mercoledì 15 gennaio 2014

Quel Discorso fondamentale!


DISCORSO DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

ALLA CURIA ROMANA IN OCCASIONE 
DELLA PRESENTAZIONE DEGLI AUGURI NATALIZI

Giovedì, 22 dicembre 2005

Signori Cardinali,

venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Presbiterato,
cari fratelli e sorelle!


Expergiscere, homo: quia pro te Deus factus est homo - Svegliati, uomo, poiché per te Dio si è fatto uomo” (S. Agostino, Discorsi, 185). Con quest’invito di Sant’Agostino a cogliere il senso autentico del Natale di Cristo, apro il mio incontro con voi, cari collaboratori della Curia Romana, in prossimità ormai delle festività natalizie. A ciascuno rivolgo il mio saluto più cordiale, ringraziandovi per i sentimenti di devozione e di affetto, di cui si è fatto efficace interprete il Cardinale Decano, al quale va il mio pensiero riconoscente. 

Iddio si è fatto uomo per noi: è questo il messaggio che ogni anno dalla silenziosa grotta di Betlemme si diffonde sin nei più sperduti angoli della terra. Il Natale è festa di luce e di pace, è giorno di interiore stupore e di gioia che si espande nell’universo, perché “Dio si è fatto uomo”. Dall’umile grotta di Betlemme l’eterno Figlio di Dio, divenuto piccolo Bambino, si rivolge a ciascuno di noi: ci interpella, ci invita a rinascere in lui perché, insieme a lui, possiamo vivere eternamente nella comunione della Santissima Trinità.

Con il cuore colmo della gioia che deriva da questa consapevolezza, riandiamo col pensiero alle vicende dell’anno che volge al suo tramonto. Stanno alle nostre spalle grandi avvenimenti, che hanno segnato profondamente la vita della Chiesa. 

Penso innanzitutto alla dipartita del nostro amato Santo Padre Giovanni Paolo II, preceduta da un lungo cammino di sofferenza e di graduale perdita della parola. Nessun Papa ci ha lasciato una quantità di testi pari a quella che ci ha lasciato lui; nessun Papa in precedenza ha potuto visitare, come lui, tutto il mondo e parlare in modo diretto agli uomini di tutti i continenti. Ma, alla fine, gli è toccato un cammino di sofferenza e di silenzio. Restano indimenticabili per noi le immagini della Domenica delle Palme quando, col ramo di olivo nella mano e segnato dal dolore, egli stava alla finestra e ci dava la benedizione del Signore in procinto di incamminarsi verso la Croce. 
Poi l'immagine di quando nella sua cappella privata, tenendo in mano il Crocifisso, partecipava alla Via Crucis nel Colosseo, dove tante volte aveva guidato la processione portando egli stesso la Croce. 
Infine la muta benedizione della Domenica di Pasqua, nella quale, attraverso tutto il dolore, vedevamo rifulgere la promessa della risurrezione, della vita eterna. 
Il Santo Padre, con le sue parole e le sue opere, ci ha donato cose grandi; ma non meno importante è la lezione che ci ha dato dalla cattedra della sofferenza e del silenzio. 

Nel suo ultimo libro “Memoria e Identità” (Rizzoli 2005) ci ha lasciato un’interpretazione della sofferenza che non è una teoria teologica o filosofica, ma un frutto maturato lungo il suo personale cammino di sofferenza, da lui percorso col sostegno della fede nel Signore crocifisso. Questa interpretazione, che egli aveva elaborato nella fede e che dava senso alla sua sofferenza vissuta in comunione con quella del Signore, parlava attraverso il suo muto dolore trasformandolo in un grande messaggio. Sia all'inizio come ancora una volta alla fine del menzionato libro, il Papa si mostra profondamente toccato dallo spettacolo del potere del male che, nel secolo appena terminato, ci è stato dato di sperimentare in modo drammatico. Dice testualmente: “Non è stato un male in edizione piccola… È stato un male di proporzioni gigantesche, un male che si è avvalso delle strutture statali per compiere la sua opera nefasta, un male eretto a sistema" (pag. 198). Il male è forse invincibile? È la vera ultima potenza della storia? A causa dell'esperienza del male, la questione della redenzione, per Papa Woytiła, era diventata l'essenziale e centrale domanda della sua vita e del suo pensare come cristiano. Esiste un limite contro il quale la potenza del male s'infrange? Sì, esso esiste, risponde il Papa in questo suo libro, come anche nella sua Enciclica sulla redenzione. Il potere che al male mette un limite è la misericordia divina. Alla violenza, all'ostentazione del male si oppone nella storia – come “il totalmente altro” di Dio, come la potenza propria di Dio – la divina misericordia. L'agnello è più forte del drago, potremmo dire con l'Apocalisse.

Alla fine del libro, nello sguardo retrospettivo sull'attentato del 13 maggio 1981 ed anche sulla base dell'esperienza del suo cammino con Dio e con il mondo, Giovanni Paolo II ha approfondito ulteriormente questa risposta. Il limite del potere del male, la potenza che, in definitiva, lo vince è – così egli ci dice – la sofferenza di Dio, la sofferenza del Figlio di Dio sulla Croce: “La sofferenza di Dio crocifisso non è soltanto una forma di sofferenza accanto alle altre… Cristo, soffrendo per tutti noi, ha conferito un nuovo senso alla sofferenza, l'ha introdotta in una nuova dimensione, in un nuovo ordine: quello dell'amore… La passione di Cristo sulla Croce ha dato un senso radicalmente nuovo alla sofferenza, l'ha trasformata dal di dentro… È la sofferenza che brucia e consuma il male con la fiamma dell'amore… Ogni sofferenza umana, ogni dolore, ogni infermità racchiude una promessa di salvezza… Il male… esiste nel mondo anche per risvegliare in noi l'amore, che è dono di sé… a chi è visitato dalla sofferenza… Cristo è il Redentore del mondo: ‘Per le sue piaghe noi siamo stati guariti’ (Is 53, 5)” (pag. 198 ss.). Tutto questo non è semplicemente teologia dotta, ma espressione di una fede vissuta e maturata nella sofferenza. Certo, noi dobbiamo fare del tutto per attenuare la sofferenza ed impedire l'ingiustizia che provoca la sofferenza degli innocenti. Tuttavia dobbiamo anche fare del tutto perché gli uomini possano scoprire il senso della sofferenza, per essere così in grado di accettare la propria sofferenza e unirla alla sofferenza di Cristo. In questo modo essa si fonde insieme con l'amore redentore e diventa, di conseguenza, una forza contro il male nel mondo. La risposta che si è avuta in tutto il mondo alla morte del Papa è stata una manifestazione sconvolgente di riconoscenza per il fatto che egli, nel suo ministero, si è offerto totalmente a Dio per il mondo; un ringraziamento per il fatto che egli, in un mondo pieno di odio e di violenza, ci ha insegnato nuovamente l'amare e il soffrire a servizio degli altri; ci ha mostrato, per così dire, dal vivo il Redentore, la redenzione, e ci ha dato la certezza che, di fatto, il male non ha l'ultima parola nel mondo.


Due altri avvenimenti, avviati ancora da Papa Giovanni Paolo II, vorrei ora menzionare, se pur brevemente: si tratta della Giornata Mondiale della Gioventù celebrata a Colonia e del Sinodo dei Vescovi sull'Eucaristia che ha concluso anche l'Anno dell’Eucaristia, inaugurato da Papa Giovanni Paolo II.

La Giornata Mondiale della Gioventù è rimasta nella memoria di tutti coloro che erano presenti come un grande dono. Oltre un milione di giovani si radunarono nella Città di Colonia, situata sul fiume Reno, e nelle città vicine per ascoltare insieme la Parola di Dio, per pregare insieme, per ricevere i sacramenti della Riconciliazione e dell'Eucaristia, per cantare e festeggiare insieme, per gioire dell’esistenza e per adorare e ricevere il Signore eucaristico durante i grandi incontri del sabato sera e della domenica. Durante tutti quei giorni regnava semplicemente la gioia. A prescindere dai servizi d'ordine, la polizia non ebbe niente da fare – il Signore aveva radunato la sua famiglia, superando sensibilmente ogni frontiera e barriera e, nella grande comunione tra di noi, ci aveva fatto sperimentare la sua presenza. Il motto scelto per quelle giornate – “Andiamo ad adorarlo” – conteneva due grandi immagini che, fin dall'inizio, favorirono l'approccio giusto. Vi era innanzitutto l'immagine del pellegrinaggio, l'immagine dell'uomo che, guardando al di là dei suoi affari e del suo quotidiano, si mette alla ricerca della sua destinazione essenziale, della verità, della vita giusta, di Dio. Questa immagine dell'uomo in cammino verso la meta della vita racchiudeva in se ancora due indicazioni chiare. C'era innanzitutto l’invito a non vedere il mondo che ci circonda soltanto come la materia grezza con cui noi possiamo fare qualcosa, ma a cercare di scoprire in esso la “calligrafia del Creatore”, la ragione creatrice e l'amore da cui è nato il mondo e di cui ci parla l'universo, se noi ci rendiamo attenti, se i nostri sensi interiori si svegliano e acquistano percettività per le dimensioni più profonde della realtà. Come secondo elemento si aggiungeva poi l'invito a mettersi in ascolto della rivelazione storica che, sola, può offrirci la chiave di lettura per il silenzioso mistero della creazione, indicandoci concretamente la via verso il vero Padrone del mondo e della storia che si nasconde nella povertà della stalla di Betlemme. 

L'altra immagine contenuta nel motto della Giornata Mondiale della Gioventù era l'uomo in adorazione: “Siamo venuti per adorarlo”. Prima di ogni attività e di ogni mutamento del mondo deve esserci l'adorazione. Solo essa ci rende veramente liberi; essa soltanto ci dà i criteri per il nostro agire. Proprio in un mondo in cui progressivamente vengono meno i criteri di orientamento ed esiste la minaccia che ognuno faccia di se stesso il proprio criterio, è fondamentale sottolineare l'adorazione. Per tutti coloro che erano presenti rimane indimenticabile l’intenso silenzio di quel milione di giovani, un silenzio che ci univa e sollevava tutti quando il Signore nel Sacramento era posto sull'altare. Serbiamo nel cuore le immagini di Colonia: sono una indicazione che continua ad operare. Senza menzionare singoli nomi, vorrei in questa occasione ringraziare tutti coloro che hanno reso possibile la Giornata Mondiale della Gioventù; soprattutto, però, ringraziamo insieme il Signore, perché in definitiva solo Lui poteva donarci quelle giornate nel modo in cui le abbiamo vissute.

La parola "adorazione" ci porta al secondo grande avvenimento di cui vorrei parlare: il Sinodo dei Vescovi e l'Anno dell’Eucaristia. Papa Giovanni Paolo II, con l'Enciclica Ecclesia de Eucharistia e con la Lettera apostolica Mane nobiscum Domine ci aveva già donato le indicazioni essenziali e al contempo, con la sua esperienza personale della fede eucaristica, aveva concretizzato l'insegnamento della Chiesa. Inoltre, la Congregazione per il Culto Divino, in stretto collegamento con l'Enciclica, aveva pubblicato l'istruzione Redemptionis Sacramentum come aiuto pratico per la giusta realizzazione della Costituzione conciliare sulla liturgia e della riforma liturgica. Oltre tutto ciò, era veramente possibile dire ancora qualcosa di nuovo, sviluppare ulteriormente l’insieme della dottrina? Proprio questa fu la grande esperienza del Sinodo quando, nei contributi dei Padri, si è vista rispecchiarsi la ricchezza della vita eucaristica della Chiesa di oggi e si è manifestata l'inesauribilità della sua fede eucaristica. Quello che i Padri hanno pensato ed espresso dovrà essere presentato, in stretto collegamento con le Propositiones del Sinodo, in un documento post-sinodale. 

Vorrei qui solo sottolineare ancora una volta quel punto che, poco fa, abbiamo già registrato nel contesto della Giornata Mondiale della Gioventù: l'adorazione del Signore risorto, presente nell'Eucaristia con carne e sangue, con corpo e anima, con divinità e umanità. È commovente per me vedere come dappertutto nella Chiesa si stia risvegliando la gioia dell'adorazione eucaristica e si manifestino i suoi frutti. Nel periodo della riforma liturgica spesso la Messa considerata come Cena eucaristica e l'adorazione del Ss.mo Sacramento erano viste come in contrasto tra loro: il Pane eucaristico non ci sarebbe stato dato per essere contemplato, ma per essere mangiato, secondo un’obiezione allora diffusa. Nell'esperienza di preghiera della Chiesa si è ormai manifestata la mancanza di senso di una tale contrapposizione. Già Agostino aveva detto: “… nemo autem illam carnem manducat, nisi prius adoraverit;… peccemus non adorando - Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; … peccheremmo se non la adorassimo” (cfr Enarr. in Ps 98,9 CCL XXXIX 1385). Di fatto, non è che nell'Eucaristia riceviamo semplicemente una qualche cosa. Essa è l'incontro e l'unificazione di persone; la persona, però, che ci viene incontro e desidera unirsi a noi è il Figlio di Dio. Una tale unificazione può soltanto realizzarsi secondo le modalità dell'adorazione. Ricevere l'Eucaristia significa adorare Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui. Perciò, lo sviluppo dell'adorazione eucaristica, come ha preso forma nel corso del Medioevo, era la più coerente conseguenza dello stesso mistero eucaristico: soltanto nell'adorazione può maturare un'accoglienza profonda e vera. E proprio in questo atto personale di incontro col Signore matura poi anche la missione sociale che nell'Eucaristia è racchiusa e che vuole rompere le barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni dagli altri.

L'ultimo evento di quest’anno su cui vorrei soffermarmi in questa occasione è la celebrazione della conclusione del Concilio Vaticano II quarant'anni fa. Tale memoria suscita la domanda: Qual è stato il risultato del Concilio? È stato recepito nel modo giusto? Che cosa, nella recezione del Concilio, è stato buono, che cosa insufficiente o sbagliato? Che cosa resta ancora da fare? Nessuno può negare che, in vaste parti della Chiesa, la recezione del Concilio si è svolta in modo piuttosto difficile, anche non volendo applicare a quanto è avvenuto in questi anni la descrizione che il grande dottore della Chiesa, san Basilio, fa della situazione della Chiesa dopo il Concilio di Nicea: egli la paragona ad una battaglia navale nel buio della tempesta, dicendo fra l'altro: “Il grido rauco di coloro che per la discordia si ergono l’uno contro l’altro, le chiacchiere incomprensibili, il rumore confuso dei clamori ininterrotti ha riempito ormai quasi tutta la Chiesa falsando, per eccesso o per difetto, la retta dottrina della fede …” (De Spiritu Sancto, XXX, 77; PG 32, 213 A; SCh 17bis, pag. 524). Emerge la domanda: Perché la recezione del Concilio, in grandi parti della Chiesa, finora si è svolta in modo così difficile? Ebbene, tutto dipende dalla giusta interpretazione del Concilio o – come diremmo oggi – dalla sua giusta ermeneutica, dalla giusta chiave di lettura e di applicazione. I problemi della recezione sono nati dal fatto che due ermeneutiche contrarie si sono trovate a confronto e hanno litigato tra loro. L'una ha causato confusione, l'altra, silenziosamente ma sempre più visibilmente, ha portato frutti. Da una parte esiste un'interpretazione che vorrei chiamare “ermeneutica della discontinuità e della rottura”; essa non di rado si è potuta avvalere della simpatia dei mass-media, e anche di una parte della teologia moderna. Dall'altra parte c'è l'“ermeneutica della riforma”, del rinnovamento nella continuità dell'unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato; è un soggetto che cresce nel tempo e si sviluppa, rimanendo però sempre lo stesso, unico soggetto del Popolo di Dio in cammino. L'ermeneutica della discontinuità rischia di finire in una rottura tra Chiesa preconciliare e Chiesa postconciliare. Essa asserisce che i testi del Concilio come tali non sarebbero ancora la vera espressione dello spirito del Concilio. Sarebbero il risultato di compromessi nei quali, per raggiungere l'unanimità, si è dovuto ancora trascinarsi dietro e riconfermare molte cose vecchie ormai inutili. Non in questi compromessi, però, si rivelerebbe il vero spirito del Concilio, ma invece negli slanci verso il nuovo che sono sottesi ai testi: solo essi rappresenterebbero il vero spirito del Concilio, e partendo da essi e in conformità con essi bisognerebbe andare avanti. Proprio perché i testi rispecchierebbero solo in modo imperfetto il vero spirito del Concilio e la sua novità, sarebbe necessario andare coraggiosamente al di là dei testi, facendo spazio alla novità nella quale si esprimerebbe l’intenzione più profonda, sebbene ancora indistinta, del Concilio. In una parola: occorrerebbe seguire non i testi del Concilio, ma il suo spirito. In tal modo, ovviamente, rimane un vasto margine per la domanda su come allora si definisca questo spirito e, di conseguenza, si concede spazio ad ogni estrosità. Con ciò, però, si fraintende in radice la natura di un Concilio come tale. In questo modo, esso viene considerato come una specie di Costituente, che elimina una costituzione vecchia e ne crea una nuova. Ma la Costituente ha bisogno di un mandante e poi di una conferma da parte del mandante, cioè del popolo al quale la costituzione deve servire. I Padri non avevano un tale mandato e nessuno lo aveva mai dato loro; nessuno, del resto, poteva darlo, perché la costituzione essenziale della Chiesa viene dal Signore e ci è stata data affinché noi possiamo raggiungere la vita eterna e, partendo da questa prospettiva, siamo in grado di illuminare anche la vita nel tempo e il tempo stesso. I Vescovi, mediante il Sacramento che hanno ricevuto, sono fiduciari del dono del Signore. Sono “amministratori dei misteri di Dio” (1 Cor 4,1); come tali devono essere trovati “fedeli e saggi” (cfr Lc 12,41-48). Ciò significa che devono amministrare il dono del Signore in modo giusto, affinché non resti occultato in qualche nascondiglio, ma porti frutto e il Signore, alla fine, possa dire all'amministratore: “Poiché sei stato fedele nel poco, ti darò autorità su molto” (cfr Mt 25,14-30; Lc 19,11-27). In queste parabole evangeliche si esprime la dinamica della fedeltà, che interessa nel servizio del Signore, e in esse si rende anche evidente, come in un Concilio dinamica e fedeltà debbano diventare una cosa sola.

All'ermeneutica della discontinuità si oppone l'ermeneutica della riforma, come l'hanno presentata dapprima Papa Giovanni XXIII nel suo discorso d'apertura del Concilio l'11 ottobre 1962 e poi Papa Paolo VI nel discorso di conclusione del 7 dicembre 1965. Vorrei qui citare soltanto le parole ben note di Giovanni XXIII, in cui questa ermeneutica viene espressa inequivocabilmente quando dice che il Concilio “vuole trasmettere pura ed integra la dottrina, senza attenuazioni o travisamenti”, e continua: “Il nostro dovere non è soltanto di custodire questo tesoro prezioso, come se ci preoccupassimo unicamente dell'antichità, ma di dedicarci con alacre volontà e senza timore a quell'opera, che la nostra età esige… È necessario che questa dottrina certa ed immutabile, che deve essere fedelmente rispettata, sia approfondita e presentata in modo che corrisponda alle esigenze del nostro tempo. Una cosa è infatti il deposito della fede, cioè le verità contenute nella nostra veneranda dottrina, e altra cosa è il modo col quale esse sono enunciate, conservando ad esse tuttavia lo stesso senso e la stessa portata” (S. Oec. Conc. Vat. II Constitutiones Decreta Declarationes, 1974, pp. 863-865). È chiaro che questo impegno di esprimere in modo nuovo una determinata verità esige una nuova riflessione su di essa e un nuovo rapporto vitale con essa; è chiaro pure che la nuova parola può maturare soltanto se nasce da una comprensione consapevole della verità espressa e che, d’altra parte, la riflessione sulla fede esige anche che si viva questa fede. In questo senso il programma proposto da Papa Giovanni XXIII era estremamente esigente, come appunto è esigente la sintesi di fedeltà e dinamica. Ma ovunque questa interpretazione è stata l’orientamento che ha guidato la recezione del Concilio, è cresciuta una nuova vita e sono maturati frutti nuovi. Quarant’anni dopo il Concilio possiamo rilevare che il positivo è più grande e più vivo di quanto non potesse apparire nell’agitazione degli anni intorno al 1968. Oggi vediamo che il seme buono, pur sviluppandosi lentamente, tuttavia cresce, e cresce così anche la nostra profonda gratitudine per l’opera svolta dal Concilio.

Paolo VI, nel suo discorso per la conclusione del Concilio, ha poi indicato ancora una specifica motivazione per cui un'ermeneutica della discontinuità potrebbe sembrare convincente. Nella grande disputa sull'uomo, che contraddistingue il tempo moderno, il Concilio doveva dedicarsi in modo particolare al tema dell'antropologia. Doveva interrogarsi sul rapporto tra la Chiesa e la sua fede, da una parte, e l'uomo ed il mondo di oggi, dall'altra (ibid., pp. 1066 s.). La questione diventa ancora più chiara, se in luogo del termine generico di “mondo di oggi” ne scegliamo un altro più preciso: il Concilio doveva determinare in modo nuovo il rapporto tra Chiesa ed età moderna. Questo rapporto aveva avuto un inizio molto problematico con il processo a Galileo. Si era poi spezzato totalmente, quando Kant definì la “religione entro la sola ragione” e quando, nella fase radicale della rivoluzione francese, venne diffusa un'immagine dello Stato e dell'uomo che alla Chiesa ed alla fede praticamente non voleva più concedere alcuno spazio. Lo scontro della fede della Chiesa con un liberalismo radicale ed anche con scienze naturali che pretendevano di abbracciare con le loro conoscenze tutta la realtà fino ai suoi confini, proponendosi caparbiamente di rendere superflua l’“ipotesi Dio”, aveva provocato nell'Ottocento, sotto Pio IX, da parte della Chiesa aspre e radicali condanne di tale spirito dell'età moderna. Quindi, apparentemente non c'era più nessun ambito aperto per un’intesa positiva e fruttuosa, e drastici erano pure i rifiuti da parte di coloro che si sentivano i rappresentanti dell'età moderna. Nel frattempo, tuttavia, anche l'età moderna aveva conosciuto degli sviluppi. Ci si rendeva conto che la rivoluzione americana aveva offerto un modello di Stato moderno diverso da quello teorizzato dalle tendenze radicali emerse nella seconda fase della rivoluzione francese. Le scienze naturali cominciavano, in modo sempre più chiaro, a riflettere sul proprio limite, imposto dallo stesso loro metodo che, pur realizzando cose grandiose, tuttavia non era in grado di comprendere la globalità della realtà. Così, tutte e due le parti cominciavano progressivamente ad aprirsi l’una all'altra. Nel periodo tra le due guerre mondiali e ancora di più dopo la seconda guerra mondiale, uomini di Stato cattolici avevano dimostrato che può esistere uno Stato moderno laico, che tuttavia non è neutro riguardo ai valori, ma vive attingendo alle grandi fonti etiche aperte dal cristianesimo. La dottrina sociale cattolica, via via sviluppatasi, era diventata un modello importante tra il liberalismo radicale e la teoria marxista dello Stato. Le scienze naturali, che come tali lavorano con un metodo limitato all'aspetto fenomenico della realtà, si rendevano conto sempre più chiaramente che questo metodo non comprendeva la totalità della realtà e aprivano quindi nuovamente le porte a Dio, sapendo che la realtà è più grande del metodo naturalistico e di ciò che esso può abbracciare. Si potrebbe dire che si erano formati tre cerchi di domande che ora, durante il Vaticano II, attendevano una risposta. Innanzitutto occorreva definire in modo nuovo la relazione tra fede e scienze moderne; ciò riguardava, del resto, non soltanto le scienze naturali, ma anche la scienza storica perché, in una certa scuola, il metodo storico-critico reclamava per sé l'ultima parola nella interpretazione della Bibbia e, pretendendo la piena esclusività per la sua comprensione delle Sacre Scritture, si opponeva in punti importanti all’interpretazione che la fede della Chiesa aveva elaborato. In secondo luogo, era da definire in modo nuovo il rapporto tra Chiesa e Stato moderno, che concedeva spazio a cittadini di varie religioni ed ideologie, comportandosi verso queste religioni in modo imparziale e assumendo semplicemente la responsabilità per una convivenza ordinata e tollerante tra i cittadini e per la loro libertà di esercitare la propria religione. Con ciò, in terzo luogo, era collegato in modo più generale il problema della tolleranza religiosa – una questione che richiedeva una nuova definizione del rapporto tra fede cristiana e religioni del mondo. In particolare, di fronte ai recenti crimini del regime nazionalsocialista e, in genere, in uno sguardo retrospettivo su una lunga storia difficile, bisognava valutare e definire in modo nuovo il rapporto tra la Chiesa e la fede di Israele.


Sono tutti temi di grande portata su cui non è possibile soffermarsi più ampiamente in questo contesto. È chiaro che in tutti questi settori, che nel loro insieme formano un unico problema, poteva emergere una qualche forma di discontinuità e che, in un certo senso, si era manifestata di fatto una discontinuità, nella quale tuttavia, fatte le diverse distinzioni tra le concrete situazioni storiche e le loro esigenze, risultava non abbandonata la continuità nei principi – fatto questo che facilmente sfugge alla prima percezione. È proprio in questo insieme di continuità e discontinuità a livelli diversi che consiste la natura della vera riforma. In questo processo di novità nella continuità dovevamo imparare a capire più concretamente di prima che le decisioni della Chiesa riguardanti cose contingenti – per esempio, certe forme concrete di liberalismo o di interpretazione liberale della Bibbia – dovevano necessariamente essere esse stesse contingenti, appunto perché riferite a una determinata realtà in se stessa mutevole. Bisognava imparare a riconoscere che, in tali decisioni, solo i principi esprimono l’aspetto duraturo, rimanendo nel sottofondo e motivando la decisione dal di dentro. Non sono invece ugualmente permanenti le forme concrete, che dipendono dalla situazione storica e possono quindi essere sottoposte a mutamenti. Così le decisioni di fondo possono restare valide, mentre le forme della loro applicazione a contesti nuovi possono cambiare. Così, ad esempio, se la libertà di religione viene considerata come espressione dell'incapacità dell'uomo di trovare la verità e di conseguenza diventa canonizzazione del relativismo, allora essa da necessità sociale e storica è elevata in modo improprio a livello metafisico ed è così privata del suo vero senso, con la conseguenza di non poter essere accettata da colui che crede che l'uomo è capace di conoscere la verità di Dio e, in base alla dignità interiore della verità, è legato a tale conoscenza. Una cosa completamente diversa è invece il considerare la libertà di religione come una necessità derivante dalla convivenza umana, anzi come una conseguenza intrinseca della verità che non può essere imposta dall'esterno, ma deve essere fatta propria dall’uomo solo mediante il processo del convincimento. Il Concilio Vaticano II, riconoscendo e facendo suo con il Decreto sulla libertà religiosa un principio essenziale dello Stato moderno, ha ripreso nuovamente il patrimonio più profondo della Chiesa. Essa può essere consapevole di trovarsi con ciò in piena sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso (cfr Mt 22,21), come anche con la Chiesa dei martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (cfr 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede – una professione che da nessuno Stato può essere imposta, ma invece può essere fatta propria solo con la grazia di Dio, nella libertà della coscienza. Una Chiesa missionaria, che si sa tenuta ad annunciare il suo messaggio a tutti i popoli, deve impegnarsi per la libertà della fede. Essa vuole trasmettere il dono della verità che esiste per tutti ed assicura al contempo i popoli e i loro governi di non voler distruggere con ciò la loro identità e le loro culture, ma invece porta loro una risposta che, nel loro intimo, aspettano – una risposta con cui la molteplicità delle culture non si perde, ma cresce invece l'unità tra gli uomini e così anche la pace tra i popoli.


Il Concilio Vaticano II, con la nuova definizione del rapporto tra la fede della Chiesa e certi elementi essenziali del pensiero moderno, ha rivisto o anche corretto alcune decisioni storiche, ma in questa apparente discontinuità ha invece mantenuto ed approfondito la sua intima natura e la sua vera identità. La Chiesa è, tanto prima quanto dopo il Concilio, la stessa Chiesa una, santa, cattolica ed apostolica in cammino attraverso i tempi; essa prosegue “il suo pellegrinaggio fra le persecuzioni del mondo e le consolazioni di Dio”, annunziando la morte del Signore fino a che Egli venga (cfr Lumen gentium, 8). Chi si era aspettato che con questo “sì” fondamentale all'età moderna tutte le tensioni si dileguassero e l’“apertura verso il mondo” così realizzata trasformasse tutto in pura armonia, aveva sottovalutato le interiori tensioni e anche le contraddizioni della stessa età moderna; aveva sottovalutato la pericolosa fragilità della natura umana che in tutti i periodi della storia e in ogni costellazione storica è una minaccia per il cammino dell'uomo. Questi pericoli, con le nuove possibilità e con il nuovo potere dell'uomo sulla materia e su se stesso, non sono scomparsi, ma assumono invece nuove dimensioni: uno sguardo sulla storia attuale lo dimostra chiaramente. Anche nel nostro tempo la Chiesa resta un "segno di contraddizione" (Lc 2,34) – non senza motivo Papa Giovanni Paolo II, ancora da Cardinale, aveva dato questo titolo agli Esercizi Spirituali predicati nel 1976 a Papa Paolo VI e alla Curia Romana. Non poteva essere intenzione del Concilio abolire questa contraddizione del Vangelo nei confronti dei pericoli e degli errori dell'uomo. Era invece senz'altro suo intendimento accantonare contraddizioni erronee o superflue, per presentare a questo nostro mondo l'esigenza del Vangelo in tutta la sua grandezza e purezza. Il passo fatto dal Concilio verso l'età moderna, che in modo assai impreciso è stato presentato come “apertura verso il mondo”, appartiene in definitiva al perenne problema del rapporto tra fede e ragione, che si ripresenta in sempre nuove forme. La situazione che il Concilio doveva affrontare è senz'altro paragonabile ad avvenimenti di epoche precedenti. San Pietro, nella sua prima lettera, aveva esortato i cristiani ad essere sempre pronti a dar risposta (apo-logia) a chiunque avesse loro chiesto il logos, la ragione della loro fede (cfr 3,15). Questo significava che la fede biblica doveva entrare in discussione e in relazione con la cultura greca ed imparare a riconoscere mediante l'interpretazione la linea di distinzione, ma anche il contatto e l'affinità tra loro nell'unica ragione donata da Dio. Quando nel XIII secolo, mediante filosofi ebrei ed arabi, il pensiero aristotelico entrò in contatto con la cristianità medievale formata nella tradizione platonica, e fede e ragione rischiarono di entrare in una contraddizione inconciliabile, fu soprattutto san Tommaso d'Aquino a mediare il nuovo incontro tra fede e filosofia aristotelica, mettendo così la fede in una relazione positiva con la forma di ragione dominante nel suo tempo. La faticosa disputa tra la ragione moderna e la fede cristiana che, in un primo momento, col processo a Galileo, era iniziata in modo negativo, certamente conobbe molte fasi, ma col Concilio Vaticano II arrivò l’ora in cui si richiedeva un ampio ripensamento. Il suo contenuto, nei testi conciliari, è tracciato sicuramente solo a larghe linee, ma con ciò è determinata la direzione essenziale, cosicché il dialogo tra ragione e fede, oggi particolarmente importante, in base al Vaticano II ha trovato il suo orientamento. Adesso questo dialogo è da sviluppare con grande apertura mentale, ma anche con quella chiarezza nel discernimento degli spiriti che il mondo con buona ragione aspetta da noi proprio in questo momento. Così possiamo oggi con gratitudine volgere il nostro sguardo al Concilio Vaticano II: se lo leggiamo e recepiamo guidati da una giusta ermeneutica, esso può essere e diventare sempre di più una grande forza per il sempre necessario rinnovamento della Chiesa.


Infine, devo forse ancora far memoria di quel 19 aprile di quest'anno, in cui il Collegio Cardinalizio, con mio non piccolo spavento, mi ha eletto a successore di Papa Giovanni Paolo II, a successore di san Pietro sulla cattedra del Vescovo di Roma? Un tale compito stava del tutto fuori di ciò che avrei mai potuto immaginare come mia vocazione. Così, fu soltanto con un grande atto di fiducia in Dio che potei dire nell'obbedienza il mio “sì” a questa scelta. Come allora, così chiedo anche oggi a tutti Voi la preghiera, sulla cui forza e sostegno io conto. Al contempo desidero ringraziare di cuore in quest'ora tutti coloro che mi hanno accolto e mi accolgono tuttora con tanta fiducia, bontà e comprensione, accompagnandomi giorno per giorno con la loro preghiera.

Il Natale è ormai vicino. Il Signore Dio alle minacce della storia non si è opposto con il potere esteriore, come noi uomini, secondo le prospettive di questo nostro mondo, ci saremmo aspettati. L'arma sua è la bontà. Si è rivelato come bimbo, nato in una stalla. È proprio così che contrappone il suo potere completamente diverso alle potenze distruttive della violenza. Proprio così Egli ci salva. Proprio così ci mostra ciò che salva. Vogliamo, in questi giorni natalizi, andargli incontro pieni di fiducia, come i pastori, come i sapienti dell'Oriente. Chiediamo a Maria di condurci al Signore. Chiediamo a Lui stesso di far brillare il suo volto su di noi. Chiediamogli di vincere Egli stesso la violenza nel mondo e di farci sperimentare il potere della sua bontà. Con questi sentimenti imparto di cuore a tutti Voi la Benedizione Apostolica.

© Copyright 2005 - Libreria Editrice Vaticana

San Francisco de Asís


J. Joergensen:
San Francisco de Asís


.
Capítulo II

EL DERECHO DE PREDICAR

Un día se hallaba Francisco en Asís, en casa del Obispo Guido. Sin duda había ido, según costumbre suya, a demandar consejo al que él miraba como «padre y señor de las almas» (TC 19); pero también es probable que fuera en busca de alguna limosna; porque en verdad las circunstancias por las que atravesaban los hermanos eran asaz penosas. A su vuelta de las misiones encontraron cuatro nuevos compañeros: Felipe Longo, Juan de San Constancio, Bárbaro y Bernardo de Vigilancio, a los cuales se agregó otro que Francisco llevaba de Rieti, llamado Ángel Tancredi, joven caballero a quien el Santo había conquistado en una calle de dicha ciudad, dirigiéndole el siguiente amoroso reproche: «Tancredi, bastante tiempo has llevado ya esa espada y esas espuelas; es menester que trueques el cinturón por la cuerda, la espada por la cruz y las espuelas por el polvo y el barro de los caminos; sígueme y te armaré caballero del ejército de Cristo».1
No se trataba, pues, de alimentar a tres o cuatro, como antes, sino a un grupo ya numeroso de compañeros. En un principio los habitantes de Asís, llevados de la admiración respetuosa que la vista de los hermanos les causaba, suministraban lo necesario a su manutención; pero ahora empezaban a cansarse, instigados sobre todo por los propios parientes de los hermanos, que no cesaban de perseguirlos, haciéndoles severos cargos de que «habían abandonado los bienes que poseían para abrazar un estado en que tenían que subsistir y regalarse a costa de lo ajeno».
Duplicado el número de ellos, se vieron forzados a abandonar la cabaña de la Porciúncula y a trasladarse a una casucha arruinada, distante de aquélla camino como de veinte minutos, sita en un lugar llamado Rivotorto (por lavuelta que allí daba cierto arroyuelo) y perteneciente, como otras del mismo género que había en dicho sitio, a los Crucígeros de San Salvador de los Muros. De esta Orden había sido miembro Fray Morico; por donde se supone que a su influencia se debió el que Francisco obtuviese la necesaria autorización para instalarse allí con su cofradía.2
Esta cabaña, o tugurium, de Rivotorto era de tan estrechas dimensiones, que Francisco se vio obligado, para evitar toda confusión y desorden, a escribir el nombre de cada uno en la muralla frente al respectivo lugar (1 Cel 44; TC 55). De iglesia ni de capilla no había que hablar; todos oraban delante de una gran cruz de madera que habían puesto a la entrada del tugurio (LM 4,3). Por descontado, Francisco no veía mal alguno en tan extrema pobreza, antes le agradaba sobremanera, entre otras razones porque de allí tenía camino expedito para ir, siguiendo el curso del torrente, a unas cuevas de la falda del Subasio, que se dirían hechas para la oración y que Francisco llamaba, a causa de su estrechez, sus «cárceles», carceri.
De todo esto, como era natural, se hablaba mucho en Asís y estaba bien enterado el Obispo. Muchas veces este varón excelente trató de disuadir a Francisco de aquella manera de vida que a sus ojos era demasiado rigurosa, pareciéndole de estricta necesidad que los hermanos poseyeran algunos bienes, al menos los indispensables para proveer a su cuotidiano sustento: sin duda, la mendicidad voluntaria le chocaba, como le acontece a todo hombre que mira las cosas por su lado natural y ordinario.
Pero Francisco era en este punto intransigente, sabiendo, como sabía (y el conde León Tolstoi ha venido a corroborarlo), que la posesión de una propiedad personal, por pequeña que sea, constituye siempre un obstáculo para la realización de la perfecta vida cristiana. El día aquel se trataba este punto entre ambos amigos, y Francisco vino a declarar resueltamente al Obispo: «Señor, si tuviéramos algunas posesiones, necesitaríamos armas para defendernos. Y de ahí nacen las disputas y los pleitos, que suelen impedir de múltiples formas el amor de Dios y del prójimo; por eso no queremos tener cosa alguna temporal en este mundo» (TC 35).
El propio Obispo estaba a la sazón dando buena prueba de cuán verdaderas eran las palabras de Francisco, porque se hallaba en pleito con los Crucígeros y con la abadía benedictina del monte Subasio; y así fue que no tuvo nada que replicar a la terminante respuesta de Francisco. Ya que no podía levantarse hasta la sublimidad del ideal de su joven protegido, comprendió, al menos, que carecía del derecho de estorbar por ningún medio su realización.
Por lo demás, no era cierto tampoco que la mendicidad fuese para los hermanos la única fuente de entradas, y si no, abramos el Testamento de Francisco por aquella parte donde narra los comienzos de la Orden:
«Después que el Señor me dio hermanos, nadie me ensañaba qué debería hacer, sino que el Altísimo mismo me reveló que debería vivir según la forma del santo Evangelio. Y yo hice que se escribiera en pocas palabras y sencillamente, y el señor Papa me lo confirmó. Y aquellos que venían a tomar esta vida, daban a los pobres todo lo que podían tener; y estaban contentos con una túnica, forrada por dentro y por fuera, el cordón y los paños menores. Y no queríamos tener más.
»Los clérigos decíamos el oficio como los otros clérigos; los laicos decían los Padrenuestros; y muy gustosamente permanecíamos en las iglesias pobrecillas y desamparadas. Y éramos iletrados y súbditos de todos. Y yo trabajaba con mis manos, y quiero trabajar; y quiero firmemente que todos los otros hermanos trabajen en trabajo que conviene al decoro. Los que no saben, que aprendan, no por la codicia de recibir el precio del trabajo, sino por el buen ejemplo y para rechazar la ociosidad. Y cuando no se nos dé el precio del trabajo, recurramos a la mesa del Señor, pidiendo limosna de puerta en puerta. El Señor me reveló que dijésemos el saludo: El Señor te dé la paz» (Test 14-23).
Estas palabras, escritas por la propia mano del Santo, contienen todo el programa de vida que observaban los hermanos en la Porciúncula y en Rivotorto. Francisco no quería otra cosa que lo que había querido antes el mismo Jesucristo, es a saber, que sus seguidores poseyeran las menos cosas posibles, que se ganaran el sustento con el trabajo de sus manos y que, éste no bastando, recurrieran a ajeno auxilio; que evitasen cuidados inútiles, absteniéndose de allegar bienes superfluos; que fuesen como las aves del cielo, libres de los lazos que atan a la tierra; que, en fin, ocupasen la vida entera en dar a Dios continuas gracias por sus favores y alabanzas continuas por las maravillas de su poder. «Como peregrinos y forasteros en este mundo»: he ahí el ideal de Francisco de Asís y la expresión que nunca se le caía de la boca. Quería, dice Celano, que todas las cosas de este mundo cantaran la peregrinación y el destierro: «Este hombre odiaba no sólo la ostentación de las casas, sino que detestaba profundamente que hubiese muchos y exquisitos enseres. Nada quería, en las mesas y en las vasijas que recordase el mundo, para que todas las cosas que se usaban hablaran de peregrinación, de destierro» (2 Cel 60).
Tales máximas concuerdan de todo en todo con las prescripciones que Francisco escribió para sus frailes en la primera Regla:
«Todos los hermanos, en cualquier lugar en que se encuentren en casa de otros para servir o trabajar, no sean mayordomos ni cancilleres, ni estén al frente de las casas en que sirven; ni acepten ningún oficio que engendre escándalo o cause detrimento a su alma; sino que sean menores y súbditos de todos los que están en la misma casa. Y los hermanos que saben trabajar, trabajen y ejerzan el mismo oficio que conocen, si no es contrario a la salud del alma y puede realizarse con decoro... Pues dice el apóstol: "El que no quiere trabajar, no coma"; y en otra parte: "Cada uno permanezca en el arte y oficio en que fue llamado". Y por el trabajo podrán recibir todas las cosas necesarias, excepto dinero. Y cuando sea necesario, vayan por limosna como los otros pobres. Y séales permitido tener las herramientas e instrumentos convenientes para sus oficios» (1 R 7,1-9).
«El Señor manda en el Evangelio: "Mirad, guardaos de toda malicia y avaricia"; y también: "Guardaos de la solicitud de este siglo y de las preocupaciones de esta vida". Por eso, ninguno de los hermanos, donde quiera que esté y adondequiera que vaya, en modo alguno tome ni reciba ni haga que se reciba pecunia o dinero, ni con ocasión del vestido ni de libros, ni como precio de algún trabajo, más aún, con ninguna ocasión, a no ser por manifiesta necesidad de los hermanos enfermos; porque no debemos estimar y reputar de mayor utilidad la pecunia y el dinero que los guijarros... Guardémonos, por tanto, los que lo dejamos todo, de perder por tan poca cosa el reino de los cielos. Y si en algún lugar encontramos dinero, no nos preocupemos de él más que del polvo que hollamos con los pies... Con todo, en caso de manifiesta necesidad de los leprosos, los hermanos pueden pedir limosna para ellos. Guárdense mucho, no obstante, de la pecunia para provecho propio» (1 R 8).
«Todos los hermanos empéñense en seguir la humildad y pobreza de nuestro Señor Jesucristo, y recuerden que ninguna otra cosa del mundo entero debemos tener, sino que, como dice el Apóstol: "Teniendo alimentos y con qué cubrirnos, estamos contentos con eso". Y deben gozarse cuando conviven con personas de baja condición y despreciadas, con pobres y débiles y enfermos y leprosos y los mendigos de los caminos. Y cuando sea necesario, vayan por limosna. Y no se avergüencen, sino más bien recuerden que nuestro Señor Jesucristo, el Hijo de Dios vivo omnipotente..., no se avergonzó. Y fue pobre y huésped y vivió de limosna él y la bienaventurada Virgen y sus discípulos. Y cuando la gente les ultraje y no quiera darles limosna, den gracias de ello a Dios; porque a causa de los ultrajes recibirán gran honor ante el tribunal de nuestro Señor Jesucristo. Y sepan que el ultraje no se imputa a los que lo sufren, sino a los que lo infieren. Y la limosna es herencia y justicia que se debe a los pobres y que nos adquirió nuestro Señor Jesucristo» (1 R 9,1-8).
Con tales y otras semejantes palabras exhortaba Francisco a sus amigos a perseverar en la vida pobre y rigurosa que habían abrazado. A veces servían en los hospitales, otras ayudaban a los campesinos en sus cosechas, y nunca su salario era otra cosa que el pan cuotidiano con algunos sorbos de agua de la fuente vecina. «Durante el día iban a las casas de los leprosos o a otros lugares decorosos y quienes sabían hacerlo trabajaban manualmente, sirviendo a todos humilde y devotamente. Rehusaban cualquier oficio del que pudiera originarse escándalo; más bien, ocupados siempre en obras santas y justas, honestas y útiles, estimulaban a la paciencia y humildad a cuantos trataban con ellos» (1 Cel 39). Estas palabras de Celano nos dan la práctica de las citadas prescripciones de la primera Regla. Lo mismo trae Bartolomé de Pisa en su libro de las Conformidades, donde leemos: «Francisco exigía de sus hermanos que, a su ejemplo, se dedicasen al servicio de los leprosos y demás enfermos cuya vista causa horror al mundo». Las Florecillas citan asimismo muchos ejemplos que manifiestan la caridad de los frailes con los enfermos y leprosos. Por la Crónica de los XXIV Generales sabemos también que algunos frailes llegaron a quejarse de que el Santo «los distrajese de la oración por ocuparlos en cuidar leprosos». Finalmente, la Crónicade Eccleston habla de cierto fraile que «moraba con San Francisco en un hospital».
Pero a menudo les faltaba el trabajo, y entonces todas las puertas se les cerraban en Asís, poniendo a durísima prueba su esperanza y afligiendo por honda manera el corazón de Francisco. ¡Cuántas veces estos extremos de penuria estarían a punto de vencer la constancia de nuestros penitentes en el tugurio de Rivotorto, sobre todo en las tristes horas de lluvia, en que el agujereado techo que medio los cubría se llovía todo y, sin embargo, se veían obligados a permanecer debajo de él, porque los caminos se cubrían de barro y escarcha, haciéndose intransitables; y no tenían un pedazo de pan que comer, ni certidumbre alguna de que los hermanos que habían salido a pedirlo se lo trajeran; ni tenían fuego con que fomentar los ateridos miembros, ni menos libros para distraerse con su lectura! ¿Quién nos podrá asegurar que en esas horas sombrías y glaciales del invierno umbriano (que es corto, pero recio y penoso) ninguno de los compañeros de Francisco sintiera en su pecho la voz de la rebelión contra aquella, a ojos mundanos, descabellada aventura, resolviendo volver las espaldas a aquella cueva siniestra y a la compañía de aquellos insensatos y tornar a Asís, donde, ¡ay!, en otro tiempo tenían casa, y huerto, y dinero, y posesiones y comodidades que habían abandonado en favor de los pobres? No hay duda de que para más de alguno sonaría la hora del desaliento y de la final derrota. Sin embargo, la verdad es que los biógrafos no nos hablan sino de una sola defección, la de Juan Capella; todos los demás, refiere la leyenda, se mantuvieron firmes en su propósito, comiendo raíces de nabos en cuenta de pan: y al fin triunfaron. Porque la opinión pública, tan largo tiempo adversa, se rindió, por fin, y empezó a mirarlos con cierta admiración, que no tardó en trocarse en absoluta confianza y estima en vista de su perseverancia y piedad no desmentidas. Los viajeros que de noche pasaban por frente al tugurio de Rivotorto, oían sus rezos y plegarias; durante el día trabajaban en el hospital, o dondequiera que se les ofrecía decente ocupación. «Para evitar la ociosidad, ayudaban en las faenas del campo a pobres labradores, y éstos les daban pan por amor de Dios», dice el Espejo de Perfección (EP 55h). No obstante su extremada pobreza, siempre tenían alguna cosa que dar a los que les pedían; a veces les tocaba tener que dar el capucho o una manga de su hábito. En cuanto al dinero, persistían en la inquebrantable voluntad de no tocarlo. Un hombre les dejó cierta considerable cantidad sobre el altar de la Porciúncula, y algún tiempo después la encontró intacta a la orilla del camino en un montón de basuras.
Pero lo que sobre todo llamaba la atención era el amor más que de madre con que se trataban. Una vez dos de ellos, yendo de viaje, dieron con un loco furioso que, al verlos, se puso a tirarles piedras, sin vagar y sin compasión: entonces empezaron ellos a cambiar de lugar a cada instante, porfiando ambos por recibir las pedradas y librar de ellas el uno al otro. Si algún hermano ofendía de palabra a otro, no quedaba contento mientras no se reconciliaba con él y mientras no conseguía que le pusiese el pie sobre la boca que había osado pronunciar una palabra no envuelta en caridad cristiana. Jamás se les sorprendía gastando el tiempo en pláticas inconvenientes, mundanas o superfluas. Cuando por el camino se encontraban con una mujer, nunca la miraban a la cara, sino fijaban en el suelo los ojos y al cielo levantaban el corazón.3
Con cuánto desdén miraban las pompas del mundo, se vio claro en septiembre de 1209, cuando el emperador Otón de Brunswick atravesó el valle de Espoleto, camino de Roma, adonde iba a recibir la corona imperial de manos del Papa Inocencio III. De Asís, de Bettona, de Spello, de Isola Romanesca y otras ciudades y villas del llano y de la montaña acudieron en tropel las gentes a presenciar el espléndido cortejo; sólo los ermitaños de Rivotorto se mantuvieron en su retiro, excepto uno a quien Francisco ordenó presentarse ante el emperador para advertirle que los honores de este mundo eran transitorios e inseguros; palabras cuya verdad no tardó en experimentar el mismo emperador.4
También Francisco tenía el propósito de ir a Roma. Habiendo escrito o dictado en Rivotorto la regla de los hermanos, «con palabras breves y sencillas», como dice en su Testamento, deseaba obtener la confirmación de la Iglesia para esta regla, o forma de vida, como él gustaba de llamarla.
Tal confirmación no era todavía indispensable, porque el decreto que prohíbe fundar ninguna orden religiosa sin expresa autorización de la Santa Sede, data del concilio de Letrán, celebrado en 1215. Pero otra práctica había empezado a introducirse hacía poco: la de otorgar a los seglares el derecho de predicar, derecho antes reservado exclusivamente a Obispos y sacerdotes. Tal concesión la había alcanzado Pedro Valdo, bajo condición de someterse siempre y en todas partes a la dirección del respectivo clero. Análogo permiso habían obtenido en 1201 los hermanos Humillados, y en 1207 Durando de Huesca y sus valdenses católicos. Razón tenía, pues, Francisco para alimentar la esperanza de que Inocencio III le acogería benignamente.
Por otra parte, Francisco tenía por los Apóstoles profunda devoción, que le impulsaba irresistiblemente a visitar su tumba y la sede del sucesor de su príncipe. El ideal constantemente acariciado por el santo de Asís era restaurar la vida apostólica tal cual se describe en los Evangelios; todo debía ser del uso común entre los hermanos, «según la norma transmitida y observada por los Apóstoles»; el argumento decisivo a los ojos de Francisco era en cada caso que «así se acostumbraba en la Iglesia apostólica».5 Leyendas posteriores afirman que los santos Apóstoles Pedro y Pablo se le aparecieron mientras oraba en la iglesia de San Pedro en Roma, asegurándole en la posesión de «todo el tesoro de la pobreza».
Un día del verano de 1210 la pequeña comunidad de penitentes dejó Rivotorto y tomó el camino de Roma. Pocas noticias se han conservado de este viaje: todo lo que se sabe es que Bernardo de Quintaval, y no Francisco, hizo de superior de la comitiva durante el trayecto, y a él obedecían todos; que los santos viajeros hallaron corto el camino, porque por todo él fueron piadosamente entretenidos en devotas plegarias, cantos y pláticas espirituales; que al llegar la noche encontraban siempre, merced del Señor, oportuno asilo y todo lo necesario a su subsistencia (TC 46).
Llegados a Roma, lo primero que hicieron fue visitar a su Obispo Guido, que también había ido a la Ciudad Eterna y prometido probablemente a Francisco interceder en su favor. Es cierto que los presentó al Cardenal Juan de San Pablo,6 amigo suyo, y que por este medio se les facilitó el acceso al Papa, aunque otros historiadores pretenden que Francisco trató de llegar hasta Inocencio directamente y sin intermediario, pero que no se le permitió. Lo único históricamente cierto, al menos para nosotros, es que el Cardenal Juan, después de alojar por algunos días en su casa a los hermanos, tomó a su cargo el recomendarlos al Papa Inocencio (TC 47-49). El Obispo de Asís conocía no sólo a Francisco sino también a los otros hermanos, como afirma expresamente la Leyenda de los Tres Compañeros (n. 47). Llevado de su partidismo, Sabatier no ha querido prestar atención a este testimonio ni a otros parecidos como, por ejemplo, el de Celano, que nos dice que el obispo «honraba en todo a San Francisco y a sus hermanos y los veneraba con especial afecto» (1 Cel 32). Es cierto que, según Celano, Guido no conocía con exactitud el motivo del viaje de los frailes a Roma; pero eso no excluye en absoluto la hipótesis de un acuerdo previo, más o menos preciso, entre el Obispo y Francisco. En cualquier caso, lo cierto es que el Obispo no veía con buenos ojos la posibilidad de que los frailes tuviesen la intención de dejar la Umbría. Por tanto, no tiene ni siquiera sombra de similitud la acusación de Sabatier de que Guido puso poco empeño en ocuparse de Francisco y de su causa. El mismo Francisco nos dice, según el Espejo de Perfección: «En los primeros tiempos de mi conversión, Dios inspiró al Obispo de Asís a fin de que me aconsejara y me animara en el servicio de Cristo». En laLeyenda Mayor de San Buenaventura (3,9), cuando relata la visita de San Francisco a la curia romana, Jerónimo de Áscoli, ministro general y después papa con el nombre de Nicolás IV, intercaló un texto según el cual Inocencio III despachó indignado al siervo de Dios como si le fuera desconocido. Pero a la noche siguiente el Pontífice tuvo en sueños la visión de un arbusto que se transformaba en grandioso árbol, representando al pobre Francisco. Llegada la mañana, Inocencio ordenó que buscaran a aquel pobre, que se encontraba en el hospital de San Antonio, junto a Letrán, y dispuso que lo trajeran de inmediato a su presencia.
Sabatier reprocha al Cardenal Juan el haberse aprovechado de la estancia en su casa de Francisco y sus compañeros para informarse minuciosamente, en su calidad de representante de la Curia pontificia, de las ideas y proyectos de los nuevos cofrades. Pero, dado que el hecho fuera cierto, el reproche carece en absoluto de fundamento, porque la Iglesia atravesaba en aquel entonces por tan graves y difíciles circunstancias, que toda medida prudente venía a ser para sus jefes de todo punto obligatoria.
Es dar de la Edad Media una idea absolutamente falsa, hablar, como suele hacerse a menudo, «del poder de la Iglesia» en aquel período; y semejante expresión es todavía más inadmisible tratándose del pontificado de Inocencio III; porque, a la verdad, ni el siglo de la Reforma ni el de la Revolución han sido tan hostiles al Papa y a la Iglesia como lo fueron los primeros años del siglo XIII. Hoy día nadie se atrevería a cometer contra la persona del Papa los desacatos que tantas veces tuvo que soportar Inocencio. Él mismo refiere que el sábado santo 8 de abril de 1203, mientras iba de la iglesia de San Pedro a la de Letrán, se vio, no obstante la corona papal que llevaba sobre su cabeza, acometido del pueblo, que le llenó de ultrajes tan groseros, que su pluma se resiste a consignarlos.
Ya en 1188 el pueblo de Roma, adelantándose a los futuros terroristas franceses, había suprimido la cronología cristiana, reemplazándola por la nueva era que empezaba en la restauración del Senado romano en 1143. Repetidas veces fue Inocencio expulsado de Roma, tomada y declarada propiedad comunal la torre que él y sus hermanos construyeran para su refugio y cuyos restos imponentes llevan todavía el nombre de familia de Inocencio,Torre dei Conti. El año 1204, en los meses de mayo a octubre, presenció el Papa, encerrado en San Juan de Letrán, la horrenda devastación de Roma perpetrada por sus enemigos los Capocci, que se habían apoderado de ella.
Igual suerte corrían el poder y la autoridad de Inocencio en los escasos restos de los antiguos Estados pontificios que los Hohenstaufen se habían dignado dejar al trono de San Pedro. Para escapar al dominio temporal del Papa, las ciudades de la Italia central se rebelaban a la continua contra su supremacía espiritual, rompiendo formalmente la unidad de la Iglesia. En Orvieto, por ejemplo, los partidarios de la independencia eligieron por jefe al albigense Pedro Parenzi, que había dado muerte al podestá enviado por Inocencio. Viterbo nombró cónsules a unos herejes declarados, a despecho de todas las amenazas y prohibiciones del Papa. Narni, que había destruido la pequeña ciudad de Otrícoli, permaneció excomulgada cinco años, y no le importó un ardite tan tremendo castigo. Con la misma sangre fría la república de Orvieto desestimó las intimaciones del Papa cuando en 1209 saqueó e incendió a su vecina Acquapendente. El clero y los Obispos de Cerdeña mostraban tal hostilidad contra el Papa y su legado Blas, que en 1202 se vio éste materialmente sitiado por hambre, y poco después la gibelina Pisa arrebató al Papa la posesión de la isla.
Hasta el fruto de sus victorias se le disputaba a Inocencio sin sombra de respeto. Cuando Conrado de Ürslingen vino a Narni para hacer donación al Papa de la ciudadela de Asís, los habitantes de esta ciudad destruyeron el fuerte antes que Inocencio pudiese posesionare de él, y el Papa, lejos de pensar en castigar semejante desacato, no quiso ni entrar en Asís cuando en 1198 fue a recibir los homenajes de las ciudades umbrianas.
En los momentos precisos en que Francisco se hallaba en Roma, todo el mundo estaba en abierta rebelión política y espiritual contra la autoridad pontificia, ni más ni menos que ha acontecido tantas veces en siglos posteriores. En aquellas sectas, más o menos contagiadas de política, que pululaban entonces a través de Europa, encontramos a cada paso tipos acabados de puritanos, independientes, iluminados, radicales y francmasones. Incontables son los fundadores de sectas nuevas y heréticas que nos presenta la historia de la Iglesia en los comienzos del siglo XIII: ahí el asceta Pedro Valdo con sus «pobres de Lyon»; ahí panteístas de orgía, como David de Dinand y Orliebo de Estrasburgo; ahí los satanistas de la «familia de amor», cuyos miembros celebraban conventículos y misas negras en la misma Roma.
De todas estas sectas la de los albigenses era la más peligrosa. Por los años de 1200 la encontramos ya esparcida por toda la Europa, desde Roma hasta Londres, desde España hasta el Mar Negro, pero principalmente en las regiones que riega el Danubio en su curso inferior, en el norte de Italia, en el mediodía de Francia y en ciertos lugares de la cuenca del Rin. Estos herejes penetraban en los diversos países con distintos nombres: en las riberas del bajo Danubio se apellidaban búlgaros o publicanos; en Lombardía, patarenos o gazarenos; y en el sur de Francia, cátaros o albigenses (de la ciudad de Albi). Pero en todas partes enseñaban una misma y sola doctrina, que venía a reducirse a la resurrección del antiguo dualismo maniqueo. Los bogomiles y paulicianos búlgaros se emparentaban directamente con los sectarios de Manes.
La doctrina filosófica de los albigenses se basaba en el antiguo principio pagano de la dualidad de dioses: el dios bueno, creador de las almas, y el dios malo, creador del mundo corpóreo. Enseñaban que el hombre debía preservarse de todo lo corpóreo y rechazaban, en teoría, el matrimonio, la vida de familia y todo lo que les parecía inconciliable con la espiritualidad pura; de donde el nombre de cátaros o limpios, con que ellos mismos se llamaban, llegando algunos, en su celo fanático, hasta buscar la muerte con ciego apasionamiento. Pero la práctica del mayor número era muy otra, pues autorizaban el matrimonio, y algunos hubo como los luciferianos alemanes, cuya rigurosa continencia teórica degeneró en monstruosa carnal licencia.
Semejantes herejes tenían que ser, tanto por su doctrina filosófica como por su vida práctica, enemigos natos de la Iglesia católica, que luchaba a brazo partido por conservar firme y entera una de las bases de la civilización cristiana, es a saber, el monismo teológico, aunque por mucho tiempo no echó mano en su defensa más que de las armas espirituales. La unidad de Dios: he ahí el principio por cuyo triunfo combatía la Iglesia, y en verdad que logró salir airosa del empeño. Entre el maniqueo y el cristiano mediaba todo un abismo; porque mientras a aquél se le antojaba impura y maldita la vida, obra de un demonio la naturaleza, y el deseo de vivir detestable crimen, para éste la creación era una verdadera obra de arte, pura y santa, efecto de la voluntad creadora del supremo Amor, no siendo las manchas que la afean, sino obra exclusiva de la miseria y del pecado del hombre. Por donde se ve con cuánta razón quería Roma saber de cual lado del abismo se inclinaban Francisco y sus hermanos, y si su riguroso ascetismo provenía del orgullo cátaro o de la humildad evangélica. Esto sin contar con que los nuevos penitentes venían de Asís, circunstancia que debía necesariamente suscitar desconfianza en los ánimos católicos, por cuanto Asís era una de las comunidades italianas donde los cátaros se habían adueñado del poder público, eligiendo en 1203 a un albigense por su podestá.
Sobraban, pues, motivos para temer que fuese Francisco del mismo linaje y cepa que Pedro Valdo, cuyo ideal de vida había sido también, como el suyo, la pobreza evangélica. Aquel famoso comerciante lionés obtuvo en 1179, de Alejandro III, el permiso de predicar al pueblo la conversión y de vivir en pobreza apostólica; pero muy luego, en 1184, Lucio III se vio obligado a excomulgarle con sus compañeros, por rebeldes con la autoridad eclesiástica y renovadores del donatismo, permaneciendo dentro de la iglesia sólo unos cuantos valdenses acaudillados por el español Durando de Huesca.
No fue larga, empero, la inquisición que tuvo que hacer el Cardenal Juan para descubrir con toda evidencia que Francisco no adolecía de ninguno de los errores valdenses. Porque la existencia de un Dios único era el fundamento de la piedad de Francisco, así como lo es de toda la teología católica. Precisamente en el Concilio de Letrán de 1215 se afirmó la doctrina de la unidad de Dios contra la herejía de los cátaros.
No hay más que un solo Dios, el Dios de la creación y de la redención, el Dios de la cruz y de la gloria, el Dios de la naturaleza y de la gracia; Dios no es más que uno, como es uno el universo, como es uno el cielo; un solo Dios es alabado y bendecido en todos los dominios de la vida y del movimiento, desde el gusano de la tierra hasta el serafín glorioso, al través de las eternidades. Francisco sentía con toda la intensidad de su ser este principio esencial; lejos de ser un maniqueo renegador de la vida, la amaba entrañablemente como cristiano, no sólo en su manifestación natural con su pureza, sus bondades y encantos, su íntima dulzura, sino en toda la plenitud de la divina esencia; por donde venía a diferenciarse toto coelo de aquellos otros caracteres soberbios que se daban los nombres de puros, perfectos y elegidos, mientras en la realidad, como sucede con todos los soberbios, fluctuaban entre los dos extremos del sacrificio inútil y de la más horrenda degradación. Los cátaros que habían recibido el que llamaban «bautismo del espíritu», consolamentum, se intitulaban perfectos o elegidos. San Francisco nos da una idea muy neta de su doctrina religiosa sobre la unidad de Dios en el capítulo último de su primera Regla.
El espíritu de Francisco nada tenía de negativo ni de crítico; la única crítica que ejercía era la de sí mismo. Por este lado también difería radicalmente de Valdo y sus secuaces. Un historiador moderno ha dicho hermosamente que «Francisco predicaba la bienaventuranza; Valdo, la ley; Francisco, el amor de Cristo; Valdo, sus prohibiciones; Francisco rebosaba gozo de Dios; Valdo castigaba los pecados del mundo; Francisco reunía en torno suyo a los que anhelaban salvarse, dejando a los demás que siguiesen su camino; Valdo no hacía otra cosa que condenar a los impíos y atacar las costumbres del clero» (Schmieder).
La actitud a que se refieren las líneas que he citado es absolutamente propia y particular de Francisco de Asís y constituye su esencial diferencia de todos los otros reformadores de su tiempo, aun de aquellos que mostraban sentimientos respetuosos para con la iglesia, quienes, como Roberto de Arbrissel, por ejemplo, cedían siempre a la tentación de emplear su crítica contra los vicios ajenos, en vez de hacerla servir a extirpar los propios. Francisco advirtió desde un principio, con un tacto maravillosamente certero, que todas las reformas generales serían vanas y estériles mientras no se empezase por la reforma del individuo, y esta clara visión de las cosas le permitió llevar a cabo la renovación universal de las costumbres, que inútilmente habían intentado las excomuniones de los Papas y las acérrimas invectivas de los otros predicadores laicos; y así el mundo pudo palpar una vez más la exactitud de aquella sentencia inspirada: que Dios no se manifiesta en el fragor de la tempestad, sino en la calma del silencio y del recogimiento.
Este carácter profundamente individual de Francisco no podía escaparse a la penetración del Cardenal Juan, quien adivinó en seguida que tenía delante de sí a un hombre absolutamente despojado de sí mismo que, no por vana palabrería ni muchos menos por vana jactancia, sino con toda sencillez, decía de sí mismo y de sus proyectos: «Hemos sido enviados en ayuda de los clérigos para la salvación de las almas». E inculcaba a sus hermanos: «Así que estad sumisos a los prelados y evitad, en cuanto de vosotros dependa, un celo desordenado. Si sois hijos de la paz, ganaréis al clero y al pueblo, y esto es más agradable a Dios que ganar al pueblo sólo con escándalo del clero» (EP 54).
En consecuencia, pocos días después, el Cardenal se presentó al Papa y le habló en estos términos: «He encontrado a un varón perfectísimo que quiere vivir según la forma del santo Evangelio y guardar en todo la perfección evangélica, y creo que el Señor quiere reformar por su medio la fe de la santa Iglesia en todo el mundo» (TC 48). Acto seguido, los hermanos de Asís tuvieron acceso al Papa, quien mandó a Francisco exponer su programa, y cuando le hubo escuchado, contestó: «Hijo mío, la vida que tú y tus hermanos lleváis es demasiado dura. Yo no dudo que, llevados de vuestro primer entusiasmo, podáis continuar en ella; pero es menester que penséis en los que os sucederán, que acaso no tendrán el mismo celo ni la misma exaltación entusiasta que vosotros».
A esto respondió Francisco: «Señor Papa, yo me remito en todo a mi Señor Jesucristo. Él, que nos ha prometido la vida eterna y la celeste bienaventuranza, ¿cómo nos va a negar una cosa tan insignificante cual es lo poco que necesitamos para vivir sobre la tierra?»
Inocencio replicó entonces con estas palabras, en que nos parece descubrir cierta sombra de sonrisa: «Hijo mío, lo que tú dices es muy verdadero; pero no olvides que la naturaleza humana es débil y raras veces se mantiene por mucho tiempo en un mismo estado; ve, pues, hijo mío, a pedir a Dios que te revele hasta qué punto tus deseos están conformes con su voluntad».
Francisco y sus hermanos se despidieron de Inocencio y éste expuso el negocio a los Cardenales en el próximo consistorio. Muchos de aquellos experimentados varones manifestaron, como era de esperarse, vehementes dudas y opusieron objeciones contra la nueva Orden, cuyos principios les parecían fuera del alcance de las fuerzas humanas. Porque, en verdad, la Orden que Francisco quería fundar no era meramente contemplativa, es decir, no perseguía un ideal solitario, con el cual sí podía, en opinión de dichos Cardenales, conciliarse la práctica de la absoluta pobreza: el ideal de San Francisco era la vida apostólica, y señaladamente el ministerio de la predicación; y ¿cómo iban a desempeñar tan ardua tarea unos hombres que no contaban para vivir más que con un escaso e inconstante salario, o con la limosna que pedían de puerta en puerta? También los valdenses habían escrito en su programa la pobreza evangélica; pero entre ellos había legos que proveían con un trabajo a las necesidades de los predicadores. Los miembros de la secta de los Humillados, afines de los valdenses por su espíritu y aspiraciones, traían su origen de una compañía de tejedores lombardos; trabajaban según el sistema comunista: reservaban para sí lo estrictamente necesario y el resto lo distribuían entre los pobres. Tenían más semejanza con las ideas de Francisco los «Pobres Católicos», miembros de una comunidad fundada por el cátaro alemán, convertido, Bernardo Primus. Estos vivían del trabajo de sus manos, por el cual no recibían ningún dinero, sino sólo víveres y vestidos. En rigor todo esto podría practicarse en tanto que las obligaciones de la orden o de la comunidad fueran solamente la oración y el trabajo.
Pero Francisco había venido a Roma a solicitar del Papa la facultad de predicar, y si esta predicación franciscana había de ser algo más que la de los predicadores legos, era menester que se basase en estudios preparatorios, los cuales, a su vez, por someros y elementales que se les supusiese, exigían habitaciones fijas, vida común y claustral. Ahora bien, ¿cómo habría sido posible edificar claustros y mantener en ellos religiosos, fundando la orden sobre la base de una pobreza absoluta?
Las reglas de las órdenes fundadas antes imponían también a sus profesores la pobreza, mas no era en el mismo grado en que la quería profesar Francisco. Es cierto que la regla benedictina ordenaba que el que había de abrazarla «diese antes a los pobres los bienes que poseyera» (cap. 58); que San Bernardo de Claraval habla en varias de sus epístolas en términos netamente franciscanos «de la santa pobreza» y desprecia «el oro y la plata, ese pedazo de tierra blanca o roja que no debe su valor más que a la humana insensatez».7 Todo eso es verdad, pero también lo es que la existencia de un convento cisterciense como la de una abadía benedictina se funda sobre la existencia comunista del principio de la propiedad territorial. El monje no posee individualmente sino lo que el abad le concede; pero su voto de pobreza no quita que su convento posea bienes en común, antes al contrario, la propiedad material le es indispensable para que sus moradores puedan entregarse libremente a sus tareas espirituales sin cuidarse ni mucho ni poco de su corporal subsistencia.
Francisco pensaba de un modo totalmente diverso, porque estimaba que lo que Pedro y Pablo habían podido practicar y recomendar a sus respectivos discípulos era todavía posible, es a saber, anunciar al mundo el Evangelio y vivir del propio trabajo y, si éste no da, de los dones de Ia caridad pública. Los Apóstoles nunca buscaron asilo seguro y quieto entre las cuatro paredes de un claustro, y Francisco quería imitar su ejemplo, renunciando a las ventajas de que aquellos incomparables maestros carecieron.
Si bien es cierto que tales deseos de Francisco suscitaron la más fuerte oposición en el Colegio de los Cardenales, todas las objeciones se deshicieron ante la siguiente sencilla observación del Cardenal Juan Colonna: «Este hombre no pide más sino que se le permita vivir conforme al Evangelio; si nosotros damos en declarar que tal conformidad es imposible a las fuerzas humanas, por el mismo caso vendremos a establecer que la vida evangélica es impracticable, con lo que haremos gran ofensa al mismo Jesucristo, primero y único inspirador del libro sagrado». Estas palabras decidieron el triunfo en favor de Francisco, quien fue otra vez llamado a San Juan de Letrán.

En la noche que precedió a esta segunda entrevista del Santo con el Papa, fue cuando éste tuvo aquel sueño misterioso en que le pareció que, estando él en su palacio de Letrán en el ángulo llamado Speculum (por la amplia vista que se goza desde ese punto), contemplando la soberbia basílica, «cabeza y madre de todas las iglesias», consagrada a los dos Juanes, Bautista y Evangelista, he aquí que de repente observó con asombro que el enorme edificio vacilaba, que se inclinaba de un lado la torre, que los muros empezaban a crujir y que la antigua basílica de Constantino amenazaba convertirse en una informe masa de escombros. Embargado por el espanto, incapacitado para mover las manos, el Pontífice no hacía más que mirar desde su palacio el espantoso peligro; quería gritar para pedir auxilio y no podía; tiraba a juntar las manos para orar y... ¡vano empeño!
De súbito aparece en la plaza de Letrán un hombrecillo de humilde continente, vestido a la campesina, desnudos los pies y ceñida de tosca cuerda la cintura, quien al punto se dirige con toda resolución hacia el bamboleante edificio y, sin parar mientes en el riesgo que corre de ser aplastado por la gigantesca mole, aplica el hombro a una de las murallas que ya se venía al suelo. ¡Caso extraordinario! Fue aquello como si el raquítico y desmedrado auxiliador cobrase estatura y fuerzas equivalentes a la del muro desplomado; le aplicó las espaldas por la parte vecina al techo; hizo un enérgico movimiento hacia arriba y enderezó el muro, dejando toda la iglesia más firme y esbelta sobre su base que antes estaba.
Profunda sensación de alivio sintió el Papa al ver tan oportuno y eficaz remedio. Pero en el mismo instante el hombrecillo se volvió hacia él. Inocencio pudo ver que el que por modo tan maravilloso había impedido la ruina de la cabeza y madre de las iglesias no era otro que Francisco, el penitente de Asís (LM 3,10).
Cuando éste, al día siguiente, se presentó al pontífice, le hizo un discurso cuidadosamente preparado con antelación:
«Señor Papa -le dijo-, voy a contaros una alegoría. Érase una doncella muy hermosa, pero muy pobre, que moraba en lo más apartado del desierto. Un día fue a verla el rey de la comarca y, prendado de su belleza la tomó por esposa con la esperanza de que ella le daría una hermosa descendencia. Verificado el casamiento se realizaron plenamente los anhelos del rey, pues la pobre esposa le hizo padre de numerosos hijos en que ella reprodujo con creces su hermosura. Cierto día se puso a razonar consigo misma: "¿Qué voy a hacer yo con estos hijos que he dado a luz? ¿Cómo los mantendré, siendo tan pobre como soy?" Pero luego se le ocurrió una idea y llamó a sus hijos y se la comunicó, diciéndoles: "No temáis, sois hijos de un gran rey. Id, pues, a su corte que él os dará todo que habéis menester". Ellos obedecieron, y cuando llegaron a la presencia del rey, éste quedó maravillado de su belleza, y viendo que se le parecían mucho, les pregunté: "¿De quién sois hijos?". A lo que ellos respondieron que eran hijos de la pobre mujer que habitaba en medio del desierto. Entonces el rey los abrazó con gozo grande de su corazón y les dijo: "No temáis, sois mis hijos. Yo siento cada día a mi mesa una muchedumbre de forasteros: ¡con cuánto mayor gusto os acogeré a vosotros, que sois mis hijos legítimos!" Y en seguida mandó decir a la mujer del desierto que le enviase todos los niños, que él desde ese momento se encargaba de su crianza y educación».8
«Señor Papa -continuó Francisco-, yo soy esa mujer del desierto. Dios en su misericordia infinita se dignó bajarse hasta mí, y yo le he engendrado hijos en Cristo. El Rey de los reyes me ha asegurado que la vida de todos mis descendientes corre de su cuenta; porque si alimenta con tanto cuidado a los extraños, ¿con cuánto más esmero no cuidará de los de su casa? Dios concede abundancia de bienes temporales a los hombres del mundo en vista del amor que ellos tienen por sus hijos: ¡con cuánta más largueza no derramará sus dones sobre aquellos que sigan y practiquen su Evangelio y con quienes por ende El se ha comprometido a mostrarse siempre paternal!»
Tales fueron las razones de Francisco, e Inocencio comprendió que no las dictaba la sabiduría de este mundo, sino el espíritu de Dios. Volviéndose, pues, a los Cardenales que estaban presentes, dijo en tono solemne e inspirado: «En verdad, este hombre es el escogido por Dios para restaurar su Iglesia». En seguida se levantó, abrazó a Francisco y le dijo a él y a sus compañeros: «Hermanos, id con Dios y predicad a todas las gentes el Evangelio de la conversión según que Él os inspire. Cuando por la virtud del Altísimo os hayáis multiplicado, venid a mí sin temor alguno y me hallaréis dispuesto a favoreceros todavía más y a confiaros más altas empresas» (1 Cel 33; TC 51).
A estas palabras del Pontífice todos los hermanos cayeron de rodillas a sus pies y le juraron obediencia; en seguida los once la prestaron a Francisco como a su jefe. A él sólo le otorgó el Papa la licencia de predicar, pero con facultad de trasmitirla a los demás. Antes de retirarse los autorizó Inocencio para recibir la tonsura clerical, que después les confirió el Cardenal Juan y que debía ser el signo externo del permiso de predicar la palabra de Dios.9
Hecha otra visita a la tumba de San Pedro y San Pablo, Francisco y sus hermanos dejaron Roma y emprendieron la vuelta a su patria a través de la campiña romana y de las cumbres azuladas del monte Soracte. Caminaban con paso apresurado, llenos de gozo, anhelando hallarse otra vez en su medio habitual practicando de nuevo la vida y trabajos cuya consagración eclesiástica acababan de impetrar del Vicario de Jesucristo en la tierra.





NOTAS:
1) Waddingo, Ann., 1210, p. 80.- Debo agregar que la fuente de donde ha tomado Waddingo este relato es bien poco segura. Cfr. Acta SS., oct. II, p. 589, n 231.
2) San Buenaventura cuenta que, habiendo Morico enfermado gravemente en su convento de San Salvador, le sanó Francisco con sólo darle a comer un pedazo de pan empapado en el aceite de la lámpara que ardía ante el altar de la Virgen de la Porciúncula, y que, en reconocimiento de tan milagrosa curación, se agregó a la nueva orden, donde se señaló siempre por la austeridad de su vida ascética, no comiendo más que hierbas, legumbres y frutas crudas, y absteniéndose del pan, del vino, etc. (LM 4,8).
Del antiguo establecimiento de los Crucígeros en Rivotorto quedan aún dos vestigios, que son las dos capillitas de San Rufinello de Arce y Santa María Magdalena, ambas más parecidas a la Porciúncula que la gran iglesia franciscana edificada mucho más tarde con el antiguo nombre de Rivotorto.
3) 1 Cel 39-41; TC 41-45; AP 25-29. Cf. las Florecillas, cap. III, que refiere cómo Francisco se castigó un mal pensamiento que había tenido contra Fray Bernardo, mandándole que le pusiese el pie en la boca por tres veces. Más severa pena se impuso a sí mismo Fray Bárbaro por unas palabras malas que se le escaparon (2 Cel 155).
4) Algunos biógrafos modernos deducen equivocadamente, por el orden en que se desarrollan los hechos en la narración de Celano, que este episodio relativo al emperador Otón tuvo lugar después del viaje de Francisco y sus hermanos a Roma, viaje que, por este motivo, adelantan a 1209. Ahora bien, Fray Gil se unió a Francisco y a sus hermanos el 23 de abril de 1209, por lo que las dos misiones, la de las Marcas y la del valle de Rieti, fueron posteriores a esa fecha. Esas misiones duraron ciertamente algunos meses, y sabemos que, desde finales de mayo de 1209, Inocencio III dejó Roma para ir a Viterbo, de donde no regresó a Roma hasta octubre, para coronar a Otón. Por todo ello, el viaje de los frailes a Roma tuvo que ser después de la coronación del emperador. En conclusión, la fecha más probable para este viaje es el verano de 1210. Cf. Waddingo, Ann., 1210. AF III, p. 5, n. 8; y Sabatier, Vie de Saint François, p. 100, n. 1.
5) TC 43; AP 27. Francisco fue el primero en sustituir en el Breviario Romano la invocación general de «todos los Apóstoles» por la particular de «los dos Apóstoles romanos Pedro y Pablo». Véase Bernardo de Besa enAnalecta, III, p. 672.
6) Este prelado, vástago de la ilustre familia de los Colonna, había sido creado Cardenal por Celestino III (Waddingo, Ann., 1210, n. 7).
7) Ep. 103, n. 7; Ep. 141, n. 2; Serm. In Adv., IV, n. 1.
8) TC 50.- El AP 35 refiere este caso de una manera algo diversa. Cf. 2 Cel 16.
9) TC 51-52; LM 3,10; AP 36.- El P. Hilarino Felder es del sentir que esta autorización miraba sólo a la predicación moral, no a la dogmática para la cual se requería cierta formación teológica.

La verità è sempre una.


INNO ALLA CHIESA UNA

«Il cristianesimo - scrive Ernest Hello — parla continuamente di unità. L'epiteto di unam è uno di quelli che la Chiesa da a se stessa nel Credo. E notare che la Chiesa non solo proclama la sua unità, ma la canta, perché l'unità è il carattere della legge e il carattere della gloria. L'unità vera e vivente ha diritto al canto e al grido perché essa è il battito stesso del cuore».

L'unità della Chiesa cattolica, che si oppone a qualunque forza di divisione e di disgregazione, è la qualità che maggiormente meraviglia i credenti (anche se talvolta non sanno sufficientemente apprezzarla e difenderla) e sconcerta gli avversari.

Unità nella sua fede che si oppone a tutte le divergenze centrifughe di filosofie ed opinioni umane e che, come da un'alta specola, tutte le osserva, tutte le critica e, in quello che contengono di errore, tutte le condanna.

Unità nel suo governo, come un corpo che è retto e governato da un solo capo e da un solo cervello; come un esercito che dipende da un solo stato maggiore; come una famiglia sana e ordinata che aspetta il cenno del padre.

Unità soprattutto nel magistero e nella dottrina che rotano ambedue intorno alla verità. La verità è sempre una. Se non fosse una non sarebbe verità. L'unità e l'indivisibilità del vero sono due condizioni inseparabili dalla sua essenza. Infatti ciò che è vero o è uno, o non èo è vero per tutti, o è errato per tutti. La Chiesa cattolica è l'opera della volontà salvifica di Dio stabilita nel mondo: per questo nella Chiesa cattolica noi dobbiamo trovare l'unità di quel magistero che insegna, inculca, sostiene, difende la verità.

Cambiano gli uomini di Chiesa, ma non cambia la Chiesa. Cambia la cornice esterna in cui la Chiesa, società divino-umana, vive, si trova, si muove, agisce, soffre... ma la Chiesa resta immutata oggi come era cento, duecento anni fa, al tempo dell'illuminismo, al tempo del Rinascimento, nel medioevo, nell'impero romano, al tempo degli Apostoli, il giorno della Pentecoste quando essa venne alla luce.

Stat crux dum volvitur orbis.

C'è bisogno di dire che fuori della Chiesa cattolica non c'è unità né di fede, né di indirizzo morale?

Dalle origini della Chiesa fino agli ultimi tempi l'eresia sarà sempre l'antagonista più tenace della dottrina rivelata, ma insieme, per la legge dei contrasti e per disposizione provvidenziale di Dio, la controprova più efficace e luminosa della sua verità.

Scrive Chesterton: « È facile essere pazzi, come è facile essere eretici. È sempre facile che un'epoca si metta alla testa di qualche cosa, difficile è conservare la propria testa. È sempre facile essere modernisti, come è facile essere snob. Cadere in uno dei tanti trabocchetti dell'errore che da una moda all'altra, da una setta all'altra, sono stati aperti lungo il cammino storico del cristianesimo, questo sarebbe stato semplice. È sempre semplice cadere. C'è un'infinità di angoli a cui si cade, c'è un angolo solo a cui ci si appoggia. Perdersi in un qualunque capriccio, dallo gnosticismo alla Christian Science, sarebbe stato ovvio e banale. Ma l'averli evitati tutti è l'avventura che conturba. E nella mia visione il carro celeste vola sfolgorante attraverso i secoli, mentre le stolide eresie si contorcono prostrate. L'augusta verità oscilla, ma resta in piedi... »




MARIA MADRE E TIPO DELLA CHIESA

La dottrina del corpo mistico annunciata nelle lettere paoline non è mai stata facile a capirsi. La parola 
«mistico» viene dalla stessa radice della parola « mistero », che significa una realtà appartenente al segreto piano salvifico di Dio ora rivelatoci in Cristo. Nel caso, il termine « mistico » serve anche a distinguere la Chiesa dal corpo fisico di Cristo senza per altro ridurre tutto a una semplice nozione di unione morale.

Non sempre la dottrina del corpo mistico ha avuto nella Chiesa il posto che ha oggi. Anche i dogmi hanno la loro storia fatta di alti e bassi, di chiarezze e oscurità, di dimenticanze e di ritorni. Questa alternanza non tocca evidentemente la verità rivelata in sé, che rimane sempre uguale, ma la sua manifestazione e conoscenza da parte dei credenti. A una fase di intuizione confusa succede una fase di conoscenza più chiara, di discussione, di approfondimento, anche di contrarietà, finché interviene l'autorità infallibile della Chiesa con la sua definizione solenne e la discussione, almeno in campo cattolico, è finita.

Il binomio Chiesa-corpo mistico, che ha il suo fondamento teologico in S. Paolo e la sua spiegazione e applicazione più geniale in S. Agostino, dopo secoli di silenzio è tornato oggi di attualità con l'enciclica Mystici Corporis di Pio XII (1942), con gli studi teologici di Jungmann, di Grazioso Ceriani, del cardinale Charles Journet e di altri. Il duplice carattere divino ed umano della Chiesa di Cristo è veduto nella sua giusta luce e collocato nella sua giusta misura esattamente attraverso la dottrina del corpo mistico.

La Chiesa si presenta strutturata su una base giuridica umana dovendo essa vivere e operare fianco a fianco, anzi nel bel mezzo della città terrena; deve avere una base economica e perciò anche un'amministrazione finanziaria perché gli uomini che la compongono non sono ancora angeli; circondata dai « figli delle tenebre » sempre avversi e nemici di lei perché nemici di Dio, deve adottare una sua politica umana per attuare il programma di apostolato che le è stato affidato e non frustrare gli scopi della sua fondazione. Tutti questi aspetti umani della Chiesa non sempre la fanno apparire quale veramente è, una e santa.

Ma la Chiesa è anche e soprattutto divina perché è il corpo mistico di Cristo. Nella divinità del corpo mistico anche la parte umana della Chiesa viene in certo senso assorbita nella divinità. Nel corpo infatti abbiamo il capo e le membra. Il capo della Chiesa è Cristo, e le membra siamo noi, i battezzati. Il capo non esiste e non è pensabile senza il corpo, e il corpo non è concepibile senza il capo. Il mistero della Chiesa umana si trasfigura nella storia divina della Chiesa una e santa che nel decorso dei secoli, in mezzo al crollo di ciò che è unicamente umano, si trasmette sempre uguale, sempre viva, sempre indefettibile, sempre divina.

Nella riflessione teologica della Chiesa, corpo mistico, si fa oggi più visibile e più marcata la funzione e la presenza di Maria, Madre e tipo della Chiesa nel corpo mistico, tanto che Paolo VI sulle tracce del Vaticano II arriva fino a vedere l'azione della Chiesa nel mondo come un prolungamento delle sollecitudini di Maria: 
«II richiamo ai concetti esposti nel Concilio Vaticano II... permetterà ai fedeli di riconoscere più prontamente la missione di Maria nel mistero della Chiesa e il suo posto eminente nella Comunione dei Santi; di sentire più intensamente il legame fraterno che unisce tutti i fedeli, perché figli della Vergine e figli altresì della Chiesa, che ambedue concorrono a generare il corpo mistico di Cristo... di percepire, infine, più distintamente che l'azione della Chiesa nel mondo è come un prolungamento della sollecitudine di Maria. Infatti l'amore operante della Vergine a Nazareth, nella casa di Elisabetta, a Cana, sul Golgotha — tutti momenti salvifici di vasta portata ecclesiale — trova coerente continuità nell'ansia materna della Chiesa, perché tutti gli uomini giungano alla conoscenza della verità... » (PAOLO VI, Marialis Cultus, 2 febbraio 1974, n. 28).