giudaismo post-biblico, è una fede ancora in attesa della Venuta di Cristo che per islamici ed ebrei sarà quello che per noi cristiani è il Cristo della Seconda Venuta, il Cristo Giudice della Fine dei Tempi.
Da www.identitàeuropea.it

SANTA MARTA, vergine, sorella di San Lazzaro e Santa Maria Maddalena



Marta nacque da genitori nobili e facoltosi, ma fu più illustre per aver ospitato Cristo. 

Dopo la sua ascensione al cielo, si dice che, presa dai Giudei con il fratello, la sorella e molti altri cristiani, sia stata imbarcata su di una nave senza vela e senza remi e sia giunta a Marsiglia. 

Questo miracolo e la loro predicazione convertirono a Cristo i Marsigliesi e le popolazioni vicine. 

Marta, per la sua ammirabile santità di vita e carità, si guadagnò l'amore e l'ammirazione di tutti gli abitanti di Marsiglia e con alcune donne molto virtuose, si ritirò poi in un luogo solitario, dove visse a lungo stimata per la sua religiosità e saggezza. 

Infine, dopo aver predetto molto tempo prima la sua morte, illustre per i suoi miracoli, se ne andò al Signore.

V. E tu, o Signore, abbi pietà di noi.
R. Grazie a Dio.


Divinum Officium et Sancta Missa

S. Marthae Virginis ~ III. classis

Scriptura: Feria sexta infra Hebdomadam X post Octavam Pentecostes

Divinum Officium  Rubrics 1960

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PASION DE CRISTO



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NADIE le va a quitar la calificaciòn de ser 
la màs bella pelicula del siglo si no del milenio!
Catecismo para niños

“Vieni, Spirito Santo, vieni
per mezzo della potente intercessione
del Cuore Immacolato di Maria ,
tua amatissima Sposa”


"ALZATEVI, ANDIAMO!"


MAGNIFICA PRESENTAZIONE DEL VOLUME 
"ALZATEVI, ANDIAMO!"
DI SUA SANTIT
À GIOVANNI PAOLO II
INTERVENTO DEL CARDINALE GIOVANNI BATTISTA RE
Scuderie del Quirinale (Roma)Martedì, 18 maggio 2004

1. Fino a pochi anni fa, i Papi parlavano soltanto con le Encicliche, con le Esortazioni Apostoliche, con le Bolle, con i discorsi e le omelie. Non si conoscono libri scritti dai Papi durante il Pontificato, salvo l'unico caso di Benedetto XIV che come "doctor privatus" pubblicò il trattato "De canonizatione Sanctorum".
Giovanni Paolo II ci regala ora il suo terzo libro. È un testo privato autobiografico, che aiuta a capire in profondità alcuni aspetti del pensiero, dell'azione e dello stile di questo Papa.
È uno scritto interessantissimo per i Vescovi: nasce dall'esperienza personale di Karol Wojtyla prima come Vescovo Ausiliare, poi Arcivescovo della storica e importante sede di Cracovia e in fine come Papa. Senza atteggiarsi a "Maestro dei Vescovi", Giovanni Paolo II insegna loro come fare il Vescovo, lo insegna con la sua esperienza vissuta all'interno della crisi spirituale del nostro tempo e mostra la strada da seguire con il suo stile evangelico, umano, trasparente. Da questo libro emerge per i Vescovi un modello concreto a cui guardare per apprendere come comportarsi nelle varie circostanze che un Pastore deve affrontare.

Ma anche per i laici è un libro avvincente. Mi sembra infatti che possa interessare tutti il capire qualche cosa di quello che passa nel cuore di un Vescovo: capire le fatiche e le gioie di una guida spirituale in questa società che cambia. Per usare un'espressione delle prime pagine, il Papa "offre questo suo scritto come un segno di amore... per tutto il Popolo di Dio".
Penso che sia interessante per tutti quanto si legge sui rapporti di Giovanni Paolo II con gli uomini di pensiero, con gli uomini della scienza... con gli artisti... con i collaboratori... con la gente.

Interessante è vedere come in molte pagine traspare il senso dell'amicizia. Giovanni Paolo II ha forte il sentimento dell'amicizia, della riconoscenza, della fedeltà. Appare eminente in lui anche il senso della paternità spirituale.
Forse per qualcuno non è privo di interesse sapere che anche il Papa, a 38 anni, ha dormito in un sacco a pelo sul pavimento di una stazione ferroviaria: infatti per andare dal Card. Wyszynski, Karol Wojtyla ha viaggiato su un camion carico di sacchi di farina per raggiungere la stazione del treno, e lì passò la notte dormendo nel sacco a pelo attendendo la partenza del treno del mattino.

2. Mi sembra che il libro "Alzatevi, andiamo!" ci faccia capire le radici di ciò che vi è di proprio e originale nell'azione di questo Papa.
Certo di questo Papa si conosce molto.
La lunghezza di questo Pontificato (25 anni e mezzo) ci ha aiutato a capire la ventata di novità portata da questo Papa e ci ha aiutato a valutare il contributo significativo da lui dato alla Chiesa e all'umanità.
La Provvidenza divina ha assegnato a Giovanni Paolo II grandi compiti nella storia mondiale del nostro tempo. Non si può negare che Giovanni Paolo II sia un protagonista sul piano mondiale: a innumerevoli persone in questo arco di tempo Giovanni Paolo II ha trasmesso ragioni di vita e di speranza. Egli emerge come punto di riferimento della coscienza morale del mondo contemporaneo.
Le sue prese di posizione, le sue iniziative hanno manifestato la grandezza della sua personalità e la validità del suo pensiero. In pari tempo, la gente lo sente vicino perché egli sa comprendere i problemi, i dubbi, la ricerca di verità e di libertà che vi sono nel cuore umano.
Ed ora che lo vediamo piegato sotto la croce, perché fa fatica a camminare e le sue forze sono sensibilmente diminuite, la simpatia verso di lui è crescente. Egli non si arrende: è debole nel fisico, ma sempre forte nel suo spirito e nella sua testimonianza.

3. Un elemento qualificante, che emerge dal libro e che è confermato da questi 25 anni e mezzo di Pontificato, è che la prima e fondamentale caratteristica di questo Papa è religiosa.
L'anno scorso, in occasione del XXV di Pontificato, più che la sua immagine ecclesiale, ciò che maggiormente fu messo in rilievo da parte dei mezzi di comunicazione, circa Giovanni Paolo II, sono stati i risvolti politici della sua azione.
È fuori dubbio il ruolo che l'opera di questo Papa ha avuto anche sugli avvenimenti che segnarono lo sgretolarsi dell'Unione Sovietica. Quando Giovanni Paolo II fu eletto Papa, l'Unione Sovietica era salda, compatta ed appariva indistruttibile. Il mondo era diviso in due da quella che Churchill chiamò "la cortina di ferro".
Poco più di una decina di anni dopo, lo stesso Gorbaciov riconosceva che quanto era successo nell'Europa Orientale non sarebbe stato possibile senza la presenza e il ruolo di questo Papa.
Tuttavia, vorrei rilevare che il movente di tutto il Pontificato, il motivo ispiratore di tutte le iniziative è stato religioso: tutti gli sforzi del Papa mirano a fare rientrare Dio in questo mondo; mirano a ridare all'umanità il senso di Dio.
È vero che questo Papa era contro il Comunismo. Ma il motivo per cui il Papa era contro il Comunismo era un motivo non politico, ma religioso e antropologico: il Comunismo era un sistema che professava l'ateismo e perseguitava la Chiesa, e in pari tempo opprimeva l'uomo, negandogli la piena libertà. Era un motivo religioso e più propriamente cristologico quello che ha ispirato l'azione di Giovanni Paolo II.
A pagina 42 si legge che a Cracovia, quando studiava insieme con i suoi collaboratori come affrontare un problema, incominciava sempre approfondendo le motivazioni religiose per agire.

4. Un altro elemento qualificante di questo Papa è il coraggio.
È un uomo che sa affrontare a viso aperto le situazioni difficili e lo fa a motivo di una grande causa che lo ispira e lo guida, cioè Dio e il bene degli uomini.
Un episodio significativo del suo coraggio è quello riportato alle pagine 63-67.
Nell'ambito dell'Arcidiocesi di Cracovia, e precisamente a Nowa Huta, era sorto un grande quartiere abitato da migliaia di operai dell'industria metallurgica con le loro famiglie. Secondo il progetto delle Autorità doveva essere un quartiere privo di qualunque legame con la Chiesa, doveva essere un quartiere modello dal punto di vista marxista, ma gli operai erano in stragrande maggioranza cattolici.
Ebbe inizio allora un braccio di ferro tra l'Arcivescovo Wojtyla e le Autorità comuniste.
"Fu - scrive a pagina 64 - uno dei primi atti della lunga lotta per la libertà e la dignità di quella popolazione". Fu una logorante "guerra di nervi".
L'Arcivescovo condusse le trattative con le Autorità, soprattutto col Capo dell'Ufficio provinciale per le questioni religiose: un uomo garbato nei colloqui, ma duro e intransigente nelle decisioni. Mentre conduceva le trattative, il Cardinale Wojtyla nominò un Parroco per quella popolazione. Anche se non vi era una chiesa, almeno vi era un sacerdote. Si trattava di un sacerdote col quale aveva una grande amicizia e che era nativo della medesima cittadina, Wadowice.
A Natale, a mezzanotte, l'Arcivescovo Wojtyla andò a celebrare la Messa all'aperto, senza chiesa, con almeno 10 gradi sotto zero. E molta gente partecipò a quella Messa. Questo divenne un ulteriore argomento nelle trattative con le Autorità: il diritto della gente di partecipare alle celebrazioni religiose in condizioni più umane rispetto a ciò che era avvenuto la notte di Natale.
Alla fine la battaglia fu vinta. Per costruire la chiesa il Parroco ebbe poi la felice idea di domandare a tutti i fedeli di portare una pietra, così tutti si sentirono coinvolti nell'edificazione del tempio. E nel 1977 Wojtyla consacrò la chiesa a Nowa Huta.
Un altro episodio di coraggio, più lontano nel tempo, lo si può leggere a pagina 45. Nel 1936 vi fu un grande pellegrinaggio della gioventù universitaria al Santuario di Czestochowa. Da allora ogni anno l'Università Jagellonica, che Wojtyla frequentava, faceva il pellegrinaggio. Arrivò l'occupazione nazista e il pellegrinaggio non fu più possibile. Ma, per mantenere la tradizione, tre studenti andarono al Santuario di Czestochowa: Karol Wojtyla e altri due. Czestochowa in quei giorni era circondata dall'esercito di Hitler. I Padri del Santuario accolsero e diedero ospitalità ai tre studentelli, che avevano la soddisfazione di essere riusciti a conservare in quelle circostanze difficili quella tradizione. Tutto andò bene. La cosa rimase segreta.
Altro episodio di coraggio, ricordato nel libro, è la difesa della Facoltà Teologica nell'Università Jagellonica. Le Autorità nel 1953 la soppressero col pretesto che a Varsavia era stata creata un'Accademia Teologica alle dipendenze dello Stato. L'Arcivescovo ritenne suo dovere difendere la conservazione di tale facoltà. Non riuscì a impedirne la soppressione, ma ottenne che nascesse poi a Cracovia qualche cosa di analogo alla soppressa Facoltà e, in qualche modo, sostitutivo.
Dove ha attinto tanto coraggio questo Papa?
Ce lo dice il capitolo VI, cioè l'ultimo, che ha come titolo: "Dio e il coraggio".
Il ragionamento del Papa può essere così riassunto: la fortezza nella fede e il senso di responsabilità che animano un Vescovo nella sua alta missione devono portarlo a non avere paura quando si tratta di proclamare la verità, di difendere i valori e di difendere le persone.
Nella prima Enciclica, Redemptor Hominis, dirà: nella "via che va da Cristo all'uomo, la Chiesa non può essere fermata da nessuno".
Sia nell'Arcivescovo di Cracovia sia nel Papa troviamo la stessa coraggiosa linea di azione, anche perché Giovanni Paolo II è convinto che non è manipolando la verità o rinunciando alle proprie certezze che si può aiutare l'uomo nei suoi smarrimenti.
Sul coraggio sono riportate nel libro alcune affermazioni del Card. Wyszynski. Ne cito due (cfr pag. 123):
"Per un Vescovo la mancanza di fortezza è l'inizio della sconfitta".
"La più grande mancanza dell'apostolo è la paura".
Per Papa Giovanni Paolo II, "con Dio nel cuore ed i propri sacerdoti e fedeli attorno", un Vescovo deve avere il coraggio di affrontare le sfide che la nostra epoca porta con sé.
Giovanni Paolo II ci ha dato al riguardo l'esempio: nemmeno le pallottole sparategli contro lo hanno fermato o lo hanno intimorito.
Anche Karol Wojtyla ha avuto un modello a cui ha guardato negli anni del Seminario e nei primi anni di sacerdozio: il suo Arcivescovo, il Cardinale Sapieha, che il Papa cita più di una volta chiamandolo "il Principe intrepido". Principe, perché veniva da una famiglia nobile che aveva questo titolo. Intrepido, perché diede grandi prove di coraggio nei riguardi prima del nazismo poi del comunismo: un Arcivescovo che mai si piegò.
Con questi precedenti si capisce come, nella prima omelia in Piazza San Pietro, inaugurando il suo Pontificato, abbia detto (forse sarebbe più giusto dire: abbia gridato): "Non abbiate paura! Aprite le porte a Cristo!". In quel grido era indicata la linea ispiratrice di tutto il suo Pontificato.
Nell'arco di questi anni di Pontificato, Giovanni Paolo II ha proposto con coraggio e con fiducia al mondo d'oggi di riprendere la via della verità e dei valori morali e spirituali: è l'unica via che può assicurare all'umanità la giustizia, la solidarietà e la pace.

Rapporto con le persone

5. Per un Vescovo è importante il rapporto con le persone. Il Papa dice che, in questo campo, gli è stato di grande aiuto "il personalismo" che ha approfondito nei suoi studi filosofici. Ogni uomo, ogni donna, è una persona unica e irripetibile.
A tale riguardo mi ha colpito quanto è scritto a pagina 56: "Appena incontro una persona, prego per lei" (Chi ha incontrato questo Papa personalmente ora sa che il Papa ha pregato per lui, sia cattolico, sia ebreo, sia ortodosso, sia musulmano, sia ateo...).
Scrive ancora: "L'interesse per l'altro comincia dalla preghiera del Vescovo, dal suo colloquio con Cristo che gli affida i suoi".
E poi: "Seguo il principio di accogliere ciascuno come una persona che il Signore mi invia e che, allo stesso tempo, mi affida".
Lavorando vicino a Papa Giovanni Paolo II la cosa che mi ha sempre colpito di più è l'intensità della sua preghiera.
Colpisce come si abbandona alla preghiera. Mi ha sempre commosso la facilità con cui nei viaggi passava dal contatto umano con la gente al raccoglimento del colloquio con Dio.
Ho avuto modo di constatare come prima di ogni decisione egli vi prega sopra a lungo. Più importante è la decisione, più prolungata è la preghiera.
Nei fogli in cui scrive le sue omelie, i suoi discorsi, i suoi appunti... mette sempre in alto una giaculatoria, per iniziare ogni foglio con una preghiera.
Nella preghiera sta la sorgente del suo dinamismo e il segreto della sua instancabile donazione.
So anche che adesso, che per gli acciacchi della salute può fare meno di prima, dà più tempo alla preghiera.

Rapporto con il mondo della cultura

6. "Nelle mie letture e nei miei studi ho sempre cercato di unire in modo armonioso le questioni di fede, quelle di pensiero e quelle di cuore. Non vi sono campi separati, ognuno penetra e anima gli altri".
Fede, pensiero, cuore.
Nel libro Giovanni Paolo II ci dice che in gioventù la sua attrattiva (oltre il teatro) era la letteratura. Il padre gli leggeva brani di letteratura polacca. Iniziò l'Università per laurearsi in Lettere... invece la nascita della vocazione sacerdotale lo portò a laurearsi in Teologia e poi in Filosofia.
Anche se si sentiva inclinato verso la letteratura e la sua prima scelta era stata in questa direzione, bisogna riconoscere che è più filosofo.
Nel Papa Giovanni Paolo II si nota una forte mentalità filosofica, che è sempre presente nell'impianto del suo pensiero; una mentalità formata dal tomismo aristotelico e poi anche dalla fenomenologia. La sua tesi filosofica fu sull'opera di Max Scheler. La tesi in Teologia riguardava San Giovanni della Croce. Uno dei più alti mistici.
Giovanni Paolo II è personalmente un mistico. La mistica è una dimensione che spicca in tutta la sua vita. Non meraviglia pertanto che quando frequentava il Seminario clandestino a Cracovia gli sia venuta l'idea di farsi carmelitano. Considerava più congeniale a lui la vita di un carmelitano che non quella di un parroco.
E dobbiamo essere grati al Card. Sapieha, suo Arcivescovo, che gli fece cambiare pensiero, convincendolo a continuare in Seminario.
È commovente l'affetto e la venerazione di Karol Wojtyla per questo suo Arcivescovo, pure lui uomo di grande preghiera, grande coraggio e saggezza.
È l'Arcivescovo che lo accolse in Seminario, che lo ordinò sacerdote e che lo inviò a Roma a completare gli studi. È l'Arcivescovo che ha formato il giovane Karol a quei compiti che egli non ha visto... che non ha immaginato... fino al Pontificato, ma che di fatto ha preparato (cfr pagine 104- 105).
Un Vescovo deve preparare chi domani possa essere chiamato all'episcopato.

Mancato viaggio a Ur dei Caldei

7. Circa il tema dei viaggi apostolici, tanto significativi in questo Pontificato, nel libro vi è un accenno anche al progettato viaggio a Ur dei Caldei che Giovanni Paolo II non ha potuto compiere in occasione del Giubileo del 2000 perché il Presidente Saddam non ha dato il permesso. (Personalmente non capii perché Saddam non volle; era politicamente utile per lui che il Papa andasse in Iraq, rompendo l'embargo con il permesso dell'ONU. La finalità del Papa era religiosa e il Papa l'aveva pubblicamente illustrata).

Il Concilio

8. In questi anni Giovanni Paolo II ha attuato con fedeltà l'insegnamento del più grande evento spirituale del nostro tempo: il Concilio Ecumenico Vaticano II.
Possiamo dire che è il Papa formato dal Concilio.
Egli era Vescovo Ausiliare da un anno, quando fu annunciato il Concilio.
Partecipò a tutte le Sessioni del Concilio. Fu membro di alcune Commissioni importanti, come quella per lo Schema 13, che diventerà la Costituzione Pastorale Gaudium et spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo.
Durante il Concilio fece molte amicizie fra i Vescovi e anche fra i cosiddetti periti, e conobbe così molti teologi tra i quali l'allora Prof. Ratzinger.
A pagina 133 afferma che il Concilio lo ha molto arricchito. Per lui fu "un'indimenticabile esperienza" di un grande evento.
Gli anni che seguirono a Cracovia e poi gli anni del Pontificato sono stati un grande sforzo per dare attuazione alle disposizioni del Concilio Vaticano II. Fedeltà al Vangelo e fedeltà al Concilio Vaticano: sono due motivi ispiratori dell'attività di questo Papa.

Autorità come servizio

9. Consacrato Vescovo, Karol Wojtyla ha sempre sentito la sua autorità come un servizio. Più che comandare, ha cercato di servire.
A pagina 42 rileva che quando il Vescovo si pone in atteggiamento di servizio, i fedeli si sentono spontaneamente spinti ad ascoltarlo e si sottomettono volentieri alla sua autorità.
Per questo, la casa dell'Arcivescovo di Cracovia era aperta a tutti.
Innanzi tutto perché l'Arcivescovo Wojtyla era guidato dall'intima convinzione che il Vescovo deve essere con la gente, per la gente, a servizio della gente.
La sua casa era aperta agli uomini del pensiero e della scienza, ai laici, ai sacerdoti, a tutti.

La Collegialità

10. Già come Arcivescovo Metropolita di Cracovia, cercò sempre di giungere alle decisioni in modo collegiale, cioè consultandosi con i Vescovi Ausiliari e con i collaboratori.
Ogni settimana vi era una riunione di tutti i collaboratori della Curia e tutte le questioni venivano studiate e discusse nell'ottica del maggior bene dell'Arcidiocesi.
Vi era sempre anche la preoccupazione di trovare la persona adatta per svolgere il compito che era allo studio.
Come Papa, Giovanni Paolo II ha promosso una più visibile e più ampia attuazione dell'affetto collegiale e della fattiva collaborazione del Collegio dei Vescovi valorizzando tutte le varie istanze di comunione.
Ha lavorato per l'unità interna della Chiesa operando un progressivo coinvolgimento dei Vescovi e delle Conferenze Episcopali per fare maturare insieme un più ravvicinato scambio di idee. Ha così favorito anche un rinnovato approccio culturale con la situazione del mondo contemporaneo.
Lo ha fatto con il tratto affettuoso e familiare che egli ha sempre avuto con ogni Vescovo. Con dedizione infaticabile in questi anni ha incontrato numerosissimi Vescovi negli innumerevoli colloqui personali, e con loro ha concelebrato l'Eucaristia nella sua Cappella privata. Li ha anche invitati alla sua mensa (rompendo la tradizione secondo la quale normalmente i Papi pranzavano da soli).
Con singoli Vescovi e con gruppi di Vescovi ha esaminato in profondità le problematiche della Chiesa in una determinata diocesi, o in una determinata nazione o continente, o nella Chiesa universale.
Ha reso più internazionale il Collegio dei Cardinali: in esso sono ora rappresentate 67 nazioni, di tutti e cinque i continenti.
Guardando al dinamismo del Papa in questi anni ed al suo lavoro instancabile per l'unità interna della Chiesa, si deve riconoscere che Giovanni Paolo II ha ad un tempo sia valorizzato la Collegialità, sia esercitato il Primato come un servizio in nome di Cristo: un servizio alla comunione nella Chiesa, un servizio all'unità, un servizio alle singole Chiese, un servizio ai fratelli Vescovi, offrendo loro il proprio aiuto e sostegno, un servizio quindi anche alla Collegialità episcopale, promuovendo e sostenendo una più visibile cooperazione nella Chiesa.

Conclusione

11. Oggi è il compleanno del Papa.
In ogni famiglia i compleanni sono ricordati con gioia e con auguri.
Gli auguri di buon compleanno per Giovanni Paolo II sono ispirati da un profondo senso di gratitudine per il bene seminato a beneficio della Chiesa e della società. Forse anche qualcuno di noi é cambiato a motivo della fedeltà e del coraggio con i quali questo Papa ha proclamato la verità ed ha difeso i valori.
L'esempio di questo Papa, come traspare anche dalle pagine di questo libro, è per tutti noi di grande ispirazione.
Che la testimonianza che egli ci dona con la sua fede e il suo coraggio continui a illuminare il cammino della Chiesa e dell'umanità.