mercoledì 8 ottobre 2014

Dieu le Père : Mon Amour triomphera du mal et de la haine



Lundi 29 septembre 2014 à 20h50

Ma très chère fille, Mon Amour, lorsqu’il est accepté par vous, peut produire de grands fruits. Mais lorsqu’il est rejeté par l’homme, cela donne une terre desséchée. Sans Mon Amour, il n’y a pas de vie, pas de joie, pas de paix. Quand l’homme ressent Mon Amour, cela crée un grand émerveillement et un profond sentiment de respect et de gratitude dans l’âme de la personne qui a reçu ce Don.

Mes chers enfants, quand vous faites l’expérience de l’amour sous toutes ses formes pour un autre être humain, c’est Mon Amour que vous ressentez. Il ne peut venir que de Moi car Je Suis Amour. L’Amour est un don et vous devez le saisir quand vous le sentez remuer dans votre cœur. À ceux qui acceptent Mon Amour, sachez que Je vous remplirai encore plus de Mon Don quand vous le partagerez avec ceux qui n’ont pas obtenu cette faveur.

Mon Amour triomphera du mal et de la haine. L’amour efface la haine, alors que le malin, l’épine dans le pied de l’homme, est incapable de faire cela. Quand vous dites que vous M’aimez, vous devez alors lutter sans merci pour empêcher la haine, quelle qu’elle soit, de souiller votre âme. Si vous M’aimez, vous pardonnerez à vos ennemis parce que vous les verrez comme Je les vois. Cela demande de la persévérance de votre part et de la discipline, ce qui vous empêchera de blesser une autre personne, soit verbalement ou physiquement.

Quand vous laisserez Mon Amour couler dans vos veines, vous ressentirez une paix et une libération complètes. C’est parce que vous n’aurez plus aucune malice, aucune colère, aucun désir de vengeance ni de ressentiment contre un autre de Mes enfants. C’est le Don de Mon Amour dans sa forme la plus pure. Acceptez-le venant de Ma part en récitant cette prière.

Croisade de Prière (168) – Pour le Don de l’Amour de Dieu

Ô Très Cher Père, Ô L’Éternel, Dieu le Très-Haut, rendez-moi digne de Votre Amour.
Veuillez me pardonner d’avoir blessé les autres, et pour tous mes méfaits qui ont causé de la souffrance à l’un ou l’autre de Vos enfants.
Ouvrez mon cœur afin que je puisse Vous accueillir dans mon âme, et lavez-moi de toute la haine que je peux ressentir envers une autre personne.
Aidez-moi à pardonner à mes ennemis, et à semer les graines de Votre Amour partout où j’irai et parmi ceux que je rencontre tous les jours.
Donnez-moi, Cher Père, les Dons de Persévérance et de Confiance afin que je puisse défendre Votre Sainte Parole et garder ainsi vivante, dans un monde obscurci, la flamme de Votre Grand Amour et Miséricorde.
Amen

Les enfants, Je veux vous rassurer car sachez que Je vous aime tous, qui que vous soyez, quels que soient les péchés que vous avez commis, et que vous M’ayez ou non maudit. Mon Amour pour vous est inconditionnel.

Je dois cependant séparer ceux qui essaient d’aveugler Mes enfants à la vérité de leur salut, de ceux qui sont des Miens. Si Je n’intervenais pas, beaucoup seraient perdus pour Moi et Je ne suis pas disposé à sacrifier leurs âmes à ceux qui, malgré tous les efforts de Ma Part, Me rejetteront le dernier jour.

Je vous demande de placer toute votre confiance en Moi et de garder Mon Sceau de Protection, sous quelque forme qu'il soit, près de vous. La bataille a déjà commencé et Je vais satisfaire la justice en punissant ceux qui essaient de détruire Mes enfants.

N’oubliez jamais Qui Je Suis. Je Suis le commencement et la fin. Tous ceux qui viennent à Moi trouveront la Vie Éternelle. Laissez-Moi vous emmener en sécurité et dans une vie glorieuse en union avec Ma Volonté. Je révélerai le Nouveau Paradis en Mon Temps et Je désire que vous fassiez montre de patience. Vivez en harmonie avec les autres. Prenez soin de votre famille comme avant. Venez à Moi dans vos églises comme avant. Mais souvenez-vous toujours que la Vérité, la Véritable Parole de Dieu, ne peut jamais changer car Je Suis la Vérité. Je ne pourrai jamais changer car cela ne se pourra jamais.

Je vous aime. Je vous bénis. Je vous protège.

Votre Père aimant
Dieu le Très-Haut


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Il celibato nella Chiesa antica


di Alfredo Marranzini,
pubblicato in L'OSSERVATORE ROMANO, 16 Gennaio 1998
 
La questione del celibato è stata non poche volte sollevata da alcuni con argomentazioni pro e contro, in circostanze certamente diverse ma sempre in connessione con altri fattori, esterni o anche interni alla comunità ecclesiale. Tra gli studi storici editi di recente mi sembra di particolare importanza quello del patrologo tedesco Stefan Heid dal titolo: “Il celibato nella Chiesa antica. Gli inizi di un obbligo di continenza per chierici in Oriente e in Occidente” La questione del celibato è stata non poche volte sollevata da alcuni con argomentazioni pro e contro, in circostanze certamente diverse ma sempre in connessione con altri fattori, esterni o anche interni alla comunità ecclesiale. 




Tra gli studi storici editi di recente mi sembra di particolare importanza quello del patrologo tedesco Stefan Heid dal titolo: Il celibato nella Chiesa antica. Gli inizi di un obbligo di continenza per chierici in Oriente e in Occidente (1). L'autore intende offrire, in base ad una documentazione accuratamente ponderata sotto ogni aspetto, qualche chiarimento circa il modo di porsi dei chierici maggiori, Vescovi presbiteri diaconi, di fronte al matrimonio nei primi secoli cristiani. Oggi, impostando talvolta questo problema in modo unilaterale, gli si danno risposte parimenti unilaterali. Partendo dal celibato quale è attualmente praticato nella Chiesa latina, lo si cerca nei primi secoli e non lo si trova presso tutti i chierici. Si dovrebbe invece distinguere tra celibato in senso stretto, che riguardava chierici maggiori vedovi o non sposati, e obbligo della continenza che vincolava dopo l'ordinazione Vescovi, presbiteri e diaconi celibi o anche sposati, e si rifletteva in qualche modo sulle stesse spose di coloro che avevano contratto precedentemente matrimonio. Siccome contro la tesi di un obbligo della continenza nella Chiesa primitiva si è spesso fatto notare che il Vescovo dell'Alta-Tebaide, Pafnuzio, nel Concilio di Nicea del 325 avrebbe scongiurato i Padri a non proibire a Vescovi, presbiteri e diaconi di avere rapporti con la propria moglie, Heid dimostra questo preteso intervento privo di ogni valore documentario. Esso infatti è citato solo da Socrate, che terminò la sua Storia Ecclesiastica un secolo dopo verso l'anno 440, e che, mentre di solito è preciso nei suoi riferimenti, non menziona alcuna fonte circa questo intervento che, se fosse vero, sarebbe stato di grande rilievo. Personalità bene informate sul Concilio di Nicea e sulla vita della Chiesa di quel tempo, specie Ambrogio, Epifanio, Girolamo, Siricio e Innocenzo I, dei quali non si può mettere in dubbio la sincerità, ignorano del tutto l'episodio e attestano l'antichità dell'obbligo della continenza. L'episcopato africano contemporaneo di Agostino, in piena conformità al primo Concilio ecumenico, ha rinnovato in più sinodi l'obbligo della continenza perfetta dei chierici, dichiarata tradizione risalente ai tempi apostolici. Inoltre Friedhelm Winkelmann, partendo dalla constatazione che Pafnuzio non figura tra i Vescovi firmatari del Concilio di Nicea negli elenchi a noi pervenuti, ha dimostrato già nel 1968, con argomenti di critica esterna, che il racconto di Socrate è “il prodotto di un'affabulazione agiografica progressiva”. Per di più, contrariamente a quanto a volte si è sostenuto, esso non concorda affatto con la prassi della Chiesa Orientale circa il matrimonio dei chierici maggiori. Infatti nessun Concilio anteriore a Nicea ha mai autorizzato Vescovi, presbiteri e diaconi a contrarre matrimonio o ad usare del matrimonio eventualmente contratto prima dell'ordinazione. Lo stesso Concilio Quinisesto del 691, che fissò in maniera definitiva la legislazione bizantina in proposito, mantenne l'obbligo della continenza perfetta per i Vescovi e, pur autorizzando i presbiteri e i diaconi a vivere con le loro mogli, li sottopose alla continenza nei giorni della Celebrazione Eucaristica. Nessuna menzione, né in questo Concilio né nelle varie discussioni dei secoli seguenti sul celibato, dell'intervento di Pafnuzio a Nicea ritenuto quasi all'unanimità dai critici, nella forma in cui lo conosciamo, un falso. Anche se è esistito un uomo con tale nome, è del tutto discutibile se sia stato Vescovo e non ha preso parte al Concilio di Nicea. “Tutto il testo è quindi inutilizzabile per la disciplina dei chierici dei primi quattro secoli” (p. 16).

Posizioni attuali contrastanti

Sbarazzato il campo da una leggenda, a cui nel passato da qualcuno si ricorreva per provare che l'obbligo della continenza sarebbe stato introdotto tardi nella Chiesa, Eid delinea brevemente le due concezioni del celibato che, in base all'analisi delle stesse fonti, giungono a risultati del tutto differenti. La prima, rappresentata da Gryson (2), Franzen (3) e Denzler (4), sostiene che l'obbligo attuale del celibato deriverebbe dalla libertà che avevano i chierici nei primi tre secoli di abbracciarlo o meno. Allora la maggior parte di loro era sposata e disponeva liberamente dell'uso del matrimonio, anche se in diversi luoghi alcuni se ne astenevano di propria iniziativa. Però già nel secondo secolo si sarebbero infiltrate nella vita della Chiesa correnti misogenistiche per motivazioni estranee al Vangelo, mentre fiorivano anche la verginità carismatica e il monachesimo. Nel secolo seguente subentrò pure la socializzazione del ministero sacerdotale, per cui anche per purità rituale, secondo le prescrizioni del Concilio di Elvira verso il 306 o addirittura verso il 380, nella Chiesa greca e in quella latina chierici e laici si astenevano dai rapporti sessuali nei giorni della Celebrazione Eucaristica. Intanto, mentre in Asia Minore, Siria, Palestina ed Egitto si celebrava piuttosto raramente l'Eucaristia e i chierici sposati potevano, sia pure con una certa limitazione, usare del matrimonio, s'introdusse in Africa settentrionale, Spagna, Gallia e Italia la celebrazione quotidiana. Ciò avrebbe portato alla totale continenza del clero e alla graduale repressione del clero sposato da parte dei colleghi celibi. Si sostiene quindi che all'uso “naturale” del matrimonio nei primi secoli senza particolari prescrizioni limitative si sarebbe sostituita per motivi estranei al cristianesimo la continenza “innaturale”, che trovò la sua prima normativa nel Concilio di Elvira, nella cui prospettiva rientrano le decretali pontificie sul celibato. “La durezza romana soppiantò quindi la prassi originariamente più umana, quale è ancora in vigore nella Chiesa orientale. La legge, che impose ai chierici maggiori della Chiesa latina la totale continenza coniugale, è sorta in Roma solo verso la fine del quarto secolo” (p. 19).

 Ben diverse sono le conclusioni a cui sono giunti con i loro studi Christian Cochini (5), Roman Choly (6), e Alfonso M. Stickler (7). Nei primi secoli della Chiesa nessuna legge poneva il celibato come condizione pregiudiziale per l'ammissione agli ordini maggiori. Se non si era sposati prima, si doveva conservare il celibato; se si era ordinati dopo il matrimonio, si doveva mantenere la continenza con la moglie. Nello stesso periodo non esistono leggi scritte sul celibato in senso stretto o sulla continenza; però non si dà neppure alcun documento scritto che neghi l'esistenza di tale obbligo. Perciò è legittimo prendere in considerazione i primi documenti pubblici, che nel quarto secolo fanno risalire l'obbligo della continenza al periodo apostolico. Oggi esegeti e teologi seri fanno a giusto titolo risaltare i fondamenti biblici dell'obbligo del celibato, non scartano affatto l'idea di una eventuale “tradizione apostolica” della continenza dopo l'ordinazione e concepiscono la disciplina attestata dalla legge del quarto secolo come il frutto di una lenta evoluzione, dovuta all'azione progressiva del fermento evangelico nella comunità ecclesiale. La questione del celibato dei chierici maggiori è tornata ad essere attuale e potrebbe contribuire al progresso della riflessione della Chiesa su un argomento così complesso. La ricerca sull'origine della continenza al periodo apostolico, oltre ad essere un dovere scientifico, è un aiuto offerto alle nuove generazioni, che dovranno decidere il loro futuro. Heid si pone con imparzialità di fronte a queste due posizioni, le confronta punto per punto e giunge alla conclusione che la “rinnovata rilettura di tutte le fonti documentarie conferma di fatto in maniera molteplice e approfondisce la concezione di Cochini” (p. 20). Perciò egli non esita ad affrontare di nuovo tale esame, che gli consente non solo di ribadire che l'obbligo della continenza risale al periodo apostolico ma anche di apportare ulteriori ritocchi nell'interpretazione di qualche fonte documentaria, di esporre più ampiamente lo sfondo storico-sociale della continenza dei chierici nei primi tre secoli.

Lo studio eccellente di Cochini resta tuttavia ancora indispensabile, perché esamina tutti i testi sino al settimo secolo senza tralasciare la Chiesa nestoriana e altre questioni particolari. Heid ritiene giustificato seguire il metodo storico progressivo nel riesaminare la questione del celibato dal Nuovo Testamento al Concilio Trullano II o Quinisesto del 691, per facilitare la comprensione dello sviluppo progressivo della “tradizione apostolica” della continenza. Egli, come già ha fatto Cochini, si pone sulla scorta del principio enunciato da s. Agostino all'epoca della controversia donatista: “Ciò che è osservato da tutta la Chiesa ed è sempre stato mantenuto, pur senza essere stato stabilito da alcun concilio, è da considerarsi a giusto titolo trasmesso solo dall'autorità apostolica” (8). Il valore di questo principio deriva dalla fedeltà della Chiesa dei primi secoli alla tradizione originaria. I Padri cercarono di mantenere senza innovazioni quanto era stato trasmesso. Agostino riconosce che questo orientamento garantisce la possibilità di risalire alle origini apostoliche, purché si tratti di un dato dottrinale o disciplinare che sia stato osservato da tutta la Chiesa e mantenuto costantemente. Heid nota giustamente che Cochini affermando “l'origine apostolica della continenza, osservata dai chierici maggiori in tutta la Chiesa di allora”, vuole anzitutto fissarne il tempo al periodo neotestamentario, senza determinarne dogmaticamente l'immutabilità (9). La continenza dei ministri ordinati nel periodo neotestamentario Dopo queste premesse il patrologo tedesco percorre le varie fasi della prassi della continenza e del celibato nei primi secoli della Chiesa a partire dall'esempio di Gesù, che rese il suo insegnamento persuasivo e credibile, praticandolo per primo esistenzialmente. Egli scelse il celibato per sé e per quelli che chiamò a sé e “costituì come Dodici che stessero con lui e anche per mandarli a predicare” (Mc 3, 13-14). L'ingiuria di “eunuco” (Mt 19, 12) non preoccupò né Cristo né i suoi apostoli. Anche se qualcuno di questi, come Pietro, era sposato, tutti lasciarono la propria consorte o non si sposarono affatto per seguire Cristo in maniera incondizionata e cooperare con Lui alla proclamazione del “regno dei cieli”, sia prima sia dopo la pasqua, in uno stile di vita perfettamente continente. Vi era la possibilità di avere durante le loro peregrinazioni missionarie delle collaboratrici sostentate dalla comunità (cfr 1 Cor 9, 5), come Gesù stesso aveva consentito che delle donne provvedessero a Lui e ai suoi discepoli (cfr Lc 8, 1-3). Vigeva però sempre la perfetta continenza né sussisteva alcuna differenza in proposito tra gli apostoli e Paolo. Tale modo di vivere proseguì anche quando il ministero passò dagli apostoli ai Vescovi, ai presbiteri e ai diaconi, come appare dal progressivo sviluppo testimoniato dalle lettere pastorali e che almeno nell'Asia minore si dovette verificare tra il 50 e il 100 dopo Cristo. 

Si avevano quindi ministri celibi, vedovi e sposati, ma gli sposati dal giorno della loro ordinazione potevano vivere con le loro consorti solo in perfetta continenza (cfr 1 Tm 3, 2.12; Tit 1, 6). A nessuno, neppure in caso di vedovanza, era consentito di risposarsi e il candidato agli ordini, che si era sposato due volte, era ritenuto, secondo la concezione paolina, incapace di vivere in continenza (cfr 1 Cor 7, 8s). Vigeva quindi una pluralità di stati (celibi, vedovi o sposati) con l'unico stile di vita di perfetta continenza, che non era lasciato ad una scelta personale, perché su questa non si può basare un'istituzione né ad essa si può far risalire una unanimità da osservarsi nel futuro. “L'opinione dominante che il Nuovo Testamento non offra alcuna prova per la disciplina del celibato contraddice perfino se stessa e non si sostiene ad un esame approfondito e differenziato” (51). La continenza dei chierici maggiori dal secondo secolo al 220 Dopo le lettere pastorali c'imbattiamo verso il 200 in più chiari accenni alla continenza dei chierici maggiori del Nord Africa occidentale e orientale. Clemente alessandrino riconosce che possono essere ammessi ai ministeri ordinati anche uomini sposati con figli, ma non concede affatto loro di generarne altri dopo l'ordinazione. Essi devono seguire l'esempio degli apostoli, anche se eventualmente sposati, e da cristiani perfetti continuare la loro vita familiare senza rapporti coniugali. Si può quindi dire con buon fondamento che Clemente conosce anche la continenza dei chierici secondo lo stile di vita degli apostoli. Lo stesso va detto di Tertulliano, anche se in lui si trovano solo prove indirette sulla continenza dei chierici sposati, le quali però non lasciano alcun dubbio al riguardo. All'obbligo stretto della continenza per i chierici sposati si connette il divieto loro fatto di risposarsi, che si riscontra in Egitto, nel Nord Africa e, verosimilmente, anche a Roma. Tertulliano, che parla di molti Vescovi risposati, conosce anche l'esplicito divieto della bigamia e la deposizione di Vescovi bigami. Ippolito rimprovera al Vescovo di Roma Callisto di non far osservare tale divieto e di ordinare egli stesso dei bigami. Però Callisto non ha posto fondamentalmente in questione il divieto della bigamia, piuttosto egli ne sostiene soltanto un'interpretazione più larga non tenendo conto, come faceva lo stesso Tertulliano, del matrimonio contratto prima del battesimo. Così anche se poteva capitare che venisse ordinato un vedovo risposatosi dopo il suo battesimo, l'esigenza della continenza rimaneva salda. Un ulteriore indizio dell'obbligo della continenza è la proibizione generale del matrimonio dopo l'ordinazione che si riscontra per la prima volta in Ippolito. Anche Callisto conosce e rispetta tale divieto, però talvolta, contrariamente ad Ippolito, concede a chierici minori di risposarsi. 

Testifica anche la deposizione di qualche chierico maggiore che, per ignoranza della tradizione obbligante della Chiesa al riguardo, era passato a nozze dopo l'ordinazione. Con ciò non si afferma che tale chierico potesse continuare ad esercitare il suo ministero, anzi si deve ammettere che, pur sospeso dalle sue funzioni, rimaneva ancora nel clero, perché gli si potesse con tale legame assicurare il sostentamento economico. La continenza dei chierici maggiori dal terzo secolo sino al Concilio di Nicea (325). La Didascalia siriaca in Oriente segue la linea iniziata da Clemente alessandrino. In Siria i chierici maggiori ordinariamente erano sposati, ma almeno il candidato all'episcopato doveva essere di età avanzata in modo che egli, avendo già provveduto all'educazione dei figli, poteva dopo l'ordinazione dedicarsi totalmente al suo ministero. Perciò si vedeva la sua continenza con la propria moglie un'esigenza del tutto rispondente al suo ufficio. Dalle riflessioni di Origene sul divieto della digamia si può dedurre che conosce l'obbligo della continenza. Però egli si pone il quesito: se la continenza dei chierici maggiori sposati è decisiva, perché non si ordinano uomini rimasti vedovi dopo il loro secondo matrimonio, anche se sono disposti ad osservare la continenza? Queste osservazioni, senza portare all'abolizione del divieto di un secondo matrimonio, hanno rassodato la tradizione della monogamia e della continenza, perché per Origene non è concepibile il sacerdozio senza la perfetta continenza. Ad evitare subito equivoci nella disamina dei dati storici circa la continenza dei chierici maggiori, va tenuto presente che è norma giuridica obbligatoria sia la disposizione tramandata solo oralmente attraverso una consuetudine vincolante sia quella espressa come legge scritta e promulgata in forma legittima. Nella storia di un popolo le leggi scritte sono precedute da norme consuetudinarie tramandate oralmente e tuttavia vincolanti. Di ciò non hanno tenuto conto coloro che, osservando che la prima legislazione canonica a noi nota in materia di continenza dei chierici maggiori risale al IV secolo d. C., ne traggono la conclusione che fino ad allora l'osservanza della continenza era lasciata alla libera decisione del singolo. La normativa scritta, che verrà dal Sinodo spagnolo di Elvira agli inizi del IV secolo, si rifà alla tradizione obbligante della continenza già testimoniata da Tertulliano e Cipriano, anche se si dovevano eliminare eventuali carenze di conoscenza e di chiarezza al riguardo presso chierici maggiori, viventi in regioni isolate e non debitamente informati su questo obbligo. Sulla linea di Clemente o Origene si pongono Eusebio, Arcivescovo di Cesarea di Palestina, e lo stesso Sinodo di Ancira. Quest'ultimo infatti, affrontando il desiderio di sposare (espresso da un celibe candidato al diaconato), non deflette dalla tradizione ma ribadisce che il Vescovo può ordinare tale candidato solo dopo alcuni anni dal suo matrimonio. La continenza obbligatoria viene confermata dall'uso praticato anche da qualche chierico, come per es. Paolo, Vescovo di Samosata, di vivere da fratello e sorella con qualche donna senza alcun rapporto sessuale. I propugnatori della continenza vedevano in ciò un segno particolarmente luminoso delle loro capacità ascetiche. Va inoltre osservato che l'obbligo della continenza dei chierici sposati si rifletteva anche sulle loro consorti. Perciò si prescriveva dai sinodi che i candidati all'ordinazione non potevano sposarsi con donne adultere e, se eventualmente le loro mogli commettevano adulterio, se ne dovevano separare, perché esse col proprio comportamento si erano dimostrate incapaci di osservare la continenza. Per questo stesso motivo le mogli dei chierici non potevano essere digame. Eventuali infrazioni a queste norme venivano severamente punite. Contrariamente a quanto da qualcuno è stato affermato, la continenza generale dei chierici è più chiaramente testimoniata in Oriente che in Occidente. Alle testimonianze di Origene e di Eusebio, da cui essa già appare un dato ovvio, si aggiungono quelle di Epifanio per l'isola di Cipro, di Girolamo per la Palestina e l'Egitto, di Giovanni Crisostomo, Teodoro di Mopsuectia e Teodoreto di Ciro, per la Siria e l'Asia Minore. 

Tutti documentano la continenza o la presuppongono chiaramente (131-154) e fanno perfino constatare una tendenza verso un clero celibe o una preferenza per i candidati celibi (154-167). Pur verificandosi qualche trasgressione, la prassi collegata della monogamia e della continenza resta immutata in Oriente sino al quinto secolo, anche se non si tien conto del matrimonio contratto prima del battesimo. Nuova è invece l'interpretazione data da Crisostomo, Girolamo, Teodoro e Teodoreto: con la condizione che il Vescovo sia unius uxoris vir (1 Tm 3, 2) si proibirebbe solo la poligamia, ma non i rapporti coniugali con l'unica donna che gli rimane. In realtà, se si osservano bene i testi di questi padri si vuole solo sottolineare con l'unius uxor viri che il Vescovo sposato si deve considerare quasi uxorem non habens per cui resta in vigore la continenza (10). Certamente ha contribuito al prevalere del clero celibe su quello sposato l'influsso dei monaci, tra cui per lo più si sceglievano in Oriente come in Occidente i candidati agli ordini maggiori. Non mancarono in questa tendenza ascetica delle esagerazioni, tanto che nell'Asia Minore verso la metà del quarto secolo i cosiddetti eustaziani giunsero a rigettare il matrimonio, ad esigere il divorzio da tutti gli sposati, anche se erano chierici, e ad invitare i laici a non rivolgersi a preti sposati. Decisa fu però la reazione dei Vescovi, che proibirono il divorzio ai chierici sposati, senza però permettere loro i rapporti coniugali con le proprie consorti. Inoltre non si può trarre alcuna prova contraria all'obbligo della continenza nell'Asia, nella Palestina e nell'Egitto dall'interpretazione preconcetta di alcuni dati. Infatti è inverosimile che Gregorio di Nazianzo il giovane sia stato generato da suo padre Gregorio, parimenti Vescovo di Nazianzo, dopo la sua ordinazione, perché i dati biografici additano il contrario. Anche Cirillo di Gerusalemme esige perfetta continenza dai chierici sposati e dalle loro mogli, in contrasto con l'obbligo dei sacerdoti giudaici. Atanasio conosce Vescovi sposati e monaci, che dopo la loro consacrazione o professione religiosa non ebbero più rapporti coniugali. Sinesio, scelto per l'episcopato, preferisce non accettarlo per avere ancora figli ma, una volta ordinato, si comporta in piena adesione al dovere della continenza. Non si vede perciò come dopo la valutazione di tanti documenti Roger Gryson abbia potuto sostenere che “la legge del celibato è sorta soltanto a Roma verso la fine del quarto secolo. Il papato non ha mai desistito dall'adoperarsi per il suo mantenimento e per lasciarla prevalere sulla consuetudine antica più liberale” (ibid.). La continenza dei chierici nella Chiesa occidentale sino agli inizi del quinto secolo Ora nell'Africa del Nord, dove vigeva da tempo la continenza, come sappiamo da Tertulliano e da Cipriano, il 16 giugno 390 il Sinodo di Cartagine prescrive all'unanimità che “il Vescovo, il presbitero e il diacono, custodi della purezza, si astengano dalla consorte, affinché chi è al servizio dell'altare conservi una castità perfetta” (188). Prima della votazione il Vescovo Genetlio aveva ricordato che ciò “si addice... a quelli che sono al servizio dei sacramenti divini... per ottenere, in tutta semplicità, quanto domandano a Dio; facciamo in modo di custodire anche noi ciò che insegnarono gli apostoli ed è stato osservato da tutta l'antichità” (188). 

I Vescovi africani non ripetono qui passivamente le Decretali di papa Siricio, di poco anteriori, ma si rendono essi stessi garanti della tradizione apostolica della continenza dei chierici maggiori. Non lo avrebbero mai fatto se essa non fosse stata in armonia anche col terzo canone del Concilio di Nicea (325), che già ne aveva testimoniato la conformità alla tradizione apostolica. Data la situazione desolata in cui si era venuta a trovare in Africa la Chiesa dopo lo scisma donatista, i Vescovi dal 390 cercarono di ovviarvi anche con prescrizioni giuridiche e ribadirono la continenza dei chierici maggiori, tenendo anche conto di quanto aveva fatto in proposito il Vescovo di Roma. La Chiesa di Spagna, sin dal Sinodo di Elvira circa il 306, aveva prescritto la continenza con una norma scritta esplicita, che è la prima a noi pervenuta. Ciò non significa che, come supposero Funk e altri al suo seguito, fino ad allora fosse consentito ai chierici maggiori di proseguire la vita matrimoniale anche dopo l'ordinazione, se le nozze erano state contratte prima. Infatti i Padri di Elvira danno l'impressione non d'introdurre un'innovazione di tanta rilevanza, ma di sancire una prassi già in vigore. Altrimenti avrebbero dovuto almeno spiegare perché si poneva fine al libero uso del matrimonio e sarebbero certamente andati soggetti a forti contestazioni. L'essere entrato il canone 33 di Elvira senza urti nella storia conferma che esso, lungi dall'essere una svolta, testimonia la fedeltà della Chiesa di Spagna ad una tradizione antica. Più tardi Priscilliano si fece promotore di un movimento di ascetica riformatrice così rigorosa che i suoi protagonisti, tra cui numerosi Vescovi e chierici, furono tacciati di manicheismo. A Roma sotto papa Damaso (366-384) e nel Nord Italia sotto Ambrogio, sia a Milano che nelle campagne, la continenza era osservata senza particolari reazioni. Però in Italia si era preoccupati degli attacchi mossi nella Spagna alla continenza da coloro che contrastavano il priscillianismo e dai chierici sposati che, insofferenti dell'obbligo della continenza, la volevano limitare solo ai giorni della Celebrazione Eucaristica, analogamente a quanto si prescriveva ai leviti nell'Antico Testamento. Ambrogio e l'anonimo Ambrosiastro si prendono la cura di confutare tali argomenti, facendo osservare che la frequenza della Celebrazione Eucaristica non esercita un ruolo definitivo. Perciò la continenza non può essere considerata un ritrovato di Roma nel tardo quarto secolo in base alla Celebrazione Eucaristica quotidiana, perché tale prassi non sussisteva allora né a Roma né in Spagna. Inoltre, mentre la propaganda priscillianista portava in Spagna e altrove al disprezzo manicheo del corpo, l'Ambrosiastro ne difende la dignità e giustifica la continenza dei chierici maggiori per la sua convenienza col ministero complessivo loro affidato. In questa luce si spiegano i vari interventi del Vescovo di Roma. Su richiesta di Imerio, metropolita di Tarascona, Siricio il 10 febbraio 385 gli invia la decretale Directa con la quale affronta la questione della continenza, già da secoli vigente come obbligatoria, e ribadisce che “noi tutti, Vescovi, presbiteri e diaconi, vi ci troviamo legati fin dal giorno della nostra ordinazione e sottomettiamo i nostri cuori e i nostri corpi al servizio della sobrietà e della purezza, per essere totalmente graditi al nostro Dio nei sacrifici che offriamo ogni giorno” (200). Nel gennaio del 386 un concilio di 80 Vescovi dell'Italia centrale e meridionale tenutosi a Roma prende una serie di decisioni che Siricio comunica a vari episcopati con la decretale Cum in unum. 

L'introduzione insiste sulla fedeltà alle tradizioni apostoliche, perché “non si tratta d'impartire precetti nuovi, ma di far osservare quelli che sono trascurati per l'apatia e la pigrizia di alcuni” (220). Tra “le prescrizioni di una costituzione apostolica e di una costituzione dei Padri”, si trova l'obbligo della continenza per i chierici maggiori. “È degno, casto e onesto... che [Vescovi], presbiteri e diaconi non abbiano rapporti con la loro consorte dato che essi sono assorbiti dai doveri quotidiani del loro ministero” (221). Anche la decretale Dominus inter, che è una risposta del papa Damaso o di Siricio a domande dei Vescovi delle Gallie, sviluppa gli stessi argomenti. Da questi decretali appare chiaro l'obbligo già da tempo vigente della continenza, sebbene le infrazioni fossero frequenti, anche per ignoranza della tradizione obbligante, alla fine del IV secolo in Spagna e nelle Gallie. Gli argomenti biblici addotti da alcuni contestatori vengono nelle decretali precisati: i leviti dell'antica alleanza potevano avere figli, ma erano tenuti alla continenza durante il loro servizio al tempio; a maggior ragione i ministri della nuova alleanza devono osservare la continenza perpetua; la condizione che il Vescovo sia unius uxoris vir è stata posta propter continentiam futuram, perché la monogamia provava la capacità di praticare la continenza dopo l'ordinazione. La reazione del monaco Gioviniano si rivolgeva allora in Roma contro la propaganda ascetica di s. Girolamo e la linea ufficiale della Chiesa che poneva la verginità al di sopra del matrimonio. Egli accettava per principio il celibato assoluto di alcuni chierici e anche il dovere della continenza dei chierici sposati. Perciò non ha affatto sganciato a Roma la crisi del celibato né ha provocato da parte della Chiesa un inasprimento della disciplina, per cui da quel momento come i chierici celibi anche quelli sposati e le loro mogli avrebbero dovuto vivere continenti. Il clero da lungo tempo conosceva tutta la disciplina della continenza e anche Gioviniano l'accettava. Papa Innocenzo interviene sulla continenza nelle Gallie con la decretale Etsi tibi indirizzata il 15 febbraio 404 al metropolita di Rouen, Vittricio, e l'altra Consulenti tibi inviata il 20 febbraio 405 al Vescovo di Tolosa, Esuperio. 

Nello stesso tempo s. Girolamo (11) inveisce contro il sacerdote della Gallia meridionale, Vigilanzio, per il cui influsso alcuni chierici maggiori ordinati dopo il matrimonio continuavano talvolta a generare figli. Le decretali di Innocenzo non introducono affatto la continenza del clero, ma mirano soltanto a stabilire delle precise norme giuridiche, perché si possa procedere in maniera equanime e unitaria contro i chierici trasgressori. Non conosciamo chiaramente quale fosse in proposito lo stato di tale disciplina nelle singole regioni della Gallia, ma almeno in Aquitania, dove compare Vigilanzio, si avverte che egli, senza contestare la continenza dei chierici maggiori, vorrebbe che il suo Vescovo permettesse ai chierici minori di sposarsi prima del diaconato, anche se dopo l'ordinazione diaconale dovevano vivere in continenza. Forse alla base dell'intervento di Vigilanzio c'era un problema molto concreto. Alcuni monaci abbandonavano i loro chiostri e venivano incardinati nel clero diocesano e addetti alla cura d'anime dapprima come chierici minori. Alcuni di loro intendevano frattanto sposarsi e generare figli, e trovavano in ciò l'appoggio di Vigilanzio. Di qui la reazione di s. Girolamo che, per il suo zelo a favore del monachesimo, ha visto forse in Vigilanzio un avversario della continenza anche nel clero maggiore. 

Certo in Occidente nel IV secolo sono emerse delle difficoltà per l'osservanza della continenza causate dalla diffusione della Chiesa anche nelle campagne, dove talvolta s'ignoravano consuetudini anche obbliganti. Di qui l'impegno di Papi, Vescovi e teologi per l'approfondimento dei motivi della continenza e la sua regolazione globalmente unitaria, che porta a sicurezza giuridica e stabilità. La continenza, eredità comune dell'Oriente e dell'Occidente Da quanto si è documentato si rilevano l'eredità comune della Chiesa Orientale e Occidentale circa la continenza dei chierici maggiori e la perfetta concordanza delle decretali papali con la disciplina orientale, perché miravano solo ad evitare abusi in Occidente contro il sospetto di manicheismo e l'euforia della verginità (183-258). La crescente coscienza della responsabilità dei Vescovi di Roma per l'unità nella tradizione apostolica anche circa la disciplina essenziale spiega i loro interventi, perché in Occidente si conservi integra la continenza dei chierici come era praticata anche in Oriente sin dagli inizi apostolici. Nel quinto secolo la continenza dei chierici maggiori non era in crisi in Oriente come si potrebbe supporre da alcune dichiarazioni dello storico della Chiesa, Socrate. Egli, infatti riferendosi alla Tessaglia, alla Macedonia e alla Grecia, dice che di recente anche i suddiaconi sposati dovevano vivere in continenza. La notizia da lui riportata circa Vescovi che generavano figli e circa la leggenda di Pafnuzio provengono dai novaziani, i quali volevano giustificarsi per non esigere più la continenza dai chierici maggiori sposati. A loro si appoggiavano a Costantinopoli gli avversari della continenza e i chierici maggiori che non l'osservavano. D'altra parte la stessa leggenda di Pafnuzio presuppone che nella Chiesa bizantina si desiderava e osservava la continenza dei chierici maggiori. Anche il codice legislativo di Teodosio del 420 la prescriveva. L'imperatore Giustiniano (527-565), il cui influsso si faceva sentire anche nell'ambito della Chiesa latina, riordinò tutta la disciplina della continenza, ribadendo la sua obbligatorietà e stabilendo che i Vescovi sarebbero stati scelti preferibilmente tra gli ecclesiastici non sposati e i monaci (12), mentre quelli sposati e senza figli dovevano vivere lontano dalle proprie mogli (13). Intanto l'apparizione e la fulminea espansione dell'Islam sconvolge la Chiesa d'Oriente. L'Africa cristiana, la Siria, la Palestina, la Mesopotamia e l'Egitto cadono sotto il suo dominio tra il 635 e il 642. Dei quattro Patriarcati orientali resta in piedi solo quello di Bisanzio, che per di più a nord deve fronteggiare le invasioni slave e bulgare. Lo sconvolgimento politico provoca una crisi intellettuale e morale paragonabile a quella che nel quinto secolo era seguita alla caduta dell'Impero romano. Nello stesso tempo la Chiesa bizantina è in crescente tensione con la Sede papale, che contesta il canone 20 del Concilio di Calcedonia del 451, il quale aveva conferito alla “nuova Roma” autorità patriarcale sulle Chiese metropolitane delle diocesi del Ponto, dell'Asia proconsolare e della Tracia. Leone Magno l'ha respinto dichiarandolo contrario ai canoni di Nicea e ai diritti delle Chiese particolari. Nel sesto secolo Giustiniano da abile politico era riuscito solo a mantenere lo statu quo, senza eliminare i disaccordi. Il Concilio Quinisesto del 691, che riunì 215 Padri greci, orientali o armeni sotto la cupola o trullo del Palazzo imperiale di Bisanzio, pur proponendosi di riformare gli abusi e gli errori del suo tempo, lo fece ostentando il disaccordo con la Chiesa latina, tanto che papa Sergio (687-701) di origine siriana, dichiarò di preferire la morte piuttosto che riconoscere certi canoni contrari all'ordine della Chiesa. 

Il Quinisesto anche se ha detto l'ultima parola della disciplina ecclesiastica per la Chiesa greca, conserva più di un'usanza conforme a quella della Chiesa latina. Il canone 12 proibisce ai Vescovi ordinati di abitare con le proprie mogli per evitare lo scandalo del popolo; il canone 48 prescrive che la moglie del Vescovo, che si è separata da lui di comune accordo, deve entrare, dopo la di lui consacrazione, in un monastero distante dalla residenza episcopale. Avrà però diritto ad essere sostenuta da suo marito e, se ne è degna, ad essere promossa alla dignità di diaconessa, non all'ordine del diaconato. Si sa che, specialmente dopo Leone Magno, la tradizione latina autorizzò per molto tempo i chierici maggiori sposati a continuare a convivere con le proprie mogli, osservando però stretta continenza. Dal sesto secolo i concili occidentali esigettero a poco a poco la separazione del Vescovo dalla moglie. Quindi per il Vescovo l'obbligo della continenza perfetta era identica a Roma e a Bisanzio. Stando ai canoni 3 e 6 possono essere ammessi al chiericato i monogami, purché la moglie sia stata vergine, di condizione libera e non abbia esercitato alcuna professione considerata disonesta. Il canone 13 in contrasto con la regola vigente nella Chiesa latina, sancisce: “... noi, conformandoci all'antica regola della stretta osservanza e della disciplina apostolica, vogliamo che i legittimi matrimoni degli uomini consacrati a Dio rimangano in vigore anche in futuro, senza sciogliere il legame che li unisce alle mogli, né privarli dei mutui rapporti nei tempi convenienti. In tal modo, se qualcuno è giudicato degno di essere ordinato suddiacono o diacono o sacerdote, non gli venga impedito di avanzare in questa dignità perché ha una moglie legittima, né si esiga da lui di promettere, al momento della sua ordinazione, che si asterrà dai rapporti legittimi con sua moglie, in caso contrario offenderemmo il matrimonio istituito dalla legge di Dio e benedetto dalla sua presenza, mentre la voce del Vangelo ci grida: “non divida l'uomo quelli che Dio ha congiunti” (Mt 19, 6; Mc 10, 9); e l'apostolo insegna: “il matrimonio sia da tutti rispettato e il letto coniugale resti senza macchia” (Eb 13, 4); e ancora: “Sei legato ad una donna coi vincoli di matrimonio? Non cercare di scioglierli” (1 Cor 7, 27). 

Sappiamo d'altronde che i Padri riuniti a Cartagine, per misura di preveggenza, data l'importanza dei costumi dei ministri dell'altare, hanno deciso che “i suddiaconi, i quali accedono ai santi misteri, i diaconi e anche i presbiteri, si astengano dall'unirsi alle loro mogli durante i periodi loro particolarmente [indicati]”. Così anche noi conserveremo ciò che fu trasmesso dagli apostoli e osservato da tutta l'antichità, sapendo che vi è un tempo per ogni cosa, soprattutto per il digiuno e la preghiera: è necessario infatti che quelli che si avvicinano all'altare, nel periodo in cui trattano le cose sante, siano del tutto continenti, per ottenere ciò che domandano a Dio in tutta semplicità”. Perciò, se qualcuno agendo contro i canoni apostolici, osa privare un chierico ordinato, cioè un presbitero, un diacono o un suddiacono, dei rapporti coniugali e della comunanza di vita con la sua legittima moglie, sia deposto; come pure “se un presbitero o un diacono manda via la moglie col pretesto della devozione, sia scomunicato e, se persiste, deposto” (286). Questo canone trullano si distacca dalla norma della Chiesa latina, per la quale si esigeva dagli uomini sposati l'impegno della continenza perfetta al conferimento del suddiaconato, del diaconato o del presbiterato. In Occidente il matrimonio non impediva l'accesso ai ministeri ordinati, conservava la sua indissolubilità dopo l'ordinazione e giustificava la convivenza del chierico maggiore con la propria moglie da fratello e sorella. La Chiesa latina, richiedendo la perfetta continenza, non “separava ciò che Dio aveva unito” e, pur giudicando perfettamente compatibili il matrimonio e il ministero ordinato, elevava il modo di vita dei suoi ministri a livello ritenuto rispondente alla loro missione. 

I Vescovi del Concilio Quinisesto, per introdurre un'innovazione rilevante in questo settore, si appellano alla “antica regola della stretta osservanza e della disciplina apostolica”, quale sarebbe testificata dal Concilio di Cartagine del 390 tramite citazioni tratte dal Codex canonum Ecclesiae Africanae, collezione oggi ritenuta apocrifa. Il Concilio Quinisesto, utilizzando il Concilio di Cartagine per risalire al periodo apostolico, ne riconosce l'importanza come testimonianza della disciplina primitiva. Però i Padri bizantini, diversamente da quelli di Cartagine, non menzionano nel canone 13 il Vescovo e richiedono dai presbiteri e dai diaconi non più la continenza perfetta quale si conviene al loro stato secundum propria statuto ma solo quella temporanea durante i periodi “che sono loro particolarmente assegnati”. L'espressione latina del Concilio di Cartagine era stata tradotta dal Codex _ kata tous idious òrous _ costruzione greca interpretabile nel senso voluto dai Padri del Concilio Quinisesto. Nonostante questa differenza, le tradizioni orientale e latina concordano sull'origine apostolica del dovere della continenza _ temporanea o perpetua _ e sul suo fondamento biblico-teologico. I chierici maggiori sono tenuti ad astenersi dai rapporti coniugali in quanto “ministri dei misteri divini” nella nuova alleanza e mediatori del popolo attraverso la preghiera. Questo legame non è messo in discussione dalla legislazione trullana, anzi è in certo qual modo sottolineato dall'obbligo della continenza periodica. Giustamente nota Cochini: “Si può supporre che, se l'uso della celebrazione quotidiana si fosse stabilito nelle Chiese d'Oriente, l'argomento a fortiori sviluppato da Siricio avrebbe certo avuto effetti simili nella legislazione bizantina del settimo secolo. O, invece, sarebbe stato difficile ai latini mantenere il principio di una continenza giornaliera se, in un modo o nell'altro, la preghiera degli intercessori del popolo di Dio non fosse stata da essi concepita come una missione ininterrotta” (14). 

I Padri dei primi secoli indicano spesso il celibato e la continenza perfetta come un libero dono gratuito di Dio da accogliere con fede e costante preghiera. Perciò i Vescovi consideravano significativo e necessario interrogare il candidato agli ordini maggiori sulla sua disponibilità ad osservare la perfetta continenza. Chi dava il suo assenso, poteva essere certo di averne ricevuto il carisma tanto da loro desiderato e implorato dall'alto. Anche se l'obbligo della continenza si ricollegava sotto qualche aspetto alla prassi cultuale del giudaismo e del paganesimo come eminente espressione di religioso rispetto davanti a Dio, sin dalle origini assunse per il ministro ecclesiale il senso di dedizione totale libera e gioiosa al Padre e a tutti i fratelli, che andava realizzata esistenzialmente, in unità di culto e di vita sempre disponibile, soprattutto nella Celebrazione Eucaristica, attualizzazione dell'offerta sacrificale di Cristo per unificare i figli di Dio che erano dispersi (Gv 11, 52). Il pregio dell'indagine storica di Heid sta nell'aver presentato con obiettività come l'intera Chiesa subito comprese che il legame tra sacerdozio e celibato fluisce coerentemente dallo stile di vita di Gesù, testimoniato dal Vangelo, da cui sono nati impulsi per determinate attuazioni. Ora Gesù, che si è donato come sposo una volta per sempre a tutta la Chiesa e si rivolge, attraverso di essa, all'umanità senza discriminazione alcuna, ha costituito il ministero ordinato. Lo stile di vita dei ministri, che deve riflettere in modo particolare quello del Maestro, si è concretizzato sin dal periodo apostolico anche con il celibato o almeno con la perfetta continenza, senza affatto svilire il valore del matrimonio, anzi confermandolo con la propria testimonianza. Essendo il celibato secondo il Nuovo Testamento una delle forme più importanti della sequela di Cristo, esso è stato praticato ed esigito senza che fosse in alcun modo violata la libertà di coloro che, conformati a Cristo con l'ordinazione, avevano anche la missione di testimoniare che la Chiesa fa costante riferimento a Cristo come suo unico sposo. Nel mondo d'oggi, in cui alcuni non sembrano percepire facilmente il senso del celibato sacerdotale, è indispensabile offrirne la vera giustificazione nella sequela di Cristo, inserirlo nell'ambito della radicalità evangelica, anche se non nella modalità della vita consacrata, e sottolineare, tra l'altro, che per il celibato che Gesù offre al sacerdote, questi non è isolato né allontanato dal mondo ma, secondo una visuale di fede, è pienamente incarnato, inserito nella storia e in comunione con tutti. Merito anche di Heid è l'aver fatto vedere lo sviluppo della comprensione del celibato e della continenza sacerdotale nei primi secoli, anche se non sono mancate difficoltà e contrasti. Si sono quindi già allora poste le basi indispensabili per comprendere in ogni tempo il ministero sacerdotale nella sua verità e bellezza e per attuarlo con dedizione totale e gioia profonda. 
 

Note:

1) Stefan Heid, Zölibat in der frühen Kirche. Die Anfänge einer Enthaltsamkeitsflicht für Kleriker in Ost und West, Ferdinand Schoening, Paderborn-Monaco-Vienna-Zurigo 1997, 339pp. 
2) Gryson R., Dix Ans de Recherches sur les Origines du Célibat ecclésiastique. Réflexion sur le pubblications des années 19701979, in Revue Théologique de Louvain 11 (1980) 157-185. Id., Les Origines du Célibat ecclésiastique du premier au septième siècle, Gembloux 1970. 
3) Franzen A., Zölibat und Priesterehe in der Auseinandersetzung der Reformationszeit und der katholischen Reform des 16. Jh.s., Münster, ed. 2, 1970. (Celibato e matrimonio dei preti nelle controversie del tempo della Riforma e della Riforma cattolica). 
4) Denzler G., Zur Geschichte des Zölibats, Freiburg, 1993 (Storia del celibato). 
5) Cochini C. Origines apostoliques du célibat sacerdotal, Le Sycamore, LetuielleuxNamur-Paris 1981; Id., “Il Celibato sacerdotale nella tradizione primitiva della Chiesa”, in G. Pittau-C. Sepe (curr), Identità e missione del sacerdote, Città Nuova, Roma 1994, pp. 166-189. 
6) Cholij R. “Il celibato nei Padri e nella storia della Chiesa”, in Solo per amore, ed. Paoline, Cinisello Balsamo 1993, pp. 27-47; Id., Clerical Celibacy in East and West, Hereforshire 1989. 
7) Stickler A.M., Il celibato ecclesiastico. La sua storia e i suoi fondamenti teologici, Lib. Ed. Vaticana, Città del Vaticano 1994; Id. ; “Evoluzione della disciplina del celibato nella Chiesa d'Occidente dalla fine dell'età patristica al Concilio di Trento”, in Coppens J (cur.), Sacerdozio e celibato, ed., Ancora, Roma 1975, pp. 505-509. Cfr anche Cattaneo E. I ministeri nella Chiesa antica. Testi patristici dei primi tre secoli, ed., Paoline, Cinisello Balsamo 1997, pp. 132-144.
8) Citato da Cochini, “Fondamenti storici del celibato sacerdotale”, in Sacrum Ministerium 3 (1997) 2, 74. 
9) Così Girolamo, Contro Gioviniano 1, 35, scrive: Oportet ergo episcopum irrepreehnsibilem esse, ut nulli vitio mancipatus sit; unius uxoris virum qui unam uxorem habuerit, non habeat, PL 232, 470. 
10) Gryson R. Les Origines du Célibat, cit. p. 127. 
11) In Contro Vigilanzio 2, PL 23, 2, 356, s. Girolamo fa osservare con impeto: “Che farebbero le Chiese d'Oriente? Che farebbero quelle dell'Egitto e della Sede apostolica, che accettano solo chierici celibi o continenti, o che, se hanno avuto una moglie, hanno rinunciato alla vita matrimoniale?”. 
12) Novella 6, cap. I. 
13) Novella 123 (546), cap. 29. 14) Cochini, Il celibato sacerdotale..., cit., p. 185.






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Lepanto, 7 ottobre 1571: battaglia navale, la maggiore a memoria d'uomo

Lepanto, 7 ottobre 1571



Ricordiamo la crociata di san Pio V contro i Turchi che portò alla gloriosa vittoria di Lepanto pubblicando alcune pagine di Ludwig von Pastor, tratte dalla sua monumentale Storia dei Papi. Dopo che s'era discusso per lo spazio di più che tre settimane, finalmente ai 16 di settembre avvenne la partenza da Messina. Diversità d'idee e dissapori si verificarono tuttavia anche altrimenti fra i capitani: ma tutti sentivano che s'andava incontro alla battaglia decisiva. Le ciurme vi si prepararono anche col ricevere i santi sacramenti dai Cappuccini e Gesuiti addetti alla flotta (225). Divisa in quattro squadre, la flotta della lega volse verso Corfù radunandosi poi nel porto di Gomenitsa sulla costa dell'Albania. Ivi in conseguenza d'un'arbitraria azione di Venier contro uno spagnuolo si venne a un litigio con Don Juan, che senza l'avveduto intervento di Colonna avrebbe potuto avere le peggiori conseguenze. Si concordò che intanto Agostino Barbarigo assumesse le veci di Venier. 

Nel frattempo, degli esploratori fecero sapere che la flotta turca era nel porto di Lepanto, l'antica Naupatto. I giorni seguenti passarono in mutua osservazione. Frattanto arrivò la nuova della caduta di Famagosta avvenuta il 1° agosto, dell'obbrobriosa mancanza alla parola commessa dai Turchi e della crudele esecuzione dell'eroico Bragadino. I Turchi avevano scorticato vivo l'infelice, imbottitane la pelle, che, vestita dell'abito veneziano rispondente all'officio, fu trascinata per la città! (226) La novella di questi orrori andò diffondendosi prestamente e tutti i combattenti anelavano alla vendetta. Presi tutti i provvedimenti necessarii per una battaglia, la flotta nella notte del 6 ottobre nonostante vento sfavorevole fece vela, tenendosi strettamente alle isole rupestri delle Curzolari, note nell'antichità col nome di Echinadi, verso l'ampio golfo di Patrasso. 

Allorchè la mattina seguente, per lo stretto canale fra l'isola Oscia e il capo Scrofa si entrò in quel golfo, Don Juan dopo breve con siglio con Venier (227) diede con un colpo di cannone il segno di disporsi per l'attacco, facendo nello stesso tempo issare all'albero maestro della sua nave il vessillo della Santa lega (228). Gli ecclesiastici addetti alla flotta impartirono l'assoluzione generale: ancora una breve, fervida preghiera e poi da migliaia di voci risuonò il grido: Vittoria! Vittoria! Viva Cristo! (229) Le forze a fronte erano molto considerevoli e a un dipresso egualmente forti. I Turchi disponevano di 222 galere, 60 altri vascelli, 750 cannoni, 34,000 soldati, 13,000 marinai e 41,000 schiavi rematori; i cristiani di 207 galere (105 veneziane, 81 spagnuole, 12 pontificie, 3 di Malta, Genova e Savoia ciascuna), 30 altri vascelli, 6 grandi galere o galeazze che «sembravano castelli», 1800 cannoni, 30,000 soldati, 12,900 marinai e 43,000 rematori (230). 

Seguendo la tattica d'allora Don Juan aveva diviso la flotta in quattro squadre quasi egualmente forti e distinte dai colori delle bandiere. Le sei galeazze dei veneziani comandate da Francesco Duodo costituivano l'avanguardia e colla loro superiore artiglieria dovevano spaventare e mettere in disordine i Turchi (231). Dietro ad esse veleggiavano in linea dritta le prime tre squadre, avendo il comando dell'ala sinistra il provveditore veneziano Agostino Barbarigo, della destra l'ammiraglio spagnuolo Doria, del centro Don Juan. Ai due lati della sua nave ammiraglia veleggiavano Colonna e Venier. La quarta squadra sotto Alvaro de Bazan, marchese di Santa Cruz (232), formava la retroguardia. 

Comandava l'ala sinistra della flotta turca il rinnegato calabrese Uluds Alì (Occhiali) (233), pascià d'Algeri, la destra Mohammed Saulak, governatore d'Alessandria, il centro il generalissimo grand’ammiraglio Muesinsade Alì. 

Verso mezzogiorno si calma il vento favorevole ai Turchi. Mentre che il sole sfolgora dal cielo senza nubi, le due flotte s’urtano una contro l'altra, una sotto il vessillo del Crocefisso, l'altra sotto la bandiera purpurea del sultano col nome di Allah ricamato a lettere d'oro. I Turchi cercano di oltrepassare i loro nemici alle due estremità. Al fine di impedire la cosa, Doria distende la sua linea di battaglia tanto che fra l'ala destra e il centro si forma un vuoto, nel quale il nemico può facilmente penetrare. 

Mentre qui la lotta prende una piega pericolosa e Doria in seguito ad abili manovre dei Turchi è spinto con 50 galere verso il mare aperto, la battaglia si svolge molto felicemente all'ala sinistra. Ivi i veneziani combattono contro forze preponderanti con altrettanta tenacia che successo, sebbene il loro capo, il Barbarigo, colpito a un occhio da una freccia, cada mortalmente ferito. Più violenta ondeggia la battaglia al centro. Là Don Juan che ha a bordo 300 vecchi soldati spagnuoli (234), muove direttamente contro la nave di Alì, sulla quale trovansi 400 giannizzeri. Con lui partecipano valorosamente alla sanguinosa lotta, che rimane a lungo indecisa, le galere di Colonna, Requesens, Venier e dei principi di Parma e Urbino. La morte del grande ammiraglio turco Alì, la cui ricca galera viene saccheggiata dai soldati di Don Juan e di Colonna, reca la decisione alle ore 4 circa del pomeriggio. Allorquando i Turchi apprendono il disfacimento del loro centro, anche la loro ala sinistra cede e in conseguenza Uluds deve interrompere la lotta con Doria e pensare alla sua ritirata, che egli eseguisce aprendosi fra gravi perdite la via con 40 galere verso Santa Maura e Lepanto (235). 

Sebbene l'esaurimento dei rematori e lo scoppio d'un violento temporale impedissero che si compisse lunga caccia dei nemici, la vittoria dei cristiani fu tuttavia completa. Rottami di navi e cadaveri coprivano in larga estensione il mare. Circa 8000 Turchi erano morti e 10.000 caduti prigioni; 117 delle loro galere caddero in mano dei cristiani e 50 erano affondate o incendiate. I vincitori perdettero 12 galere ed ebbero 7500 morti con altrettanti feriti. 

Numerosi trofei, come bandiere purpuree con iscrizioni d'oro e d'argento, con stelle e luna, e una grande parte dell'artiglieria nemica erano venuti in mano dei cristiani: 42 prigionieri appartenevano alle più ragguardevoli famiglie turche: fra essi erano il governatore di Negroponte e due figli del grande ammiraglio Alì. Il bottino più bello consistette in 12,000 schiavi cristiani applicati alle galere, fra cui 2000 spagnuoli, che dovettero alla vittoria la loro liberazione (236). Molto sangue di nobili andò versato. Mentre gli spagnuoli ebbero a deplorare la perdita di Juan de Córdova, Alfonso de Cárdena e Juan Ponce de León, i veneziani perdettero 20 nobili delle prime case della repubblica. Fabiano Graziani, fratello dello storico di questa guerra, era caduto a lato del Colonna su una galera pontificia. 

Fra i feriti trovaronsi Venier e un genio allora tuttavia ignoto al mondo, il poeta Cervantes (237). Come la spagnuola e la veneziana, così s'era coperta di gloria anche la nobiltà di Napoli, Calabria, Sicilia e specialmente dello Stato pontificio. Con Alessandro Farnese, principe di Parma, e Francesco Maria della Rovere, principe d'Urbino, si videro fra i combattenti Sforza conte di Santa Fiora, Ascanio della Corgna, Paolo Giordano Orsini di Bracciano, Virginio Orsini di Vicovaro, Orazio Orsini di Bomarzo, Pompeo Colonna, Gabrio Serbelloni, Troilo Savelli, Onorato Caetani, Lelio de' Massimi, Michele Bonelli, i Frangipani, Santa Croce, Capizuchi, Ruspoli, Gabrielli, Malvezzi, Oddi, Berardi (238). 

Con giustificato orgoglio la storiografia italiana ricorda la parte gloriosa presa da rappresentanti di tutti i territorii della penisola appenninica alla battaglia navale, che fu la maggiore a memoria d'uomo (239) Con indescrivibile tensione aveva Pio V tenuto gli occhi rivolti all'Oriente. I suoi pensieri erano continuamente presso la flotta cristiana, i suoi voti la precorrevano di molto. Giorno e notte egli in ardente preghiera la raccomandava alla protezione dell'Altissimo. Dopo che ebbe ricevuto notizia dell'arrivo di Don Juan a Messina, il papa raddoppiò le sue penitenze ed elemosine. Egli aveva ferma fiducia nella potenza della preghiera, specialmente del rosario (240). 

In un concistoro del 27 agosto Pio V invitò i cardinali a digiunare un giorno la settimana ed a fare straordinarie elemosine, solo colla penitenza potendosi sperare misericordia da Dio in sì grande distretta (241). Sua Santità -così notificò ai 26 di settembre del 1571 l'ambasciatore spagnuolo- digiuna tre giorni la settimana e dedica quotidianamente molte ore alla preghiera: ha ordinato anche preghiere nelle chiese (242). Per assicurare Roma da un'improvvisa irruzione di corsari turchi, il papa al principio di settembre aveva comandato che si terminasse la fortificazione di Borgo (243). Soltanto molto rare arrivavano notizie sull'armata cristiana e pertanto alla Curia si stava in penosa incertezza. Fu quindi come un liberazione l'apprendere finalmente ai primi di ottobre l'arrivo della flotta della lega a Corfù (244). Giunta ai 13 di ottobre la nuova che la flotta turca trovavasi a Lepanto e che quella della lega si sarebbe messa in movimento il 30 settembre, (245) non v'aveva dubbio che il cozzo era imminente. Il papa, sebbene fermamente fiducioso della vittoria delle armi cristiane (246), ordinò tuttavia straordinarie preghiere diurne e notturne in tutti i monasteri di Roma: egli poi in simili esercizi andava avanti a tutti col migliore esempio (247). La sua preghiera doveva finalmente venire esaudita. Nella notte dal 21 al 22 ottobre arrivò un corriere mandato dal nunzio a Venezia Facchinetti e rimise al cardinal Rusticucci che dirigeva gli affari della segreteria di Stato una lettera del Facchinetti contenente la notizia portata a Venezia il 19 ottobre da Giofrè Giustiniani della grande vittoria ottenuta presso Lepanto sotto l'ottima direzione di Don Juan (248). Il cardinale fece tosto svegliare il papa, che prorompendo in lagrime di gioia pronunziò, le parole del vecchio Simeone: «nunc dimittis servum tuum in pace». Si alzò subito per ringraziare Iddio in ginocchio e poi ritornò in letto, ma per la lieta eccitazione non potè trovar sonno (249). La mattina seguente si recò a S. Pietro per nuova calda preghiera di ringraziamento, ricevendo poscia gli ambasciatori e cardinali ai quali disse che ora dovevansi fare nel prossimo anno gli sforzi estremi per continuare la guerra turca (250). 

In quest'occasione egli alludendo al nome di Don Juan ripetè le parole della Scrittura: «fuit homo missus a Deo, cui nomen erat Ioannes». (…) Tanto Colonna quanto il papa avevano chiara coscienza di quanto mancasse ancora per raggiungere la grande meta dell'abbattimento della potenza degli ottomani: ambedue erano così concordi sui passi da intraprendersi che Pio V associò il suo esperimentato ammiraglio ai cardinali deputati per gli affari della lega, che dal 10 dicembre tenevano quasi ogni giorno coi rappresentati di Spagna, Requesens e Pacheco, e cogli inviati di Venezia due sedute (278), spesso della durata di cinque ore (279). Sotto pena di scomunica riservata al papa tutto era tenuto rigorosissimamente segreto, perchè il sultano aveva mandato a Roma degli spioni parlanti italiano (280). 

Nelle consulte ordinate dal papa nei mesi di ottobre e novembre era venuta in prima linea la provvista dei mezzi finanziarii (281); ora trattavasi principalmente dello scopo dell'impresa da compiersi nella prossima primavera. E qui solo malamente i rappresentanti sia di Spagna, sia di Venezia potevano nascondere la gelosia e avversione, che nutrivano a vicenda. Gli interessi particolari dei due alleati emersero sì fortemente che venne messa in forse qualsiasi azione comune. I veneziani volevano servirsi della lega non solo per riavere Cipro, ma anche per fare nuove conquiste in Levante. Filippo II, invece, avverso ad ogni rafforzamento della repubblica di S. Marco, fece dichiarare dal Requesens che la lega doveva in primo luogo muovere contro gli stati berbereschi dell’Africa, perchè questi tornassero in possesso della Spagna. In questa proposta i veneziani videro una trappola per impedirli dalla riconquista di Cipro ed esporli al pericolo di perdere anche Corfù mentre la loro flotta combatteva gli stati berbereschi pel re di Spagna (282). 


A Venezia ritenevasi ora sicuro che Filippo II volesse trarre il maggior utile possibile nel suo proprio interesse dalle forze della lega. Non può dirsi con certezza quanto le lagnanze per ciò sollevate siano giustificate. Per giudicare rettamente il re di Spagna va in ogni modo tenuto conto del contegno della Francia, il cui governo fu abbastanza svergognato da proporre al sultano subito dopo la battaglia di Lepanto un'alleanza diretta contro la Spagna. Filippo II era perfettamente a giorno delle trattative che la Francia conduceva non solo col sultano, ma anche cogli ugonotti, i capi della rivoluzione neerlandese e con Elisabetta d'Inghilterra. In conseguenza egli doveva fare i conti con un contemporaneo attacco d'una coalizione franco-neerlandese-inglese-turca. Non fu pertanto solo gelosia verso Venezia quella che guidò il re cattolico (283). 

Del resto lo stesso Don Juan confessò ch'era contro il tenore del patto della lega rinunciare alla guerra contro il sultano a favore di un'impresa in Africa (284). Di fronte al contrasto degli interessi spagnuoli e veneziani Pio V continuò a rappresentare la concezione più vasta e sommamente disinteressata: egli pensava alla liberazione di Gerusalemme, a cui doveva precedere la conquista di Costantinopoli (285). Ma, come scrisse Zúñiga all’Alba il 10 novembre 1571, un colpo efficace nel cuore della potenza ottomana era possibile soltanto in vista di un attacco contemporaneo e all'impensata per terra e per mare (286). Di qui i continuati sforzi di Pio V per arrivare a una coalizione europea contro i Turchi. 

Se a questo riguardo nulla era da sperarsi dalla Francia (287), che nel luglio aveva mandato un ambasciatore in Turchia (288), egli tuttavia sperava di guadagnare all'idea almeno altre potenze, prima di tutti l’imperatore, poi Polonia e Portogallo. A dispetto di tutti gli insuccessi finallora incontrati egli coi suoi legati e nunzi continuò a spingere sempre a questa meta (289). Pio V cercava di utilizzare al possibile a questo riguardo il più leggero segno di buona volontà. Così prese occasione dalle frasi generiche, con cui Massimiliano II assicurò di essere disposto ad aiutare la causa cristiana, per dargli l'aspettativa da parte degli alleati di un aiuto di 20,000 uomini a piedi e di 2000 a cavallo. L'imperatore ringraziò ai 25 di gennaio del 1572 dell'offerta deplorando di non potere subito decidersi in un negozio di tale importanza (290). 

A Roma il duca di Urbino fece risaltare che c'era poco da sperare da Massimiliano ed anzi nulla dai principi tedeschi, specialmente dai protestanti. In un memoriale del papa del gennaio 1572 egli sostenne con buone ragioni l'idea che la guerra dovesse condursi là dove esercito e flotta potessero operare congiunte e dove «noi siamo padroni della situazione», quindi principalmente colla flotta in Levante. Se i Turchi venissero attaccati in Europa dall'imperatore e dalla Polonia, tanto meglio; ma la cosa principale è che si attacchi tosto, perchè chi semplicemente si difende non combatte; chi vuole conquistare deve andare avanti risoluto. La lega quindi si volga contro Gallipoli aprendosi così lo stretto dei Dardanelli (291). 

Ma per tale impresa era incondizionatamente necessaria una intesa della Spagna con Venezia, mentre invece i loro rappresentanti da mesi altercavano a Roma nel modo più spiacevole. Quando finalmente i veneziani fecero la proposta, conforme alle clausole del patto della lega del maggio 1571, di far decidere dal papa i punti contestati, anche la Spagna non osò fare opposizione. Decise Pio V che la guerra della lega dovesse continuarsi nel Levante, che nel marzo la flotta pontificia si riunisse con la spagnuola a Messina e s'incontrasse con la veneta a Corfù, donde le tre forze unite dovevano procedere secondo gli ordini dei loro ammiragli, che gli alleati aumentassero, potendolo, le loro galere fino a 250 e procurassero secondo la proporzione prescritta nel patto della lega 32,000 soldati e 500 cavalieri oltre alla corrispondente artiglieria e munizioni e che alla fine di giugno dovessero trovarsi riuniti a Otranto 11,000 soldati (1000 pontifici, 6000 spagnuoli e 4000 veneziani). Ognuno degli alleati doveva preparare vettovaglie per sette mesi (292). Queste convenzioni vennero sottoscritte il 10 febbraio 1572 (293). Il 16 Pio V ammonì il gran maestro dei Gerosolimitani di tenere pronte le sue galere a Messina (294). I preparativi nello Stato pontificio, pei quali il denaro venne procurato principalmente col «Monte della Lega» (295), furono spinti avanti sì alacremente che nello stesso giorno si potè inviare ad Otranto 1800 uomini (296). 

A Civitavecchia erano pronte tre galere ed altre là erano attese da Livorno (297). Il papa era tutto pieno del pensiero della crociata: egli viveva e movevasi nel progetto, di cui fin dal principio era stato da solo l'anima. Per dieci anni, così si espresse Pio V col cardinale Santori, deve farsi guerra ai Turchi per mare e per terra (298). La bolla del giubileo, in data 12 marzo 1572, concedeva a tutti coloro, che prendevano essi stessi le armi o volevano equipaggiare un altro o contribuire con denaro, le stesse indulgenze che per il passato avevano acquistate i crociati; i beni di quelli, che partivano per la guerra, dovevano essere sotto la protezione della Chiesa nè potevano venire pregiudicati da chicchessia; tutte le loro liti dovevano sospendersi fino al loro ritorno o a che ne fosse accertata la morte ed essi dovevano restare esenti da ogni tributo (299). 

Da una notizia del 15 marzo 1572 appare quanto la faccenda tenesse occupato il papa: in questa settimana si sono tenute in Vaticano niente meno che tre consulte in proposito (300). Per infervorare Don Juan, alla fine di marzo del 1572 gli vennero mandati come speciale distinzione lo stocco e il berretto benedetti a Natale (301). Con nuove speranze Pio V guardava al futuro: buona ventura gli risparmiò di vedere che la gloriosa vittoria di Lepanto rimanesse senza immediate conseguenze strategiche e politiche a causa della gelosia e dell’egoismo degli spagnuoli e veneziani, che dal febbraio 1572 disputarono sulle spese della spedizione dell'anno passato (302). Tanto più grandi furono però gli effetti mediati. 

Quanto profondamente venisse scosso l'impero del sultano, risulta dal movimento che prese i suoi sudditi cristiani. Non era affatto ingiustificata la speranza d'una insurrezione di cui sarebbe stata la base la popolazione cristiana di Costantinopoli e Pera, che contava 40,000 uomini (303). Aggiungevasi la sensibile perdita della grande flotta, che d'un colpo era stata annientata con tutta l'artiglieria e l'equipaggio difficile a surrogarsi. Se anche, in seguito della grandiosa organizzazione dell'impero e della straordinaria attività di Occhiali, si riuscì a creare un nuovo equivalente, l'avvenire doveva tuttavia insegnare che dalla battaglia di Lepanto data la lenta decadenza di tutta la forza navale di Turchia: era stato messo un termine al suo avanzare e l'incubo della sua invincibilità era stato per la prima volta distrutto (304). Ciò sentì istintivamente il mondo cristiano ora respirante più agevolmente. 

Di qui la letizia interminabile, che passò rumorosa per tutti i paesi (305). «Fu per noi tutti come un sogno», scrisse l’11 novembre 1571 a Don Juan da Madrid Luis de Alzamara; «credemmo di riconoscere l'immediato intervento di Dio» (306). Le chiese de’ paesi cattolici risuonarono dell'inno di ringraziamento, il «Te Deum» (307). Primo fra tutti Pio V richiamò il pensiero al cielo: nelle medaglie commemorative, che fece coniare, egli pose le parole del salmista: «la destra del Signore ha fatto cose grandi; da Dio questo proviene» (308). Poichè la battaglia era stata guadagnata la prima domenica d'ottobre, in cui a Roma le confraternite del rosario facevano le loro processioni, Pio V considerò autrice della vittoria la potente interceditrice, la misericordiosa madre della cristianità e quindi ordinò che ogni anno nel giorno della battaglia si celebrasse una festa di ringraziamento come «commemorazione della nostra Donna della vittoria» (309). Addì 1° aprile 1573 il suo successore Gregorio XIII stabilì che la festa venisse in seguito celebrata come festa del Rosario la prima domenica d'ottobre (310). In Ispagna e Italia, i paesi più minacciati dai Turchi, sorsero ben presto chiese e cappelle dedicate a «Maria della Vittoria» (311). Il senato veneto pose sotto la rappresentazione della battaglia nel palazzo dei dogi le parole: «nè potenza e armi nè duci, ma la Madonna del Rosario ci ha aiutato a vincere» (312). Molte città, come ad es. Genova (313), fecero dipingere la Madonna del Rosario sulle loro porte ed altre introdussero nelle loro armi l'immagine di Maria che sta sulla mezza luna.

Tratto da: Ludwig von Pastor, Storia dei Papi. Dalla fine del medio evo, Desclée, Roma 1950, vol. 8, 1566-1572

lunedì 6 ottobre 2014

La Palabra Eterna es el fundamento sobre el que se asienta la Iglesia. No es al revés.


28 sep 2014 Aferraos a la Verdad en todo momento, ya que sin ella, estaréis viviendo una mentira

05.10.2014 23:30
Domingo 28 de septiembre de 2014 a las 18:15 hrs.

Mi muy querida bienamada hija, la Palabra de Dios, como fué establecida por Él, y la Palabra dictada a Mis Santos Apóstoles, fue la base sobre la que Mi Cuerpo Místico, la Iglesia, fue construida.
La Palabra Eterna es el fundamento sobre el que se asienta la Iglesia. No es al revés. La Palabra de Dios es Eterna – está fundida en piedra. Es el fundamento de la Verdad. La base de Mi Iglesia no puede ser sacudida, pero el edificio que está edificado sobre ella, puede ser cambiado y modificado. Sin embargo, si el edificio cambia, entonces la fundación no podrá sostenerlo si se aparta de la estructura del edificio para el que fue diseñado.
La Palabra de Dios nunca podrá ser modificada, ya que nunca puede cambiar. Porque ¿cómo podría? Dios no dijo una cosa para que signifique otra. La Iglesia debe estar al servicio de la Palabra de Dios. La Palabra de Dios no está al servicio de aquellos miembros de Mi Iglesia que puedan sentirse de forma diferente. Atrévanse a manipular la Palabra y vosotros me traicionaréis a Mí, Jesucristo. Yo Soy la Iglesia. Mi Cuerpo es la Iglesia y todo lo que brota de Mí es sagrado. Porque en tanto que la Verdad sea sostenida por vosotros, siervos sagrados Míos, podéis representarme. Mientras vosotros confiéis en Mí y me honréis y os aseguréis de que los procedimientos adecuados estén en su lugar dentro de Mi Iglesia, entonces podéis decir que sois Míos.
Cuando Dios dictó los Evangelios, por el Poder del Espíritu Santo, la Palabra ha sido presentada utilizando diferentes expresiones, pero, de cualquier manera, sigue siendo la misma. Cuando Dios habló a través de los profetas y esos apóstoles Míos, bendecidos con el Don del Espíritu Santo, el lenguaje era claro, sencillo y con autoridad. Lo mismo se puede decir de hoy, cuando Dios habla a Sus profetas. El lenguaje es claro y simple y es entregado con autoridad, porque viene de Dios. Las palabras pronunciadas por Mí, vuestro Redentor, son fieles a Mi Santa Palabra contenida en las Escrituras, porque vienen de la misma Mano. Por lo tanto, todo el que os dé una nueva versión de la Verdad, que sea difícil de entender, difícil de seguir y vaga, tened cuidado. Cuando la Verdad es torcida, una doctrina falsa emanará de ella. Estará llena de agujeros; ilógica y exactamente lo contrario de la Santa Palabra de Dios.
Cuando os digan que Dios aceptará el pecado por Su Misericordia sabed que esto es una mentira. Dios aceptará el alma arrepentida, pero nunca el pecado, porque esto es imposible.
Aferraos a la Verdad en todo momento, ya que sin ella, estaréis viviendo una mentira.
Vuestro Jesús



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