martedì 15 ottobre 2013

3. Vita meravigliosa di san Gerardo Maiella.

Gli ultimi mesi di vita

Nel mese di giugno del 1754 il Santo viene inviato a Materdomini. La minuscola borgata aveva assunto il nome della Vergine «Madre del Signore», alla quale era dedicato un piccolo santuario costruito quasi a picco sulle sorgenti del Sele, fiume che alimenta l'Acquedotto Pugliese. Sant'Alfonso, inviandolo a Materdomini, pensò di fargli dimenticare i giorni tristi della «calunnia».
Intanto padre Francesco Margotta, procuratore della Congregazione, dovendo trattenersi a Napoli per affari amministrativi, condusse con sé fratello Gerardo. Da Napoli Gerardo scriveva: «Io mi trattengo in Napoli per compagnia di padre Margotta, e ora più che mai me la scialo col mio caro Dio!» (cioè me la spasso). Passava di chiesa in chiesa, dove si celebravano le Quarantore, e sostava ore e ore in preghiera. Il resto del tempo lo passava nella visita agli ammalati dell'ospedale «Incurabili», già frequentato da sant'Alfonso.
E giunse anche il giorno del trionfo.

Nella baia di Napoli imperversava una tempesta. Gerardo era uscito di casa per le spese necessarie alla giornata. Al largo della «Pietra del pesce» un gruzzolo di gente urla e si dispera, attirando l'attenzione dei passanti e richiamando altra gente. «Sarà successo qualcosa di grave», pensa Gerardo. In effetti, una barca di pescatori fa fatica a raggiungere la riva, travolta da onde impetuose, che minacciano di capovolgerla.

Nessuno immagina come portare aiuto. Ci pensa fratello Gerardo. Una preghiera silenziosa, occhi al cielo, un segno di croce, il mantello sul braccio, e via: «In nome della Santissima Trinità» dice. Corre, camminando sull'acqua, e «con due ditelle» - come dirà lui stesso a padre Margotta - afferra la prua della barca e la trascina a riva.

La folla delira; dimentica barca e pescatori e va dietro al Santo, scandendo ad alta voce il suo nome. Ma Gerardo s'è già dileguato tra i vicoli del quartiere.
La notizia del miracolo volò sulle ali del vento, e Gerardo non riusciva più a mettere piede in strada, perché tutti gli correvano dietro.
Ritirandosi a casa, sostava nelle botteghe degli artisti a San Biagio dei Librai. Apprese così a usar la cartapesta e, una volta ritornato a Materdomini, si esibì in un celebre Ecce Homo e in alcuni Crocifissi: immagini che si conservano come reliquie. Queste opere, forse poco artistiche, riflettono lo stato d'animo dell'autore. Il Cristo appassionato era stampato nel cuore di Gerardo fin dal tempo di Muro Lucano. Da giovane aveva già impersonato il Crocifisso in una rappresentazione del venerdì santo a Muro, suscitando commozione e lacrime negli astanti.
In seguito, da religioso, si era impegnato con tutte le forze a trasformarsi progressivamente nell'immagine del Redentore. A Napoli, questa crocifissione mistica raggiunge i vertici. Aridità di spirito, desolazione interiore, abbandono, forse il ricordo della calunnia subita, certamente le sofferenze di una malattia che comincia a manifestarsi...

Gerardo a Materdomini


Il padre dei poveri


Trascorso velocemente il soggiorno a Napoli, ritornò a Materdomini. Qui Gerardo trovò un cantiere di lavoro che completava la fabbrica del collegio, e insieme religiosi e laici, ritirati in esercizi spirituali. Il superiore, padre Gaspare Caione, trovò subito l'impiego a fratello Gerardo: gli consegnò le chiavi della portineria. «Queste chiavi devono aprirmi le porte del Paradiso», profetizzò Gerardo. E Materdomini divenne un faro di fede e di carità. Correvano dai cento paesi della Valle del Sele per ascoltare la sua voce, perché aveva «una bocca di Paradiso», che consolava e infondeva speranza; correvano sacerdoti e gentiluomini per consigli e preghiere; correvano soprattutto i poveri. Come il Maestro, passava facendo del bene. «La carità si deve fare sempre», esclamava, privando se stesso e la comunità per dare ai poveri. Il rimprovero del superiore e dei confratelli trovava immancabilmente questa risposta sulle sue labbra: «Dio provvederà». E provvedeva il Signore, come a Capodigiano, come a Monte Sant'Angelo, come tante volte, spalancando i granai dei benefattori al passaggio dell'umile fratello.

Durante l'inverno 1754-1755 a Materdomini «erano caduti tre palmi di neve», e i braccianti, pagati a giornata, restarono senza lavoro per diverse settimane. In quel terribile inverno sbocciò eroica la carità di Gerardo. Alla portineria del convento giungevano a frotte uomini, donne e bambini coperti di stracci, i piedi affondati nella neve. Anche il superiore della comunità restò toccato da quello spettacolo che si ripeteva ogni mezzogiorno. Diede licenza a Gerardo di pensare ai poveri. Non occorreva altro. Il santo portinaio cominciò a svestirsi dei suoi indumenti e, pian piano, svuotò il guardaroba e la dispensa. C'era qualcosa per tutti. I piccoli intenerivano maggiormente il suo cuore: «Noi abbiamo peccato - diceva - e questi innocenti ne portano la pena».

I confratelli notavano la sensibile diminuzione delle provviste e lanciarono l'allarme: «Qui manca tutto e i poveri aumentano!». E Gerardo con tono sicuro rispondeva: «Voi avete il cuore piccolo e non sapete quanto è grande Dio e quanto onnipotente è la sua mano. Se ne dubitate, mettiamolo alla prova: offriamo un pranzo di festa ai poveri, poi vedrete che cosa egli sa fare». Il giovedì seguente Gerardò chiamò a raccolta più di cento poveri. La sua carità aveva contagiato i confratelli che gioiosi servivano a mensa. Al pari del profeta Elia, moltiplicò farina e olio, che non mancò per i confratelli, e i poveri continuarono ad affluire numerosi. Quell'umile fratello era diventato per quanti bussavano alla portineria di Materdomini «il padre dei poveri». Il suo motto era: «Dobbiamo sacrificare tutto per il povero che è l'immagine di Gesù Cristo». Dove non arrivava con le provvigioni, arrivava con le parole, con la presenza affabile e confortatrice.


Teologo improvvisato

Dio lo guidava per la strada ardua, e lo rendeva simile a sé. Ricevette il carisma della profezia, riuscì a tirare peccatori sulla via del bene rivelando i segreti del cuore, e a guidare alla vita monastica e alla perfezione anime consacrate. Anche sacerdoti e teologi più scettici ammisero che la scienza di Gerardo era frutto della sapienza vera, alla quale lo Spirito lo aveva iniziato e alla quale lo guidava per la comprensione dei misteri di Dio. Aveva scritto nei suoi propositi: «Io mi eleggo lo Spirito Santo per unico mio consolatore e protettore del tutto. Egli sia il mio difensore e vincitore di tutte le mie difese. E tu, unica mia gioia, Immacolata Vergine Maria, tu ancora mi sii unica, seconda protettrice e consolatrice in tutto quello che mi accadrà. E sii sempre l'unica mia avvocata appresso Dio».

Al di là di carismi particolari, egli aveva buoni talenti. Durante una discussione con un reverendo di Muro, rivelò con franchezza: «Paesano, avete studiato teologia, ma non siete teologo: questa scienza si acquista con umiltà e orazione». Si capisce meglio così che la teologia in Gerardo, essendo dono che conserva tutto il dinamismo della fede, diventava azione di carità operante e anche azione pastorale. Ciò rendeva la sua opera di fratello coadiutore infaticabile; e faceva anche parte dell'opera pastorale dei padri Redentoristi, che venivano a lui per consigli e per direzione di coscienza.

Il medico Nicola Santorelli ci dà questa testimonianza, raccolta dal Tannoia: «Quando il fratello Gerardo si metteva a parlare dei divini misteri, usciva di sé. Le cose più difficili si rendevano facili in bocca sua e le cose più oscure chiare faceva vedere e capibili. Io, trattandolo, restavo fuori di me, considerando come un povero laico e senza lettere, poteva entrare in sì profondi arcani, spiegarsi e farsi capire». Il segreto? Una fede vissuta in comunione col suo caro Dio, che provocava l'amore e lo guidava ad amare le creature e il mondo. Scriveva così: «Fede ci vuole ad amare Dio; ché, chi manca di fede, manca a Dio. Io son già risoluto a vivere e morire impastato di santa fede. La fede mi è vita, e la vita mi è fede. Oh Dio, e chi vuol vivere senza la santa fede? Ed io vorrei sempre esclamare, e che fossi inteso per tutto l'universo mondo e così dire sempre: evviva la nostra fede del nostro caro Dio! Dio solo merita di essere amato. E come potrò vivere se manco al mio Dio?». Con letture ascetiche e meravigliose contemplazioni arricchì il patrimonio delle proprie cognizioni.La mano scarna, abituata all'ago o alla scopa, fu costretta alla penna. Prima bisogni personali, poi ragioni di apostolato, lo indussero a scrivere; e scrisse inconsapevolmente sulla carta tesori interiori.


Apostolato epistolare

Oltre al Regolamento di vita, scritto da Gerardo a Materdomini nel luglio del 1754 per ordine del padre Francesco Giovenale, conosciamo numerose sue lettere a candide anime claustrali, a peccatori nel vortice del mondo, a venerandi sacerdoti impegnati nel ministero della confessione, a confratelli.Particolarmente ebbe scambio di corrispondenza con le Benedettine di Atella, le Domenicane di Corato, le Clarisse di Muro Lucano, le Monache del Santissimo Salvatore di Foggia, prediligendo il monastero delle Teresiane di Ripacandida, cui non mancava una settimana che dirigesse, o da esse ricevesse, lettere spirituali, accendendosi e stimolandosi reciprocamente all'amore di Dio e all'acquisto della più eroica santità. Il padre Tannoia nota un vasto raggio di azione quando asserisce: «Tante e tante anime dell'uno e dell'altro sesso, già infangate nel vizio e da lui convertite a Dio, dirette da lui, non vivevano che una vita tutta santa. Non potendo di persona, anche per lettera le animava al bene, e sentendo taluno deviato non lasciava mezzo per raddrizzarlo».


In un manoscritto inedito, il padre Landi, altro contemporaneo, rivela: «Scriveva continuamente lettere ad anime tribolate e tentate, ed era meraviglioso il conforto che quelle anime ricevevano dalle sue risposte, le quali erano piene di una singolare devozione e di una dottrina appresa unicamente alla scuola dell'orazione». Le lettere e i frammenti epistolari pervenutici sono appena quarantasette, datati tra il 1751 e il 1755. Il numero esatto o approssimativo di quelle scritte è impossibile stabilirlo, essendo andate le altre disperse o distrutte; ma il chiaro riferimento dei contemporanei dice abbastanza che lo scrivere fu per Gerardo un aspetto particolare della sua missione, un'altra vocazione impostagli dal Signore.


La bella volontà di Dio

Dai suoi scritti, carichi di dialettismi, traspare una dottrina umile e profonda, di un'anima serafica, ed è evidente l'immediatezza con cui riesce a comunicare il suo pensiero e ad essere ascoltato. Ma soprattutto emerge quella sua spiccata nota spirituale che lo rende singolare ed eroico: l'uniformità alla volontà di Dio. «Tutta la nostra perfezione consiste nell'amare il nostro amabilissimo Dio. Ma poi tutta la perfezione dell'amore consiste nell'unire la nostra alla sua santissima volontà», aveva scritto sant'Alfonso. Gerardo, iniziando il suo cammino di consacrato redentorista, formula questo proposito: «Mio caro ed unico amor mio e vero Dio, oggi e per sempre mi rassegno alla vostra divina volontà; e così in tutte le tentazioni e tribolaziòni dirò: Fiat voluntas tua. Terrò sempre gli occhi al cielo per adorare le vostre divine mani che spargono su di me gemme preziose del suo divino volere».

Un santo incolto, che però diventa coltissimo mettendosi in docile ascolto della Parola, imparando a leggerla e interpretarla, e a percepire la gradualità delle infinite esigenze che essa comporta. Gerardo sempre, nella sua vita, con modalità tipiche, esprime la sua passione nel ricercare la volontà di Dio. In ogni sua lettera la invoca, esorta a cercarla, la descrive come «tesoro nascosto e senza prezzo». Per Gerardo «gran cosa è la volontà di Dio», perché in essa si racchiude l'essenza dell'essere cristiano e della santità. Nello sforzo continuo di ricercare la volontà di Dio, egli riesce gradualmente a spogliarsi di tutto e a «stare indifferentissimo in tutto»; libero, povero e felice, gode di una grande pace che gli offre la «bella volontà di Dio».

Il questuante infermo


Sotto il torrido sole d'agosto del 1755 Gerardo era di nuovo in cammino per le aride vie polverose e gli acquitrini ronzanti di zanzare lungo la Valle del Sele per raccogliere fondi alle costruende casa e chiesa di Materdomini. Pallido e sparuto come sempre, non lamentava i suoi malanni, anzi vi scherzava per non destare apprensione. Durante la giornata aveva espettorati sanguigni, sintomi d'etisia che non erano sfuggiti al medico, Nicola Santorelli. A lui Gerardo medesimo aveva annunziato: «Non lo sai che burlando burlando quest'anno me ne muoio tisico?».

Quello che operò di bene e di prodigi durante la sua marcia può suonare esagerato, ma le testimonianze dei contemporanei, mitigando lo spirito critico del nostro tempo, possono far scoprire la potenza di Dio nell'uomo trasformato in sua immagine perfetta. La questua procedette bene fino alla sera del 21 agosto, malgrado la tosse e l'affanno; ma mentre stava inginocchiato nella chiesa di San Gregorio Magno ebbe uno sbocco forte di sangue. Salassato alla tempia da un medico inesperto, non vedendo miglioramento, pensò di far ritorno a Caposele. Arrivò a Buccino la sera dopo, il 22 agosto. Per trascorrere la notte riuscì a trascinarsi in canonica. Assalito ancora dalla tosse violenta, ebbe il secondo sbocco di sangue, e due medici lo salassarono al piede, consigliando subito il cambiamento d'aria. Raggiunse con sforzo Oliveto Citra. Dalla casa dell'arciprete Arcangelo Salvadore, informava il rettore padre Gaspare Caione: «Sappia vostra Riverenza che, mentre stavo inginocchiato nella chiesa di S. Gregorio, mi venne un butto di sangue. Andai con segretezza a ritrovare un medico e gli raccontai quanto era accaduto. Egli mi assicurò che il sangue non veniva dal petto, ma dalla gola; mi osservò che non avevo febbre, né dolore di testa, e perciò mi replicò con molte espressioni che non era niente; mi fece salassare alla vena della testa, mentre io non mi sentivo veruno incomodo. Ieri sera, giunto a Buccino, mi venne la solita tosse e buttai sangue nella stessa maniera. Mandarono a chiamare i medici, i quali mi ordinarono certi medicamenti e fra l'altro mi fecero salassare il piede. Il sangue che buttai lo buttai senza dolori e senza incomodi. Mi dissero ancora che non viene dal petto, e mi ordinarono che subito, la mattina seguente, che è stata questa mattina, fossi partito da quell'aria sottile e mi consigliarono che mi fossi ritirato a Oliveto, tanto per l'aria, quanto per parlare col signor don Giuseppe Salvadore, uomo insigne per medicina.
Io non l'ho trovato, ma mi dice l'arciprete suo fratello che viene questa sera. Tutto questo l'avviso a Vostra Riverenza per sapere come fare. Se volete che seguiti la questua, io la continuerò senza incomodo; perché circa il petto io mi sento meglio di quando stavo in casa. Tosse non ne ho più. Or via, mandatemi un'ubbidienza forte, e sia come sia. Mi dispiace che Vostra Riverenza si metta in apprensione. Allegramente, Padre mio caro, non è niente. Raccomandatemi a Dio, che mi faccia far sempre la sua divina volontà e il suo gusto divino».
Questo documento-relazione, calmo, misurato, preciso, cui non si può né aggiungere né togliere una parola, è una cronaca abbagliante. Rispecchia tutto intero Gerardo Maiella, che rivestito di cinque voti di perfezione, batte la sua strada inchiodato alla volontà di Dio, cadendo improvviso sotto la croce, ed esausto domanda la forza di riprendere il cammino.

Incontro alla morte

A padre Caione, che vedendolo - al ritorno a Materdomini - smunto e arso dalla febbre, non poté trattenere le lacrime, disse: «Padre mio, è volontà di Dio; perciò state allegramente, perché la divina volontà deve farsi sempre allegramente».
All'esterno della sua porta fece appendere una tabella con la scritta: «Qui si sta facendo la volontà di Dio, come vuole Dio e per tutto il tempo che piace a Dio». Tra le quattro anguste pareti l'estasi della sofferenza lo innalzava a vertici di amore: «Se mi trovassi su un'alta montagna, vorrei incendiare il mondo con i miei sospiri», esclamava. E ancora a padre Caione: «Padre mio, io mi figuro che questo letto sia la volontà di Dio, e che io vi stia inchiodato come se stessi inchiodato alla medesima volontà di Dio: anzi mi figuro io e la volontà di Dio siamo diventati la stessa cosa». Ecco un breve testamento pronunziato davanti a Cristo viatico: «Mio Dio, voi sapete che quanto ho fatto e detto, tutto l'ho fatto e detto per gloria vostra. Muoio contento, nella speranza di aver cercato solo la vostra gloria e la vostra santissima volontà».
Ma le ultime ore del crocifisso con Cristo non erano senza sofferenze. Il dolore e il lamento rassegnato del Figlio di Dio riecheggiavano sulle labbra morenti dell'uomo: «Signore, aiutatemi in questo purgatorio in cui mi avete posto!... Sto sempre dentro le piaghe di Gesù Cristo, e le piaghe di Gesù Cristo stanno dentro di me!... Patisco continuamente le pene e i dolori della passione di Gesù Cristo!... Patisco assai, ma tutto è poco, o mio Dio, per voi che moriste per me!». Le ultime parole udite furono: «Mio Dio, mi pento... Voglio morire per fare la vostra volontà!». Aveva desiderato morire abbandonato da tutti, e l'aveva ottenuto. Per una casuale coincidenza il confratello che lo assisteva s'era allontanato per prendere dell'acqua da lui richiesta. Gli altri di comunità non prevedevano imminente la fine. Quando il fratello ritornò con l'acqua, Gerardo boccheggiava, piegato su un fianco. Era l'una e mezza di notte del 16 ottobre 1755.

La notizia della scomparsa del santo fratello volò sulle ali del vento. Una grande folla assalì la chiesetta e si strinse intorno al feretro. Si piangeva per impetrare protezione con la certezza di avere un nuovo protettore in cielo. Piangeva di commozione fratel Carmine Santaniello, incaricato di suonare le campane a morto; alla vista di tale spettacolo di fede lo tradì la commozione e dalle sue mani uscirono scampanii di gloria che si diffusero echeggianti nella vallata del Sele. Con quel suono iniziava una nuova alba pasquale.

Quello che conosciamo di san Gerardo Maiella lo dobbiamo ai suoi confratelli, ma anche alle numerose testimonianze di amici e devoti che lo conobbero in vita o sperimentarono il suo patrocinio dopo la morte. Il suo sepolcro divenne subito meta di pellegrini.

Insieme alla tomba si cominciò a venerare la sua stanza, testimone di preghiere, di penitenze, di sofferenze, di estasi e della visione confortatrice della Vergine Maria prima di volare al cielo. Padre Francesco Santoli la descrive così: «Piccola e disadorna: misurava m. 4 di lunghezza e 3 di larghezza e di altezza. Al lato sinistro un lettino formato da due cavalletti di ferro, sormontati da due rozze tavole di castagno e un duro pagliericcio (saccone di cartocci di granturco).
In un altro angolo un tavolo dozzinale con lucerna ad olio e qualche libro spirituale. Un paio di sedie in legno ed un catino per l acqua. Alle pareti sospese quattro immagini cartacee... Fra la mobilia di Fr. Gerardo non mancava anche un teschio da morto sul tavolo, per il ricordo continuo di sorella morte temporale».

Ora pro nobis peccatoribus, nunc
et in hora mortis nostrae.Amen. 

lunedì 14 ottobre 2013

BEATA ALEXANDRINA MARIA DA COSTA + Una Testimonianza da Far Tremare i Polsi


La beata Alexandrina da Costa, portoghese, 
morí il 13 ottobre 1955.
Sulla sua tomba si leggono queste parole da lei volute:
“Peccatori, se le ceneri del mio corpo possono essere utili per salvarvi, avvicinatevi, passatevi sopra, calpestatele fino a che spariscano. Ma non peccate più; non offendete più il nostro Gesù!”.
È la sintesi della sua vita spesa esclusivamente per salvare le anime.

http://www.santiebeati.it/dettaglio/90074


 Una Testimonianza 
da Far Tremare i Polsi
Che Dio la benedica!
AVE MARIA GRATIA PLENA!

B.Romano Lysko

B.Romano Lysko 

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Beato Romano (Roman) Lysko - Sacerdote e Martire (14 ottobre)
Scheda del gruppo a cui appartiene:


Beati 25 Martiri Greco-Cattolici Ucraini”
Horodok, Ucraina, 14 agosto 1914 – Lviv (Leopoli), Ucraina, 14 ottobre 1949
Martirologio Romano: A Leopoli in Ucraina, Beato Romano Lysko, sacerdote e martire, che, durante la persecuzione contro la fede, seguendo costantemente le orme di Cristo, giunse per sua grazia al regno dei cieli.

Roman Lysko nacque il 14 agosto 1914 ad Horodok, nei pressi di Lviv (Leopoli). Piplomato all’Accademia teologica di Lviv, trascorse la sua gioventù con sua moglie al servizio dei giovani.
É cosa comune nelle Chiese Orientali cattoliche che dei giovani sposati possano essere ordinati sacerdoti.
Così avvenne anche per Roman, che il 28 agosto 1941 ricevette l’ordinazione presbiterale per mano del metropolita Sheptytsky, divenendo così sacerdote diocesano dell’Arcieparchia di Lviv degli Ucraini.
Il 9 settembre fu arrestato dal NKVD ed imprigionato a Lviv.
Dei testimoni oculari raccontarono che, dopo essere stato torturato, il giovane padre intonò dei salmi con la sua voce possente e venne inseguito murato vivo.
Il 14 ottobre 1949 è considerata la data ufficiale della sua morte.
Roman Lysko fu beatificato da Giovanni Paolo II il 27 giugno 2001, insieme con altre 24 vittime del regime sovietico di nazionalità ucraina. (Autore: Fabio Arduino – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria. - Beato Romano Lysko, pregate per noi.
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Beati 25 Martiri Greco-Cattolici Ucraini



Papa Giovanni Paolo II durante il suo lungo pontificato ha ricordato ai cattolici di tutto il mondo come la fede cristiana sia sempre stata alimenta nel corso dei secoli dal sangue dei martiri,che come diceva Sant’Agostino si è sempre rivelato “seme di nuovi cristiani”. Questa realtà ha raggiunto nel corso del XX secolo una dimensione veramente universale, in quanto in ogni angolo del pianeta almeno qualche cristiano è stato ucciso in odio al suo credere in Gesù Cristo.
In Russia con la rivoluzione bolscevica cadde il vecchio imperozarista e nacque l’Unione Sovietica governata da un regime comunista. In un clima di profonda ostilità verso la religione una schiera innumerevole di cristiani fu chiamata a testimoniare sino all’effusione del sangue la fede cristiana. Per quanto riguarda la Chiesa Ortodossa Russa, maggioritaria nel paese, a partire del 2000 sono state celebrate le canonizzazioni di oltre un migliaio di martiri di quel periodo, capeggiati dall’ultimo zar Nicola II e dalla sua famiglia. Giovanni Paolo II volle onorare la passione dell’ortodossia russa includendo la granduchessa Santa Elisabetta Fedorovna nel grande mosaico della cappella vaticana Redemptoris Mater.
Anche da parte cattolica non sono comunque mancati i martiri in tale frangente storico ed il Sommo Pontefice suddetto, durante la sua visita apostolica in Ucraina, nazione nata dalla dissoluzionedell’Unione Sovietica, volle beatificare in data 27 giugno 2001una schiera di 25 martiri della Chiesa greco-cattolica ucraina, la cosiddetta “Chiesa del silenzio”, eroici testimoni della fedeltà a Dio in un’epoca di persecuzione per la fede daparte del comunismo. La denominazione ufficiale del gruppo inoccasione del rito di beatificazione fu “Mykolay Charneckyj e 24compagni” e era composto di 8 Vescovi, 6 sacerdoti diocesani, 7sacerdoti religiosi, 3 suore ed un solo laico. Il nuovo MartyrologiumRomanum commemora ciascuno di essi in date diverse, nei rispettivianniversari della loro morte. Tra di essi non mancano anche dei preti coniugati e padri di famiglia, come da tradizione nelle ChieseOrientali, anche cattoliche. Il primo di essi in ordine di decesso, Leonid Fedorov, era in realtà di nazionalità russa enon ucraina, ma la sua causa di beatificazione, iniziata per prima,fu poi aggregata a questo gruppo in quanto a quel tempo anchel’odierna Russia dipendeva dal metropolita con sede a Lviv nell’odierna Ucraina.
Sempre nella medesima occasione Giovanni Paolo II beatificò anche il vescovo Teodoro Romza ed il sacerdote Omeljan Kovc, anch’essi martiri greco-cattolici, senza però includerli nell’elenco del gruppo suddetto.
La Chiesa Cattolica ha inoltre iniziato altre cause relative a martiri del regime comunista nell’ex Unione Sovietica: il gruppo ucraino “Pietro Mekelyta e 47 compagni”, del quale fanno parte anche il sacerdote Anatolii Hurhula e sua moglie Irina Durbak, ed i russi “Eduard Profitlich e 15 compagni”.

Ecco l’elenco dei 25 martiri greco-cattolici ucraini beatificatida Giovanni Paolo II nel 2001, con i relativi collegamenti allesingole schede loro dedicate:

90034Mykolay Charneckyj, Vescovo, 2 aprile
90656Hryhorij Khomysyn, Vescovo, 28 dicembre
90654Josafat Kocylovskyj, Vescovo, 17 novembre
92942Symeon Lukac, Vescovo, 22 agosto
90036Vasyl Velyckovskyj, Vescovo, 30 giugno
92932Ivan Slezyuk, Vescovo, 2 dicembre
92937Mykyta Budka, Vescovo, 28 settembre
92931Hryhorij Lakota, Vescovo, 5 novembre
92946Leonid Fedorov, Sacerdote, 7 marzo
92938Mykola Konrad, Sacerdote, 26 giugno
92945Andrij Iscak, Sacerdote, 26 giugno
92941Roman Lysko, Sacerdote, 14 ottobre
92936Mykola Cehelskyj, Sacerdote, 25 maggio
92940Petro Verhun, Sacerdote, 7 febbraio
92939Oleksa Zaryckyj, Sacerdote, 30 ottobre
92934Klymentij Septyckyj, Sacerdote, 1 maggio
92933Severijan Baranyk, Sacerdote, 28 giugno
92933Jakym Senkivskyj, Sacerdote, 28 giugno
90035Zynovij Kovalyk, Sacerdote, 30 giugno
92944Vitalij Volodymyr Bajrak, Sacerdote, 16 maggio
90037Ivan Ziatyk, Sacerdote, 17 maggio
92943Tarsykia (Olha) Mackiv, Suora, 18 luglio
90655Olympia (Olha) Bidà, Suora, 28 gennaio
92935Laurentia (Leukadia) Harasymiv, Suora, 26 agosto
92938Volodymyr Pryjma, Laico, 26 giugno

Autore: 
Fabio Arduino

San Callisto I - 16° Papa (14 ottobre) m. 222

  San Callisto I 
San Callisto I - 16° Papa (14 ottobre)
m. 222
(Papa dal 217 al 222)

Ebbe molti avversari tra i cristiani dissidenti di Roma, e proprio da uno scritto del capo di questi cristiani separati, un antipapa, abbiamo quasi tutte le notizie sul suo conto, presentate però in modo tendenzioso. Vi si legge che, prima di diventare Papa, era stato schiavo e frodatore. Fuggito in Portogallo, venne arrestato e ricondotto a Roma, dove subì una condanna ai lavori forzati nelle miniere della Sardegna.

Tornato a Roma in occasione di un'amnistia, venne inviato ad Anzio. Papa Zeffirino, però, lo richiamò a Roma, affidandogli la cura dei cimiteri della Chiesa. Iniziò così lo scavo del grande sepolcreto lungo la via Appia che porta il suo nome. Alla morte di Zeffirino, Callisto venne eletto Papa. Ma il suo pontificato attirò le inimicizie di un'ala della comunità cristiana di Roma che lo accusò, falsamente, di eresia. Il riscatto definitivo su questa figura controversa venne dal suo martirio. Callisto, infatti, fu gettato in un pozzo di Trastevere, forse in una sommossa popolare contro i cristiani nel 222.(Avvenire)
Etimologia: Callisto = il più bello, bellissimo, dal greco
Martirologio Romano: San Callisto I, Papa, martire: da diacono, dopo un lungo esilio in Sardegna, si prese cura del cimitero sulla via Appia noto sotto il suo nome, dove raccolse le vestigia dei martiri a futura venerazione dei posteri; eletto poi Papa promosse la retta dottrina e riconciliò con benevolenza i lapsi, coronando infine il suo operoso episcopato con un luminoso martirio. In questo giorno si commemaora la deposizione del suo corpo nel cimitero di Calepodio a Roma sulla via Aurelia.
 

A Roma sono famose le Catacombe di San Callisto, lungo la via Appia. Tra i molti cimiteri sotterranei dell'Urbe, quelle di San Callisto sono le Catacombe più note e più frequentate, celebri soprattutto per la cosiddetta " Cripta dei Papi ".
Ma tra i moltissimi Martiri e i Pontefici deposti ivi questo sepolcreto, inutilmente si cercherebbe il corpo del Santo dal quale le Catacombe lungo la via Appia hanno preso il nome, e che è segnato oggi sul Calendario universale della Chiesa, onorato come " Martire ".
La sorte di questo Santo, Pontefice agli inizi del III secolo, è stata veramente strana. Egli ebbe, ai suoi tempi, molti avversari tra i cristiani dissidenti di Roma, e proprio da uno scritto del capo di questi cristiani separati, cioè di un Antipapa, abbiamo quasi tutte le notizie sul conto di San Callisto. Sono, naturalmente, notizie che tendono a farlo apparire riprovevole e quasi odioso.


San Callisto viene detto, per esempio, " uomo industrioso per il male e pieno di risorse per l'errore ". Vi si legge che, prima di diventare Papa, era stato schiavo, frodatore di un padrone troppo ingenuo, finanziere improvvisato e bancarottiere più o meno fraudolento. Fuggito in Portogallo, venne arrestato e ricondotto a Roma, dove subì una condanna ai lavori forzati, nelle miniere della Sardegna. Tornato a Roma in occasione di un'amnistia, venne inviato ad Anzio perché - sempre secondo il racconto tendenzioso del suo avversario - il Papa non volle averlo d'intorno. Ma la lunga permanenza ad Anzio dovette riscattare l'antico schiavo dai suoi difetti, se mai ne ebbe, perché un altro Papa, Zeffirino, lo richiamò a Roma, affidando alla sua intraprendenza la cura dei cimiteri della Chiesa. Fu allora che Callisto iniziò lo scavo dei grande sepolcreto lungo la via Appia che doveva portare il suo nome.


Alla morte di Zeffirino, Callisto passò dalla cura dei morti a quella dei vivi, essendo eletto Papa egli stesso. E fu proprio allora, come Papa, che il reduce dalle miniere della Sardegna e dall'" esilio " di Anzio, si attirò le recriminazioni di certi cristiani troppo ligi alla tradizione, troppo rigidi nella morale, troppo retrivi alle novità.
Fu accusato di eresia, nella formulazione del mistero della Trinità, che invece Callisto sosteneva secondo la tradizione ortodossa, confermata poi dai concili. Venne incolpato, inoltre, di scarso zelo mentre, in tempi di rilassatezza, istituì il digiuno delle Quattro Tempora.
Gli fu rimproverato soprattutto il " lassismo ", cioè la scarsa severità disciplinare. Accoglieva infatti nella Chiesa i peccatori pentiti e . cristiani che debolmente avevano difeso la loro fede in tempo di pericolo.
Ma qualsiasi ombra gravasse sulla vita di San Callisto, venne riscattata alla sua morte, che fu morte di Martire, nel 222. Gettato in un pozzo di Trastevere, forse in una sommossa popolare, il suo corpo venne deposto di là dal fiume, lungo la via Aurelia, lontano dalle Catacombe da lui aperte lungo la via Appia, che di San Callisto conservano il nome ma non le reliquie. (Fonte: Archivio Parrocchia)
Giaculatoria. - San Callisto I, pregate per noi.
AVE GRATIA PLENA

2. Vita meravigliosa di san Gerardo Maiella.

Vita da Missionario

È così che padre Cafaro lo incarica alla portineria con questa consegna: «Appena senti suonare, lascia tutto e corri ad aprire». Ed ecco, dalla cantina dove si trova a spillare il vino, il suono del campanello della portineria. Con la brocca in mano corre alla porta. «Dove vai con quell'arnese?», dice padre Cafaro. «Hanno suonato e corro ad aprire». «Ma vatti ad infornare!». Una cosa per volta, pensa Gerardo. Prima va ad aprire, poi va a rannicchiarsi nel forno. Lo scopre, tra cenere e fumo, il fratello panettiere. «Cosa fai lì dentro?». «Ordine del Superiore!».
Occorre un nuovo intervento del padre Cafaro per stanarlo da quel buco. A proposito. E la botte aperta? Tutti si precipitano in cantina. «Dio scherza con fratello Gerardo», esclama il Superiore. Infatti, la botte è senza zipolo, ma neppure una goccia di vino è stata versata.
Padre Cafaro andò oltre nello sperimentare l'obbedienza del suo novizio: impartiva ordini a distanza, e Gerardo, puntuale, a coglierli e a eseguirli. Lo sperimentò anche il suo successore, padre Fiocchi. Mandò Gerardo a Lacedonia per recapitare una lettera, ma dimenticò di inserire una notizia importante. «Se potessi farlo ritornare!», pensò.
Passarono pochi minuti, ed ecco Gerardo tornare alla porta: «Altri ordini, padre?». La fama di santità di Gerardo raggiunse l'episcopio di Melfi. Monsignor Teodoro Basta, conversando un giorno con padre Fiocchi, espresse il desiderio di conoscere il santo fratello. «Un po' di pazienza, monsignore - dice padre Fiocchi - e Gerardo sarà qui». In quell'istante Gerardo si presenta al vicerettore di Deliceto e dice: «Devo partire; il rettore mi chiama a Melfi». Quando arriva al palazzo episcopale, padre Fiocchi finge di non sapere nulla. «Gerardo, perché sei qui?». «Perché vostra riverenza mi ha chiamato». «Ma non ti ho inviato nessun corriere». «So che Monsignore vuole vedermi. Ma cosa vuole vedere? Un verme di terra, un peccatore, un miserabile bisognoso della misericordia di Dio?». Certo è che monsignor Basta rimase estasiato dalla conversazione con fratello Gerardo. Lo trattenne per più giorni.

Domatore di demoni

Poi, dovette partire. Il tempo piovoso, l'ora tarda, la nebbia fitta... non importa. L'obbedienza obbliga. E giù per la valle fino all'Ofanto, verso Lacedonia. Ma proprio sulle rive dell'Ofanto straripato l'attende l'insidia del nemico. Gerardo prega, trema dal freddo, colpito da scrosci d'acqua. All'improvviso un'ombra; no, qualcuno. Il cavallo sobbalza, uno sghignazzare frenetico e una voce dall'abisso: «Ora non puoi più niente. Sei nelle mie mani». «Ah, sei tu, bestia d'inferno! Nel nome della Trinità ti ordino di prendere le briglie e guidarmi fino a Lacedonia».

Ruggendo e digrignando, il demonio trascina tra selve e impervi sentieri il suo domatore fino all'ingresso del paese, dove sorge una cappella dedicata alla Santissima Trinità, appunto.

Altre volte Gerardo provoca l'apparizione del demonio per strappare le anime al peccato. Siamo a Deliceto. Un gentiluomo, che all'apparenza sembra di tutto rispetto e devozione, ma che nell'intimo nasconde passioni e peccati, viene avvicinato da Gerardo che smaschera il suo perbenismo. Alla difesa strenua della sua condotta, il Santo oppone un elenco interminabile di misfatti, fino a fargli vedere il demonio pronto a trascinarlo all'inferno. A un altro che nascondeva i peccati nella confessione toccò la stessa spaventosa visione. Leggeva nelle coscienze, riusciva a prevedere i pericoli, interveniva con la forza dello Spirito Santo.

Apostolo a Corato

Nella primavera del 1753 lo troviamo a Corato, in Puglia. Sarà ospite della famiglia Papaleo, ma Gerardo non la conosce, né sa dove abita. Come sempre si affida al buon Dio e al suo... cavallo. Infatti, abbandona le briglie e lascia che la bestia trovi la casa. Incredibile. Il cavallo, dopo aver attraversato diversi vicoli, si ferma davanti ad una porta. Gerardo domanda: «Don Felice Papaleo?». «Sì, abita qui».
È tempo di Quaresima e nella chiesa si prepara la Pasqua. Il clero di Corato si contende fratello Gerardo; è una missione prolungata. Il sacerdote don Francesco Saverio Scoppa, scrivendo a padre Fiocchi, dirà: «Reverendo Padre, non potete immaginarvi la folla che seguiva fratel Gerardo per la città. Il popolo non tralasciava di stargli vicino e di portarlo in trionfo come se egli fosse un santo disceso dal cielo. Poiché non bastavano le giornate per trattenersi con lui, calata la sera, la casa del signor Felice Papaleo si riempiva di una folla di preti, di gentiluomini e di altri che, per il desiderio di ascoltare il santo fratello, non lo abbandonavano fino alle sei e alle sette di sera, stimolando sempre il buon fratello a parlare di Dio. Non so come spiegarvelo, caro padre, ma tutte le parole uscite dalle labbra di Gerardo, andavano diritte al cuore degli ascoltatori. Mentre parlava di Dio, tutti tacevano e si sentivano solo profondi sospiri. Nessuno possiede, come lui, il dono di intenerire e di toccare le anime più indurite».
Due fatti in particolare caratterizzarono il suo soggiorno coratino. Intervenne con coraggio per fare murare una finestra del monastero delle Domenicane, occasione di distrazione continua per le religiose, e liberò con un segno di croce un campo infestato da topi, che costituivano la disperazione dei contadini.

Il pellegrino di San Michele

È ancora la Puglia il campo d'azione di Gerardo. Deliceto è il faro d'irradiazione. Questa volta la spinta parte dall'interno. Sono i giovani studenti della sua comunità a chiedere l'intervento di Gerardo. Hanno espresso al superiore il desiderio di recarsi in pellegrinaggio al monte Gargano, per venerare il celebre santuario di San Michele. Le difficoltà sono sempre le stesse, quelle economiche. Nella cassa comune sono disponibili solo trenta carlini.
E allora? Affidarsi a fratello Gerardo; lui ha una certa dimestichezza con la Provvidenza. Organizzarsi e partire: tredici persone, per nove giorni, con trenta carlini. Si suddivide il viaggio in tre tappe. Fino a Foggia è una bazzecola. Da Foggia a Manfredonia si comincia a sentire la stanchezza; è necessario noleggiare un carro. Così i carlini se ne vanno quasi tutti, e con i pochi rimasti comincia il gioco di Gerardo con la Provvidenza. Compera pochi garofani e invita la comitiva a salutare Gesù eucaristia. Rivolto al tabernacolo, dice: «Signore, noi abbiamo pensato a voi, voi pensate a questi giovani». Lo hanno ascoltato due sacerdoti. Uno offre la cena e l'alloggio per la notte, l'altro un buon gruzzolo.
Si scalano a piedi gli 843 metri di montagna e ci si immerge nel silenzio e nella preghiera davanti a San Michele. Stanchi, ma felici. Per Gerardo è un incontro con un caro amico. Ricorda la sua prima comunione, e va in estasi. Sulla via del ritorno si fermano per dissetarsi a un pozzo di campagna. In Puglia l'acqua vale oro. Il contadino ha nascosto secchio e catena, e senza scrupoli, allontana i pellegrini assetati. «Se tu neghi l'acqua al prossimo, il pozzo la negherà a te», ammonisce Gerardo e si allontana. Il pozzo secca a vista d'occhio. «Per carità, tornate; attingerò io stesso l'acqua per voi», implora il contadino. L'acqua ritorna e il contadino disseta uomini e bestie. Poi Gerardo l'esorta: «Fratello, sii buono e generoso, se vuoi che Dio lo sia con te!».

Messaggero di pace

Messaggero di pace, trovava modo di penetrare nella coscienza dei più duri. A Castelgrande, in Basilicata, riuscì a pacificare due famiglie in lotta per l'uccisione di un giovane, ricorrendo a uno stratagemma da consumato missionario. Dopo aver parlato di perdono per ore e notata la durezza di cuore delle parti, divenute sempre più rigide per l'aizzare dei parenti, Gerardo con voce autorevole e occhi lampeggianti ordinò: «O per amore, o per forza, voi dovete perdonare. Prima venni qui mandato da altri, ora è Dio che mi manda». Gli astanti lo guardavano cominciando a tremare. Egli si inginocchiò, trasse dalla cintola il suo Crocifisso, lo pose in terra, e disse al gruppo familiare: «Avanti, calpestatelo!». E poiché quelli indietreggiavano, incalzò: «Non c'è via di mezzo: o perdonare, o calpestare Gesù; perché conservare odio è come mettersi sotto i piedi Colui che ha comandato il perdono». La vittoria fu sua; i nemici si abbracciarono.
A Castelgrande Gerardo lasciò un'impronta indelebile. Padre Tannoia riassume i frutti spirituali della sua sosta: «La sua gita colà fu una missione per tutti. Assistendolo il dono di Dio, non lasciò di mettere avanti a tutti lo stato della loro coscienza. Furono così efficaci le sue parole, che in tutti si vide una mutazione. Fra l'altro convinse e guadagnò a Gesù Cristo quindici giovinastri, che col loro scandalo, rovinavano gli altri, e perché prepotenti, non facevano conto di alcuno». Li convinse e li guidò lui stesso al santuario di Materdomini per farli confessare. I circa trenta chilometri che separano Castelgrande da Materdomini furono poi percorsi lietamente dal gruppo dei quindici giovani che scortavano il santo fratello. Strano e originale corteo che all'arrivo al santuario commosse il padre Cafaro e gli fece esclamare: «Dove arriva costui, porta la rivoluzione!».

Un quinto voto e tanta umiltà

Impegnato a tempo pieno nel servizio del Signore, sempre attento alla volontà dei Superiori, riusciva a conservare lo spirito di orazione anche disbrigando gli impieghi più umili e laboriosi. Era convinto di quanto si era proposto: «Da ora metti giudizio e pensa che non ti faresti santo con lo stare solo in continua orazione e contemplazione. La migliore orazione è stare come piace a Dio: essere attento al divino volere, cioè in continui impieghi per Dio. Veramente quanto si fa per Dio solo, tutto è orazione». A questo suo proposito egli rispose non soltanto con l'osservanza dei tre voti di consacrazione religiosa, povertà, castità e obbedienza, e col voto di perseveranza nella Congregazione, ma aggiungendone un quinto, quello «di scegliere il più perfetto in ogni cosa davanti a Dio».
Apprezzava la consacrazione religiosa come un particolare dono dell'amore di Dio. La viveva con generosità ed eroismo, e ne parlava con entusiasmo: «Che bella cosa essere tutto di Dio! Lo sanno quelle benedette e beate anime che lo provano: provatelo voi pure e poi me lo direte. Che serve amare il mondo, se non per provare continuamente triboli ed amarezze? Or via, non ci vuol altro; il vostro cuore, da oggi avanti, ha da essere tutto di Dio ed in esso non ci ha da abitare altro che Dio solo; e quando vedete che ci vuole entrare qualche altra passione o altra cosa che non è di Dio, dite fra voi stesso: Il mio cuore è preso, se l'ha pigliato Dio, il mio caro». E Dio, da parte sua, rispondeva con i prodigi alla generosità del suo servo. «Signore, tu operi molte cose per mezzo di me peccatore; ma poi, perché le fai sapere a tutti quanti?», lamentava Gerardo la fama che la sua santità diffondeva dovunque passava.

Per amore sole per amore

Ad una religiosa scriveva: «Considerate, vi prego, la brevità del mondo e la lunghezza dell eternità; e riflettete che ogni cosa finisce. Finisce ogni cosa a chi visse nel mondo, come se mai fosse stato del mondo. Dunque a che serve appoggiarsi su di che non può sostenere? Ahi, tutte quelle cose che non ci portano a Dio, tutte sono vanità, che non ci possono servire per l eternità. Povero chi confida nel mondo e non in Dio». E Dio, da parte sua, rispondeva con i prodigi alla generosità del suo servo. «Signore, tu operi molte cose per mezzo di me peccatore; ma poi, perché le fai sapere a tutti quanti?», lamentava Gerardo la fama che la sua santità diffondeva dovunque passava.

Un giorno arrivò a Deliceto un giovane con una cancrena a una gamba; lo accompagnavano i suoi genitori che imploravano la guarigione da fratello Gerardo. Fu proprio lui, il Santo, ad aprire la porta. «Vogliamo vedere fratello Gerardo». «Cosa desiderate da lui?». «Veniamo a domandare di guarire nostro figlio». Gerardo scopre la piaga: uno spettacolo raccapricciante. La tenerezza per quell ammalato lo improvvisa infermiere. Lava, medica, benda, bacia quella gamba e invita il giovane a riposare. Poi scompare. Poche ore dopo anche il male è sparito e il giovane non riesce ad incontrare più il provvidenziale infermiere per ringraziare.


Riconoscendosi ultimo tra i confratelli, era sollecito ad ogni servizio di comunità. Sceglieva sempre l ultimo posto e la camera più angusta e disadorna; il pagliericcio conteneva più pietre che paglia.

Il grande gioco della croce

Ma fu la prova di una calunnia atroce, che lo vide mortificato e castigato dal fondatore sant Alfonso, a fornire a Gerardo l occasione di esprimere la sua umiltà e la capacità di silenzio sofferto e offerto. Il desiderio di vedere amato «il suo caro Dio» gli comunicava un particolare zelo per le anime consacrate. Quando notava un germe di vocazione monastica in qualche giovanetta, si prodigava a coltivarlo, impegnandosi perfino nel procurarle la dote per l ingresso in monastero.
Tra le Benedettine di Corato, le Carmelitane di Ripacandida, le Redentoriste di Foggia si trovavano ragazze guidate dallo zelo di Gerardo. Tra queste ultime, una certa Nerea Caggiano. Non era fatta per il monastero: resistette tre settimane, e furono molte. Bisognava giustificare il suo ritorno in famiglia, a Lacedonia: le suore... e quel benedetto fratello Gerardo... L insinuazione fece nascere il sospetto; la gelosia completò l iniquo disegno. Nerea accusava Gerardo di tenerezza per una sua coetanea, Nicoletta Cappucci. Anche don Benigno Benincasa credette a Nerea.
Una lettera raggiunse sant Alfonso. «Non è possibile!», esclamò il fondatore. Però la controfirma dell amico sacerdote Benincasa faceva fede. Davanti a sant Alfonso, Gerardo restò estasiato: «Padre, voi avete una faccia di paradiso!», gli disse, ma non sapeva cosa lo aspettava. Alla lettura della lettera, segue un grande silenzio. «Non ti dimetto, ma ti proibisco di parlare e di scrivere a chiunque, e ti proibisco di ricevere l eucaristia». Gerardo tace ancora.

L'innocenza riconosciuta

A Ciorani, nella casa di noviziato, dove fu inviato per punizione, tutti guardavano «il colpevole», e si meravigliavano per la sua imperturbabilità. La vera sofferenza è restare senza 1 eucaristia. Un sacerdote lo invita a servire la messa: «No, padre - dice Gerardo - vi strapperei l ostia dalle mani!». Qualcuno, conoscendolo bene, lo invita a manifestare la sua innocenza al fondatore: «Si muoia sotto il torchio della volontà di Dio - risponde Gerardo - io mi sono affidato ad un avvocato più potente». Ed ecco la verità. Nerea Caggiano e don Benigno Benincasa riscrivono a sant Alfonso. La prima, tormentata dai rimorsi per aver calunniato un santo, il secondo, confuso per la sua imprudenza.
Questa volta è il fondatore a chiedere scusa all umile fratello: «Ma perché non mi hai parlato?». «Padre mio, come avrei potuto farlo? La regola non ammette che ci scusiamo davanti ai Superiori». Sant Alfonso, che non era uno sprovveduto, comprese che stava trattando con un eccezionale eroe di santità.
Alla morte di Gerardo sarà lo stesso fondatore a ordinare di raccogliere notizie sulla vita e le virtù del Maiella.