sabato 16 novembre 2013

Sant'Alberto Magno - L’UNIONE CON DIO


Alberto Magno


L’UNIONE CON DIO



 

CAPITOLO I

LA MASSIMA PERFEZIONE SPIRITUALE E’ POSSIBILE ALL’UOMO MEDIANTE IL DISTACCO DELLA INTELLIGENZA E DELLA VOLONTA’ DA TUTTE LE COSE


Perché l’autore scrive questo opuscolo

Ho pensato di scrivere un’ultima parola (per quanto mi è possibile nei languori di questo esilio e pellegrinaggio) sul distacco completo da tutte le cose; e sull’unione libera, sicura, assoluta e totale con Dio. Il fine della perfezione cristiana, infatti, non è altro che la carità che a Dio ci unisce (1).

L’unione con Dio quale s’impone a tutti gli uomini

L’uomo che vuol giungere a salvezza è obbligato a questa unione di carità, e deve per conseguenza praticare i divini precetti e conformarsi alla divina volontà.
Tale vita escluderà tutto ciò che ripugna all’essenza della virtù della carità, cioè il peccato mortale.

L’unione con Dio quale si impone ai religiosi

Ma i religiosi si sono votati inoltre alla perfezione evangelica e alle opere di supererogazione e di consiglio, per arrivare più facilmente al loro fine ultimo che è Dio (2). Per cui essi evitano ciò che potrebbe impedire l’atto e il fervore della carità e ostacolare il loro slancio verso Dio.
Essi hanno rinunciato a tutti i beni del corpo e dell’ingegno e non osservano che il voto della loro professione religiosa (3).

Condizioni dell’unione perfetta con Dio

Dio è spirito, e coloro che l’adorano devono adorarlo “in spirito e verità” (4), devono cioè adorarlo con una conoscenza e un amore, una intelligenza e una volontà spogli da ogni illusione terrena.
Infatti il Vangelo dice: “Quando adorate, entrate nella vostra casa” ossia nell’intimo del vostro cuore e “dopo aver chiusa la porta” dei vostri sensi, con cuore puro, con coscienza senza rimproveri e con fede senza finzione “pregate il Padre in spirito e verità, nel segreto della vostra anima” (5).
L’uomo saprà realizzare questo ideale quando sarà disinteressato e spogliato di tutto, quando sarà interamente raccolto in se stesso, quando avrà messo da parte e dimenticato l’universo intero per mantenersi nel silenzio in presenza di Gesù Cristo, mentre la sua anima purificata eleverà con sicurezza e confidenza i suoi desideri a Dio, e con tutto lo slancio del suo cuore e del suo amore si dilaterà, s’inabisserà, s’infiammerà, si immedesimerà in lui, fino nel più intimo del suo essere, con una sincerità e una pienezza senza limiti.

 

CAPITOLO II

SI PUò DISPREZZARE TUTTE LE COSE TERRENE PER TENDERE ALL’UNIONE INTIMA CON DIO

Per raggiungere l’unione perfetta con Dio, bisogna disprezzare i beni terrestri
Ma l’uomo che intende raggiungere realmente tale stato di perfezione ed entrarvi, deve assolutamente chiudere occhi e sensi; non preoccuparsi, non turbarsi, non inquietarsi, non curarsi per nulla delle creature.

Raccogliersi in se stessi e attaccarsi a Cristo

Bisogna ch’egli rinunzi completamente a tutte le cose di questo mondo come inutili, nocive, funeste (6); che si raccolga in se stesso, e la sua anima non abbia altro pensiero che per il Cristo doloroso.
Egli dovrà fare ogni sforzo e serbare tutta la sua perseveranza per arrivare a lui per mezzo di lui: cioè a Dio per mezzo dell’Uomo­Dio, all’intimo della sua divinità per mezzo delle piaghe della sua umanità.

Bisogna anche abbandonarsi alla Divina provvidenza

Egli dovrà infine con tutta semplicità e confidenza abbandonare senza restrizione ogni cosa alla infinita provvidenza di Dio, secondo le parole di S. Pietro: “Deponete in Lui tutte le vostre angustie, perché Egli si prende cura di voi” (7). E altrove è detto “Non inquietatevi di nulla” (8); “Affida al Signore le tue cure: ed egli sarà il tuo tutore” (9); “Mi fan lieto, o Signore, le opere tue” (10); “Sempre io tengo il Signore innanzi a me” (11); “Incontrai l’amato del mio cuore” (12) e “mi venne ogni bene insieme” (13) con lui.

Bisogna infine cercare di esplorare il tesoro celeste
Ecco il tesoro celeste e nascosto, la pietra preziosa che si deve preferire a tutto, e cercare con umile fiducia e con sforzo costante, nella tranquillità del silenzio, con la massima energia dell’anima, dovesse pur costarci la perdita del benessere corporale, della lode, dell’onore.
Se così non fosse, per qual motivo ci faremmo religiosi? “Che gioverebbe a un uomo guadagnare tutto il mondo se perdesse l’anima sua?” (14).
Che importa lo stato, la santità della professione, l’abito dei perfetti, la testa tosata, tutto l’esteriore di una vita separata dal mondo, se poi manca lo spirito d’umiltà e di verità dove soltanto abita il Cristo per mezzo della fede e della carità? Dice S. Luca: “Il regno di Dio è dentro di voi” (15) ed è appunto il Cristo.



CAPITOLO III

LA LEGGE DELLA PERFEZIONE DELL’ UOMO IN QUESTA VITA

L’unione con Dio è proporzionata al distacco dalle cose terrestri

Più lo spirito è assorbito dal pensiero e dalle cure delle cose di questo mondo, più perde l’intimità della sua devozione e s’allontana dalle cose celesti. Al contrario, più si darà premura di allontanare le sue facoltà dal ricordo, dall’amore, dal pensiero delle cose inferiori per fissarle nelle cose superiori, più sarà perfetta la sua devozione, e più diventerà pura la sua contemplazione.
E’ impossibile che l’anima possa applicarsi, perfettamente a due oggetti nello stesso tempo, quando essi sono dissimili come il giorno e la notte (16).
Chi vive unito a Dio abita nella luce, chi si attacca al mondo vive nelle tenebre.

In che consiste la più alta perfezione in questo mondo
La più alta perfezione dell’uomo in questa vita consisterà dunque nel raggiungere una tale intimità con Dio, da procurare che tutte le facoltà e potenze dell’anima rimangano raccolte in lui e formino come un medesimo spirito con lui (17) e l’anima non ricordi che Dio, non senta e non comprenda che Dio, che tutti i suoi affetti, uniti nella gioia dell’amore, non trovino riposo che nel possesso del Creatore.
L’immagine di Dio, impressa nell’anima, è infatti costituita dalla ragione, della memoria e dalla volontà; ma fino a quando queste facoltà non portano l’impronta perfetta di Dio, non gli rassomigliano come nei giorni della prima creazione dell’uomo (18).

L’immagine di Dio deve essere impressa negli atti dell’uomo
La forma dell’anima è Dio, che deve imprimersi in essa come il sigillo sulla cera, come la marca sul proprio oggetto (19).
E ciò si realizza pienamente soltanto quando la ragione è completamente illuminata dalla conoscenza di Dio, verità suprema, e la volontà è interamente incatenata all’amore dell’eccelso bene, e quando la memoria è pienamente assorta nella contemplazione e nel godimento della felicità eterna e nel soave, dolce riposo di tale felicità. E siccome la gloria dei Beati in cielo, non è altro che il possesso di questo stato, è chiaro che l’iniziato possesso del medesimo, costituirà la perfezione dell’uomo nella vita presente.


CAPITOLO IV

L’UOMO DEVE OPERARE SECONDO LA SUA INTELLIGENZA E NON SECONDO I SENSI

Bisogna purificare l’anima dalle illusioni e preoccupazioni terrene

Beato colui che allontana da sé assiduamente le illusioni e le immaginazioni, e che orienta ed eleva la sua anima verso Dio. Fortunato colui che riesce ad obliare le apparenze e opera interiormente, dirigendo con purezza e semplicità la propria intelligenza e volontà verso il purissimo Dio!
Sforzatevi di allontanare dalla vostra anima le illusioni, le apparenze, le immaginazioni, insomma tutto ciò che non è Dio (20).
E’ necessario che tutto ciò che voi fate per Iddio derivi da una intelligenza, da una affezione, da una volontà egualmente purificate.
In poche parole, fine di tutte le vostre azioni deve essere di tendere verso Dio e di trovare in lui il riposo intimo, per mezzo di una intelligenza perfettamente pura e di una volontà completamente a lui consacrata, esente da rappresentazioni e preoccupazioni umane.

Non si arriva a Dio per mezzo dei sensi

Non con gli organi materiali né coi sensi esterni si arriva a Dio, ma con ciò che caratterizza l’essere umano, vale a dire con l’intelligenza e la volontà (21). Per conseguenza fino a che l’uomo s’indugia e si diverte in cose che interessano l’immaginazione e i sensi, è evidente che non ha ancora superato gli istinti e i limiti di ciò che vi è di animale in lui, di ciò che egli ha in comune coi bruti.
L’animale irragionevole non comprende, e non è impressionato che nella immaginazione e nei sensi, perché non ha facoltà più nobili. Ben altrimenti accade all’uomo, dotato di intelligenza, di volontà, di libero arbitrio, e creato ad immagine e somiglianza di Dio. Soltanto dunque per mezzo di queste facoltà, senza altri intermediari, egli deve tendere a lui e fissarsi in lui (22).

Il demonio ci tenta per mezzo dei sensi per impedire la nostra unione con Dio
Il demonio fa tutto il possibile per impedire questo santo esercizio.
Egli vede in esso un principio, un dolce preludio di vita eterna e ne è invidioso; si sforza dunque, con una tentazione o con l’altra, di allontanare l’anima da Dio. Eccita le passioni, provoca agitazioni inutili, preoccupazioni. indiscrete, turbamenti, conversazioni sregolate, irragionevoli curiosità.
Seduce per mezzo della lettura di libri vani, di relazioni pericolose, con l’agitazione e con le novità; ricorre alle dure prove, alle avversità, ecc.

Le preoccupazioni terrestri, anche se oneste possono essere di ostacolo alla nostra unione con Dio
Può anche darsi che tutte queste cose non siano talvolta che colpe leggere, o non siano neppure colpe; è nondimeno fuori di dubbio che rappresentino sempre un grande ostacolo all’opera di unione con Dio.
Dobbiamo dunque concludere che quand’anche tutto ciò sembrasse utile o, se si vuole, necessario, conviene 1iberarne i sensi, come di un male, si tratti di grandi o di piccole cose.
Ciò che in qualsiasi modo si è udito o fatto, o detto, non deve lasciare in noi alcuna preoccupazione, o effervescenza dell’immaginazione. Né prima, né dopo, né durante, dobbiamo attaccarvi i sensi interni o esterni al punto da esserne turbati.

Risultati del distacco dalle cose terrene

Quando le rappresentazioni sensibili non agitano più la memoria né lo spirito, allora l’uomo non è più disturbato nelle sue preghiere, nelle meditazioni, nella recita del divino ufficio, in nessuno insomma dei suoi esercizi spirituali.
Non vi saranno più in lui quei ricordi del passato che generano le distrazioni.
Voi potrete allora, senza difficoltà e con sicurezza, nel silenzio e nella pace, affidare voi stessi e quanto vi appartiene all’infallibile e salda Provvidenza. Iddio allora combatterà per voi, vi darà una libertà e delle consolazioni migliori, più nobili, più dolci di quelle che avreste goduto abbandonandovi giorno e notte alle corse folli della immaginazione, alle vane agitazioni lusinghiere della vostra anima, che sarebbe stata sacrificata, senza ragione, col vostro corpo, il vostro tempo, le vostre forze (23).

Non bisogna impressionarsi di nulla

Bisogna dunque che ogni avvenimento, qualunque ne sia l’origine, sia accettato in silenzio, nella pace e tranquillità dello spirito. Essi ci vengono sempre dalla mano patema della Provvidenza.
Allontaniamo dunque con molta cura le preoccupazioni materiali, per quanto ce lo permette la nostra professione.
Purifichiamo pensieri ed affetti, per fissarci in Colui al quale ci siamo votati così frequentemente e così totalmente.
Non vi siano più intermediari fra lui e la nostra anima.
Allora soltanto noi potremo senza indugi e inciampi, passare direttamente dalle piaghe dell’umanità di Gesù Cristo alla luce della sua divinità.


CAPITOLO V

DOBBIAMO RICERCARE LA PUREZZA DI CUORE PIÙ D’OGNI ALTRA COSA

Si trova la purezza del cuore riunendo le proprie affezioni in Dio
Voi dunque che desiderate percorrere il sentiero più breve e più sicuro per arrivare un giorno alla patria celeste, alla grazia, alla gloria eterna, mettete ogni vostra cura a mantenere il cuore in una inviolabile purezza, l’anima in libertà, i sensi nella quiete.
Raccogliete tutte le affezioni del vostro cuore per gettarle in seno a Dio.

 

Bisogna, quanto più è possibile, liberarsi dalle preoccupazioni inutili

Staccatevi, per quanto è possibile, dalle vostre conoscenze e da tutto ciò che potrebbe ostacolare i vostri propositi.
Cercate ardentemente e continuamente il luogo, il tempo, il modo di godere la pace e la contemplazione. Non amate nulla più del segreto della solitudine, evitate i discorsi mondani sempre pronti ad ostacolarvi, fuggite le turbolenze di un mondo incessantemente agitato e rumoroso (24).
Sforzatevi costantemente di purificare, di illuminare e pacificare il vostro cuore, chiudete le porte dei sensi carnali, per raccogliervi abitualmente in voi stessi, e fate in modo che il vostro cuore resti chiuso, per quanto è possibile, a tutto ciò che può venirvi dalla terra.

Importanza della purezza di cuore

Fra tutti gli esercizi spirituali la purezza del cuore tiene il primo posto.
Essa è il fine e la ricompensa di tutto il lavoro spirituale e non appartiene che a colui il quale vive veramente secondo lo spirito e da buon religioso.
Mettete dunque ogni vostra cura, ogni vostra capacità e ogni energia per liberare il vostro cuore, i vostri sensi e le vostre affezioni da tutto ciò che potrebbe ostacolarne la libertà, incatenarvi e rendervi schiavi.
Combattete costantemente per riunire tutte le affezioni disordinate del vostro cuore nell’amore della sola e pura verità e del bene supremo.

Effetti della purezza di cuore

L’anima vostra allora potrà ancorarsi tenacemente in Dio e nelle cose divine, voi sdegnerete le frivolezze della terra e il vostro cuore si verrà trasformando, fino nella più intima fibra, in Nostro Signore Gesù.
Quando avrete incominciato a spogliarvi e a liberarvi di ciò che è terrestre, a semplificare e tranquillizzare con fiducia il cuore e lo spirito in Dio, per bere ed assaporare con tutte le vostre potenze i flutti dei favori divini, e a fissare la vostra volontà ed intelligenza in Dio, allora non vi sarà più necessario ricorrere agli insegnamenti della divina Scrittura per apprendervi l’amor di Dio e del prossimo: lo Spirito Santo vi istruirà e dirigerà (25).

Non bisogna trascurare nulla per uscire da se stessi

Non risparmiate dunque nessuno sforzo, nessuna fatica, nessuno slancio, per purificare il vostro cuore, per fissarvi immobili e tranquilli in Dio, come se fosse già spuntato per voi il giorno dell’eternità che è il giorno di Dio.
Per amore di Gesù plasmate in voi stessi un’anima pura, una coscienza serena e una fede sincera, e di fronte a tutte le prove, a tutti gli eventi, confidate in Dio senza restrizione, non curandovi d’altro che di obbedire assolutamente alla sua volontà e ai suoi desideri.
Per arrivare a questo, dovete rientrare frequentemente in voi stessi e rimanervi il più possibile, onde effettuare in voi il distacco da ogni cosa terrena.
Serbate la vostra anima nella purezza e nella calma; preservate la vostra intelligenza dalla polvere di quaggiù, proteggete la libertà della vostra volontà, attaccatevi con ardente amore al bene supremo, tenete la vostra memoria al disopra delle cose di questo mondo, per fissarla nel bene essenziale e increato.

L’unione di intelligenza e d’amore con Dio è la suprema perfezione sulla terra
La vostra anima con tutte le sue facoltà e potenze sia raccolta in Dio in modo da formare con lui un solo spirito. In questo consiste tutta la perfezione possibile all’uomo sulla terra.
Tale unione d’intelligenza e d’amore per cui l’uomo si conforma in tutto alla volontà eterna e suprema, ci permette di diventare, per grazia, ciò che Dio è per natura (26).
Non dimentichiamolo: nello stesso istante in cui l’uomo, con l’aiuto di Dio riesce a vincere la sua volontà, vale a dire, riesce ad allontanare da sé ogni amore, ogni preoccupazione disordinata, per lanciarsi decisamente, con tutte le sue miserie, nel seno di Dio, diventa immediatamente così gradito a Dio che ne riceve il dono della grazia.
La grazia poi gli comunica la carità e l’amore; la carità mette termine a tutte le esitazioni, a tutti i timori, ed egli confida soltanto in Dio.
E’ dunque ben vero che la più grande felicità consiste nel porre tutta la nostra fiducia in Colui che non può mancarci. Fino a quando resterete in voi stessi, sarete vacillanti e instabili. Gettatevi con confidenza sul cuore di Dio, egli vi riceverà, vi guarirà, vi salverà (27).

La felicità dell’unione con Dio

Se saprete riflettere frequentemente su queste verità, troverete in esse più felicità e gioia per la vita che non in tutte le ricchezze, in tutti gli onori, in tutte le delizie; non solo, ma persino più che in tutta la sapienza e la scienza di questo mondo menzognero e ripieno di corruzione, anche se possedeste tali beni in copia maggiore di quanta ne ebbero coloro che vi hanno preceduti.

 

CAPITOLO VI

L’UOMO CHE VUOLE ACQUISTARE LA VERA PIETA’ DEVE PURIFICARE LA PROPRIA INTELLIGENZA E I PROPRI AFFETTI

Il distacco interiore fa gustare le cose del cielo

E’ fuor di dubbio che più voi sarete liberi dalle occupazioni e dai ricordi esteriori e mondani, più la vostra anima riacquisterà forza e capacità per gustare le cose del cielo. Imparate perciò a staccarvi dalle cose terrene.
Dio ama molto tale rinuncia. Le sue delizie sono di stare coi figlioli degli uomini (28) cioè con coloro che dopo avere allontanato le distrazioni e le passioni, sanno, con cuore puro e retto, tendere, donarsi e attaccarsi a lui.
Se la memoria, l’immaginazione, i pensieri strisciano spesso a terra, accadrà necessariamente che gli avvenimenti nuovi, i ricordi del passato e molte altre cose, inevitabilmente vi preoccuperanno e distrarranno. Lo Spirito Santo è assente da questi pensieri che mancano di saggezza.
Il vero amico di Gesù Cristo deve dunque essere talmente unito con la propria intelligenza e buona volontà alla volontà e alla bontà divina, da togliere alle passioni ogni appiglio su lui e da evitare di indagare se è schernito, amato o considerato come persona da poco. La buona volontà può arrivare a tutto, può dominare ogni cosa.

Suscita nell’anima il disinteresse per le miserie personali

Se la volontà è buona e pienamente conforme e unita alla volontà di Dio, come consiglia l’intelligenza, poco importa che la carne, i sensi, l’uomo esteriore, siano inclini al male e fiacchi per il bene, oppure che l’uomo interiore si trovi senza amore per le cose spirituali (29). Importa soltanto che per la fede e la buona volontà l’uomo resti unito a Dio con tutta l’anima.
Egli vi riuscirà, se riconoscerà la propria imperfezione e il proprio nulla; se comprenderà che il proprio bene non si trova che nel suo Creatore; se abbandona a Lui se stesso con tutte le sue potenze, le sue forze e le creature tutte, per nascondersi interamente in seno a lui con pieno slancio, per dirigere ogni sua azione verso Dio, senza cercare nulla all’infuori di Dio; se riconosce d’aver trovato in lui tutto il bene e tutta la felicità della perfezione.

Divinizza l’uomo

L’uomo allora, giunto a questo stato di perfezione, sarà, in certo qual modo, trasformato in Dio; non potrà più pensare, amare, comprendere, ricordare che Dio o le cose di Dio; non vedrà più se stesso e le altre creature se non in Dio; non avrà altro amore che per Iddio; le creature e se stesso si presenteranno alla sua memoria solo più nella luce di Dio.

Rende l’anima veramente umile

Simile conoscenza della verità, rende sempre l’anima umile, severa verso se stessa e non verso gli altri; mentre la saggezza mondana rende l’anima superba, frivola, piena d’orgoglio e d’alterigia.

La libertà interiore è necessaria per elevarsi a Dio

E’ dunque necessario considerare come dottrina fondamentale e veramente spirituale quella che ci mostra quanto sia chimerico aspirare di giungere alla conoscenza, al servizio, alla familiarità con Dio e al suo pieno possesso, se non si è prima distaccato il proprio cuore dalle affezioni terrene, non solamente dalle persone, ma da ogni altra creatura o cosa; se non si riesce a tendere verso il Creatore con tutto il cuore, liberamente, senza secondi fini, senza timori né esitazioni, con fiducia illimitata nella sua universale provvidenza (30).


CAPITOLO VII

COME PRATICARE IL RACCOGLIMENTO DEL CUORE

E’ necessario entrare in se stessi per elevarsi a Dio
Nel libro “De spiritu et anima”, al cap. XXI (31) è detto che salire verso Dio significa rientrare in se stessi. Infatti colui che rientra nel suo intimo e studia se stesso per superarsi, si eleva veramente verso Dio.
Dobbiamo dunque liberare e proteggere il nostro cuore dalle distrazioni del mondo, ricondurlo alle gioie intime, per fissarlo infine nella luce della contemplazione divina.
Vita e riposo del nostro cuore è dimorare in Dio, sostenuti dall’amore e dolcemente vivificati dalla divina consolazione.

Bisogna vincere gli ostacoli che impediscono di entrare in sé stessi

Ma molti ostacoli ci impediscono di sperimentarlo, e con le sole nostre forze non potremo mai arrivarvi. L’anima distratta da tante preoccupazioni, non è aiutata dalla memoria a rientrare in se stessa, perché le ombre di tante cose la rendono cieca; non è aiutata dall’intelligenza, a causa delle passioni che la seducono; né si ripiega su se stessa neppure per il desiderio di gioie interiori e di delizie spirituali.
Essa è talmente immersa nelle cose sensibili e passeggere, che non può ritornare a sé come verso la immagine di Dio.

L’anima purificata si eleva spontaneamente

E’ dunque indispensabile che, guidata dal rispetto e dalla confidenza dell’umiltà, l’anima si elevi al disopra di se stessa e di ogni creatura, con l’abbandono di tutte le cose, e possa dire intimamente: Colui che io cerco, amo e desidero fra tutti, più di tutti, al disopra di tutto, non appare ai sensi né all’intelligenza: egli oltrepassa gli uni e l’altra.

Dio non è percepito dai sensi, ma piuttosto nell’esperienza intima

Dio non è visibile ai sensi, ma deve essere l’oggetto di tutti i nostri desideri. Egli non ha corpo, ma è infinitamente amabile così da attirarsi gli affetti dell’anima; è incomparabile, ma seduce soltanto i cuori puri. E’ soprattutto amabile e dolce. La sua bontà è la sua perfezione sono infinite.
Allora l’anima entra nelle tenebre dello spirito; si eleva maggiormente e penetra più profondamente in se stessa (32).
Questo modo di salire fino alla misteriosa visione della SS. Trinità nell’Unità, dell’Unità nella Trinità, per mezzo di Nostro Signor Gesù Cristo, è più ardente nell’anima a misura che la forza d’ascensione le è più intima; e più vantaggiosa a misura che la carità la rende più concreta. Nel mondo dell’esperienza spirituale non c’è nulla di più elevato di ciò che è più intimo.

Questa esperienza delle cose divine è una pregustazione di cielo

Non stancatevi dunque, non riposate mai fino a quando non abbiate ricevuto in qualche modo la caparra o un anticipo di questa futura pienezza, finché non abbiate ottenuto qualche primizia delle soavità e delle dolcezze divine.
Non cessate di perseguirle fino all’ora in cui “appare il Signore in Sion” (33).
Quando si tratta del progresso spirituale, dell’unione e dell’intimità con Dio, non ci si deve concedere alcun riposo, né cedere a nessuna fatica, prima d’aver conquistato l’oggetto dei propri voti.

L’ascensione dell’anima verso Dio

Osservate colui che s’arrampica sulla montagna e seguite il suo esempio. Se la nostra anima si lascia incantare e sedurre dalle cose che incontra sul suo passaggio, spesso si smarrisce in sentieri ignoti, si sfibra e si divide in tante frazioni quanti sono i suoi desideri. Ma segue allora un movimento senza scopo, una corsa senza profitto, una stanchezza senza riposo.
Se, al contrario, il nostro corpo e il nostro spirito, sedotti dall’amore e dal desiderio, si liberano dalle distrazioni di quaggiù, abbandonano a poco a poco le cose umane per raccogliersi nel solo bene immutabile e vero, vi dimorano e vi si fissano coi vincoli dell’amore, essi si fortificano, e il loro raccoglimento sarà maggiore quanto più in alto si eleveranno sulle ali della conoscenza e dei desideri.

Il nostro cuore e la nostra anima possono farsi un’abitudine del bene supremo
Essi si fanno, per così dire, un’abitudine del bene supremo e finiscono col divenirne inseparabili.
Essi arrivano al possesso imperituro della vera vita che è Dio (34); la possiedono in un modo eterno, senza alcun timore delle vicissitudini e dei mutamenti dei tempi e riposano nel godimento pacifico di questa felicità interiore, nella segreta intimità con la Divinità.
E non usciranno più fuori di se stessi né fuori di Gesù che è per i suoi discepoli la via, la verità, la vita (35).


CAPITOLO VIII

IN TUTTE LE COSE L’UOMO DEVE AFFIDARSI A DIO

Il distacco dalle cose terrene riconduce l’uomo alla vera perfezione

Da tutto ciò che si è detto, si può concludere che quanto più saranno completi l’abbandono delle cose terrestri e l’unione con Dio per mezzo della volontà e dell’intelligenza, tanto più ci si avvicinerà allo stato d’innocenza e di perfezione. Che vi è di migliore, di più felice, di più dolce?
E’ dunque cosa della massima importanza tenere l’anima talmente distaccata da tutte le cose, che né il mondo, né gli amici, né la prosperità, né l’avversità, né il presente, né il passato, né l’avvenire, e neppure gli stessi peccati, almeno fino a un certo grado, siano motivo di grave turbamento.

Il paradiso in terra

Sforzatevi di vivere soltanto con Dio, fuori dal mondo, in una specie di vita spiritualizzata, come se la vostra anima fosse già separata dal corpo e nell’eternità.
Nel soggiorno dei Beati, la grande preoccupazione dell’anima non sarà il secolo, né lo stato del mondo, né la pace, né la guerra, né il buono o il cattivo tempo, né altra cosa di quaggiù, ma Dio solo sarà l’oggetto dei suoi slanci, dei suoi desideri, dei suoi amori.
Sforzatevi perciò fin da ora di staccarvi dal vostro corpo e da ogni cosa creata presente o futura.
Fissate, per quanto è possibile, immutabilmente, chiaramente, vivamente l’occhio della vostra anima sulla luce increata.
Allora l’anima vostra purificata dalle cose terrestri, sarà come un angelo unito a un corpo cui la carne non dà molestia e che non si occupa di cose vane e futili.

L’anima si unisce a Dio nonostante le tentazioni e le prove
Fortificate la vostra anima contro le tentazioni, le persecuzioni, le ingiurie, affinché nell’uno o nell’altro caso, essa rimanga saldamente e tranquillamente unita a Dio. E quando turbamenti, scoraggiamenti, confusione di spirito vi assalgono, non irritatevi, non lasciatevi abbattere. Non ricorrete allora a preghiere vocali per esserne liberati, né ad altri conforti; cercate solamente di riprendervi con un coraggioso sforzo della volontà e della riflessione, per ricondurre la vostra anima verso Dio, lo vogliano o no i sensi del corpo.
L’anima pia deve essere talmente unita a Dio, deve conservare e rendere il suo volere così conforme al volere divino, da non sentirsi più occupata né sedotta da alcuna creatura, come prima della sua creazione, assolutamente come se non esistessero che Dio e quest’anima (36).

L’anima distaccata dal mondo riceve senza turbarsi ciò che la Provvidenza le manda
Essa riceverà allora senza turbamento, senza esitazione, senza timore tutto ciò che la Provvidenza le manderà. Non cesserà di essere in ogni circostanza piena di fiducia nel Signore, senza perdere la pazienza, né la pace, né uscire dal silenzio. Ecco perché il distacco completo dell’anima dalle cose create è supremamente utile alla vita spirituale e per restare intimamente unirti e sottomessi a Dio.

Non occorrono intermediari tra Dio e l’anima

Allora non vi saranno più intermediari tra Dio e voi.
Da dove verrebbe infatti l’intermediario? Non dall’esterno, perché la virtù della povertà volontaria vi ha spogliati di ogni bene terreno, e la virtù della castità vi ha spogliati del vostro corpo; non dall’interno, perché l’obbedienza vi ha spogliati della vostra volontà e della vostra anima. Nulla più sussiste tra Dio e voi.

Questa dottrina s’impone soprattutto ai religiosi

Che siete religiosi lo dimostrano la vostra professione, il vostro stato, il vostro abito, i vostri capelli tagliati e gli altri segni della vostra vita religiosa; resta però a vedere se siete un religioso finto o sincero, spetta a voi darne la risposta.
Ma notate bene quanto gravemente voi pecchereste e prevarichereste contro il Signore vostro Dio, se offendendo la sua giustizia, agiste in tutt’altro modo che da religioso; se con la volontà o con l’amore vi attaccaste alla creatura invece che al Creatore, se preferiste insomma la creatura al Creatore.


CAPITOLO IX
LA CONTEMPLAZIONE IN DIO DEVE ESSERE PREFERITA A TUTTI GLI ALTRI ESERCIZI

Il nulla originale della creatura deve farei tendere a Dio

Tutto ciò che esiste al di fuori di Dio è opera del Creatore.
Ogni creatura è dunque un complesso di possibilità e di essere e, come tale, è per sua natura limitata: essendo venuta dal nulla, è circondata dal nulla e tende al nulla (37).
Ad ogni istante la creatura riceve necessariamente dall’Artista supremo l’esistenza, la conservazione, l’azione e tutto quanto possiede.
Essa è realmente insufficiente ad operare per sé e per gli altri, come è importante il nulla di fronte all’essere, il finito di fronte all’infinito.
Bisogna dunque che la nostra vita, i nostri pensieri, le nostre opere, siano in Colui, di Colui, per Colui e da Colui che col minimo atto della sua volontà potrebbe e saprebbe produrre delle creature immensamente più perfette di quante oggi ne esistono.

Le perfezioni del Creatore devono attirarci

E’ di conseguenza impossibile che, sia per l’intelligenza come per la volontà, esista un pensiero, un amore più utile, più perfetto, più fortunato di quelli che riposano in Dio, l’eccelso Creatore, l’unico e vero Bene, dal quale, nel quale, per il quale, verso il quale tutto acquista la propria missione.
Dio è perfettamente sufficiente a se stesso ed agli altri, perché racchiude eminentemente in sé, da tutta l’eternità, le perfezioni di ogni essere.
Non vi è nulla in Dio che non sia Dio stesso. In lui e da lui esistono le cause di tutto ciò che avviene: in lui esistono le origini immutabili di tutte le cose mutevoli, dotate o prive di ragione.
Tutto ciò che avviene nel tempo, ha in lui il suo principio eterno.
Egli riempie tutto; il suo essere è in tutte le cose e perciò egli è più presente e più intimo alle cose di quanto lo siano le cose a se stesse (38).

 

Esiste una contemplazione

In lui tutto è uno e tutto vive eternamente (39).
Senza dubbio, la debolezza e l’inesperienza (40) della intelligenza possono obbligarci a servirci delle creature nelle nostre contemplazioni. Tuttavia vi è una contemplazione ottima, vera, fruttuosa che si rende possibile ad ogni mortale. In tutte le sue contemplazioni e meditazioni, abbiano esse per oggetto il Creatore o la creatura, l’uomo può riuscire a trovare la sua gioia soltanto nel Creatore, il Dio uno e trino; ad infiammare il cuore di amore di Dio e della vera vita, in sé e negli altri, per meritare la felicità della vita eterna.

Differenza fra la contemplazione dei santi e quella dei filosofi

E’ necessario notare qui una differenza fra la contemplazione dei fedeli cristiani e quella dei filosofi pagani.
I pagani non cercavano che la propria perfezione ed ecco perché si limitavano alla loro intelligenza; essi non si proponevano che d’arricchire il loro ingegno di una nuova conoscenza. Ma la contemplazione dei santi, che è poi quella dei cristiani, ha per fine l’amore di Dio contemplato. Ecco perché essa non si limita alla intelligenza ma arriva alla volontà per accendervi l’amore.
I santi nelle loro contemplazioni si propongono soprattutto di aumentare la loro carità. Vale di più infatti, conoscere Gesù Cristo e possederlo spiritualmente per mezzo della grazia, che possederlo col suo corpo o anche nella sua essenza, ma senza la grazia.

Più l’anima è pura e più ha la capacità di contemplazione

Ora, man mano che l’anima si purifica ed entra in se stessa, l’occhio della contemplazione le si dilata, ed essa si prepara una scala per ascendere fino alla contemplazione di Dio.
Questa contemplazione infuocherà l’anima d’amore per le cose celesti, divine, eterne e le farà sommamente disdegnare come nullità tutto ciò che è terreno e temporaneo.

Si conosce Dio soprattutto per via di negazione

Quando cerchiamo di conoscere Dio per via di negazione, noi neghiamo in lui ciò che appartiene al corpo, ai sensi, alla immaginazione; neghiamo perfino ciò che è proprio della nostra ragione, insomma l’essere come lo si incontra presso le creature (41). E’ il miglior modo, secondo san Dionigi, l’arrivare alla conoscenza di Dio (42), quale ci è permesso acquistarla sulla terra.
E’ in questa oscurità che abita Dio e nella quale entrò Mosè per elevarsi fino alla luce inaccessibile (43).
Ma non è dallo spirito, bensì dal corpo che si deve incominciare. Bisogna seguire la via ordinaria e andare dalla fatica dell’azione al riposo della contemplazione: dalle virtù morali, alle virtù della visione sublime (44).

Il vero bene è Dio solo

Ma infine, o anima mia, perché consumarti vanamente in tante cose? Tu soffri di indigenza. Non cercare e non amare che il bene perfetto, il quale assomma in sé tutti i beni, e ciò ti basterà.
Guai a chi sa e possiede tutto all’infuori di questo bene! Se conoscesse contemporaneamente questo bene ed ogni scienza, non sarebbe felice a causa della scienza, ma solamente a causa di questo bene. San Giovanni ha scritto: “La vita eterna è di conoscervi” (45) e il Profeta: “lo sarò sazio quando mi sarà apparsa la vostra gloria” (46).


CAPITOLO X

NON BISOGNA PREOCCUPARSI DI POSSEDERE LA DEVOZIONE SENSIBILE, MA DI RESTARE UNITI A DIO CON LA VOLONTA’

La devozione vera consiste essenzialmente nell’unione della volontà con Dio
Non cercate troppo avidamente la devozione attuale, le dolcezze sensibili o le lacrime; abbiate piuttosto somma cura di restare interiormente uniti a Dio con l’intelligenza e la buona volontà (47).
Nulla piace tanto a Dio quanto un’anima purificata dalle tracce, dalle illusioni ed immagini della creatura.
Il religioso deve essere libero dalle creature, per restare interamente unito a Dio, attaccarvisi, ed essergli intimamente incatenato.
Praticate dunque l’abnegazione di voi stessi, per seguire unicamente Gesù Cristo, vostro Signore e vostro Dio, che fu veramente povero; obbediente, casto, umile e paziente e la cui vita e morte furono di scandalo per molti, come ci dice il Vangelo (48).

Bisogna comportarsi verso il nostro corpo come se ne fossimo già usciti
L’anima separata dal corpo non si interessa affatto di ciò che accade al corpo abbandonato. Sia esso bruciato, impiccato o maledetto: tali oltraggi non la contristano punto (49); essa pensa soltanto alla sua immutabile eternità, “all’unica cosa necessaria” di cui parla il Signore nel Vangelo.
Comportatevi dunque col vostro corpo come se ne foste già usciti; pensate costantemente all’eternità che la vostra anima deve possedere in Dio; e dirigete con cura la vostra mente verso questo unico bene di cui il Signore ha detto: “Una sola cosa è necessaria” (50). La vostra anima si arricchirà allora di una grande abbondanza di grazia che l’aiuterà ad acquistare la purezza dello spirito e la semplicità del cuore

La spoliazione di se stesso infonde una invitta costanza

Questo unico bene è molto vicino a voi. Respingete ciò che è terreno e le preoccupazioni di quaggiù e tosto sentirete come vi sia facile attaccarvi esclusivamente a Dio.
Voi troverete anche, nello spogliamento di voi stessi, una invitta costanza di fronte a tutto ciò che può accadervi.
Così avvenne per i martiri, i Padri della fede, gli eletti e i beati tutti. Essi disprezzarono ogni cosa e pensarono soltanto a possedere in Dio la sicurezza eterna per la loro anima.
Armati, così, interiormente, uniti a Dio con la buona volontà, essi disdegnarono tutte le cose del mondo come se la loro anima avesse già abbandonato il corpo.
Vedete da ciò quanto può fare la buona volontà unita a Dio.

L’anima purificata considera la sua persona esteriore come se non le appartenesse
Possa la vostra anima, così attratta verso Dio e come separata dalla carne da una separazione spirituale, considerare la propria persona esteriore con tanta indifferenza come se non le appartenesse.
Essa allora trascurerà tutto ciò che può accadere a sé o al corpo, come se tali fatti accadessero ad altri o a creature irragionevoli.
Chi è unito a Dio forma un solo spirito con lui.
Per l’onore supremo di Dio, non spingete dunque mai la vostra audacia fino a pensare o immaginare, in sua presenza, ciò che arrossireste di udire o di vedere dinanzi agli uomini.

L’unione con Dio dà la gioia

Voi dovete elevare i vostri pensieri verso Dio solo e fare di lui l’oggetto delle vostre meditazioni, come se egli solo esistesse.
Tale unione vi apporterà grande gioia e sarà un felice inizio della vita futura.


CAPITOLO XI

DOBBIAMO RESISTERE ALLE TENTAZIONI E SOPPORTARE LE PROVE

Il servizio di Dio non esclude la tentazione

Chi vorrà avvicinarsi a Dio con cuore sincero e puro, dovrà necessariamente subire la tentazione e la prova.

Come resistervi

Regola da seguire in tutte le tentazioni è questa: non acconsentirvi, appena sono sentite, ma sopportarle con pazienza, dolcezza, umiltà e longanimità.
Se si tratta di bestemmie o di cose vergognose, non si può fare di meglio che disprezzare tali immaginazioni o fantasie come futili.
Senza dubbio, la bestemmia è colpa, obbrobriosa, orribile; bisogna tuttavia sprezzare simili tentazioni senza cedere a turbamenti di coscienza. Se disprezzate così il nemico e le sue suggestioni, egli si ritirerà ben presto. E’ troppo orgoglioso per subire lo sprezzo e la noncuranza.
Il miglior rimedio è dunque di non preoccuparsene affatto, come se si trattasse di mosche che, nostro malgrado, ci volteggiano davanti agli occhi.

Durante le tentazioni non bisogna allontanarsi dalla presenza di N. Signore
Voi dunque che servite Gesù Cristo, guardatevi bene dall’allontanarvi facilmente dalla presenza del Signore, di indignarvi, lagnarvi di queste mosche, cioè delle tentazioni leggere, delle supposizioni, delle tristezze e pusillanimità, degli abbattimenti e delle mille nullità che il buon volere e un atto di elevazione a Dio possono allontanare.

L’unione a Dio si compie con la buona volontà

Per mezzo della buona volontà, l’uomo fa di Dio il proprio Signore; dei santi angeli fa i propri custodi e protettori.
La buona volontà mette in fuga le tentazioni, come la mano scaccia le mosche che si posano sulla fronte. “Pace agli uomini di buona volontà” (51).
La buona volontà è, per l’anima, la sorgente di tutti i beni, la madre di tutte le virtù.
Chi la possiede, tiene in sua mano, senza paura di perderlo, tutto ciò che gli è necessario per vivere bene (52).
Se voi volete il bene, ma non potete compierlo, Dio ve ne compenserà come se l’aveste compiuto (53).
Per legge eterna e immutabile Dio ha stabilito che il merito sia nella volontà, che in cielo o in inferno la volontà faccia la ricompensa o il supplizio (54).
La carità non è altro che una grande volontà di servire Dio, un soave desiderio di piacergli, un bisogno fervidissimo di goderlo.
La tentazione non è un peccato, ma è la prova della virtù.

La tentazione fortifica la virtù

Per mezzo della tentazione l’uomo può acquistare molti beni (55), tanto, più che “la vita dell’uomo sulla terra è una continua tentazione (56).


CAPITOLO XII

EFFICACIA DELL’AMORE DI DIO

Importanza dell’amore di Dio

Tutto ciò che abbiamo detto nei capitoli precedenti, tutto ciò che è necessario alla salvezza, non può ricevere che dall’amore il suo più intimo e salutare perfezionamento.
L’amore supplisce a tutto ciò che potrebbe mancarci per la nostra salvezza; racchiude in sé l’abbondanza di ogni bene e non gli manca neppure la presenza dell’oggetto supremo dei nostri desideri.
Soltanto per l’amore noi ci orientiamo verso Dio, aderiamo a Dio, siamo uniti a Dio, per diventare uno stesso spirito con lui e ricevere da lui e per lui la felicità, quaggiù nella grazia e lassù nella gloria.
L’amore non trova riposo che nel bene amato, ossia nel suo possesso pacifico e completo.

L’amore conduce a Dio

L’amore, o la carità, è la via che conduce Dio all’uomo e l’uomo a Dio.
Dio non può stare ove non c’è la carità.
Chi ha la carità, possiede Dio, perché “Dio è carità “.
Non vi è nulla di più acuto, sottile, penetrante della carità.
Essa non ha riposo fino a che non ha esplorato tutta la potenza e la profondità dell’oggetto amato. Essa vorrebbe immedesimarsi in lui, e, se lo potesse, essere con lui una cosa sola.
Ecco perché non può sopportare intermediari fra lei e il suo oggetto che è Dio: essa si slancia violentemente verso di lui e non ha pace fino a quando ha superato tutto per giungere a lui.
L’amore ha la virtù di unire e di trasformare; trasforma l’amante nell’amato e l’amato nell’amante. Nei limiti del passibile, l’uno diventa l’altro.

L’amore crea l’unione fra l’amante e l’amato

E anzitutto con quale perfezione d’intelligenza trasporta la persona amata in colui che ama!
Con quale dolcezza e soavità l’una vive nel ricordo del secondo! Colui che ama, si sforza di sapere, non in maniera superficiale, ma fino all’intimo, ciò che riguarda la persona amata e di penetrare, per quanto gli è possibile, addentro nella sua vita!
Dopo viene la volontà.
Essa trasporta la persona amata nel soggetto che ama.
Quindi, le due persone, amante e amata, sono unite in una amorosa compiacenza, in una dolce e intima gioia procurata loro dal reciproco possesso.
Inoltre, colui che ama si trova nella persona amata anche per la sua conformità di desideri, di attrazioni e di ripugnanze, di gioie e di tristezze. Si direbbe che è propria una cosa sola con lui.
Poiché “l’amore è forte come la morte” (57), porta l’amante fuori di se stesso e fino nell’intimo dell’amato fortemente ve lo incatena.
L’anima è molto più presente là dove ama che non dove è principio di vita, perché essa è nella persona amata con la sua propria natura, con la ragione e la volontà, mentre nell’essere da essa vivificata è presente soltanto per dargli l’esistenza, ciò che accade anche negli animali (58).

Soltanto l’amore di Gesù Cristo può distoglierci da ciò che non è Lui

Bisogna dunque concludere che una cosa sola può distoglierci dagli oggetti esteriori, per ricondurci prima in noi stessi e in seguito nella divina intimità con Gesù Cristo. Essa è l’amore a Gesù e il desiderio delle sue soavità che ci permettono di sentire, comprendere e gustare la presenza della sua divinità.
La forza dell’amore è la sola capace di trasportare l’anima dalla terra alle altezze del cielo.
Nessuno può pervenire alla suprema beatitudine, se l’amore e il desiderio non gli danno le ali.
L’amore è la vita dell’anima, la sua veste nuziale, la sua perfezione (59).
“La legge, le profezie, i precetti del Signore dipendono da esso” (60). Per questo l’Apostolo diceva ai Romani: “Il compimento della legge è l’amore” (61) e nella prima Epistola a Timoteo: “Fine della legge è la carità” (62).


CAPITOLO XIII

DOTI ED EFFICACIA DELLA PREGHIERA. E’ NECESSARIO CONSERVARE IL CUORE NEL RACCOGLIMENTO INTERIORE

 

La carità e le altre grazie si ottengono per mezzo della preghiera

Ma noi siamo incapaci di acquistare la carità ed ogni altro bene, e nulla ci è possibile offrire da noi stessi al Signore, che è l’autore di tutti i beni.
Tutto ciò che noi abbiamo, ha avuto inizio da Dio e gli appartiene. Una cosa sola è nostra; Dio stesso ce la indicò con la sua parola e i suoi esempi, quando ci ha insegnato a ricorrere alla preghiera in tutte le necessità, in tutti i casi della vita.

L’umiltà e la confidenza in Dio rendono la preghiera efficace
Dobbiamo ricordarci che noi siamo colpevoli, miserabili, poveri, mendicanti, infermi, indigenti, sudditi, schiavi, fanciulli, e che in noi vi è soltanto una desolazione completa.
Sforziamoci dunque, di umiliare profondamente la nostra anima nella prosternazione, nell’amore e nel timore; facciamo regnare in noi il raccoglimento e la pace; aggiungiamo ai progressi misurati, sinceri, semplici della modestia, la grandezza dei desideri, l’ardore e i gemiti del cuore, la semplicità e sincerità dello spirito e poi supplichiamo Iddio ed esponiamogli con grande confidenza i pericoli che ci minacciano da ogni parte.
Liberi e fermi, senza esitazione, affidiamoci e offriamoci completamente a lui fino nella più intima fibra.
Non siamo noi forse delle creature che gli appartengono realmente e assolutamente?
Non serbiamo per noi nulla di noi stessi e allora s’adempirà in noi la parola del beato Padre del deserto, Isacco, il quale, a proposito della preghiera disse: “Noi saremo con Dio un solo spirito e Dio solo sarà per noi tutto e in tutte le cose, quando la perfetta carità con la quale egli per il primo ci ha amati sarà passata nell’intimo del nostro cuore (63). Ciò avverrà, quando tutto il nostro amore ed ardore, i nostri desideri e sforzi, tutti i nostri pensieri, tutto ciò che vediamo, diciamo, speriamo, sarà Dio stesso; quando l’unità che esiste tra il Padre e il Figlio, tra il Figlio e il Padre, sarà passata nei nostri sensi e nella nostra anima.

Il distacco da sé e il desiderio di Dio rendono possibile la preghiera

L’amor di Dio per noi è puro, sincero, tenace; e noi dobbiamo da parte nostra restargli uniti con un amore perpetuo, ininterrotto.
Noi dobbiamo appartenergli in modo tale che le nostre speranze, i nostri pensieri, le nostre parole, le nostre preghiere non siano che Dio (64).

Si deve desiderare di possedere quaggiù una idea della beatitudine eterna
L’uomo che vive secondo lo spirito deve dirigere le proprie intenzioni, i propri sforzi e gli avvenimenti, in modo da meritare il possesso, in corpo mortale, di un’idea della beatitudine futura e pregustare quaggiù, in certo qual modo, un assaggio di felicità della vita celeste.
Ecco il coronamento di ogni perfezione. Bisogna che lo spirito si liberi dalla carne, per elevarsi sempre più verso le regioni sublimi dell’immateriale, sì che la vita e i desideri del suo cuore diventino una sola e continua preghiera.

Il religioso deve elevare sempre la sua anima a Dio, cioè pregare sempre
Quando l’anima si sarà liberata dal fango delle miserie umane, aspirerà a Dio, dal quale l’uomo non dovrebbe mai allontanare i suoi pensieri; specialmente il religioso dovrebbe considerare la minima separazione dal bene supremo, assai più funesta della più crudele morte; quando l’anima avrà fatto regnare in sé la pace e sarà perfettamente libera dalle sue passioni, per unirsi strettamente al solo Bene supremo, allora si avvererà la parola dell’Apostolo: “Pregate senza tregua” (65) e “in ogni luogo, elevando le mani pure, senza agitazioni, senza inquietudini” (66).
Infatti quando questa purezza avrà vinto le attrattive che abbassano l’uomo verso la materia e l’anima, liberatasi dalla terra, si sarà come trasformata, a somiglianza dei puri spiriti o angeli, allora tutto ciò che le accadrà o la preoccuperà o farà, non sarà più che una preghiera purissima e perfetta.

La contemplazione può diventare facile,
E se voi continuate nei vostri sforzi, senza, scoraggiamenti, come dicemmo da principio, ben presto vi riuscirà così facile, così agevole contemplare e godere nel vostro raccoglimento. e ritiro, come vi riesce ora facile vivere nella. vostra natura umana.


CAPITOLO XIV

NEI GIUDIZI SI DEVE CERCARE LA TESTIMONIANZA DELLA PROPRIA COSCIENZA

Per giungere alla perfezione bisogna esaminare spesso la propria coscienza
Infine quando si tratta di acquistare in Dio la perfezione, la purezza, la tranquillità dell’anima, un mezzo assai efficace per arrivarvi, è di ricorrere, sempre nel silenzio, all’intimo giudizio del nostro spirito, quali siano i nostri sentimenti, le nostre parole, le nostre azioni.
Dopo avere allontanato ogni altro pensiero, ci si deve raccogliere completamente in noi, per metterci di fronte alla verità e conoscerla.
Noi comprenderemo allora che non ci serve a nulla, anzi che ci è molto nocivo, essere lodati e onorati all’esterno, mentre in noi stessi siamo colpevoli e condannabili agli occhi della verità.

La testimonianza della coscienza corregge il giudizio degli uomini

E’ inutile essere onorati esteriormente tra gli uomini, se la coscienza interiormente ci accusa. Così pure non abbiamo niente da perdere se siamo biasimati o perseguitati esteriormente, quando in noi stessi ci sentiamo innocenti, irreprensibili, inoffensivi. Anzi, noi avremo allora mille ragioni di rallegrarci pazientemente, silenziosamente, tranquillamente nel Signore.
 L’avversità non è mai nociva, là dove non domina l’iniquità.

Non bisogna mendicare la ricompensa dagli uomini
Come nessun male resta impunito, così nessun bene resta senza ricompensa.
Non imitiamo gli ipocriti che mendicano ricompense e corone dagli uomini: noi dobbiamo attenderle da Nostro Signore, non ora, ma più tardi; non per il momento che passa, ma per l’eternità.
Non vi è quindi nulla di meglio e di più grande, in ogni tribolazione e in ogni evenienza, che rientrare nel santuario della nostra anima: là invocare Gesù Cristo nostro Maestro, nostro soccorso nelle tentazioni e nelle contrarietà, umiliarci confessando i nostri peccati, lodare Dio nostro Padre, che abbatte e consola, e disporci a ricevere senza turbamento alcuno, con prontezza e fiducia, dalle mani della sua ineffabile Provvidenza e della sua ammirabile saggezza tutto ciò che Egli vorrà inviare, a noi o agli altri, di prospero o di avverso.

Conseguenze della fedeltà nell’ascoltare la propria coscienza

Allora i peccati saranno espiati e rimessi (67); sgorgherà dall’anima il pentimento, vi penetreranno la soavità e la sicurezza, vi discenderanno la grazia e la misericordia; una dolce familiarità ci attirerà e fortificherà, una sovrabbondante consolazione ci verrà dal seno di Dio; ci sentiremo vicini a lui e a lui uniti indissolubilmente.

Bisogna guardarsi dal preferire le apparenze alla santità vera

Ma guardiamoci dall’imitare gli ipocriti e i farisei che preferivano le apparenze esterne del bene e della virtù alla reale santità dell’anima. Non è forse suprema demenza cercare, desiderare, chiedere a se stessi o agli altri la lode, la gloria umana, mentre nell’interno si è pieni di peccati innumerevoli e vergognosi?
Certamente chi persegue tali vanità, non potrà partecipare ai beni dei quali abbiamo testé parlato e suo retaggio sarà senza dubbio l’onta. Abbiate dunque costantemente presenti i vostri peccati; studiate bene voi stessi per umiliarvi.

Non temiamo il disprezzo degli uomini e disdegniamo le loro lodi
Non temete, a motivo dei vostri gravi peccati e del grande male che è in voi, di essere reputati da tutti quale indegnissimo, vilissimo, abiettissimo fango.
Consideratevi fra gli altri come la scoria fra l’oro, come la cattiva erba tra il frumento, come la paglia nel grano, come il lupo fra le pecore, come Satana tra i figli di Dio.
Non cercate, di conseguenza, d’essere rispettati tra gli altri, né agli altri preferiti.
Fuggite invece con tutta l’energia del cuore e dell’anima il veleno dell’adulazione, della lode, di una riputazione piena di iattanza e di ostentazione; evitate, secondo le parole del Profeta, di “lodare un peccatore nei desideri della sua anima” (68); ascoltate Isaia: “Coloro che ti adulano, t’ingannano; essi ti ostacolano il sentiero ove cammini” (69); e anche Nostro Signore che ci dice: “Guai a voi quando gli uomini vi loderanno” (70).


CAPITOLO XV

COME SI PUÒ ARRIVARE AL DISPREZZO DI SE STESSI. UTILITA’ DI QUESTO DISPREZZO

Bisogna arrivare a considerare noi stessi degni di disprezzo

Più l’uomo riconosce la sua miseria e più vede chiaramente e perfettamente la maestà di Dio; più l’uomo, a causa della grandezza di Dio, e della verità e della giustizia, è vile ai propri occhi, più è stimabile agli occhi di Dio.
Sforziamoci dunque di reputarci vilissimi, di crederci indegni d’ogni beneficio, di dispiacere a noi stessi, di piacere a Dio, di passare agli occhi degli altri per indegni e vili, di non turbarci nelle tribolazioni, né nelle afflizioni ed ingiurie, di non irritarci contro coloro che ce le infliggono, di non inquietarci, di non indignarci a loro riguardo.
Cerchiamo, al contrario, di crederci sinceramente meritevoli di tutte le ingiurie, di tutto il disprezzo, di tutti i maltrattamenti, di tutti gli sdegni.

I nostri peccati ci rendono degni di disprezzo

Infatti colui che per amore di Dio ha nel cuore pentimento e dolore, rifugge dall’essere onorato e amato; non evita di essere in qualsiasi maniera calpestato, odiato, ostinatamente disprezzato, al fine di praticare la vera umiltà e di attaccarsi soltanto a Dio, con cuore veramente sincero e puro.
Ora, per amare Dio solo, per odiare se stessi, per desiderare di essere piccoli agli occhi degli altri, non c’è bisogno di lavoro esteriore, né di salute corporale; è necessario piuttosto il dominio dei sensi, l’opera del cuore, e il riposo dello spirito.

Come elevare l’anima a Dio

Solamente col lavoro del cuore e con lo slancio intimo dell’anima potremo contrapporci alle bassezze della terra, per elevarci e salire fino a ciò che è celeste e divino.
Così comportandoci, noi ci trasformiamo in Dio, soprattutto quando con perfetta sincerità e senza pregiudizi, senza condannare e disprezzare il prossimo, preferiremo di essere ritenuti da tutti oggetto di onta e di obbrobrio, o meglio ancora di essere aborriti come fetido fango, piuttosto che di possedere le delizie terrestri, essere onorati ed esaltati dagli uomini, gioire di vantaggi e di felicità d’ogni genere in un mondo fugace.

La nostra consolazione quaggiù deve consistere nel deplorare le offese fatte a Dio
Sì, proponiamoci di non desiderare, nella presente peritura vita del corpo, altro conforto che di pentirci, di deplorare e piangere le offese a Dio e le colpe commesse; impariamo a svalutarci, ad annichilirei e ad apparire ogni giorno più spregevoli agli occhi altrui; a considerarci, in noi stessi, sempre più indegni degli altri, per piacere così a Dio solo e rimanere radicati in lui; non preoccupiamoci d’altro che di Gesù Cristo Nostro Signore che solo deve regnare nelle nostre affezioni; non abbiamo sollecitudini e cure che per Colui la cui potenza e provvidenza dà l’essere e il moto a tutte le creature (71).

Non è questa l’ora di gioire, ma di piangere

Non è questa l’ora di gioire, è l’ora di piangere di tutto cuore.
Se non avete il dono delle lacrime, amareggiatevi almeno di non poter piangere; se invece sapete piangere, gemete per essere stati voi stessi la causa del vostro dolore con la gravità delle offese fatte a Dio e il grande numero dei vostri peccati.
Il condannato che ha ricevuto la sua sentenza non si occupa affatto delle disposizioni che prendono i carnefici; e così colui che è in cordoglio e lagrime di pentimento deve rimanere estraneo alle delizie, alla collera, alla gloria, all’indignazione e alle passioni tutte.
Ben diverse sono le dimore dei cittadini da quelle dei condannati. Così è per coloro che hanno nelle loro colpe una ragione di dolersi e di piangere; la vita e il modo di comportarsi non devono affatto somigliare alla vita e al modo di comportarsi di coloro che si conservano innocenti e nulla hanno da espiare.

E’ sulla giusta via colui che è indifferente al disprezzo e alla stima del mondo
Chi amerà veramente Gesù piangerà con lui, lo porterà nel corpo e nel cuore, sentirà sincero dolore dei peccati e dei delitti commessi, cercherà realmente la felicità eterna, conserverà gelosamente il timoroso pensiero del suo ultimo fine e non soffrirà più travagli e fatiche e ansie per altre cose.
L’uomo che vuole pervenire rapidamente ad una beata impassibilità e a Dio, deve dunque considerare come un giorno perduto quello in cui non sarà stato disprezzato e maledetto.
L’impassibilità di cui parliamo non è altro che l’assenza delle passioni e dei vizi, la purezza del cuore, la presenza delle virtù.
Consideratevi dunque già come morti, voi che non potete dubitare di inesorabilmente morire.
Avrete, infine, una prova che ogni vostro pensiero, ogni vostra parola ed azione è in obbedienza alla volontà di Dio, se potrete constatare che vi rendono più umili, più forti in voi stessi e riguardo a Dio.
Ma se notate in voi il contrario, temete fortemente che pensieri, parole ed azioni non siano secondo il volere di Dio, non graditi a lui, e non utili a voi.


CAPITOLO XVI

LA PROVVIDENZA DIVINA SI ESTENDE A TUTTE LE COSE

Bisogna rimettersi completamente alla Provvidenza di Dio

Per ottenere ciò che abbiamo detto, per arrivare senza ostacoli, facilmente, sicuramente, liberamente, tranquillamente fino a Dio, Nostro Signore e Maestro, per unirci e radicarci in lui con una unione indissolubile e pacifica, nella prosperità e nell’avversità, per la vita e per la morte, è assolutamente necessario rimettere ogni cosa, con confidenza e sicurezza, nelle mani della sua immutabile e infallibile provvidenza. E ciò non deve meravigliarci, poiché egli dà a tutte le creature anzitutto l’essere, il potere e l’azione, ossia la sostanza, la facoltà e l’opera, poi la specie, la forma e l’ordine, in numero, peso e misura.

Tutte le cose dipendono da Dio nel loro essere e nella loro attività

Come l’opera d’arte presuppone l’opera della natura, così l’opera della natura presuppone l’opera di Dio creatore, conservatore, ordinatore, amministratore.
A lui solo, infatti, appartengono la potenza, la saggezza, la bontà infinita, la misericordia essenziale, la giustizia, la verità, la carità immutabile, l’immensità e l’eternità.
Nessun essere potrebbe sussistere ed operare per virtù propria, ma ogni creatura deve operare per virtù di Dio, cioè del primo motore, del primo principio, causa di ogni azione e che agisce in ogni essere capace di agire.

Tutto dipende da Dio per l’ordine e l’armonia

Se si tratta di creare l’armonia dell’ordine, la Provvidenza di Dio provvede immediatamente a tutto, fino nei minimi particolari.
Dall’infinitamente grande all’infinitamente piccolo, nulla può sfuggire all’eterna provvidenza di Dio; nulla le si sottrae, sia nelle opere della natura, come negli atti della libertà, come anche nelle opere del caso o fatalità, o in ciò che è stato voluto da essa.
Non solo, ma è impossibile a Dio fare alcuna cosa che non cada sotto il dominio della sua provvidenza, come non può fare nulla che non sia sottomesso alla sua azione.

La Provvidenza si estende anche ai pensieri dell’uomo

La Provvidenza di Dio si estende dunque a tutte le cose, anche ai pensieri dell’uomo.
Ci dice infatti la Sacra Scrittura: “Gettate tutte le vostre inquietudini nel seno di Colui che ha cura di voi” (72). Il Salmista aggiunge: “Gettate i vostri pensieri nel Signore ed Egli vi nutrirà” (73).

La bontà di Dio si estende a tutti gli esseri

Nel secondo capitolo dell’Ecclesiastico è detto: “Considerate, o figli, le generazioni degli uomini e sappiate ,che nessuno sperò nel Signore e rimase confuso, che nessuno che ha perseverato nei suoi comandamenti è stato poi abbandonato” (74). E il Signore dice anche: “Non vi inquietate domandandovi: Che cosa mangeremo?” (75).

Bisogna confidare in Dio

Dunque tutto ciò che possiamo sperare da Dio per quanto illimitata ne sia la grandezza, lo riceveremo, secondo le parole del Deuteronomio: “Tutta la terra che i vostri piedi calcheranno sarà vostra” (76).
Tutto ciò che desidererete lo riceverete; più grande sarà la vostra confidenza e più grande sarà il possesso.
S. Bernardo disse: “Dio, il Creatore di tutte le cose, è così ricco in misericordia che qualunque sia la grazia per la quale tendiamo le mani non mancherà di concederla” (77).
E in S. Marco è detto: “Tutto ciò che voi domanderete nelle vostre preghiere, abbiate fede di riceverlo, e lo riceverete” (78).

La confidenza in Dio deve essere ardente e assoluta

Più la confidenza in Dio è forte e pressante e in umiltà e in adorazione si rivolge vivamente a lui, più otterrà con sicurezza, abbondanza e prontezza, quanto spera.
Ma se a causa della grande quantità ed enormità dei peccati, la confidenza è lenta ad elevarsi a Dio, colui nel quale regna questo torpore deve ricordare che a Dio tutto è possibile; ciò che Egli vuole, avviene infallibilmente e ciò che non vuole, non può mai realizzarsi e infine è a Lui così facile rimettere numerosi ed enormi peccati come rimettere un peccato solo.

Dio perdona i peccati

D’altra parte come un peccatore non saprebbe da se stesso rialzarsi, liberarsi, purificarsi dai suoi numerosi peccati, così gli è impossibile trarsi anche da un peccato solo; poiché non soltanto noi non possiamo compiere, ma neppure possiamo pensare da noi stessi ciò che è bene (79), per la ragione che tutto ci viene da Dio.

I nostri peccati ostacolano la misericordia di Dio

Tuttavia è naturalmente assai più pericoloso essere impantanati in numerosi peccati che in uno solo.
E, infatti, nessun male resta impunito, e ad ogni peccato mortale è dovuta, a rigore di giustizia, una pena infinita, perché ogni peccato mortale è grave offesa a Dio cui spettano grandezza, dignità, gloria infinite.
Del resto, secondo l’Apostolo: “il Signore conosce quelli che gli appartengono” ed è impossibile che uno di essi perisca.

Niente può eludere i divini consigli

Nulla può eludere i divini consigli, né le tempeste e le ondate dell’errore, né gli scandali, gli scismi, le persecuzioni, né le avversità, le discordie, le eresie, né le tribolazioni e le tentazioni di qualunque specie.
Il numero degli eletti e la misura del loro merito è eternamente e irrevocabilmente previsto.

Tutto è utile agli eletti

E questo è così vero, che tutti i beni e i mali che possono venire ad essi o ad altri, prosperità o avversità, saranno sempre a loro vantaggio.
Anzi, l’avversità non farà che renderli più provati e più gloriosi.
Non tardiamo dunque ad abbandonarci, senza diffidenze e timori, alla divina Provvidenza.
E’ la Provvidenza che permette il male che da qualsiasi parte ci giunge.
Ed è bene, è una fortuna che lo permetta.
Il male non può giungerci in altro modo, né più grave di come essa lo permette, perché essa sa, può e vuole, per la saggezza delle sue disposizioni, trarne il bene.
Come per opera sua si compie tutto ciò che è bene, così col suo permesso accade tutto ciò che è male (80).

Dio trae dal male il bene

Ma dal male Dio fa derivare il bene e così si manifestano meravigliosamente la sua potenza, saggezza e clemenza, per mezzo di Nostro Signore Gesù Cristo, la sua misericordia e giustizia, la forza della grazia, la debolezza della natura, la bellezza dell’universo nell’opposizione dei contrasti, la gloria dei buoni, la malizia e la punizione dei cattivi.

Il peccato stesso fa risplendere la bontà di Dio

Parimenti nella conversione di un peccatore noi vediamo il valore della confessione, della contrizione, della penitenza; e la pazienza di Dio, la sua misericordia e la sua carità, la sua bontà e la sua gloria.
Tuttavia il peccato non sempre si volge in bene per coloro che lo commettono; ma più spesso è un grave pericolo e il più grande dei mali, perché causa la perdita della grazia e della gloria, insozza e provoca il castigo, forse anche il castigo eterno.
Si degni Nostro Signore Gesù Cristo di preservarcene!


PIO ESERCIZIO QUOTIDIANO PER MANTENERSI CONTINUAMENTE ALLA PRESENZA ATTUALE DI DIO (81)

Vantaggi del raccoglimento

Quantunque voi dobbiate sempre stare raccolti in voi stessi, nei limiti permessi della debolezza umana, dovete tuttavia ogni giorno, se nulla vi si oppone, presentarvi con qualche esercizio particolare allo Sposo celeste della vostra anima: sforzarvi di unirvi a Lui, sia che sentiate devozione, sia che non ne sentiate affatto.

Bisogna scegliere una determinata ora per unire particolarmente l’anima a Dio
Per far questo, vi sceglierete un’ora speciale; per questo scopo potete servirvi, e con grandissimo vantaggio, dell’esercizio che vi abbiamo precedentemente raccomandato, dandovi delle formule di aspirazione (82).
Ma vogliamo anche insegnarvi un altro mezzo che i maestri di vita spirituale giudicano della più grande utilità.

Per compiere l’esercizio di unione con Dio bisogna pentirsi dei propri peccati
Comincerete dunque col raccogliere i vostri sensi e le vostre forze, poi vi prostrerete in spirito ai piedi di Gesù Cristo, piangerete con dolore ed umiltà i vostri peccati e li getterete nell’abisso della misericordia di Dio, perché egli li consumi, li distrugga, li annienti; ecciterete in voi il vivo desiderio di non avere mai offeso un Padre così buono, per meritare con ciò di piacergli come se realmente non l’aveste offeso mai.

Proporsi di evitare il peccato

Proporrete poi, con l’aiuto della grazia, di evitare tutto ciò che a Dio dispiace, chiederete che vi perdoni per i meriti di Gesù Cristo, della beatissima Vergine Maria e di tutti i santi.
Domanderete di essere lavati nel sangue prezioso di Gesù Cristo, di essere perfettamente guariti e santificati, ed avrete infine ferma fiducia di ottenere l’intera remissione dei vostri peccati e un completo perdono.

Meditare la vita del Salvatore

Indi passerete al ricordo della vita e della passione di Gesù Cristo e ringrazierete questo divino Redentore.

Umiliarsi profondamente

In seguito vi porrete in spirito, al disotto di ogni creatura, preferirete tutti gli altri a voi stessi e li comprenderete tutti nel sentimento di una stessa carità.
Rinuncerete a tutto ciò che è inferiore a Dio; vi rassegnerete interamente alla sua volontà e vi mostrerete disposti a soffrire in spirito di penitenza ogni specie di tribolazione.
Tutto ciò deve essere fatto con sincerità somma; ma se non foste ancora pervenuti al punto di poterlo dire dal profondo del vostro cuore e con piena volontà, ditelo almeno come lo potete, e sarete a Dio graditi.

Chiedere a Dio la sua grazia

Compiuto questo, chiederete al Signore quanto vi è necessario per giungere alla unione perfetta con lui, e invocherete altresì la gloriosa Vergine Maria, madre di Dio, e tutti gli abitanti della celeste Gerusalemme a fine di ottenere, per loro intercessione, la grazia che desiderate.

Bisogna anche pregare per il prossimo
Pregherete in favore di tutti coloro per i quali Gesù Cristo si è degnato offrirsi come vittima; e offrirete le vostre preghiere non soltanto per i cristiani, ma anche per gl’infedeli sparsi in tutto il mondo, sentendo realmente nel profondo del cuore una viva compassione per quelli che col peccato sfigurano l’immagine di Dio stampata in loro stessi e si rendono volontariamente estranei alla felicità che Dio promette nell’eternità e a tutte le delizie del regno dei Cieli.

Bisogna pregare per le anime del Purgatorio
Vi interesserete inoltre delle anime dei fedeli defunti, trattenute ancora nelle fiamme del Purgatorio; estenderete il vostro interessamento a tutta l’immensa famiglia di Dio e invocherete con tutto il cuore la salvezza di tutti.
Non vi è mezzo più efficace per attirare su voi gli sguardi della divina misericordia.

Dobbiamo glorificare Dio con una immensa carità

Dopo ciò innalzerete la vostra preghiera alla SS. Trinità, celebrandone le lodi; ecciterete in voi il desiderio di amare Iddio sempre di più. Agli occhi di Dio i vostri meriti saranno tanto grandi quanto lo saranno stati i vostri desideri, perché Iddio nella sua misericordia accetta le buone intenzioni degli uomini in luogo delle buone opere, quando si è nella impossibilità di compierle.
Infine, con amorose aspirazioni verso Dio, con desideri ardenti, gli chiederete la grazia di essere felicemente uniti a Lui per sempre.


LO STESSO ESERCIZIO RIDOTTO IN FORMA DI PREGHIERA


Pensa di aggiungere a quanto è stato detto una formula di preghiera adatta all’esercizio giornaliero di cui si è parlato, per un maggior progresso dell’anima.

L’uomo si riconosce peccatore

O Gesù, mio Signore e mio Dio! che vi dirò? Io piego, in spirito le ginocchia dinanzi a voi, depongo il mio cuore ai vostri piedi e riconosco i miei falli.
Ho peccato, o mio Dio, ho fatto il male in vostra presenza, ho peccato contro il mio Creatore, contro il mio Redentore, contro il mio Benefattore e Padre.
Ahimè! sono sempre stato troppo ingrato e infedele verso voi; io sono tutto ciò che vi è di più miserabile e spregevole, sono cenere, polvere; non sono niente, Signore.
O Signore, abbiate pietà di me!

L’uomo domanda la grazia e il perdono

Io vengo a deporre tutte le mie iniquità, le mie negligenze, le mie mancanze (e voi sapete, Signore, quale ne sia l’enormità e il numero) nelle vostre piaghe adorabili.
Vengo a gettarle nell’immenso braciere del vostro amore, a inabissarle nell’oceano infinito della vostra misericordia.
Perché, o Signore, vi ho offeso?
Perché ho messo un ostacolo alla vostra grazia?
Come mi dolgo di non aver sempre cercato di piacervi, di obbedire alle vostre sante ispirazioni e alla vostra divina volontà in tutte le cose!

Egli si propone di essere più fedele in avvenire

Io mi propongo, con l’aiuto della vostra grazia, di evitare d’ora in avanti tutto ciò che vi dispiace, pronto a morire mille volte piuttosto che volere qualcosa che possa offendervi.
O dolce Gesù, siatemi propizio, per i meriti della vostra santa umanità, per quelli della vostra beatissima Madre e di tutti i vostri santi.
Lavatemi nel vostro sangue prezioso, purificatemi completamente, guaritemi e santificatemi senza riserva.

Il peccatore benedice e glorifica Gesù Cristo per le sue infinite misericordie
Vi adoro, vi lodo, vi glorifico, vi benedico, vi ringrazio, mio Signore Gesù, per tutte le vostre misericordie e i vostri benefici. Vi ringrazio, o Figlio del Dio vivente, Altissimo Dio, che nell’eccesso della vostra carità per me, vi siete degnato di farvi uomo.
Per me, siete nato in una stalla, siete stato avvolto in povere fasce, avete riposato in una mangiatoia, avete avuto per nutrimento il latte verginale della vostra Santa Madre, avete sopportato la povertà, l’indigenza, e per trent’anni siete stato aggravato di una infinità di lavori e di fatiche; per me avete voluto che un sudore di sangue stillasse dalle vostre membra fra tante angosce; per me siete stato preso ignominiosamente e caricato d’indegni ferri, avete voluto soggiacere al peso di una ingiusta condanna, siete stato coperto di vergognosi sputi, avete ricevuto schiaffi, siete stato rivestito in segno di scherno di una veste bianca, il cui uso rendeva ridicoli, siete stato esposto ad ogni specie di scherni, avete voluto essere crudelmente lacerato a colpi di frusta, e spietatamente coronato di spine, inumanamente inchiodato a una croce e abbeverato di fiele e aceto.
Voi, o mio Dio, che avete rivestito gli astri di tanto splendore, siete stato disprezzato, denudato, coperto di ferite, abbattuto da dolori immensi, sospeso ad una croce infame.
Per me voi avete sparso il vostro sangue così prezioso; per me infine siete morto!...

Il peccatore chiede a Gesù Cristo la grazia di amarlo

O mio dolce Gesù, unica salvezza della mia anima! fate ch’io vi ami col più ardente amore e che dal più profondo del cuore compatisca i vostri dolori.
Io abbraccio la vostra croce adorabile e la bacio per amor vostro e per la vostra gloria.
Io saluto le piaghe da voi sofferte per me e nelle quali è inciso il mio nome.
Vi saluto, mille volte vi saluto, o piaghe benefiche del mio Salvatore, del Dio che mi ha tanto amato!

Buoni proponimenti del peccatore

O mio adorabile Salvatore! io, il più miserabile dei peccatori, mi metto in vostra presenza al disotto di ogni creatura.
Io non merito che la terra mi sopporti. Fra tutti gli uomini non ve n’è uno che non debba essere preferito a me.
Io mi metto al disotto di tutti, e mi faccio volontariamente il servitore di tutti. Nei trasporti di una sincera carità, abbraccio tutti gli uomini, specialmente quelli che mi tormentano e mi perseguitano.
Per amor vostro rinuncio ad ogni peccato, ad ogni vanità, a tutti i piaceri mondani, a tutto ciò che è contrario all’ordine; rinuncio anche alla mia propria volontà, abbandono e disdegno tutto ciò che è meno di voi e vi preferisco a tutto.
Accetto i vostri disegni sopra di me.
Io desidero che la vostra santa volontà si compia sempre in me, nel tempo e nella eternità.
Io mi offro a voi, pronto a soffrire, con l’aiuto della vostra grazia e per la gloria del vostro nome, ogni specie d’ignominia, d’ingiuria, di disprezzo e di obbrobri, ogni specie di tribolazione e di dolori.
Io sono pronto a soffrire la privazione assoluta di ogni consolazione sensibile.
Io non mi rifiuto di vivere, se tale è la vostra volontà, in quella povertà e fra quelle afflizioni in cui voi stesso siete vissuto.

Il peccatore domanda le virtù cristiane

O amabilissimo Gesù, fate morire in me tutto ciò che vi dispiace.
Ornate la mia anima delle vostre virtù e dei vostri meriti.
Datemi la vera umiltà, la vera obbedienza, la vera dolcezza, la vera pazienza, la vera carità.
Datemi un assoluto impero sulla mia lingua, su tutte le mie membra, su tutti i miei sensi.
Datemi la libertà interiore, lo spirito di povertà, la purezza e la perfetta contemplazione di voi stesso.
Rendete la mia anima conforme all’anima umana che faceva parte della vostra santa umanità, e il mio corpo conforme a quel corpo così puro e così privo di ogni macchia, che voi avete rivestito.
Spandete in me la luce serena e brillante della vostra divinità.

Egli desidera di essere trasformato in Cristo

Io credo fermamente che abitate in me con la vostra divinità.
Degnatevi dunque di vedere coi miei occhi, di udire con le mie orecchie, di parlare con la mia bocca, di agire, insomma, con tutto il mio essere, per operare in me ciò che vi piace.
Liberatemi da tutto ciò che mi imbarazza e mi impedisce di essere unito a voi perfettamente (83).
Per mezzo delle vostre piaghe adorabili introducetemi fino al fondo della mia anima, affinché conoscendomi, io conosca voi stesso e vi ami e vi sia intimamente unito e mi riposi tranquillamente nel godimento delle vostre perfezioni, per la gloria del vostro nome.
Esauditemi, o Signore, non in ragione della mia volontà ma della vostra.
Esauditemi nella misura che vi sembra conveniente alla vostra gloria e alla mia salvezza.

Preghiera alla Vergine Maria e ai Santi

O Maria, o tenera Madre di Dio, o gloriosa Regina del cielo, abbiate pietà di me.
Intercedete per me, voi, ch’io posso chiamare un giglio puro e profumato, opera perfetta della risplendente e pacifica Trinità.
Ottenetemi la grazia di amare il vostro divin Figlio Gesù Cristo d’un amore perfetto, e di diventare un’anima secondo il suo cuore.
O voi tutti, Santi e Sante di Dio! voi, Angeli beati, soccorretemi.
Pregate per me, immortali abitanti della patria celeste, affinché io possa col vostro aiuto, piacere al supremo Re, la cui contemplazione immediata e piena di dolcezza vi inonda di una gioia inesauribile.

Preghiera per tutti gli uomini

O Gesù, salvatore misericordioso, abbiate pietà della vostra Chiesa; abbiate pietà di tutti quelli per i quali avete versato il vostro sangue.
Convertite i poveri peccatori, richiamate gli eretici e gli scismatici, illuminate gli infedeli che non vi conoscono. Soccorrete tutti coloro che sono in preda a qualche difficoltà o a qualche tribolazione.
Soccorrete quanti si sono raccomandati alle mie preghiere o desiderano di raccomandarvisi.
Soccorrete i miei parenti, i miei amici, i miei benefattori; rendeteli tutti graditi ai vostri occhi.
Concedete il perdono e la vostra grazia ai vivi e il riposo e la luce eterna ai defunti.
Per tutti, Signore, io vi offro il vostro sangue prezioso e tutto ciò che avete voluto fare e soffrire per la nostra salvezza, vi offro tutti i meriti della vostra umanità.

Preghiera alla Trinità

O Trinità! Dio altissimo, clementissimo, misericordiosissimo, Padre, Figlio, Spirito Santo, Dio uno, voi lo vedete, io spero in voi. Istruitemi, dirigetemi, sostenetemi.
O Padre, con la vostra infinita potenza, fissate in voi la mia memoria e riempitela di santi e divini pensieri.
O Figlio, con la vostra eterna sapienza, illuminate il mio intelletto, accordategli la conoscenza della vostra suprema verità e della mia bassezza.
O Spirito Santo, che siete l’amore del Padre e del Figlio, con la vostra incomprensibile bontà, trasportate la mia volontà in voi e infiammatela del fuoco inestinguibile della vostra carità.
Perché non posso io, adorabile Trinità, lodarvi e amarvi così perfettamente come i santi e gli angeli del cielo? Almeno, o Signore, ch’io glorifichi come mi è possibile la vostra saggia e benefica potenza.
Io benedico la vostra onnipotente e benefica saggezza; e glorifico la vostra saggia e onnipotente misericordia.
Ma poiché io non posso abbastanza lodarvi, degnatevi, ve ne scongiuro, di lodarvi voi stesso in me, con tutta la perfezione che meritate.
Oh! se avessi tutto l’amore di tutte le creature, con quanta gioia mi affretterei a volgerlo verso di voi e ad impiegarlo per amarvi!

L’uomo chiede a Dio di immergerlo in lui

O mio Signore e mio Dio! mio principio e mio fine, o essenza supremamente semplice, supremamente tranquilla e supremamente amabile, o abisso di dolcezze e di delizie! o mia amabile luce, e suprema felicità della mia anima! o torrente d’ineffabile diletto! oceano di gioie inesprimibili! pienezza perfetta di ogni bene, mio Dio e mio Tutto, che cosa mi potrà mancare, se possiedo voi?
Voi siete il mio bene unico ed immutabile. Io non devo cercare che voi.
Io non cerco e non desidero che voi solo. O Signore, attiratemi a voi.
Infuocatemi del fuoco del più cocente amore.
Considerate tutta la mia povertà, la mia inanità, la mia ignoranza, la mia cecità. Io busso, apritemi!
Aprite ad un orfano che vi implora. Immergetemi nell’abisso della vostra divinità; rendetemi un solo spirito con voi, affinché io possa un giorno possedere in me le vostre soavi e sante delizie.




NOTE

(1) Alberto Magno qui parla specialmente della perfezione dei monaci, sebbene la sua dottrina valga anche per la perfezione cristiana in generale. Egli scrisse questo piccolo trattato verso la fine della sua lunga vita, chiusa si all’età di 87 anni.
(2) E’ il dovere che s’impone a tutti i cristiani. I religiosi s’impongono come dovere ciò che in se stesso non è che un consiglio. Essi sono tenuti alla pratica dei consigli.
(3) I voti hanno come fine immediato l’allontanamento degli ostacoli alla perfezione, ma non costituiscono la perfezione. E’ la carità che costituisce la perfezione. Alberto Magno non parla che d’un voto, perché allora le formule di professione religiosa non parlavano che del voto di obbedienza che suppone tuttavia gli altri due voti di castità e di povertà.
(4) Gv. 4, 23.
(5) Mt. 6, 6.
(6) Quando Alberto Magno e gli altri mistici affermano che non bisogna curarsi delle creature, intendono dire che non bisogna curarsene per se stesse, ma non che non si debba occuparsene in un modo o nell’altro per amore di Dio. Il nostro Dottore d’altronde spiegherà meglio il suo pensiero in seguito.
(7) 1 Pt. 5, 7.                             
(8) Fil. 4, 6.
(9) Sal. 55, 23.
(10) Sal. 92, 5.
(11) Sal. 16, 8.
(12) Cn. 3, 4.
(13) Sap. 7, 11.
(14) Mt. 16, 26.
(15) Lc. 17, 21.
(16) Alberto Magno suppone qui che la preoccupazione di Dio e quella delle creature siano parallele, il che sarebbe un difetto; e non subordinate, il che non è un difetto ma una virtù.
(17) Bisogna comprenderlo nel senso che Dio è il principio e il fine supremo di tutte le attività create.
(18) L’immagine perfetta di Dio nell’uomo non consiste soltanto nel possedere delle facoltà per le quali l’uomo gli rassomiglia, ma anche nel compiere per mezzo della fede e della carità, per quanto si può, degli atti simili a quelli che Dio compie, conoscendolo come egli si conosce ed amandolo come egli si ama.
(19) Gli scolastici chiamano “forma” ciò che dà l’essere accidentale o sostanziale al composto. Dio è la forma accidentale dell’anima, perché deve imprimere nella attività di essa qualcosa della sua propria attività per mezzo della grazia santificante. Inoltre si può dire che Dio è la forma dell’anima anche nel senso che l’anima, per la ordinaria provvidenza, deve partecipare all’essere di Dio per mezzo della grazia santificante, che è una partecipazione reale, sebbene creata, della natura divina.
(20) Bisogna evitare queste cose in tanto e in quanto ci allontanano da Dio. Ma esse possono anche avvicinarci a lui, quando si percepiscono in Dio e per Iddio.
(21) Soltanto con l’intelligenza e la volontà vi si arriva formalmente, sebbene sia presupposto l’uso delle facoltà sensibili.
(22) Le facoltà sensibili servono spesso per tendere a Dio, quando la loro attività si limita ad essere il mezzo, ma sono un ostacolo quando la loro attività è il fine.
(23) Questa dottrina è la traduzione cristiana dell’assioma formulato dal filosofo: “Homo sedendo fit sapiens”: nella calma l’uomo acquista la saggezza.
(24) Questo è necessario specialmente per i religiosi.
(25) Si deve comprendere questa parola nel senso che la Santa Scrittura, presupposta sempre come base, non ci dà di Dio che una conoscenza oggettiva, mentre lo Spirito Santo ce ne dà una conoscenza sperimentale.
(26) Dio si conosce e si ama in se stesso per sua natura, e noi lo conosciamo ed amiamo in se stesso per la sua grazia.
(27) Ciò che è notevolissimo nella dottrina di questo libro è che essa esige dapprima la perfezione dell’anima e delle facoltà, dalla quale deriverà quella degli atti. Gli autori più moderni, da casisti esclusivi, quasi non parlano d’altro che della perfezione degli atti: il che è meno logico e meno profondo.
(28) Prov. 8, 31.
(29) I sensi dell’uomo esteriore sono l’immaginazione e le passioni; per l’uomo interiore sono l’intelligenza e la volontà, che si trovano a volte senza alcun soccorso da parte della devozione sensibile.
(30) Infatti tutti i disegni di Dio su noi sono misericordiosi, specialmente dal punto di vista della nostra santificazione, e gli ostacoli all’attuazione dei piani divini provengono unicamente dalle nostre sregolate passioni.
(31) Il libro “De spiritu et anima” è di autore incerto; si trova stampato al seguito delle opere di S. Agostino in Migne, Patrol. lat., vol. XL, 779.
(32) Queste tenebre dello spirito sono il silenzio della immaginazione che non è più ascoltata, e quello dell’intelligenza che è abbastanza illuminata per comprendere che in sostanza non si capisce nulla della Divinità in se stessa. Il meglio per noi è di negare in Dio i difetti che constatiamo nelle creature, per la ragione che noi naturalmente non conosciamo Dio che attraverso le creature le quali sono infinitamente impotenti a darci una idea adeguata del Creatore.
(33) Sal. 84, 8.
(34) Non si perde Dio, il bene increato, che attaccandosi illegittimamente al bene creato; se non ci si attacca al bene creato, non si perde Iddio e si tende a lui senza sforzo.
(35) Gv. 14, 6.
(36) L’anima amante di Dio non, si occupa delle cose del mondo se non perché sono in relazione a Dio ed ai propri obblighi.
(37) Ciò è vero perché, secondo la vera filosofia, la essenza d’una cosa è distinta dalla sua esistenza.
(38) Ogni causa attuale è a Dio più intimamente presente nella sua opera che l’opera stessa, poiché necessariamente, la precede.
(39) Gv. l, 3-4.
(40) Noi non abbiamo abitualmente l’esperienza delle cose divine e da principio possiamo solo paragonarle alle cose che sperimentiamo quaggiù.
(41) Noi neghiamo in Dio tutto ciò che è una semplice possibilità o una imperfezione. Noi neghiamo in lui “ciò che è proprio della nostra ragione” ossia il ragionamento, perché esso presuppone l’assenza della visione del vero; noi neghiamo in lui “l’essere quale lo s’incontra nelle creature” perché, nelle creature è fatalmente limitato e contingente.
(42) Num. 1.
(43) Es. 33; Num. 12, 8; Eb. 3, 2.
(44) A proposito di questa importante dottrina ci sembra utile citare S. Tommaso, il discepolo di Alberto Magno. “Una cosa può appartenere alla vita contemplativa in due maniere: o come parte essenziale o come disposizione.
Le virtù morali non appartengono all’essenza della contemplazione, il cui fine è unicamente la considerazione della verità...
Ma esse le appartengono come disposizioni preliminari... perché calmano le passioni e il tumulto delle preoccupazioni esterne, e cosi facilitano la contemplazione” (Somma, 2, 2ae, q. 180, a. 2). Questa distinzione non deve mai essere dimenticata quando si leggono i libri mistici che procedono dalla Scolastica.
(45) Gv. 17, 3.
(46) Sal. 16, 15.
(47) Questa mirabile dottrina condanna tutta una letteratura e una fantasticheria insipida, sciocca, viziata, sensuale, che ai nostri giorni ha invaso il mondo della pietà, vuotate le anime di sani pensieri e le ha riempite di un sentimentalismo equivoco e nocivo.
(48) Mt. 11, 6; 13, 57; ecc.
(49) E’ il celebre “perinde ac cadaver” eccellentemente compreso.
(50) Lc. 10, 42.
(51) Lc. II, 14.
(52) Niente di più conforme al Vangelo di tale dottrina, Gesù Cristo fa cantare sulla sua culla che la pace appartiene agli uomini di buona volontà (Lc. II, 14); più tardi dichiara che il suo nutrimento è di fare la volontà del Padre (Gv. 4, 34); altrove afferma ch’egli non cerca la sua volontà, ma la volontà di colui che lo ha mandato (Gv. 5, 30); che è disceso dal cielo per compierla (Gv. 6, 38). Vicino a morire chiederà ancora che sia fatta la volontà del Padre e non la sua (Mt. 24, 26; Lc. 22, 42). Molte volte nel Vangelo ricorre lo stesso linguaggio. Egli vuole che i suoi discepoli lo imitino. Non chi ripete: Signore, Signore, entrerà - egli dice ­ nel regno dei cieli, ma chi fa la volontà di Dio (Mt. 7, 21; Rm. II, 3; Gc. l, 22); e nella preghiera che c’insegna ci fa chiedere l’adempimento di questa volontà come mezzo per glorificare Dio e per santificare le nostre anime (Mt. 6, 10). Infine ci dice pure che se ci conformiamo a questa volontà suprema, saremo suoi fratelli (Mt. 12, 50; Mc. 3, 35). Quando dunque certe persone pie si domandano se amano Dio e se potranno amarlo sempre, basterebbe rivolgere loro la stessa interrogazione in altri termini: compiono esse, possono esse compiere la volontà di Dio, e i loro doveri per Iddio? Così posta, la questione si risolve da sé. La ragione di tale dottrina è semplicissima: amare qualcuno significa volergli bene. Ora, un bene di Dio è la sua benefica volontà su noi. Il Nostro Signore e Maestro richiamò questo principio quando disse: “Sarete miei amici se farete quello che io vi comando” (Gv. 15, 4).
(53) In virtù dello stesso principio, bisogna anche ricordare costantemente questa norma, incontestabile quanto obliata, che cioè si ha il merito del bene che si vorrebbe effettivamente fare, ma che non si può compiere in realtà; come si ha il demerito del male che si vorrebbe fare pur non potendolo compiere.
(54) La “volontà fa la ricompensa o il supplizio” nel cielo o nell’inferno, perché essendo presupposta la conoscenza di Dio, la volontà si attacca a lui per amore, o lo odia con ostinazione.
(55) Si può considerare in particolare un triplice bene: anzitutto la tentazione provoca la lotta e così fortifica la virtù; poi obbliga l’uomo a fare atti di esplicita adesione alla virtù contro la quale essa si produce, il che è un’altra perfezione; infine in questa adesione e in questa lotta sono naturalmente compresi molti atti virtuosi e per conseguenza meritori. Vi sono dunque possibili vantaggi sia per le disposizioni sia per gli atti.
(56) Gb. 7, 1.
(57) Cant. VIII, 6.
(58) Si tratta qui dell’anima “in quanto è umana “ ed è come tale che è più presente là dove ama che non dove dà la vita.
(59) Senza la carità non vi è virtù perfetta, perché senza essa nessuna virtù conduce l’uomo al suo ultimo fine che è Dio, sebbene possa condurlo a un fine subalterno. Ed è in questo senso che, secondo gli antichi teologi, la carità è la “forma” delle altre virtù, poiché per essa gli atti di tutte le altre virtù sono soprannaturalizzati e diretti al loro legittimo fine che è Dio. Cfr. T. Th. Sum. 2, 2.ae, q. 23, a. 7, 8.
(60) Mt. 22, 40.
(61) Rm. 13, l0.
(62) 1 Tm. 1, 5.
(63) Dio non può amarsi e non saprebbe amare le creature che per se stesso; se abbiamo in noi questo amore, saremo in certo qual modo uno stesso spirito con lui.
(64) Tutta questa dottrina si basa sulla definizione della preghiera che è essenzialmente “una elevazione dell’anima verso Dio “.
(65) l Ts. 5, 17.
(66) l Tm. 2, 8.
(67) Tale remissione è possibile quanto alla colpa per i peccati veniali, quanto alla pena per tutti i peccati.
(68) Sal. 9, 24.
(69) Is. 3, 12.
(70) Lc. 6, 26.
(71) S. Tommaso spiega così la possibilità e la giustezza di questo sentimento: “Si può senza menzogna credersi e dichiararsi più abietti degli altri, a causa dei difetti segreti che si riconoscono in sé e ai doni di Dio che si nascondono negli altri. S. Agostino dice nel suo libro De Virginit., cap. LI: “Ritenete sempre gli altri migliori di voi nel fondo della loro anima, sebbene esteriormente voi sembriate migliori di essi”. Così si può, senza mentire, dirsi e credersi inutili a tutto e indegni, tenuto conto delle proprie forze. L’Apostolo diceva (2 Cr. 3): “Noi siamo incapaci di pensare alcunché esclusivamente da noi stessi: la nostra capacità viene da Dio” (Som. 2. 2.ae, q. 161, a. 6, 1). Non è giusto che vi sia una differenza fra il colpevole e l’innocente quanto alla pena e alla riparazione, se vi fu tanta differenza nella colpa e nella prevaricazione? Dovrebbe forse l’iniquità essere più libera dell’innocenza? Trattiamo dunque tutte le cose con disdegno e disprezzo, allontaniamoci, separiamoci da esse per potere con tutta sincerità gettare le basi della penitenza e della riparazione.
(72) l Pt. 5, 7.
(73) Sal. 54, 8.
(74) Ee. 12, 11-12.
(75) Mt. 6, 31.
(76) Dt. 11, 24.
(77) Cf. Serm. I in Perito
(78) Mc. 11, 24
(79) 2 Cr. 3, 5.
(80) Questa dottrina di Alberto Magno sulla Provvidenza è veramente mirabile. Essa è basata sull’assioma che le azioni della creatura non sono parzialmente della creatura e parzialmente di Dio, ma totalmente della creatura e totalmente di Dio. (Cf. S. Th. Cont. Gent. n. 70). La causalità umana non è affatto parallela alla causalità divina, ma, come dicono gli Scolastici, subalterna. Basta questa dottrina a salvaguardare tutta l’azione di Dio e tutta l’azione della creatura. La dottrina del parallelismo invece diminuisce l’una e l’altra e conduce al fatalismo, attribuendo a Dio cose che non ha fatto e sopprimendo per l’uomo il principio necessario ad ogni bene, in particolare la libertà. La dottrina delle causalità subordinate è anche la prima che spiega come le cose decretate da Dio possono essere determinate nella causalità suprema, e prodursi infallibilmente senza essere necessariamente nelle causalità seconde. Questa è alta teologia. Disgraziatamente certi moderni l’hanno dimenticata.
(81) Questo capitolo e la preghiera che segue mancano in molte edizioni del nostro opuscolo. Se non sono di S. Alberto, entrano tuttavia pienamente nel suo pensiero e nel suo argomento. Si sa pure che il grande Dottore aveva l’abitudine di riassumere in belle preghiere le sue lezioni più strettamente dogmatiche. Per questi motivi le aggiungiamo qui. Si può concludere che la vera scienza non gonfia né inaridisce.
(82) Cap. IX.

(83) Quando l’uomo si lascia condurre dallo spirito di Dio, diventa il fedele strumento di Dio, perché egli sottomette all’azione di Dio la propria attività, pur conservandola intatta.

SANT’ALBERTO MAGNO





BENEDETTO XVI
UDIENZA GENERALE
PIAZZA SAN PIETRO
MERCOLEDÌ, 24 MARZO 2010
SANT’ALBERTO MAGNO – 15 NOVEMBRE


Cari fratelli e sorelle,
uno dei più grandi maestri della teologia medioevale è sant’Alberto Magno. Il titolo di “grande” (magnus), con il quale egli è passato alla storia, indica la vastità e la profondità della sua dottrina, che egli associò alla santità della vita. Ma già i suoi contemporanei non esitavano ad attribuirgli titoli eccellenti; un suo discepolo, Ulrico di Strasburgo, lo definì “stupore e miracolo della nostra epoca”.


Nacque in Germania all’inizio del XIII secolo, e ancora molto giovane si recò in Italia, a Padova, sede di una delle più famose università del Medioevo. Si dedicò allo studio delle cosiddette “arti liberali”: grammatica, retorica, dialettica, aritmetica, geometria, astronomia e musica, cioè della cultura generale, manifestando quel tipico interesse per le scienze naturali, che sarebbe diventato ben presto il campo prediletto della sua specializzazione. Durante il soggiorno a Padova, frequentò la chiesa dei Domenicani, ai quali poi si unì con la professione dei voti religiosi. Le fonti agiografiche lasciano capire che Alberto maturò gradualmente questa decisione. Il rapporto intenso con Dio, l’esempio di santità dei Frati domenicani, l’ascolto dei sermoni del Beato Giordano di Sassonia, successore di san Domenico nella guida dell’Ordine dei Predicatori, furono i fattori decisivi che lo aiutarono a superare ogni dubbio, vincendo anche resistenze familiari. Spesso, negli anni della giovinezza, Dio ci parla e ci indica il progetto della nostra vita. Come per Alberto, anche per tutti noi la preghiera personale nutrita dalla Parola del Signore, la frequenza ai Sacramenti e la guida spirituale di uomini illuminati sono i mezzi per scoprire e seguire la voce di Dio. Ricevette l’abito religioso dal beato Giordano di Sassonia.

Dopo l’ordinazione sacerdotale, i Superiori lo destinarono all’insegnamento in vari centri di studi teologici annessi ai conventi dei Padri domenicani. Le brillanti qualità intellettuali gli permisero di perfezionare lo studio della teologia nell’università più celebre dell’epoca, quella di Parigi. Fin da allora sant’Alberto intraprese quella straordinaria attività di scrittore, che avrebbe poi proseguito per tutta la vita.


Gli furono assegnati compiti prestigiosi. Nel 1248 fu incaricato di aprire uno studio teologico a Colonia, uno dei capoluoghi più importanti della Germania, dove egli visse a più riprese, e che divenne la sua città di adozione. Da Parigi portò con sé a Colonia un allievo eccezionale, Tommaso d’Aquino. Basterebbe solo il merito di essere stato maestro di san Tommaso, per nutrire profonda ammirazione verso sant’Alberto. Tra questi due grandi teologi si instaurò un rapporto di reciproca stima e amicizia, attitudini umane che aiutano molto lo sviluppo della scienza. Nel 1254 Alberto fu eletto Provinciale della “Provincia Teutoniae” – teutonica – dei Padri domenicani, che comprendeva comunità diffuse in un vasto territorio del Centro e del Nord-Europa. Egli si distinse per lo zelo con cui esercitò tale ministero, visitando le comunità e richiamando costantemente i confratelli alla fedeltà, agli insegnamenti e agli esempi di san Domenico.


Le sue doti non sfuggirono al Papa di quell’epoca, Alessandro IV, che volle Alberto per un certo tempo accanto a sé ad Anagni – dove i Papi si recavano di frequente – a Roma stessa e a Viterbo, per avvalersi della sua consulenza teologica. Lo stesso Sommo Pontefice lo nominò Vescovo di Ratisbona, una grande e famosa diocesi, che si trovava, però, in un momento difficile. Dal 1260 al 1262 Alberto svolse questo ministero con infaticabile dedizione, riuscendo a portare pace e concordia nella città, a riorganizzare parrocchie e conventi, e a dare nuovo impulso alle attività caritative.

Negli anni 1263-1264 Alberto predicava in Germania ed in Boemia, incaricato dal Papa Urbano IV, per ritornare poi a Colonia e riprendere la sua missione di docente, di studioso e di scrittore. Essendo un uomo di preghiera, di scienza e di carità, godeva di grande autorevolezza nei suoi interventi, in varie vicende della Chiesa e della società del tempo: fu soprattutto uomo di riconciliazione e di pace a Colonia, dove l’Arcivescovo era entrato in duro contrasto con le istituzioni cittadine; si prodigò durante lo svolgimento del II Concilio di Lione, nel 1274, convocato dal Papa Gregorio X per favorire l’unione con i Greci, dopo la separazione del grande scisma d’Oriente del 1054; egli chiarì il pensiero di Tommaso d’Aquino, che era stato oggetto di obiezioni e persino di condanne del tutto ingiustificate.

Morì nella cella del suo convento della Santa Croce a Colonia nel 1280, e ben presto fu venerato dai confratelli. La Chiesa lo propose al culto dei fedeli con la beatificazione, nel 1622, e con la canonizzazione, nel 1931, quando il Papa Pio XI lo proclamò Dottore della Chiesa. Si trattava di un riconoscimento indubbiamente appropriato a questo grande uomo di Dio e insigne studioso non solo delle verità della fede, ma di moltissimi altri settori del sapere; infatti, dando uno sguardo ai titoli delle numerosissime opere, ci si rende conto che la sua cultura ha qualcosa di prodigioso, e che i suoi interessi enciclopedici lo portarono a occuparsi non solamente di filosofia e di teologia, come altri contemporanei, ma anche di ogni altra disciplina allora conosciuta, dalla fisica alla chimica, dall’astronomia alla mineralogia, dalla botanica alla zoologia. Per questo motivo il Papa Pio XII lo nominò patrono dei cultori delle scienze naturali ed è chiamato anche “Doctor universalis” proprio per la vastità dei suoi interessi e del suo sapere.

Certamente, i metodi scientifici adoperati da sant’Alberto Magno non sono quelli che si sarebbero affermati nei secoli successivi. Il suo metodo consisteva semplicemente nell’osservazione, nella descrizione e nella classificazione dei fenomeni studiati, ma così ha aperto la porta per i lavori futuri.

Egli ha ancora molto da insegnare a noi. Soprattutto, sant’Alberto mostra che tra fede e scienza non vi è opposizione, nonostante alcuni episodi di incomprensione che si sono registrati nella storia. Un uomo di fede e di preghiera, quale fu sant’Alberto Magno, può coltivare serenamente lo studio delle scienze naturali e progredire nella conoscenza del micro e del macrocosmo, scoprendo le leggi proprie della materia, poiché tutto questo concorre ad alimentare la sete e l’amore di Dio. La Bibbia ci parla della creazione come del primo linguaggio attraverso il quale Dio – che è somma intelligenza – ci rivela qualcosa di sé. Il libro della Sapienza, per esempio, afferma che i fenomeni della natura, dotati di grandezza e bellezza, sono come le opere di un artista, attraverso le quali, per analogia, noi possiamo conoscere l’Autore del creato (cfr Sap. 13,5). Con una similitudine classica nel Medioevo e nel Rinascimento si può paragonare il mondo naturale a un libro scritto da Dio, che noi leggiamo in base ai diversi approcci delle scienze (cfr Discorso ai partecipanti alla Plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze, 31 Ottobre 2008). Quanti scienziati, infatti, sulla scia di sant’Alberto Magno, hanno portato avanti le loro ricerche ispirati da stupore e gratitudine di fronte al mondo che, ai loro occhi di studiosi e di credenti, appariva e appare come l’opera buona di un Creatore sapiente e amorevole! Lo studio scientifico si trasforma allora in un inno di lode. Lo aveva ben compreso un grande astrofisico dei nostri tempi, di cui è stata introdotta la causa di beatificazione, Enrico Medi, il quale scrisse: “Oh, voi misteriose galassie …, io vi vedo, vi calcolo, vi intendo, vi studio e vi scopro, vi penetro e vi raccolgo. Da voi io prendo la luce e ne faccio scienza, prendo il moto e ne fo sapienza, prendo lo sfavillio dei colori e ne fo poesia; io prendo voi stelle nelle mie mani, e tremando nell’unità dell’essere mio vi alzo al di sopra di voi stesse, e in preghiera vi porgo al Creatore, che solo per mezzo mio voi stelle potete adorare” (Le opere. Inno alla creazione).

Sant’Alberto Magno ci ricorda che tra scienza e fede c’è amicizia, e che gli uomini di scienza possono percorrere, attraverso la loro vocazione allo studio della natura, un autentico e affascinante percorso di santità.

La sua straordinaria apertura di mente si rivela anche in un’operazione culturale che egli intraprese con successo, cioè nell’accoglienza e nella valorizzazione del pensiero di Aristotele. Ai tempi di sant’Alberto, infatti, si stava diffondendo la conoscenza di numerose opere di questo grande filosofo greco vissuto nel quarto secolo prima di Cristo, soprattutto nell’ambito dell’etica e della metafisica. Esse dimostravano la forza della ragione, spiegavano con lucidità e chiarezza il senso e la struttura della realtà, la sua intelligibilità, il valore e il fine delle azioni umane. Sant’Alberto Magno ha aperto la porta per la recezione completa della filosofia di Aristotele nella filosofia e teologia medioevale, una recezione elaborata poi in modo definitivo da S. Tommaso. Questa recezione di una filosofia, diciamo, pagana pre-cristiana fu un’autentica rivoluzione culturale per quel tempo. Eppure, molti pensatori cristiani temevano la filosofia di Aristotele, la filosofia non cristiana, soprattutto perché essa, presentata dai suoi commentatori arabi, era stata interpretata in modo da apparire, almeno in alcuni punti, come del tutto inconciliabile con la fede cristiana. Si poneva cioè un dilemma: fede e ragione sono in contrasto tra loro o no?

Sta qui uno dei grandi meriti di sant’Alberto: con rigore scientifico studiò le opere di Aristotele, convinto che tutto ciò che è realmente razionale è compatibile con la fede rivelata nelle Sacre Scritture. In altre parole, sant’Alberto Magno, ha così contribuito alla formazione di una filosofia autonoma, distinta dalla teologia e unita con essa solo dall’unità della verità. Così è nata nel XIII secolo una chiara distinzione tra questi due saperi, filosofia e teologia, che, in dialogo tra di loro, cooperano armoniosamente alla scoperta dell’autentica vocazione dell’uomo, assetato di verità e di beatitudine: ed è soprattutto la teologia, definita da sant’Alberto “scienza affettiva”, quella che indica all’uomo la sua chiamata alla gioia eterna, una gioia che sgorga dalla piena adesione alla verità.

Sant’Alberto Magno fu capace di comunicare questi concetti in modo semplice e comprensibile. Autentico figlio di san Domenico, predicava volentieri al popolo di Dio, che rimaneva conquistato dalla sua parola e dall’esempio della sua vita.
Cari fratelli e sorelle, preghiamo il Signore perché non vengano mai a mancare nella santa Chiesa teologi dotti, pii e sapienti come sant’Alberto Magno e aiuti ciascuno di noi a fare propria la “formula della santità” che egli seguì nella sua vita: “Volere tutto ciò che io voglio per la gloria di Dio, come Dio vuole per la sua gloria tutto ciò che Egli vuole”, conformarsi cioè sempre alla volontà di Dio per volere e fare tutto solo e sempre per la Sua gloria.

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SANTO PADRE BENEDETTO XVI IN GERMANIA OMELIE E DISCORSI 23 SETTEMBRE 2011


VIAGGIO APOSTOLICO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI IN GERMANIA omelie e discorsi 23 settembre 2011



VISITA ALLA CATTEDRALE DI SANTA MARIA DI ERFURT
Illustri Signore e Signori!
Prendendo la parola, vorrei innanzitutto ringraziare per quest’occasione di incontrarvi. La mia particolare gratitudine va al Presidente Schneider, che mi ha dato il benvenuto e mi ha ricevuto in mezzo a voi con le sue cortesi parole.
Vorrei ringraziare, allo stesso tempo, per questo dono speciale, che il nostro incontro possa svolgersi in questo luogo storico.
Per me, come Vescovo di Roma, è un momento emozionante incontrare qui, nell’antico convento agostiniano di Erfurt, rappresentanti del Consiglio della Chiesa Evangelica in Germania.

Qui Lutero ha studiato teologia. Qui è stato ordinato sacerdote nel 1507. Contro il desiderio del padre, egli non continuò gli studi di giurisprudenza, ma studiò teologia e si incamminò verso il sacerdozio nell’Ordine di sant’Agostino. In questo cammino non gli interessava questo o quello. Ciò che non gli dava pace era la questione su Dio, che fu la passione profonda e la molla della sua vita e dell’intero suo cammino.
“Come posso avere un Dio misericordioso?”: questa domanda gli penetrava nel cuore e stava dietro ogni sua ricerca teologica e ogni lotta interiore. Per lui la teologia non era una questione accademica, ma la lotta interiore con se stesso, e questo, poi, era una lotta riguardo a Dio e con Dio.
“Come posso avere un Dio misericordioso?”. Che questa domanda sia stata la forza motrice di tutto il suo cammino mi colpisce sempre nuovamente. Chi, infatti, si preoccupa oggi di questo, anche tra i cristiani?
Che cosa significa la questione su Dio nella nostra vita? Nel nostro annuncio? La maggior parte della gente, anche dei cristiani, oggi dà per scontato che Dio, in ultima analisi, non si interessa dei nostri peccati e delle nostre virtù. Egli sa, appunto, che tutti siamo soltanto carne. Se oggi si crede ancora in un al di là e in un giudizio di Dio, allora quasi tutti presupponiamo in pratica che Dio debba essere generoso e, alla fine, nella sua misericordia, ignorerà le nostre piccole mancanze. Ma sono veramente così piccole le nostre mancanze? Non viene forse devastato il mondo a causa della corruzione dei grandi, ma anche dei piccoli, che pensano soltanto al proprio tornaconto? Non viene forse devastato a causa del potere della droga, che vive, da una parte, della brama di vita e di denaro e, dall’altra, dell’avidità di piacere delle persone dedite ad essa? Non è forse minacciato dalla crescente disposizione alla violenza che, non di rado, si maschera con l’apparenza della religiosità? La fame e la povertà potrebbero devastare a tal punto intere parti del mondo se in noi l’amore di Dio e, a partire da Lui, l’amore per il prossimo, per le creature di Dio, gli uomini, fosse più vivo?

Le domande in questo senso potrebbero continuare. No, il male non è un’inezia. Esso non potrebbe essere così potente se noi mettessimo Dio veramente al centro della nostra vita. La domanda: Qual è la posizione di Dio nei miei confronti, come mi trovo io davanti a Dio? – questa scottante domanda di Martin Lutero deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda. Penso che questo sia il primo appello che dovremmo sentire nell’incontro con Martin Lutero.

E poi è importante: Dio, l’unico Dio, il Creatore del cielo e della terra, è qualcosa di diverso
da un’ipotesi filosofica sull’origine del cosmo. Questo Dio ha un volto e ci ha parlato. Nell’uomo Gesù Cristo è diventato uno di noi – insieme vero Dio e vero uomo. Il pensiero di Lutero, l’intera sua spiritualità era del tutto cristocentrica: “Ciò che promuove la causa di Cristo” era per Lutero il criterio ermeneutico decisivo nell’interpretazione della Sacra Scrittura. Questo, però, presuppone che Cristo sia il centro della nostra spiritualità e che l’amore per Lui, il vivere insieme con Lui orienti la nostra vita.

Ora forse voi direte: Va bene, ma cosa ha a che fare tutto questo con la nostra situazione ecumenica? Tutto ciò è forse soltanto un tentativo di eludere con tante parole i problemi urgenti, nei quali aspettiamo progressi pratici, risultati concreti? A questo riguardo rispondo: la cosa più necessaria per l’ecumenismo è innanzitutto che, sotto la pressione della secolarizzazione, non perdiamo quasi inavvertitamente le grandi cose che abbiamo in comune, che di per sé ci rendono cristiani e che ci sono restate come dono e compito. È stato l’errore dell’età confessionale aver visto per lo più soltanto ciò che separa, e non aver percepito in modo esistenziale ciò che abbiamo in comune nelle grandi direttive della Sacra Scrittura e nelle professioni di fede del cristianesimo antico. È questo il grande progresso ecumenico degli ultimi decenni: che ci siamo resi conto di questa comunione e, nel pregare e cantare insieme, nell’impegno comune per l’ethos cristiano di fronte al mondo, nella comune testimonianza del Dio di Gesù Cristo in questo mondo, riconosciamo tale comunione come il nostro fondamento imperituro.

Il pericolo di perderla, purtroppo, non è irreale. Vorrei qui far notare due aspetti. Negli ultimi tempi, la geografia del cristianesimo è profondamente cambiata e sta cambiando ulteriormente.

Davanti ad una forma nuova di cristianesimo, che si diffonde con un immenso dinamismo missionario, a volte preoccupante nelle sue forme, le Chiese confessionali storiche restano spesso perplesse. È un cristianesimo di scarsa densità istituzionale, con poco bagaglio razionale e ancora meno bagaglio dogmatico e anche con poca stabilità. Questo fenomeno mondiale ci pone tutti davanti alla domanda: che cosa ha da dire a noi di positivo e di negativo questa nuova forma di cristianesimo? In ogni caso, ci mette nuovamente di fronte alla domanda su che cosa sia ciò che resta sempre valido e che cosa possa o debba essere cambiato, di fronte alla questione circa la nostra scelta fondamentale nella fede.

Più profonda e nel nostro Paese più scottante è la seconda sfida per l’intera cristianità; di essa vorrei parlare: si tratta del contesto del mondo secolarizzato, nel quale dobbiamo vivere e testimoniare oggi la nostra fede. L’assenza di Dio nella nostra società si fa più pesante, la storia della sua rivelazione, di cui ci parla la Scrittura, sembra collocata in un passato che si allontana sempre di più. Occorre forse cedere alla pressione della secolarizzazione, diventare moderni mediante un annacquamento della fede? Naturalmente, la fede deve essere ripensata e soprattutto rivissuta oggi in modo nuovo per diventare una cosa che appartiene al presente. Ma non è l’annacquamento della fede che aiuta, bensì solo il viverla interamente nel nostro oggi. Questo è un compito ecumenico centrale. In questo dovremmo aiutarci a vicenda: a credere in modo più profondo e più vivo. Non saranno le tattiche a salvarci, a salvare il cristianesimo, ma una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo, mediante la quale Cristo, e con Lui il Dio vivente, entri in questo nostro mondo. Come i martiri dell’epoca nazista ci hanno condotti gli uni verso gli altri e hanno suscitato la prima grande apertura ecumenica, così anche oggi la fede, vissuta a partire dell’intimo di se stessi, in un mondo secolarizzato, è la forza ecumenica più forte che ci ricongiunge, guidandoci verso l’unità nell’unico Signore.
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INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI
DEL CONSIGLIO DELLA “CHIESA EVANGELICA IN GERMANIA”

DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Sala del Capitolo dell’ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt
Venerdì, 23 settembre 2011

   
Illustri Signore e Signori!
Prendendo la parola, vorrei innanzitutto ringraziare di cuore per questa opportunità d’incontrarci qui. La mia particolare gratitudine va a Lei, caro Fratello Presidente Schneider, che mi ha dato il benvenuto e che con le sue parole mi ha accolto in mezzo a voi. Lei ha aperto il suo cuore, ha espresso apertamente la fede veramente comune, il desiderio di unità. E noi siamo anche lieti, poiché ritengo che questa assemblea, i nostri incontri, vengano celebrati anche come la festa della comunione nella fede. Vorrei inoltre ringraziare tutti per il vostro dono di poter conversare insieme come cristiani qui, in questo luogo storico.
Per me, come Vescovo di Roma, è un momento di profonda emozione incontrarvi qui, nell’antico convento agostiniano di Erfurt. Abbiamo appena sentito che qui Lutero ha studiato teologia. Qui è stato ordinato sacerdote. Contro il desiderio del padre, egli non continuò gli studi di giurisprudenza, ma studiò teologia e si incamminò verso il sacerdozio nell’Ordine di sant’Agostino. E in questo cammino non gli interessava questo o quello. Ciò che non gli dava pace era la questione su Dio, che fu la passione profonda e la molla della sua vita e dell’intero suo cammino. “Come posso avere un Dio misericordioso?”: questa domanda gli penetrava nel cuore e stava dietro ogni sua ricerca teologica e ogni lotta interiore. Per Lutero la teologia non era una questione accademica, ma la lotta interiore con se stesso, e questo, poi, era una lotta riguardo a Dio e con Dio.
“Come posso avere un Dio misericordioso?”. Che questa domanda sia stata la forza motrice di tutto il suo cammino mi colpisce sempre nuovamente nel cuore. Chi, infatti, si oggi si preoccupa ancora di questo, anche tra i cristiani? Che cosa significa la questione su Dio nella nostra vita? Nel nostro annuncio? La maggior parte della gente, anche dei cristiani,  oggi dà per scontato che Dio, in ultima analisi, non si interessa dei nostri peccati e delle nostre virtù. Egli sa, appunto, che tutti siamo soltanto carne. Se si crede ancora in un al di là e in un giudizio di Dio, allora quasi tutti presupponiamo in pratica che Dio debba essere generoso e, alla fine, nella sua misericordia, ignorerà le nostre piccole mancanze. La questione non ci preoccupa più. Ma sono veramente così piccole le nostre mancanze? Non viene forse devastato il mondo a causa della corruzione dei grandi, ma anche dei piccoli, che pensano soltanto al proprio tornaconto? Non viene forse devastato a causa del potere della droga, che vive, da una parte, della brama di vita e di denaro e, dall’altra, dell’avidità di piacere delle persone dedite ad essa? Non è forse minacciato dalla crescente disposizione alla violenza che, non di rado, si maschera con l’apparenza della religiosità? La fame e la povertà potrebbero devastare a tal punto intere parti del mondo se in noi l’amore di Dio e, a partire da Lui, l’amore per il prossimo, per le creature di Dio, gli uomini, fosse più vivo? E le domande in questo senso potrebbero continuare. No, il male non è un’inezia. Esso non potrebbe essere così potente se noi mettessimo Dio veramente al centro della nostra vita. La domanda: Qual è la posizione di Dio nei miei confronti, come mi trovo io davanti a Dio? – questa scottante domanda di Lutero deve diventare di nuovo, e certamente in forma nuova, anche la nostra domanda, non accademica, ma concreta. Penso che questo sia il primo appello che dovremmo sentire nell’incontro con Martin Lutero.
E poi è importante: Dio, l’unico Dio, il Creatore del cielo e della terra, è qualcosa di diverso da un’ipotesi filosofica sull’origine del cosmo. Questo Dio ha un volto e ci ha parlato. Nell’uomo Gesù Cristo è diventato uno di noi – insieme vero Dio e vero uomo. Il pensiero di Lutero, l’intera sua spiritualità era del tutto cristocentrica: “Ciò che promuove la causa di Cristo” era per Lutero il criterio ermeneutico decisivo nell’interpretazione della Sacra Scrittura. Questo, però, presuppone che Cristo sia il centro della nostra spiritualità e che l’amore per Lui, il vivere insieme con Lui orienti la nostra vita.
Ora forse si potrebbe dire: va bene, ma cosa ha a che fare tutto questo con la nostra situazione ecumenica? Tutto ciò è forse soltanto un tentativo di eludere con tante parole i problemi urgenti, nei quali aspettiamo progressi pratici, risultati concreti? A questo riguardo rispondo: la cosa più necessaria per l’ecumenismo è innanzitutto che, sotto la pressione della secolarizzazione, non perdiamo quasi inavvertitamente le grandi cose che abbiamo in comune, che di per sé ci rendono cristiani e che ci sono restate come dono e compito. È stato l’errore dell’età confessionale aver visto per lo più soltanto ciò che separa, e non aver percepito in modo esistenziale ciò che abbiamo in comune nelle grandi direttive della Sacra Scrittura e nelle professioni di fede del cristianesimo antico. È questo per me il grande progresso ecumenico degli ultimi decenni: che ci siamo resi conto di questa comunione e, nel pregare e cantare insieme, nell’impegno comune per l’ethos cristiano di fronte al mondo, nella comune testimonianza del Dio di Gesù Cristo in questo mondo, riconosciamo tale comunione come il nostro comune fondamento imperituro.
Certo, il pericolo di perderla non è irreale. Vorrei far brevemente notare due aspetti. Negli ultimi tempi, la geografia del cristianesimo è profondamente cambiata e sta cambiando ulteriormente. Davanti ad una forma nuova di cristianesimo, che si diffonde con un immenso dinamismo missionario, a volte preoccupante nelle sue forme, le Chiese confessionali storiche restano spesso perplesse. È un cristianesimo di scarsa densità istituzionale, con poco bagaglio razionale e ancora meno bagaglio dogmatico e anche con poca stabilità. Questo fenomeno mondiale – che mi viene continuamente descritto dai vescovi di tutto il mondo – ci pone tutti davanti alla domanda: che cosa ha da dire a noi di positivo e di negativo questa nuova forma di cristianesimo? In ogni caso, ci mette nuovamente di fronte alla domanda su che cosa sia ciò che resta sempre valido e che cosa possa o debba essere cambiato, di fronte alla questione circa la nostra scelta fondamentale nella fede.
Più profonda e nel nostro Paese più scottante è la seconda sfida per l’intera cristianità; di essa vorrei parlare: si tratta del contesto del mondo secolarizzato, nel quale dobbiamo vivere e testimoniare oggi la nostra fede. L’assenza di Dio nella nostra società si fa più pesante, la storia della sua rivelazione, di cui ci parla la Scrittura, sembra collocata in un passato che si allontana sempre di più. Occorre forse cedere alla pressione della secolarizzazione, diventare moderni mediante un annacquamento della fede? Naturalmente, la fede deve essere ripensata e soprattutto rivissuta oggi in modo nuovo per diventare una cosa che appartiene al presente. Ma non è l’annacquamento della fede che aiuta, bensì solo il viverla interamente nel nostro oggi. Questo è un compito ecumenico centrale nel quale dobbiamo aiutarci a vicenda: a credere in modo più profondo e più vivo. Non saranno le tattiche a salvarci, a salvare il cristianesimo, ma una fede ripensata e rivissuta in modo nuovo, mediante la quale Cristo, e con Lui il Dio vivente, entri in questo nostro mondo. Come i martiri dell’epoca nazista ci hanno condotti gli uni verso gli altri e hanno suscitato la prima grande apertura ecumenica, così anche oggi la fede, vissuta a partire dell’intimo di se stessi, in un mondo secolarizzato, è la forza ecumenica più forte che ci ricongiunge, guidandoci verso l’unità nell’unico Signore. E per questo lo preghiamo di imparare di nuovo a vivere la fede per poter diventare così una cosa sola.

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CELEBRAZIONE ECUMENICA
PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Chiesa dell’ex-Convento degli Agostiniani di Erfurt
Venerdì, 23 settembre 2011

   
Cari fratelli e sorelle nel Signore!
“Non prego solo per questi, ma anche per quelli che crederanno in me mediante la loro parola” (Gv 17,20): così ha detto Gesù nel Cenacolo, al Padre. Egli intercede per le generazioni future di credenti. Guarda al di là del Cenacolo verso il futuro. Ha pregato anche per noi. E prega per la nostra unità. Questa preghiera di Gesù non è semplicemente una cosa del passato. Sempre Egli sta davanti al Padre intercedendo per noi, e così in quest’ora sta in mezzo a noi e vuole attrarci nella sua preghiera. Nella preghiera di Gesù si trova il luogo interiore, più profondo, della nostra unità. Diventeremo una sola cosa, se ci lasceremo attirare dentro tale preghiera. Ogni volta che, come cristiani, ci troviamo riuniti nella preghiera, questa lotta di Gesù riguardo a noi e con il Padre per noi dovrebbe toccarci profondamente nel cuore. Quanto più ci lasciamo attrarre in questa dinamica, tanto più si realizza l’unità.
È rimasta inascoltata la preghiera di Gesù? La storia del cristianesimo è, per così dire, il lato visibile di questo dramma, in cui Cristo lotta e soffre con noi esseri umani. Sempre di nuovo Egli deve sopportare il contrasto con l’unità, e tuttavia sempre di nuovo si compie anche l’unità con Lui e così con il Dio trinitario. Dobbiamo vedere ambedue le cose: il peccato dell’uomo, che si nega a Dio, si ritira in se stesso, ma anche le vittorie di Dio, che sostiene la Chiesa nonostante la sua debolezza e attira continuamente uomini dentro di sé, avvicinandoli così gli uni agli altri. Per questo, in un incontro ecumenico, non dovremmo soltanto lamentare le divisioni e le separazioni, bensì ringraziare Dio per tutti gli elementi di unità che ha conservato per noi e sempre di nuovo ci dona. E questa gratitudine deve al contempo essere disponibilità a non perdere, in mezzo ad un tempo di tentazione e di pericoli, l’unità così donata.
L’unità fondamentale consiste nel fatto che crediamo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra. Che lo professiamo quale Dio trinitario – Padre, Figlio e Spirito Santo. L’unità suprema non è solitudine di una monade, ma unità attraverso l’amore. Crediamo in Dio – nel Dio concreto. Crediamo nel fatto che Dio ci ha parlato e si è fatto uno di noi. Testimoniare questo Dio vivente è il nostro comune compito nel momento attuale.
L’uomo ha bisogno di Dio, oppure le cose vanno abbastanza bene anche senza di Lui? Quando, in una prima fase dell’assenza di Dio, la sua luce continua ancora a mandare i suoi riflessi e tiene insieme l’ordine dell’esistenza umana, si ha l’impressione che le cose funzionino abbastanza bene anche senza Dio. Ma quanto più il mondo si allontana da Dio, tanto più diventa chiaro che l’uomo, nell’hybris del potere, nel vuoto del cuore e nella brama di soddisfazione e di felicità, “perde” sempre di più la vita. La sete di infinito è presente nell’uomo in modo inestirpabile. L’uomo è stato creato per la relazione con Dio e ha bisogno di Lui. Il nostro primo servizio ecumenico in questo tempo deve essere di testimoniare insieme la presenza del Dio vivente e con ciò dare al mondo la risposta di cui ha bisogno. Naturalmente di questa testimonianza fondamentale per Dio fa parte, in modo assolutamente centrale, la testimonianza per Gesù Cristo, vero Dio e vero uomo, che è vissuto insieme con noi, ha patito per noi, è morto per noi e, nella risurrezione, ha spalancato la porta della morte. Cari amici, fortifichiamoci in questa fede! Aiutiamoci a vicenda a viverla! Questo è un grande compito ecumenico che ci introduce nel cuore della preghiera di Gesù.
La serietà della fede in Dio si manifesta nel vivere la sua parola. Si manifesta, nel nostro tempo, in modo molto concreto, nell’impegno per quella creatura che Egli volle a sua immagine, per l’uomo. Viviamo in un tempo in cui i criteri dell’essere uomini sono diventati incerti. L’etica viene sostituita con il calcolo delle conseguenze. Di fronte a ciò noi come cristiani dobbiamo difendere la dignità inviolabile dell’uomo, dal concepimento fino alla morte – nelle questioni della diagnosi pre-impiantatoria fino all’eutanasia. “Solo chi conosce Dio, conosce l’uomo”, ha detto una volta Romano Guardini. Senza la conoscenza di Dio, l’uomo diventa manipolabile. La fede in Dio deve concretizzarsi nel nostro comune impegno per l’uomo. Fanno parte di tale impegno per l’uomo non soltanto questi criteri fondamentali di umanità, ma soprattutto e molto concretamente l’amore che Gesù Cristo ci insegna nella descrizione del Giudizio finale (Mt 25): il Dio giudice ci giudicherà secondo come  ci siamo comportati nei confronti di coloro che ci sono prossimi, nei confronti dei più piccoli dei suoi fratelli. La disponibilità ad aiutare, nelle necessità di questo tempo, al di là del proprio ambiente di vita è un compito essenziale del cristiano.
Ciò vale anzitutto, come detto, nell’ambito della vita personale di ciascuno. Ma vale poi nella comunità di un popolo e di uno Stato, in cui tutti noi dobbiamo farci carico gli uni degli altri. Vale per il nostro Continente, in cui siamo chiamati alla solidarietà in Europa. E, infine, vale al di là di tutte le frontiere: la carità cristiana esige oggi il nostro impegno anche per la giustizia nel vasto mondo. So che da parte dei tedeschi e della Germania si fa molto per rendere possibile a tutti gli uomini un’esistenza degna dell’uomo, e per questo vorrei dire una parola di viva gratitudine.
Infine vorrei ancora accennare ad una dimensione più profonda del nostro obbligo di amare. La serietà della fede si manifesta soprattutto anche quando essa ispira certe persone a mettersi totalmente a disposizione di Dio e, a partire da Dio, degli altri. I grandi aiuti diventano concreti soltanto quando sul luogo esistono coloro che sono totalmente a disposizione dell’altro e con ciò rendono credibile l’amore di Dio. Persone del genere sono un segno importante per la verità della nostra fede.
Alla vigilia della mia visita si è parlato diverse volte di un dono ecumenico dell’ospite, che ci si aspettava da una tale visita. Non c’è bisogno che io specifichi i doni menzionati in tale contesto. Al riguardo vorrei dire che questo, come per lo più è apparso, costituisce un fraintendimento politico della fede e dell’ecumenismo. Quando un Capo di Stato visita un Paese amico, generalmente precedono contatti tra le istanze, che preparano la stipulazione di uno o anche di più accordi tra i due Stati: nella ponderazione dei vantaggi e degli svantaggi si arriva al compromesso che, alla fine, appare vantaggioso per ambedue le parti, così che poi il trattato può essere firmato. Ma la fede dei cristiani non si basa su una ponderazione dei nostri vantaggi e svantaggi. Una fede autocostruita è priva di valore. La fede non è una cosa che noi escogitiamo e concordiamo. È il fondamento su cui viviamo. L’unità cresce non mediante la ponderazione di vantaggi e svantaggi, bensì solo attraverso un sempre più profondo penetrare nella fede mediante il pensiero e la vita. In questa maniera, negli ultimi 50 anni, e in particolare anche dalla visita di Papa Giovanni Paolo II, 30 anni fa, è cresciuta molta comunanza, della quale possiamo essere solo grati. Mi piace ricordare l’incontro con la commissione guidata dal Vescovo [luterano] Lohse, nella quale ci si è esercitati insieme in questo penetrare in modo profondo nella fede mediante il pensiero e la vita. A tutti coloro che hanno collaborato in questo – per la parte cattolica, in modo particolare, al Cardinale Lehmann – vorrei esprimere vivo ringraziamento. Non menziono altri nomi – il Signore li conosce tutti. Insieme possiamo tutti solo ringraziare il Signore per le vie dell’unità sulle quali ci ha condotti, ed associarci in umile fiducia alla sua preghiera: Fa’ che diventiamo una sola cosa, come Tu sei una sola cosa col Padre, perché il mondo creda che Egli Ti ha mandato” (cfr Gv 17,21).

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VESPRI MARIANI
PAROLE DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Wallfahrtskapelle di Etzelsbach
Venerdì, 23 settembre 2011

  
Cari fratelli e sorelle!
Di vero cuore vorrei salutare tutti voi che siete venuti qui, a Etzelsbach, per quest’ora di preghiera. Fin dalla mia giovinezza ho sentito parlare tanto dell’Eichsfeld che ho pensato: devo vederlo una volta e pregare insieme con voi. Ringrazio cordialmente il Vescovo Wanke, che già durante il volo mi ha presentato la vostra regione, e ringrazio i vostri portavoce e rappresentanti che mi hanno consegnato doni simbolici della vostra terra, e, al tempo stesso, hanno potuto darmi almeno un’idea della varietà di questa regione.
Così sono molto felice che si sia realizzato il mio desiderio di visitare l’Eichsfeld e di ringraziare, assieme con voi, la Vergine Maria qui a Etzelsbach. “Qui, nell’amata vallata tranquilla” – dice un canto di pellegrini – e “sotto i vecchi tigli”, Maria ci dona sicurezza e nuova forza. In due dittature empie, che hanno mirato a togliere agli uomini la loro fede tradizionale, la gente dell’Eichsfeld era sicura di trovare qui, nel santuario di Etzelsbach, una porta aperta e un luogo di pace interiore. L’amicizia particolare con Maria, amicizia che è cresciuta da tutto questo, la vogliamo continuare, anche con questa celebrazione dei Vespri mariani di oggi.
Quando i cristiani in tutti i tempi e in tutti i luoghi si rivolgono a Maria, si fanno guidare dalla certezza spontanea che Gesù non può rifiutare le richieste che gli presenta sua Madre; e si poggiano sulla fiducia incrollabile che Maria è al tempo stesso anche Madre nostra – una Madre che ha sperimentato la sofferenza più grande di tutte, che percepisce insieme con noi tutte le nostre difficoltà e pensa in modo materno al loro superamento. Quante persone nel corso dei secoli sono andate in pellegrinaggio a Maria per trovare davanti all’immagine dell’Addolorata – come qui ad Etzelsbach – consolazione e conforto!
Guardiamo la sua immagine! Una donna di mezza età con le palpebre appesantite dal molto pianto e al contempo lo sguardo trasognato rivolto lontano, come se stesse meditando nel suo cuore su tutto ciò che era accaduto. Sulle sue ginocchia riposa il corpo esanime del Figlio; Ella lo stringe delicatamente e con amore, come un dono prezioso. Sul corpo denudato del Figlio vediamo i segni della crocifissione. Il braccio sinistro del Crocifisso cade verticalmente verso il basso. Forse questa scultura della Pietà – come spesso si usava – era originariamente collocata sopra un altare. Così il Crocifisso rimanda con il suo braccio disteso a quanto accade sull’altare dove il santo sacrificio da Lui compiuto è reso presente nell’Eucaristia.
Una particolarità dell’immagine miracolosa di Etzelsbach è la posizione del Crocifisso. Nella maggior parte delle rappresentazioni della Pietà, Gesù morto giace con il capo verso sinistra. Così l’osservatore può vedere la ferita del costato del Crocifisso. Qui a Etzelsbach, invece, la ferita del costato è nascosta, perché la salma, appunto, è orientata verso l’altro lato. A me sembra che in tale rappresentazione si nasconda un profondo significato, che si svela solo ad un’attenta contemplazione: nell’immagine miracolosa di Etzelsbach i cuori di Gesù e di sua Madre sono rivolti l’uno verso l’altro; i cuori s’avvicinano l’uno all’altro. Si scambiano a vicenda il loro amore. Sappiamo che il cuore è anche l’organo della sensibilità più profonda per l’altro, come pure l’organo dell’intima compassione. Nel cuore di Maria c’è lo spazio per l’amore che il suo Figlio divino vuole donare al mondo.
La devozione mariana si concentra nella contemplazione del rapporto tra la Madre e il suo Figlio divino. I fedeli, nella preghiera, nella sofferenza, nel ringraziamento e nella gioia, hanno trovato sempre nuovi aspetti e titoli che possono meglio dischiudere a noi questo mistero, per esempio l’immagine del Cuore immacolato di Maria come simbolo dell’unità profonda e senza riserve con Cristo nell’amore. Non è l’autorealizzazione, il voler possedere e costruire se stessi, a compiere il vero sviluppo della persona, cosa che oggi viene proposta come modello della vita moderna, ma che facilmente  si muta in una forma di egoismo raffinato. È piuttosto l’atteggiamento del dono di sé, la rinuncia a se stessi, che si orienta verso il cuore di Maria e con ciò anche verso il cuore di Cristo, come pure verso il prossimo, e solo in questo modo ci fa trovare noi stessi.
“Noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati chiamati secondo il suo disegno” (Rm 8,28): è quanto abbiamo appena sentito nella lettura tratta dalla Lettera ai Romani. In Maria, Dio ha fatto concorrere tutto al bene e non cessa di far sì che, attraverso Maria, il bene si diffonda ulteriormente nel mondo. Dalla Croce, dal trono della grazia e della redenzione, Gesù ha dato agli uomini come Madre la propria Madre Maria. Nel momento del suo sacrificio per l’umanità, Egli rende Maria in certo modo mediatrice del flusso di grazia che deriva dalla Croce. Sotto la Croce, Maria diventa compagna e protettrice degli uomini nel loro cammino di vita. “Con la sua materna carità si prende cura dei fratelli del Figlio suo ancora peregrinanti e posti in mezzo a pericoli e affanni, fino a che non siano condotti nella patria beata” (Lumen gentium, 62), così l’ha espresso il Concilio Vaticano II. Sì, nella vita noi attraversiamo alterne vicende, ma Maria intercede per noi presso il Figlio suo e ci aiuta a trovare la forza dell’amore divino del Figlio e ad aprirci ad esso.
La nostra fiducia nell’intercessione efficace della Madre di Dio e la nostra gratitudine per l’aiuto sempre nuovamente sperimentato portano in sé in qualche modo l’impulso a spingere la riflessione al di là delle necessità del momento. Che cosa vuol dirci veramente Maria, quando ci salva da un pericolo? Vuole aiutarci a comprendere l’ampiezza e la profondità della nostra vocazione cristiana. Con delicatezza materna vuole farci capire che tutta la nostra vita deve essere una risposta all’amore ricco di misericordia del nostro Dio. Come se dicesse a noi: comprendi che Dio, il quale è la fonte di ogni bene e non vuole nient’altro che la tua vera felicità, ha il diritto di esigere da te una vita che si abbandoni totalmente e con gioia alla sua volontà e si adoperi perché anche gli altri facciano altrettanto. “Dove c’è Dio, là c’è futuro”. In effetti: dove lasciamo che l’amore di Dio agisca totalmente sulla nostra vita e nella nostra vita, là è aperto il cielo. Là è possibile plasmare il presente così che corrisponda sempre di più alla Buona Novella del nostro Signore Gesù Cristo. Là le piccole cose della vita quotidiana hanno il loro senso e là i grandi problemi trovano la loro soluzione.
In questa certezza, preghiamo Maria, in questa certezza crediamo in Gesù Cristo nostro Signore e nostro Dio. Amen.

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INCONTRO CON I RAPPRESENTANTI DELLA COMUNITÀ MUSULMANA
DISCORSO DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Salone dei ricevimenti – Nunziatura Apostolica di Berlin
Venerdì, 23 settembre 2011

   
Cari amici musulmani,
mi è gradito porgere qui, oggi, un saluto a Voi, Rappresentanti di diverse comunità musulmane presenti in Germania. Ringrazio molto cordialmente il professore Mouhanad Khorchide per le cortesi parole di saluto e per le riflessioni profonde che ci ha presentato. Esse mostrano come è cresciuta un’atmosfera di rispetto e di fiducia tra la Chiesa cattolica e le comunità musulmane in Germania e diventi visibile ciò che insieme ci sostiene.
Berlino è un luogo opportuno per un tale incontro, non solo perché qui si trova la moschea più antica sul territorio della Germania, ma anche perché a Berlino vive il numero più grande di musulmani rispetto a tutte le altre città della Germania.
A partire dagli anni ‘70, la presenza di numerose famiglie musulmane è divenuta sempre di più un tratto distintivo di questo Paese. Sarà tuttavia necessario impegnarsi costantemente per una migliore reciproca conoscenza e comprensione. Ciò è essenziale non solo per una convivenza pacifica, ma anche per l’apporto che ciascuno è in grado di dare per la costruzione del bene comune all’interno della medesima società.
Molti musulmani attribuiscono grande importanza alla dimensione religiosa. Ciò, a volte, è interpretato come una provocazione in una società che tende ad emarginare questo aspetto o ad ammetterlo tutt’al più nella sfera delle scelte private dei singoli.
La Chiesa cattolica si impegna fermamente perché venga dato il giusto riconoscimento alla dimensione pubblica dell’appartenenza religiosa. Si tratta di un’esigenza che non diventa irrilevante nel contesto di una società maggiormente pluralista. In ciò va fatta attenzione che il rispetto verso l’altro sia sempre mantenuto. Questo rispetto reciproco cresce solo sulla base dell’intesa su alcuni valori inalienabili, propri della natura umana, soprattutto l’inviolabile dignità di ogni persona in quanto creatura di Dio. Tale intesa non limita l’espressione delle singole religioni; al contrario, permette a ciascuno di testimoniare in modo propositivo ciò in cui crede, non sottraendosi al confronto con l’altro.
In Germania – come in molti altri Paesi non solo occidentali – tale quadro di riferimento comune è rappresentato dalla Costituzione, il cui contenuto giuridico è vincolante per ogni cittadino, che sia appartenente o meno ad una confessione religiosa.
Naturalmente il dibattito sulla migliore formulazione di principi come la libertà di culto pubblico, è vasto e sempre aperto, tuttavia è significativo il fatto che la Legge Fondamentale tedesca li esprima in un modo ancora oggi valido, a distanza di più di 60 anni (cfr art. 4, 2). In essa troviamo espresso prima di tutto quell’ethoscomune che è alla base della convivenza civile e che in qualche modo segna anche le regole apparentemente solo formali del funzionamento degli organi istituzionali e della vita democratica.
Potremmo chiederci come possa un tale testo, elaborato in un’epoca storica radicalmente diversa, in una situazione culturale quasi uniformemente cristiana, essere adatto alla Germania di oggi, che vive nel contesto di un mondo globalizzato ed è segnata da un notevole pluralismo in materia di convinzioni religiose.
La ragione di ciò, mi pare, si trova nel fatto che i padri della Legge Fondamentale ebbero la piena consapevolezza, in quel momento importante, di dover cercare una base veramente solida, nella quale tutti i cittadini potessero riconoscersi e che potesse essere una base portante per tutti, al di là delle differenze. Nel fare ciò, tenendo presenti la dignità dell’uomo e la responsabilità davanti a Dio, essi non prescindevano dalla propria appartenenza religiosa; per molti di loro, anzi, la visione cristiana dell’uomo era la vera forza ispiratrice. Tuttavia sapevano che tutti gli uomini devono confrontarsi con retroterra confessionali diversi o addirittura non religiosi: il terreno comune per tutti fu trovato nel riconoscimento di alcuni diritti inalienabili, che sono propri della natura umana e che precedono ogni formulazione positiva.
In questo modo una società allora sostanzialmente omogenea pose il fondamento che oggi possiamo ritenere valido per un tempo segnato dal pluralismo. Fondamento che, in realtà, indica anche degli evidenti confini a tale pluralismo: non è pensabile, infatti, che una società possa sostenersi nel lungo termine senza un consenso sui valori etici fondamentali.
Cari amici, sulla base di quanto ho qui accennato, penso che sia possibile una collaborazione feconda tra cristiani e musulmani. E in questo modo contribuiamo alla costruzione di una società che, sotto molti aspetti, sarà diversa da ciò che abbiamo portato con noi dal passato. In quanto uomini religiosi, a partire dalle rispettive convinzioni possiamo dare una testimonianza importante in molti settori cruciali della vita sociale. Penso, ad esempio, alla tutela della famiglia fondata sul matrimonio, al rispetto della vita in ogni fase del suo naturale decorso o alla promozione di una più ampia giustizia sociale.
Anche per questo ritengo importante celebrare una Giornata di riflessione, dialogo e preghiera per la pace e la giustizia del mondo; vogliamo fare questo – come ben sapete – il prossimo 27 ottobre ad Assisi, a 25 anni dallo storico incontro in quel luogo guidato dal mio Predecessore, il Beato Giovanni Paolo II. Con tale raduno vogliamo mostrare, con semplicità, che da uomini religiosi noi offriamo il nostro particolare contributo per la costruzione di un mondo migliore, riconoscendo al tempo stesso la necessità, per l’efficacia della nostra azione, di crescere nel dialogo e nella stima reciproca.
Con questi sentimenti rinnovo il mio cordiale saluto e vi ringrazio per questo incontro, che per me costituisce un grande arricchimento in questo soggiorno nella mia patria. Grazie per la vostra attenzione!

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