domenica 7 dicembre 2014

S.Gregorius: Regola pastorale

La guida delle anime sia pura nel pensiero


202


La guida delle anime sia sempre pura nel suo pensiero, affinché nessuna immondezza contamini colui che ha assunto questo ufficio ed egli sia in grado di lavare anche i cuori altrui dalle macchie dell’impurità; perché bisogna che abbia cura di essere pulita la mano che si adopera a pulire ciò che è sudicio, e non renda ancora più sporco ciò che va toccando mentre è ancora infangata. Perciò è detto per mezzo del profeta: Purificatevi voi, che portate i vasi del Signore (Is 52,12). 

Infatti portano i vasi del Signore coloro che si assumono di condurre le anime ai santuari eterni, con la fedeltà della propria condotta di vita. Dunque, vedano in se stessi quanto debbano essere purificati, quelli che dentro la promessa che hanno fatto di sé portano vasi viventi al tempio eterno. Perciò viene prescritto dalla parola divina che sul petto di Aronne aderisca, legato con nastri, il razionale del giudizio (cf. Es. Ex 28,15), affinché il cuore del sacerdote non sia posseduto da pensieri oscillanti ma sia tenuto stretto solo dalla sapienza dello spirito: e non pensi a nulla di incerto o di inutile colui che, stabilito come esempio per gli altri, deve sempre mostrare, con l’austerità della vita, quanta sapienza abbia nel cuore. 

    E si ha cura di aggiungere che in questo razionale si scrivano i nomi dei dodici patriarchi; infatti, portare di continuo i padri scritti sul petto significa meditare senza interruzione la vita degli antichi, e il sacerdote procede in modo irreprensibile quando fissa il suo sguardo senza posa sugli esempi dei padri che l’hanno preceduto, considera incessantemente le orme dei santi e reprime pensieri illeciti per non oltrepassare il limite di un agire ordinato. 


Ed è anche appropriato il nome di razionale del giudizio, poiché il sacerdote deve sempre discernere con esame sottile e retto il bene e il male e studiare attentamente come si accordino gli oggetti e i mezzi, il tempo e il modo; e non cercare mai nulla per sé ma considerare vantaggio proprio il bene altrui. Perciò là è scritto: Porrai sul razionale del giudizio la dottrina e la verità, che staranno sul petto di Aronne quando entrerà davanti al Signore, e porterà il giudizio dei figli di Israele sul suo petto, davanti al Signore, sempre (Ex 28,30). 
     Per il sacerdote, portare il giudizio dei figli di Israele sul petto davanti al Signore, significa trattare le cause dei sudditi avendo di mira solo la volontà del Giudice interiore, perché ad essa nulla si mescoli di umano in ciò che egli dispensa come rappresentante di Dio né alcun risentimento personale inasprisca l’ardore della correzione. 
   E quando si mostra pieno di zelo contro i vizi altrui, persegua innanzitutto i propri perché una invidia nascosta non contamini la pacatezza del giudizio, o non la turbi un’ira precipitosa. Ma considerando il sacro terrore che si deve a colui che sta sopra a tutto, cioè l’intimo Giudice, non si devono governare i sudditi senza grande timore: quel timore che mentre umilia l’animo di chi governa lo purifica, perché la presunzione spirituale non lo esalti né lo contamini il piacere carnale o non lo oscurino sconvenienti pensieri terrestri, frutto della cupidigia di cose mondane. 
   Tutte queste tentazioni non possono non assalire l’anima di chi governa, ma è necessario affrettarsi a lottare contro di esse per vincerle affinché, per il fatto che l’anima tarda a respingerle, il vizio che la tenta con la suggestione non la sottometta con la mollezza del piacere e non la uccida con la spada del consenso.


203
La guida delle anime sia esemplare nel suo agire per potere annunciare ai sudditi, col suo modo di vivere, la via della vita; e il gregge che va dietro alla voce e ai costumi del Pastore, proceda più con l’aiuto dei suoi esempi che delle sue parole. Infatti, chi per dovere indeclinabile del suo ministero è tenuto a dire cose elevate, dal medesimo dovere è costretto a mostrare cose elevate nei fatti; giacché il cuore degli ascoltatori è più facilmente penetrato dalle parole che trovano conferma nella vita di chi parla, il quale con l’esempio aiuta ad eseguire ciò che comanda a parole. Perciò è detto per mezzo del profeta: Sali su un monte eccelso, tu che evangelizzi Sion (Is 40,9). 

Cioè, chi pratica la divina predicazione deve mostrare che, abbandonando le più basse attività terrestri, sta saldo al di sopra delle cose; e tanto più facilmente può attirare i sudditi verso il meglio, quanto è con il merito della sua vita che egli grida le verità celesti. 
    Per questo, per la legge divina, nel sacrificio il sacerdote riceve la spalla destra separata dal resto (cf. Es. Ex 29,22), perché la sua condotta non sia solo utile ma anche esemplare, il suo agire sia retto non solo tra i cattivi ma egli superi per le virtù della sua vita anche i sudditi che operano il bene come è superiore a loro, per la dignità dell’Ordine. 
     A lui, poi, viene assegnata, come cibo, oltre alla spalla, anche la parte tenera del petto, perché quanto gli è prescritto di prendere dal sacrificio impari ad immolarlo in se stesso al Creatore. Ed egli non deve solamente meditare retti pensieri nel suo petto, ma invitare quanti lo osservano ad azioni elevate, indicate dalle spalle: non aspiri alla prosperità della vita presente, non tema le avversità, disprezzi le lusinghe del mondo come per un intimo senso di terrore, ma poi, ai terrori che esse suscitano, non badi, volgendosi al conforto della dolcezza interiore. 
    E per questo la parola divina ordina pure che le spalle del sacerdote siano avvolte dal velo omerale (cf. Es. Ex 29,5), perché egli sia sempre difeso dall’ornamento delle virtù contro l’avversità e contro la prosperità affinché, secondo la parola di Paolo, avanzando con le armi della giustizia a destra e a sinistra (cf. 2Co 6,7) e indirizzando ogni sforzo solo verso i beni interiori, non pieghi né da un lato né dall’altro verso alcun basso piacere.


Non lo esalti la prosperità, non l’abbatta l’avversità, nessuna lusinga lo alletti fino a fargli ricercare il piacere; l’asprezza delle difficoltà non lo spinga alla dispersione, e così, senza che alcuna passione trascini verso il basso la tensione del suo spirito, egli possa mostrare di quanta bellezza il velo omerale ricopra le sue spalle. 

   Ed è anche giustamente prescritto che il velo omerale sia d’oro, di violaceo, di porpora, di scarlatto tinto due volte e di bisso ritorto (cf. Es. Ex 28,8), per dimostrare di quante virtù debba risplendere il sacerdote. 
   Ora, nell’abito del sacerdote, soprattutto rifulge l’oro poiché in lui deve brillare principalmente una intelligenza sapiente. 
Ad esso si aggiunge il violaceo che risplende di riflessi d’oro, affinché attraverso ogni conoscenza a cui perviene, egli non ricerchi basse soddisfazioni, ma si innalzi all’amore delle cose celesti; e non avvenga che mentre si lascia prendere incautamente dalle lodi che gli vengono rivolte, resti privo proprio dell’intelligenza della verità. 
All’oro e al violaceo si mescola pure la porpora, per indicare cioè che il cuore sacerdotale, mentre spera le cose somme che predica, deve reprimere anche in se stesso le suggestioni dei vizi e contraddire ad essi come in virtù di un potere regale, poiché egli deve avere sempre di mira la nobiltà di una continua intima rigenerazione e difendere, coi suoi costumi, l’abito del regno celeste. Di questa nobiltà dello spirito, per mezzo di Pietro è detto: Ma voi siete stirpe eletta, sacerdozio regale (1P 2,9). E anche riguardo a questo potere di sottomettere i vizi, siamo confortati dalla parola di Giovanni che dice: Ma a quanti lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio (Jn 1,12). Ed è considerando la dignità di questa potenza che il salmista dice: Per me sono stati molto onorati i tuoi amici, o Dio, quanto è stato rafforzato il loro principato (Ps 138,17).

Poiché è certo che l’animo dei santi si leva verso le più grandi altezze principalmente quando, all’esterno, essi sono visibilmente sottoposti all’abiezione. Inoltre, all’oro, al violaceo e alla porpora si aggiunge lo scarlatto tinto due volte, a significare che agli occhi del Giudice interiore ogni bene di virtù deve adornarsi della carità, e tutto quanto risplende davanti agli uomini, alla presenza del Giudice occulto deve essere acceso dalla fiamma dell’amore intimo. Ed è evidente che la carità, in quanto ama Dio e il prossimo, rifulge quasi di una doppia tintura. 
Pertanto, colui che anela alla bellezza del Creatore, ma trascura di occuparsi del prossimo, oppure si occupa del prossimo ma è torpido nell’amore di Dio, per avere trascurato uno di questi due precetti, non sa portare lo scarlatto tinto due volte, sul velo omerale. 

Resta ancora però, senza dubbio, che quando lo spirito è teso verso i comandamenti della carità, la carne deve macerarsi nell’astinenza
Perciò si aggiunge allo scarlatto il bisso ritorto. Infatti il bisso nasce dalla terra con un aspetto splendente, e che cosa può essere designata dal bisso se non la castità luminosa per la dignità di un corpo puro? Ed essa si intreccia, ritorta, alla bellezza del velo omerale perché la castità è portata al candore perfetto della purezza quando la carne si affatica nell’astinenza. E quando, tra le altre virtù progredisce anche il merito di una carne umiliata, è come bisso ritorto che risplende nella varia bellezza del velo omerale.


AMDG et BVM


PREGHIERA ALLA MADONNA DI GUADALUPE

sabato 6 dicembre 2014

"Non basta fare opere buone, ma bisogna farle bene. Acciocchè le opere nostre sian buone e perfette è necessario farle col puro fine di piacere a Dio. Questa fu la degna lode che fu data a Gesù Cristo: Bene omnia fecit (Marc. VII, 37). Molte azioni saranno in sè lodevoli, ma perchè saran fatte per altro fine che della divina gloria, poco o niente varranno appresso Dio. Dicea S. Maria Maddalena de' Pazzi: «Iddio rimunera le nostre opere a peso di purità".




Caritas non aemulatur.

L'anima che ama Gesù Cristo
non invidia i grandi del mondo,
ma solamente coloro che più amano Gesù Cristo.

1. Spiega S. Gregorio quest'altro contrassegno della carità, e dice che la carità non invidia, poichè non sa invidiare a' mondani quelle terrene grandezze ch'ella non desidera, ma disprezza: Non aemulatur, quia per hoc quod in praesenti mundo nihil appetit, invidere terrenis successibus nescit (Mor. l. 10. c. 8). Quindi bisogna distinguere due sorta di emulazioni, una malvagia e l'altra santa. La malvagia è quella che invidia e si rattrista per li beni mondani che gli altri possedono in questa terra. L'emulazione poi santa è quella che non già invidia, ma più tosto compatisce i grandi di questo mondo che vivono tra gli onori e piaceri terreni. Ella non cerca nè desidera altro che Dio, ed altro non pretende in questa vita che di amarlo quanto può; e perciò santamente invidia chi l'ama più di lei, mentr'ella nell'amarlo vorrebbe superare anche i serafini.

2. Questo è quell'unico fine che hanno in terra le anime sante, fine che innamora e ferisce di amore talmente il cuore di Dio che gli fa dire: Vulnerasti cor meum, soror mea sponsa, vulnerasti cor meum in uno oculorum tuorum (Cant. IV, 9). Quell'uno degli occhi significa l'unico fine che ha l'anima sposa in tutti i suoi esercizi e pensieri, di piacere a Dio. Gli uomini del mondo nelle loro azioni guardano le cose con più occhi, cioè con diversi fini disordinati, di piacere agli uomini, di farsi onore, di acquistar ricchezze e, se non di altro, di contentare se stessi; ma i santi non hanno che un occhio, per guardare in tutto ciò che fanno il solo gusto di Dio; e dicono con Davide: Quid... mihi est in caelo? et a te quid volui super terram?... Deus cordis mei, et pars mea Deus in aeternum (Ps. LXXII, 25 et 26): che altro io voglio, mio Dio, in questo e nell'altro mondo, se non voi solo? Voi solo siete la mia ricchezza, voi l'unico signore del mio cuore. Si godano pure, dicea san Paolino, i ricchi i loro tesori di terra, si godano i re i loro regni, voi, Gesù mio, siete il mio tesoro e 'l regno mio: Habeant sibi divitias suas divites, regna sua reges, Christus mihi gloria et regnum est.

3. Quindi avvertiamo che non basta fare opere buone, ma bisogna farle bene. Acciocchè le opere nostre sian buone e perfette è necessario farle col puro fine di piacere a Dio. Questa fu la degna lode che fu data a Gesù Cristo: Bene omnia fecit (Marc. VII, 37). Molte azioni saranno in sè lodevoli, ma perchè saran fatte per altro fine che della divina gloria, poco o niente varranno appresso Dio. Dicea S. Maria Maddalena de' Pazzi: «Iddio rimunera le nostre opere a peso di purità». Viene a dire che secondo è pura la nostra intenzione, così il Signore gradisce e premia le nostre azioni. Ma oh Dio, e quanto è difficile a trovare un'azione fatta solo per Dio! Io mi ricordo d'un santo religioso vecchio che molto avea faticato per Dio e morì in concetto di santità; ora costui un giorno, dando un'occhiata alla sua vita, tutto mesto ed atterrito mi disse: «Oimè, che guardando tutte le opere di mia vita, non ne trovo una fatta solo per Dio». Maledetto amor proprio che ci fa perdere o tutto o la maggior parte del frutto delle nostre buone azioni. Quanti nei loro impieghi più santi di predicatori, confessori, missionari, faticano, stentano, e poco o niente guadagnano, perchè non guardano Dio solo, ma la gloria mondana o l'interesse o la vanità di comparire o almeno la propria inclinazione!

4. Dice il Signore: Attendete a non fare il bene per essere veduti dagli uomini, altrimenti non avrete alcun premio dal Padre celeste: Attendite ne iustitiam vestram faciatis coram hominibus, ut videamini ab eis: alioquin mercedem non habebitis apud Patrem vestrum, qui in caelis est (Matth. VI, 1). Chi fatica per contentare il suo genio, già riceve il suo premio: Amen dico vobis, receperunt mercedem suam (Ibid. 5). Mercede però che si riduce ad un poco di fumo o ad una effimera soddisfazione che presto passa, e niente profitto ne resta all'anima. Dice il profeta Aggeo che chi fatica per altro che per piacere a Dio, ripone le sue mercedi in un sacco rotto che quando va ad aprirlo niente più vi ritrova: Et qui mercedes congregavit misit eas in sacculum pertusum(Agg. I, 6). E da ciò poi nasce che costoro, se dopo le loro fatiche non ottengono l'intento di qualche cosa che imprendono, molto s'inquietano. Questo è il segno che non hanno avuto per fine la sola gloria di Dio: chi fa un'opera per la sola gloria di Dio, ancorchè poi quella non riesca, niente si turba: mentre egli già ha ottenuto il suo fine di dar gusto a Dio, avendo operato con retta intenzione.

5. Ecco i segni per vedere se uno che s'impiega in qualche affare spirituale opera solo per Dio. 1º Se non si disturba allorchè non ottiene l'intento, perchè non volendolo Dio neppur egli lo vuole. 2º Se gode egualmente del bene che han fatto gli altri, come se esso l'avesse fatto. 3º Se non desidera più un impiego che un altro, ma gradisce quello che vuole l'ubbidienza de' superiori. 4º Se dopo le sue operazioni non cerca dagli altri nè ringraziamenti nè approvazioni: e perciò se mai dagli altri ne vien mormorato o disapprovato, non si affligge, contentandosi solamente di aver contentato Dio. E se mai ne riceve qualche lode dal mondo, non se ne invanisce, ma risponde alla vanagloria che gli si presenta innanzi per esser accettata, ciò che le rispondea il Ven. Giovanni d'Avila: «Va via, sei arrivata tardi, perchè l'opera già me la trovo data tutta a Dio».

6. Questo è l'entrare nel gaudio del Signore, cioè godere del godimento di Dio, come sta promesso ai servi fedeli: Euge, serve bone et fidelis quia super pauca fuisti fidelis... intra in gaudium domini tui (Matth. XXV, 23). Ma se noi arriviamo ad aver la sorte di fare qualche cosa che piace a Dio, dice il Grisostomo, che altro andiamo cercando? Si dignus fueris agere aliquid quod Deo placet, aliam praeter id mercedem requiris? (Chrys. L. 2. de Compunct. cord.). Questa è la maggior mercede, la maggior fortuna a cui può giungere una creatura, il dar gusto al suo Creatore.
7. E ciò è quello che pretende Gesù Cristo da un'anima che l'ama: Pone me, le dice, ut signaculum super cor tuum, ut signaculum super brachium tuum(Cant. VIII, 6). Vuole che lo metta come segno sopra il suo cuore e sopra il suo braccio: sopra il suo cuore, acciocchè quanto ella medita di fare, intenda di farlo sol per amore di Dio; sopra il suo braccio, acciocchè quanto opera, tutto lo faccia per dar gusto a Dio; sicchè Dio sia sempre l'unico scopo di tutti i suoi pensieri e di tutte le sue azioni. Dicea S. Teresa che chi vuol farsi santo bisogna che viva senza altro desiderio che di dar gusto a Dio. E la sua prima figlia, la Ven. Beatrice dell'Incarnazione, dicea: «Non v'è prezzo con cui possa pagarsi qualunque cosa, benchè minima, fatta per Dio». E con ragione, perchè tutte le cose fatte per piacere a Dio sono atti di carità che ci uniscono a Dio e ci acquistano beni eterni.

8. Dicesi che la purità d'intenzione è l'alchimia celeste per la quale il ferro diventa oro, cioè le azioni più triviali, come il lavorare, il cibarsi, il ricrearsi, il riposare, fatte per Dio, diventano oro di santo amore. Quindi credea per certo S. Maria Maddalena de' Pazzi che quei che fanno con pura intenzione tutto quel che fanno, vadano diritto in paradiso senza entrar nel purgatorio. Si narra nell'Erario Spirit. (to. 4. cap. 4) che un santo solitario prima di fare qualunque azione solea fermarsi per un poco ed alzare gli occhi al cielo. Richiesto perchè ciò facesse, rispose: «Procuro di accertare il colpo». E volea dire che siccome il sagittario prima di scoccar la saetta prende la mira per indovinare il tiro, così egli prima di metter mano a qualunque azione prendea di mira Iddio, acciocchè quell'opera riuscisse di suo piacere. Così dobbiamo fare ancor noi; anzi nel proseguire l'opera incominciata è bene che rinnoviamo da quando in quando l'intenzione di dar gusto a Dio.

9. Quei che ne' loro affari non guardano altro che il volere divino godono quella santa libertà di spirito che hanno i figli di Dio, la quale fa che abbraccino ogni cosa che piace a Gesù Cristo, non ostante qualunque ripugnanza dell'amor proprio o del rispetto umano. L'amore a Gesù Cristo mette i suoi amanti in una totale indifferenza, per cui tutto ad essi è eguale, il dolce e l'amaro: niente vogliono di quel che piace a se stessi, e tutto vogliono di quel che piace a Dio. Colla stessa pace s'impiegano nelle cose grandi e nelle picciole, nelle cose grate e nelle dispiacevoli: basta loro che piacciano a Dio.

10. Molti all'incontro voglion servire a Dio, ma in quell'impiego, in quel luogo, con quei compagni, con quelle circostanze, altrimenti o lasciano l'opera o la fanno di mala voglia. Questi non hanno la libertà di spirito, ma sono schiavi dell'amor proprio, e perciò poco meritano anche in ciò che fanno; e vivono inquieti, mentre riesce loro grave il giogo di Gesù Cristo. I veri amanti di Gesù Cristo amano di fare solo quel che piace a Gesù Cristo, e perchè piace a Gesù Cristo; quando vuole, dove vuole e nel modo che vuole Gesù Cristo; ed o che voglia Gesù Cristo impiegarli in una vita onorata dal mondo, o in una vita oscura e negletta. Ciò importa l'amar Gesù Cristo con puro amore; ed in ciò noi dobbiamo affaticarci, combattendo contra gli appetiti dell'amor proprio che vorrebbe vederci occupati in opere grandi di onore e di nostra inclinazione.

11. E bisogna che siamo distaccati da tutti gli esercizi anche spirituali, quando il Signore ci vuole impiegati in altre opere di suo gusto. Un giorno il P. Alvarez, trovandosi molto occupato, desiderava sbrigarsene per andare a fare orazione, poichè gli parea che in quel tempo egli non era con Dio; ma il Signore allora gli disse: «Quantunque io non ti tenga meco, ti basti che io mi serva di te». Ciò vale per quelle persone che talvolta s'inquietano per vedersi obbligate dall'ubbidienza o dalla carità a lasciare le loro solite divozioni: sappiano che tal inquietudine allora certamente non viene da Dio, ma viene o dal demonio o dal loro amor proprio. Diasi gusto a Dio, e si muoia. Questa è la prima massima de' santi.


Affetti e preghiere.

Eterno mio Dio, io vi offerisco tutto il mio cuore; ma oh Dio, e qual cuore vi offerisco? Cuore bensì creato per amarvi, ma che, in vece d'amarvi, tante volte si è ribellato da voi. Ma guardate, Gesù mio, che se un tempo questo mio cuore vi è stato ribelle, ora sta tutto addolorato e pentito de' disgusti che vi ha dati. Sì, mio caro Redentore, mi pento di avervi disprezzato, e sto risoluto di volervi ubbidire ed amare ad ogni costo. Deh tiratemi tutto al vostro amore; fatelo per quell'amore che mi portaste morendo in croce per me.

V'amo, Gesù mio, v'amo con tutta l'anima, v'amo più di me stesso, o vero, o unico amante dell'anima mia, mentre non trovo altri che voi che per amor mio avete sacrificata la vita.
Mi fa piangere il vedere l'ingratitudine che vi ho usata. Povero me, io già mi era perduto, ma spero che voi colla grazia vostra mi abbiate restituita la vita. Questa sarà la mia vita, l'amarvi sempre, sommo mio bene.
Fate ch'io v'ami, o amore infinito, e niente più vi dimando.

O Maria, madre mia, accettatemi per vostro servo, e fatemi accettare da Gesù vostro figlio.

LAUDETUR   JESUS  CHRISTUS!
LAUDETUR  CUM  MARIA!
SEMPER  LAUDENTUR!

DIO - GESÙ CRISTO (il Vero)- CHIESA CATTOLICA (la Vera)




DIO - GESÙ CRISTO - CHIESA CATTOLICA: 
I TRE CAPOSALDI DELLA FEDE E DELLA SALVEZZA 
MESSI IN FORSE DALL'ERESIA DEGLI ULTIMI TEMPI

Anche il male ha la sua strategia. Come il bene, del resto. Il bene per conservare e edificare, il male e l'errore per distruggere.

La strategia del male è guidata da satana, il nemico di sempre. La strategia del bene e della verità è guidata da Dio, l'amico dell'uomo. Per portare a buon fine la strategia del bene Dio si serve di Maria.
La strategia del satana è cominciata con la prima pagina della storia dell'uomo nel paradiso terrestre ed ha registrato subito un successo clamoroso con la caduta di Eva e di Adamo che ha portato il satana al dominio dell'umanità come «principe di questo mondo». La strategia di Dio, apparentemente posteriore a quella del satana, effettivamente la precede perché Dio amava l'uomo con « amore perpetuo » (Ger. 31, 3), prima ancora della caduta, prima ancora della promessa della redenzione, e si effettua già fin da allora per mezzo di Maria: « Porrò inimicizie fra te e la Donna » (Gen. 3, 15).

Obiettivo primo ed unico della strategia del satana è la distruzione di Dio e di tutto ciò che a Dio si riferisce, non altro. Ma non è facile distruggere Dio. Dio è la vita, non la morte. Dio è solito vincere, non perdere. Tra i due antagonisti, satana e Dio, il primo è il pigmeo, il secondo il gigante. La lotta impari è facile prevedere come andrà a finire, anche se nel decorso della lotta ci saranno vicende alterne, alti e bassi, che diano l'illusione di una vittoria apparente o di una temporanea sconfitta. Il satana, perfidissimo ma intelligentissimo, lo sa. Ed ecco allora messa in campo l'astuzia sua propria per accerchiare l'avversario, distrarlo, isolarlo e farlo cadere se possibile prima dello scontro diretto.
Dio si manifesta nel suo Cristo, e Cristo si esplica e continua nella sua Chiesa. Tre gradi, tre aspetti del cammino che l'uomo deve percorrere per arrivare alla salvezza: attraverso la Chiesa, « colonna di verità » (1 Tim. 3, 15), incontrare Cristo, e in Cristo, via, verità e vita, incontrare Dio e realizzare con lui l'intimità spirituale attraverso la grazia santificante, seme della gloria eterna. L'economia divina della salvezza si attua praticamente, attraverso queste tre tappe: battesimo-fede-grazia. Il battesimo ci inserisce nella Chiesa e infonde nell'anima la virtù teologale della fede, infonde la grazia santificante che è abitazione della Santissima Trinità e ci rende figli di Dio, membri della sua famiglia, fratelli di Cristo e coeredi della vita eterna. La strategia di Dio segue questa linea.

La strategia della distruzione segue l'ordine inverso di questo processo: si comincia col disgregare la Chiesa, ecco il protestantesimo del secolo xvi che ha portato alla frattura nell'unità ecclesiale e lo stacco dalla « Pietra » su cui la Chiesa è fondata. Segue il deismo illuminista e massonico del secolo xvm che porta alla negazione della divinità di Cristo e al rifiuto di tutto il suo insegnamento dogmatico e morale. E infine si ha l'ateismo radicale del secolo xx con la negazione di Dio, della sua autorità e della sua esistenza, per instaurare un ambiguo regnum hominis: apostasia completa, di cui noi oggi siamo e i protagonisti e i testimoni e le vittime. La conclamata civiltà moderna è in grandissima parte una civiltà laica, ossia come si espresse Paolo VI, una civiltà atea.

Tre date storiche, legate tra loro da una singolare uniformità con l'intervallo di due secoli, segnano le fasi discendenti di questa apostasia: 1517, protestantesimo, negazione della Chiesa romana; 1717, massoneria, negazione di Cristo; 1917, bolscevismo, negazione di Dio. Diamo un'occhiata a queste tre date storiche un po' più da vicino.

Nel 1517 inizia la ribellione di Lutero, seguita da altri corifei dell'errore in Germania, Svizzera, Inghilterra, nord Europa che si staccano da Roma. Crisi dogmatica, sì, ma soprattutto crisi disciplinare, perciò scisma. Senza lo scisma la crisi protestante si sarebbe potuta, presto o tardi, ancora ricomporre. Il « Vangelo puro » che il protestantesimo si è sempre vantato di conservare, non si è dimostrato in pratica che una mossa equivoca e propagandistica. Il distacco da Roma è stato fatale alla Germania e agli altri Stati del nord Europa. La vita sacramentaria è stata ridotta, e quindi la vita spirituale si è atrofizzata per la mancanza del sacerdozio vero. I diversi tentativi di un ritorno sincero ed effettivo alle sorgenti che sono stati fatti in seno al protestantesimo con piena buona fede nel corso di questi quattro secoli sono tutti più o meno falliti, disgraziatamente. Il motivo è sempre lo stesso: la Chiesa di Cristo è fondata su una « Pietra » e ignorare la « Pietra » significa anche svuotare il Vangelo e tutto il messaggio di Cristo.

Esattamente duecento anni dopo, il 24 giugno 1717, veniva fondata a Londra la prima loggia massonica. La massoneria si estendeva in pochi anni a tutti gli Stati d'Europa e di America nonostante le molte e ripetute condanne della Chiesa, imponendo una nuova concezione religiosa da cui era escluso il dogma rivelato. Nacque così la nuova teoria mezzo razionalista e mezzo protestante che fu detta deismo. Ma quale Dio era inteso? Non certo il Dio della rivelazione e della Bibbia, il Dio di Abramo, di Isacco, di Giacobbe, di Gesù Cristo, il Dio trascendente, ma un Dio raffazonato su misura umana, dimensionato all'uomo, quasi si direbbe creato dall'uomo. Come creato dall'uomo questo Dio non poteva contenere misteri, non poteva essere Trinità, quindi Cristo fu declassato al semplice livello di uomo: uomo singolare, di eccezione, grande maestro di morale, grande benefattore dell'umanità, ma soltanto uomo, spoglio delle sue qualità e attributi divini. La religione illuministica e massonica fu in questo modo fatta naturale, utilitaristica, contingente a seconda dei tempi e dei luoghi. Così la legge morale su tutta la vasta gamma delle sue applicazioni pratiche.

Passano così altri duecento anni ed ecco il 1917, l'anno del bolscevismo ateo e del più crasso materialismo assurto a nuova religione e a nuova fede in sostituzione di qualunque altra religione trascendente, definita tout court come « oppio del popolo », un narcotico velenoso e mortifero, una piaga sociale che è necessario e doveroso eliminare e combattere con tutti i mezzi: l'ultimo gradino della disgregazione a cui l'uomo, per la ferrea logica dell'errore, era stato costretto ad arrivare.

Ma l'anno dell'esplosione atea e materialista, il 1917, era stato anche, fortunatamente, l'anno delle apparizioni e del messaggio materno di Maria a Fatima.


-

Omelia del papa Benedetto XVI sul santo Battesimo


Battesimo del Signore

9111
AMMINISTRAZIONE DEL BATTESIMO A 21 NEONATI

Cappella Sistina

Domenica, 9 gennaio 2011

Cari fratelli e sorelle,




Secondo il racconto dell’evangelista Matteo (Mt 3,13-17), Gesù venne dalla Galilea al fiume Giordano, per farsi battezzare da Giovanni; infatti, da tutta la Palestina accorrevano per ascoltare la predicazione di questo grande profeta, l’annuncio dell’avvento del Regno di Dio, e per ricevere il battesimo, cioè per sottoporsi a quel segno di penitenza che richiamava alla conversione dal peccato. Pur chiamandosi battesimo, esso non aveva il valore sacramentale del rito che celebriamo oggi; come ben sapete, è infatti con la sua morte e risurrezione che Gesù istituisce i Sacramenti e fa nascere la Chiesa. Quello amministrato da Giovanni, era un atto penitenziale, un gesto che invitava all’umiltà di fronte a Dio, invitava ad un nuovo inizio: immergendosi nell’acqua, il penitente riconosceva di avere peccato, implorava da Dio la purificazione dalle proprie colpe ed era inviato a cambiare i comportamenti sbagliati, quasi morendo nell’acqua e risorgendo a una nuova vita.

Per questo, quando il Battista vede Gesù che, in fila con i peccatori, viene a farsi battezzare, rimane sbalordito; riconoscendo in Lui il Messia, il Santo di Dio, Colui che è senza peccato, Giovanni manifesta il suo sconcerto: egli stesso, il battezzatore avrebbe voluto farsi battezzare da Gesù. Ma Gesù lo esorta a non opporre resistenza, ad accettare di compiere questo atto, per operare ciò che è conveniente ad «adempiere ogni giustizia». Con questa espressione, Gesù manifesta di essere venuto nel mondo per fare la volontà di Colui che lo ha mandato, per compiere tutto ciò che il Padre gli chiede; è per obbedire al Padre che Egli ha accettato di farsi uomo. Questo gesto rivela anzitutto chi è Gesù: è il Figlio di Dio, vero Dio come il Padre; è Colui che “si è abbassato” per farsi uno di noi, Colui che si è fatto uomo e ha accettato di umiliarsi fino alla morte di croce (cfr Ph 2,7). Il battesimo di Gesù, di cui oggi facciamo memoria, si colloca in questa logica dell’umiltà e della solidarietà: è il gesto di Colui che vuole farsi in tutto uno di noi e si mette realmente in fila con i peccatori; Lui, che è senza peccato, si lascia trattare come peccatore (cfr 2Co 5,21), per portare sulle sue spalle il peso della colpa dell’intera umanità, anche della nostra colpa. È il “servo di Dio” di cui ci ha parlato il profeta Isaia nella prima lettura (cfr Is 42,1). La sua umiltà è dettata dal voler stabilire una comunione piena con l’umanità, dal desiderio di realizzare una vera solidarietà con l’uomo e con la sua condizione. Il gesto di Gesù anticipa la Croce, l’accettazione della morte per i peccati dell’uomo. Questo atto di abbassamento, con cui Gesù vuole uniformarsi totalmente al disegno d’amore del Padre e conformarsi con noi, manifesta la piena sintonia di volontà e di intenti che vi è tra le persone della Santissima Trinità. Per tale atto d’amore, lo Spirito di Dio si manifesta e viene come una colomba sopra di Lui, e in quel momento l’amore che unisce Gesù al Padre viene testimoniato a quanti assistono al battesimo da una voce dall’alto che tutti odono. Il Padre manifesta apertamente agli uomini, a noi, la comunione profonda che lo lega al Figlio: la voce che risuona dall’alto attesta che Gesù è obbediente in tutto al Padre e che questa obbedienza è espressione dell’amore che li unisce tra di loro. Perciò, il Padre ripone il suo compiacimento in Gesù, perché riconosce nell’agire del Figlio il desiderio di seguire in tutto alla sua volontà: «Questi è il Figlio mio, l’amato: in lui ho posto il mio compiacimento» (Mt 3,17). E questa parola del Padre allude anche, in anticipo, alla vittoria della risurrezione e ci dice come dobbiamo vivere per stare nel compiacimento del Padre, comportandoci come Gesù.

Cari genitori, il Battesimo che voi oggi chiedete per i vostri bambini, li inserisce in questo scambio d’amore reciproco che vi è in Dio tra il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo; per questo gesto che sto per compiere, si riversa su di loro l’amore di Dio, inondandoli dei suoi doni. Attraverso il lavacro dell’acqua, i vostri figli vengono inseriti nella vita stessa di Gesù, che è morto sulla croce per liberarci dal peccato e risorgendo ha vinto la morte. Perciò, immersi spiritualmente nella sua morte e resurrezione, essi vengono liberati dal peccato originale ed in loro ha inizio la vita della grazia, che è la vita stessa di Gesù Risorto. «Egli - afferma San Paolo - ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità e formare per sé un popolo puro che gli appartenga, pieno di zelo per le opere buone» (Tt 2,14).

Cari amici, donandoci la fede, il Signore ci ha dato ciò che vi è di più prezioso nella vita, e cioè il motivo più vero e più bello per cui vivere: è per grazia che abbiamo creduto in Dio, che abbiamo conosciuto il suo amore, con cui vuole salvarci e liberarci dal male. La fede è il grande dono con il quale ci dà anche la vita eterna, la vera vita. Ora voi, cari genitori, padrini e madrine, chiedete alla Chiesa di accogliere nel suo seno questi bambini, di dare loro il Battesimo; e questa richiesta la fate in ragione del dono della fede che voi stessi avete, a vostra volta, ricevuto. Con il profeta Isaia, ogni cristiano può ripetere: “il Signore mi ha plasmato suo servo fin dal seno materno” (cfr Is 49,5); così, cari genitori, i vostri figli sono un dono prezioso del Signore, il quale ha riservato per sé il loro cuore, per poterlo ricolmare del suo amore. Attraverso il sacramento del Battesimo, oggi li consacra e li chiama a seguire Gesù, attraverso la realizzazione della loro vocazione personale secondo quel particolare disegno d’amore che il Padre ha in mente per ciascuno di essi; meta di questo pellegrinaggio terreno sarà la piena comunione con Lui nella felicità eterna.

Ricevendo il Battesimo, questi bambini ottengono in dono un sigillo spirituale indelebile, il “carattere”, che segna interiormente per sempre la loro appartenenza al Signore e li rende membra vive del suo corpo mistico, che è la Chiesa. Mentre entrano a far parte del Popolo di Dio, per questi bambini, inizia oggi un cammino che dovrebbe essere un cammino di santità e di conformazione a Gesù, una realtà che è posta in loro come il seme di un albero splendido, che deve essere fatto crescere. Perciò, comprendendo la grandezza di questo dono, fin dai primi secoli si ha avuto la premura di dare il Battesimo ai bambini appena nati. Certamente, ci sarà poi bisogno di un’adesione libera e consapevole a questa vita di fede e d’amore, ed è per questo che è necessario che, dopo il Battesimo, essi vengano educati nella fede, istruiti secondo la sapienza della Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa, così che cresca in loro questo germe della fede che oggi ricevono e possano raggiungere la piena maturità cristiana. La Chiesa, che li accoglie tra i suoi figli, deve farsi carico, assieme ai genitori e ai padrini, di accompagnarli in questo cammino di crescita. La collaborazione tra comunità cristiana e famiglia è quanto mai necessaria nell’attuale contesto sociale, in cui l’istituto familiare è minacciato da più parti e si trova a far fronte a non poche difficoltà nella sua missione di educare alla fede. Il venir meno di stabili riferimenti culturali e la rapida trasformazione a cui è continuamente sottoposta la società, rendono davvero arduo l’impegno educativo. Perciò, è necessario che le parrocchie si adoperino sempre più nel sostenere le famiglie, piccole Chiese domestiche, nel loro compito di trasmissione della fede.

Carissimi genitori, ringrazio con voi il Signore per il dono del Battesimo di questi vostri figlioli; nell’elevare la nostra preghiera per loro, invochiamo abbondante il dono dello Spirito Santo, che oggi li consacra ad immagine di Cristo sacerdote, re e profeta. Affidandoli alla materna intercessione di Maria Santissima, chiediamo per loro vita e salute, perché possano crescere e maturare nella fede, e portare, con la loro vita, frutti di santità e d’amore. Amen!
 Papa Benedetto XVI