martedì 1 ottobre 2013

“Gesù, mio Re soave! Che m’hai Tu fatto? ... Perché a me, Signore, a me indegno e povero? Le tue piaghe! Oh! Gesù!...”



<<16 settembre.

In alto il più puro cielo di settembre, ridente in un’aurora soavissima. In basso un breve pianoro fra scoscendere di coste montane molto alte, molto
selvose, molto rocciose. Un breve pianoro dall’erbetta corta e smeraldina, ancor tutta lucida per il pianto della rugiada, ma già prossima a scintillare di gemmeo riso per il bacio del sole.

In alto, sul puro cielo così azzurro e soave, fisso un fiammeggiante personaggio che non pare fatto che di incandescente fuoco. Un fuoco il cui folgoreggiare è
più vivo di quello del sole che sbuca da dietro una giogaia selvosa con un fasto di raggi e di splendori per cui tutto si accende di letizia.

Questo essere di fuoco è vestito di penne. Mi spiego. Pare un angelo perché due immense ali lo tengono sospeso a fisso sul cobalto immateriale del cielo
settembrino, due immense ali aperte che stagliano una traversa di croce a cui fa sostegno il corpo splendente. Due immense ali che sono candore di incandescenza aperte sul rutilare dell’incandescenza del corpo vestito di altre ali che tutto lo fasciano, raccolte come sono con le loro soprannaturali penne di perla, diamante e argento puro, intorno alla persona. Pare che anche il capo sia fasciato in questa singolare veste piumosa. Perché io non lo vedo. Vedo solo, là dove dovrebbe essere quel volto serafico, un trapelare di così vivo splendore che ne resto come abbacinata. Devo pensare ai fulgori più vivi che ho visto nelle paradisiache visioni per trovare un qualcosa di simile. Ma questo è ancor più vivo. La croce di piume accese sta fissa sul cielo col suo mistero.

In basso, un macilento fraticello, che riconosco per il Padre mio serafico 1, prega a ginocchi sull’erba, poco lungi da una grotta nuda, scabra, paurosa come
balza d’inferno. 
Il corpo distrutto pare non abiti nella tonaca grave e tanto larga rispetto alle membra. 
Il collo esce, di un pallido bruno, dalla cocolla 2 bigiognola, un colore fra quello della cenere e quello di certe sabbie lievemente giallognole. 
Le mani escono coi loro polsi sottili dalle ampie maniche e si tendono in preghiera, a palme volte all’esterno e alzate come nel “Dominus vobiscum”3. Due mani brunette un tempo, ora giallognole, di persona sofferente, e macilente. 
Il viso è un sottile volto che pare scolpito nell’avorio vecchio, non bello né regolare, ma che ha una sua particolare bellezza fatta di spiritualità.

Gli occhi castani sono bellissimi. Ma non guardano in alto. Guardano, ben aperti e fissi, le cose della terra. Ma non credo che vedano. Stanno aperti, posati
sull’erba rugiadosa; pare studino il ricamo bigiognolo di un cardo selvatico e quello piumoso di un finocchio selvatico, che la rugiada ha tramutato in una verde

1 San Francesco d’Assisi, verso il quale la scrittrice si era sentita
trasportata fin da ragazza, entrando poi nel suo Terz’Ordine.
2 cocolla è nostra correzione da coccola
3 Vedi la nota 2 di pag. 198.

“aigrette” diamantata. Ma sono certa che non vede niente. Neppure il pettirosso che scende con un cinguettio a cercare sull’erba qualche piccolo seme. Prega.
Gli occhi sono aperti. Ma il suo sguardo non va al di fuori, ma al di dentro di sé.
Come e perché e quando si accorga della croce viva che è fissa nel cielo, non so. L’abbia sentita per attrazione o l’abbia vista per chiamata interna, non so.
So che alza il volto e cerca con l’occhio che ora si anima di interesse, cosa che conferma la mia persuasione della sua precedente assenza di vista per
l’esterno.

Lo sguardo del mio Padre serafico incontra la grande, viva, fiammeggiante croce.
Un attimo di stupore. Poi un grido: “Signore mio!”, e Francesco ricade un poco sui calcagni rimanendo estatico, col volto levato, sorridente, piangente le due
prime lacrime della beatitudine, con le braccia più aperte...
Ed ecco che il Serafino muove la sua splendente, misteriosa figura. Scende. Si avvicina. Non viene sulla terra. No. È ancora molto in alto. Ma non più come era
prima. A mezza via fra cielo e terra. E la terra si fa ancor più luminosa per questo vivo sole che in questa beata aurora si unisce e soverchia l’altro d’ogni giorno. Nello scendere, ad ali tese sempre a croce, fendendo l’aria non per moto di penne ma per proprio peso, dà un suono di paradiso. Qualcosa che nessuno
strumento umano può dare. Penso e ricordo il suono del globo di Fuoco della Pentecoste 4...

Ed ora ecco che, mentre Francesco più ride, e piange, e splende, nella gioia estatica, il Serafino apre le due ali - ora capisco bene che sono ali - che stanno verso il mezzo della croce. E appaiono inchiodate sul legno le santissime piante del mio Signore, e le sue lunghe gambe, di uno splendore, in questa visione, così vivo come lo hanno le sue membra glorificate in Paradiso 5. E poi si aprono due altre ali, proprio al sommo della croce. E la vista mia, e credo 6 anche quella di Francesco, per quanto egli sia sovvenuto da grazia divina, ne hanno sofferenza di gioia per il vivo abbaglio.

Ecco il tronco del Salvatore che palpita nel respiro... ed ecco, oh! ecco il Fuoco che solo una grazia permette fissare, ecco il Fuoco del suo viso che
appare quando il sudario delle scintillanti penne è tutto aperto. Fuoco di tutti i vulcani e astri e fiamme, circondato da sei sublimi ali di perle, argento e
diamante, sarebbe ancor poca luce rispetto a questo indescrivibile, inconcepibile splendere dell’Umanità Ss. del Redentore confitto sul suo patibolo.

Il volto, poi, e i cinque fori delle piaghe, non trovano riscontro in nessun paragone per esser descritti. Penso... penso alle cose più splendenti... penso
persino alla luce misteriosa che emana il radio. Ma, se quanto ho letto è vero, questa luce è viva ma di un argento-blu di stella, mentre questa è condensazione
di sole moltiplicata per un numero incalcolabile di volte.


4 Nella visione del 28 maggio, pag. 274.
5 Nella visione del 10 gennaio, pag. 29.
6 credo è nostra correzione da vedo


La vetta della Verna deve apparire come se mille vulcani si fossero aperti intorno ad essa a farle corona. L’aria, per la luce e il calore, che arde e non
brucia, che emana dal mio Signore crocifisso, trema con onde percepibili all’occhio, e steli e fronde sembrano irreali tanto la luce penetra anche l’opacità dei corpi e li fa luce...
Io non mi vedo. Ma penso che al riflesso di quella luce la mia povera persona deve apparire come fosforescente. Francesco, poi, su cui la luce si riversa e lo investe e penetra, non pare più corpo umano. Ma un minore serafino, fratello di quello che ha dato le sue ali a servizio del Redentore.

Ora è quasi riverso, Francesco, tanto è piegato indietro, a braccia completamente aperte, sotto il suo Sole Iddio Crocifisso! È immateriale all’aspetto tanto la luce e la gioia lo penetrano. Non parla, non respira,
materialmente. Parrebbe 7 un morto glorificato se non fosse in quella posa che richiede almeno un minimo di vita per sussistere. Le lacrime che scendono, e
forse servono a temperare l’umana arsura di questa mistica fiamma, splendono come rivi di diamante sulle guance magre.

Io non odo nessuna parola né di Francesco né di Gesù. Un silenzio assoluto, profondo, attonito. Una pausa nel mondo che è intorno al mistero. Per non
turbare. Per non profanare questo sacro silenzio dove un Dio si comunica al suo benedetto. Contrariamente a quanto sarebbe da supporsi, gli uccelli non si
esaltano a più acuti trilli e lieti voli per questa festa di luce, non danzano farfalle o libellule, non guizzano lucertole e ramarri. Tutto è fermo in un’attesa in cui sento l’adorazione degli esseri verso Colui per cui furono fatti. Non c’è più neppure quella brezza lieve che faceva rumor di sospiro fra le fronde. Più neppure quel suono arpeggiato e lento di un’acqua nascosta in
qualche cavo di pietra, e che prima gettava, come perle rare, dentro per dentro 8, le sue note su scala tonata. Niente. Vi è l’Amore. E basta. Gesù guarda e
ride al suo Francesco. Francesco guarda e ride al suo Gesù... Basta.


Ma ora ecco che il Volto glorificato, tanto luminoso da parere quasi a linee di luce come è quello del Padre Eterno, si materializza un poco. Gli occhi prendono
quel fulgore di zaffiro acceso di quando opera miracolo. Le linee divengono severe, imponenti, come sempre in quelle ore, imperiose, direi. Un comando del Verbo deve andare alla sua Carne; e la Carne obbedisce. E dalle cinque piaghe saetta cinque strali, cinque piccoli fulmini, dovrei dire, che scendono senza
zigzagare nell’aria ma a perpendicolo, velocissimi, cinque aghi di luce insostenibile e che trapassano Francesco...

7 Parrebbe è nostra correzione da Parebbe
8 dentro per dentro è espressione ricorrente nella scrittrice e significa ogni tanto, di tanto in tanto


Non vedo, è naturale, le piante, coperte dalla veste e dalle membra, e il costato coperto dalla tonaca. Ma le mani le vedo. E vedo che, dopo che le punte
infuocate sono entrate e trapassate - io sono come dietro Francesco - la luce, che è dall’altra parte, verso il palmo, passa dal foro sul dorso. Paiono due
occhielli aperti nel metacarpo e dai quali scendono due fili di sangue che scorrono lenti giù per i polsi, sugli avambracci, sotto le maniche.

Francesco non ha che un sospiro così profondo che mi ricorda quello estremo dei morenti. Ma non cade. Resta come era ancor per qualche tempo. Sinché il
Serafino, di cui mai ho visto il volto - ho visto di lui solo le sei ali - ridistende queste sublimi ali come velo sul Corpo santissimo e lo nasconde, e con le due ali iniziali risale, sempre più oltre, nel cielo, e la luce
diminuisce, rimanendo infine solo quella di un sereno mattino solare. E il serafino scompare oltre il cobalto del cielo che lo inghiotte e si chiude sul mistero che è sceso a far beato un figlio di Dio e che ora è risalito al suo regno.

Allora Francesco sente il dolore delle ferite e con un gemito, senza alzarsi in piedi, passa dalla posizione di prima a sedersi in terra. E si guarda le mani... e si scopre i piedi. E socchiude la veste sul petto. Cinque rivoli di sangue e cinque tagli sono il ricordo del bacio di Dio. E Francesco si bacia le mani e si carezza costato e piante, piangendo e mormorando: “Oh, mio Gesù! Mio Gesù! Che amore! Che amore, Gesù!... Gesù!... Gesù!...”.
E tenta porsi in piedi, puntando i pugni al suolo, e vi riesce con dolore delle palme e delle piante, e si avvia, un poco barcollante come chi è ferito e non può appoggiarsi al suolo e vacilla per dolore e debolezza di svenamento, verso il suo speco, e cade a ginocchi su un sasso, con la fronte contro una croce di solo legno, due rami legati insieme, e là riguarda le sue mani sulle quali pare formarsi una testa di chiodo che penetra a trapassa, e piange. Piange d’amore, battendosi il petto e dicendo: “Gesù, mio Re soave! Che m’hai Tu fatto? Non per il dolore, ma per l’altrui lode mi è troppo questo tuo dono! Perché a me, Signore, a me indegno e povero? Le tue piaghe! Oh! Gesù!...”.

Non odo altro né vedo altro.
Mi pare di avere, quando ero fra i vivi, udito descrivere in altro modo la visione. Mi pare dicessero che era un Serafino col volto di Cristo. Io non so che farci. Io l’ho vista così e così la descrivo.
Io non sono mai stata alla Verna, né in nessun luogo francescano, per quanto sempre l’abbia desiderato. Ignoro perciò la topografia dei luoghi nella maniera
più assoluta.>>
Salve sancte Pater, Patriae Lux

lunedì 30 settembre 2013

La parabola dei pescatori


Le parabole di Gesù
(013)

La parabola dei pescatori (239.5)

Gesù inizia a parlare:

"Dei pescatori uscirono al largo e gettarono nel mare la loro rete, e dopo il tempo dovuto la tirarono a bordo. Con molta fatica compivano così il lavoro per ordine di un padrone che li aveva incaricati di fornire di pesce prelibato la sua città, dicendo anche: <Però quei pesci che sono nocivi e scadenti non state neppure a trasportarli a terra. Ributtateli in mare. Altri pescatori li pescheranno, e poichè sono pescatori di un altro padrone li porteranno alla città dello stesso, perchè la si consuma ciò che è nocivo e che rende sempre più orrida la città del mio nemico. Nella mia: bella, luminosa, santa, non deve entrare nulla di malsano>.


Tirata perciò a bordo la rete i pescatori iniziarono il lavoro di cernita. I pesci erano molti, di diverso aspetto, grossezza e colore. 

Ve ne erano di bell'aspetto, ma con una carne piena di spine, dal cattivo sapore, dal grosso buzzo pieno di fanghiglia, di vermi, di erbe marce che aumentavano il sapore cattivo della carne del pesce. 
Altri invece erano di brutto aspetto, un muso che pareva il ceffo del delinquente o di un mostro da incubo; ma i pescatori sapevano che la loro carne è squisita. 
Altri, per essere insignificanti, passavano inavvertiti. 

I pescatori lavoravano, lavoravano. Le ceste erano colme di pesce squisito ormai, e nella rete erano i pesci insignificanti. <Ormai basta. Le ceste sono colme. Gettiamo tutto il resto a mare> dissero molti pescatori.

Ma uno, che poco aveva parlato, mentre gli altri avevano magnificato o deriso ogni pesce che capitava loro fra le mani, rimase a frugare nella rete e tra la minutaglia insignificante scoperse ancora due o tre pesci che mise al di sopra di tutti nelle ceste. <Che fai?> chiesero gli altri. <Le ceste sono complete, belle. Tu le sciupi mettendovi sopra per traverso quel povero pesce lì. Sembra che tu lo voglia celebrare come il più bello>.


<Lasciatemi fare. Io conosco questa razza di pesci e so che rendimento e che piacere danno>.


Questa è la parabola che finisce con la benedizione del padrone al pescatore paziente, esperto e silenzioso, che ha saputo discernere fra la massa i migliori pesci."

Santa Teresa del Bambino Gesù




L'Amore misericordioso.


«Figli prediletti, entrate nel Cenacolo spirituale del mio Cuore Immacolato, perché Io possa farvi penetrare nel divino mistero dell'Amore Misericordioso di mio figlio Gesù.

- Gesù è l'Amore Misericordioso, perché in Lui si riflette la divina Misericordia del Padre, che ha tanto amato il mondo, da mandargli il suo Figlio Unigenito per la sua salvezza.

In Gesù la misericordia del Padre si fa Persona e si realizza nel suo disegno di redenzione.
Per mezzo di Lui il Padre fa scendere il suo perdono sulla umanità che si era allontanata col peccato e la riporta ad una piena comunione di amore e di vita con il suo Creatore e il suo Signore.

- Gesù è l'Amore Misericordioso, perché, facendosi uomo, porta su di sé la fragilità, la debolezza, la sofferenza di tutta la umanità.

Quando è Bambino porta nel suo cuore i gemiti e i sospiri di tutti i bambini del mondo; 
da giovane vive le vicissitudini e le difficoltà della gioventù così fragile ed esposta al vento impetuoso delle passioni; 
quando giunge a maturità porta dentro la sua divina Persona i problemi, le angosce, i dolori di tutti.

Si china sui poveri per annunciare a loro il vangelo di salvezza; proclama la liberazione ai prigionieri; solleva i derelitti, perdona i peccatori, guarisce gli ammalati, consola gli afflitti e scaccia Satana da coloro che ha posseduto.
- Gesù è l'Amore Misericordioso, perché è mite ed umile di cuore.
Lasciatevi attrarre dietro la sua mitezza.
Vedete come è dolce, sensibile, compassionevole con tutti; dai suoi nemici si lascia condurre docile e mansueto, come agnello che viene portato al suo cruento sacrificio.

Lasciatevi possedere dalla sua umiltà.
Il Primo si fa ultimo; il Maestro diventa discepolo; il Signore si mette al servizio di tutti.
La pienezza della sua divinità in Lui viene nascosta sotto il velo umano della sua umiltà.


- Imparate da Me che sono mite ed umile di cuore e troverete riposo per le vostre anime.

- Gesù è l'Amore Misericordioso, perché vuole attirare tutti dentro la fornace ardente del suo divino Amore.
Lasciatevi attirare da Lui.
Non resistete ai suoi richiami.
Camminate con Me sulla strada del suo divino amore.
Figli prediletti, fate anche voi la dolce esperienza dell'amore a Gesù.


Oggi celebrate la memoria liturgica di Santa Teresa del Bambino Gesù, di cui ricorre il primo centenario della sua nascita al cielo.
Oggi Io la dono a tutti voi come vostra piccola sorella.
Lei si è consacrata vittima all'Amore Misericordioso di Gesù.
Lei si è lasciata consumare tutta dal fuoco ardente della sua divina carità.
Imitatela in questa sua piccola via.
Diventate anche voi piccoli, semplici, umili, miti e mansueti.
Diventate tutti bambini, percorrendo la via della infanzia spirituale, che Lei vi ha tracciato.

Offritevi anche voi come vittime all'Amore Misericordioso di Gesù, perché, attraverso di voi, possa effondere presto sul mondo il grande prodigio della Divina Misericordia».

Sale (Alessandria), 1° ottobre 1997. Santa Teresa del Bambino Gesù. MSM.

Ad Te, Domina, clamabo et exaudies me:
in voce laudis tuae laetificabis me. 

Sancte Michaël Archangele, defende nos in proelio ...





Nel 1994, il Beato Papa Giovanni Paolo II ha chiesto che la speciale  preghiera a san Michele torni attuale : «che la preghiera ci fortifichi per la battaglia spirituale... Papa Leone XIII ha certamente avuto un vivo richiamo di questa scena quando ha introdotto in tutta la Chiesa una speciale preghiera a S. Michele Arcangelo... Chiedo a tutti di non dimenticarla e di recitarla per ottenere aiuto nella battaglia contro le forze delle tenebre e contro lo spirito di questo mondo».

San Michele Arcangelo, difendici nella battaglia contro le malvagità e le insidie del diavolo, sii nostro aiuto. Ti preghiamo supplici: che il Signore lo comandi ! E Tu, Principe della milizia celeste con la potenza che ti viene da Dio, ricaccia nell'inferno satana e gli altri spiriti maligni, che si aggirano per il mondo a perdizione delle anime.
Amen
Sancte Michaël Archangele, defende nos in proelio; contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium. Imperet illi Deus, supplices deprecamur: tuque, Princeps militiae caelestis, Satanam aliosque spiritus malignos, qui ad perditionem animarum pervagantur in mundo, divina virtute in infernum detrude.
Amen.

domenica 29 settembre 2013

SAN GIROLAMO, SACERDOTE CONFESSORE E DOTTORE DELLA CHIESA




30 SETTEMBRE
SAN  GIROLAMO,  
SACERDOTE CONFESSORE E 
DOTTORE DELLA CHIESA

L'eremita.

"Non conosco Vitale, non voglio Melezio e ignoro Paolino (Lett. XV, al. LVII), mio è soltanto chi aderisce alla cattedra di Pietro" (Lett. XV, al. LVIII). Così, verso il 376, dalle solitudini della Siria, turbate da rivalità episcopali, che da Antiochia agitavano tutto l'Oriente, scriveva a Papa Damaso un monaco sconosciuto, implorando luce per la sua anima redenta dal sangue del Signore (ibidem).

Girolamo era originario della Dalmazia. Lontano da Stridone, terra semibarbara in cui era nato, ne conservava l'asprezza come linfa vigorosa. Lontano da Roma, dove gli studi di belle lettere e filosofia non avevano saputo preservarlo dalle più tristi cadute. Il timore del giudizio di Dio l'aveva condotto al deserto della Calcide. Sotto un cielo di fuoco, per quattro anni macerò il suo corpo con spaventevoli penitenze e cominciò a sacrificare i suoi gusti ciceroniani allo studio della lingua primitiva dei Libri santi. Era questa, per la sua anima appassionata di classiche bellezze, una migliore e più meritevole penitenza. Il lavoro intrapreso era allora ben più duro che ai nostri giorni, perché oggi lessici, grammatiche e lavori di ogni genere hanno resa più facile la ricerca. Quante volte, scoraggiato, disperò del successo! Però egli aveva già sperimentata la verità della sentenza, che avrebbe formulato più tardi: "Amate la scienza delle Scritture e non amerete i vizi della carne" (Lett. CXXV, al. IV, a Rustico). Partendo perciò dall'alfabeto ebraico, andava compitando continuamente sillabe sibilanti e aspirate (ibidem), l'eroica conquista delle quali gli ricordò sempre quanto gli erano costate, per la durezza da allora impressa - è affermazione sua - alla pronunzia del latino (Lett. XXIX, al. CXXX, a Marcella). Egli impegnò nel lavoro tutta l'energia della sua natura focosa, vi si consacrò per tutta la vita [1].

Dio riconobbe in modo magnifico l'omaggio reso in quel modo alla sua parola e, invece del solo risanamento morale, che aveva sperato, Girolamo raggiunse la santità eccezionale, che oggi noi in lui onoriamo e dalle lotte del deserto, per altri in apparenza sterili, usciva uno di quegli uomini dei quali è stato detto: Voi siete il sale della terra, voi siete la luce del mondo (Mt 5,13-14). Dio metteva a tempo giusto sul candeliere questa luce, per rischiarare tutti quelli che sono nella casa(ivi 15).

Il segretario del Papa.
Roma rivedeva molto trasformato il brillante studente di altri tempi, proclamato ormai degno del sacerdozio, per la santità, la scienza e l'umiltà (Lett. XLV, al. XCIX, ad Asella). Damaso, dottore vergine della Chiesa vergine (Lett. XLVIII, al. L, a Pammachio), lo incaricava di rispondere a suo nome alle consultazioni dell'Oriente e dell'Occidente (Lett. CXXIII, al. XI, ad Ageruchia), e otteneva che cominciasse i grandi lavori scritturali, che dovevano rendere il suo nome immortale e assicurarlo alla riconoscenza del popolo cristiano, con la revisione del Nuovo Testamento latino sul testo originale greco.


Il vendicatore di Maria.
Intanto Girolamo si rivelava polemista incomparabile con la confutazione di Elvidio, che osava mettere in dubbio la perpetua verginità di Maria, Madre di Dio. In seguito, Gioviniano, Vigilanzio, Pelagio ed altri ancora dovevano provarne il vigore. E Maria, ricompensando il suo onore così vendicato, gli conduceva tutte le anime nobili, perché le guidasse nella via della virtù, che sono l'onore della terra e perché, con il sale delle Scritture, le preservasse dalla corruzione di cui l'impero stava ormai morendo.


Il direttore di anime.
Ecco un fenomeno strano per lo storico che non ha fede: attorno a questo Dalmata, mentre la Roma dei Cesari agonizza, brillano i nomi più belli di Roma antica. Creduti estinti, quando la gloria della città regina si era offuscata nelle mani dei plebei arricchiti; nel momento critico in cui, purificata dalle fiamme appiccate dai Barbari, la capitale da essi data al mondo sta per riprendere il suo destino, essi ricompaiono, come per diritto di nascita, a fondare Roma un'altra volta per la sua vera eternità. La lotta ormai è un'altra, ma il loro posto rimane in testa all'armata che salverà il mondo. Sono rari fra noi i saggi, i potenti, i nobili, diceva l'Apostolo quattro secoli prima (1Cor 1,26) e Girolamo protesta; nei nostri tempi sono numerosi, numerosi in mezzo ai monaci (Lett. LXVI, al. XXVI, a Pammachio).
La falange patrizia costituisce la parte migliore dell'armata monastica, al suo sorgere in occidente, e le comunica per sempre il suo carattere di antica grandezza, ma nei suoi ranghi, con titolo eguale a quello dei padri e dei fratelli, si vedono le vergini e le vedove, talvolta le spose, insieme e lo sposo. È Marcella la prima ad ottenere la direzione di Girolamo e sarà Marcella che, scomparso il maestro, diventerà, nonostante la sua umiltà, l'oracolo consultato da tutti nelle difficoltà relative alle Scritture [2]. Seguono Marcella: Furia, Fabiola, Paola, nomi che ricordano i grandi avi, i Camilli, i Fabii, gli Scipioni.
Per il principe del mondo, Satana (Gv 14,30), che credeva ormai sue per sempre le glorie dell'antica città, è troppo e le ore del Santo nella città sono contate. Figlia di Paola, Eustochio aveva meritato di vedersi indirizzato il manifesto sublime, ma pieno di tempesta, in cui Gerolamo, esaltando la verginità, non ha paura di sollevare contro di sé con verve mordente la congiura di falsi monaci, di vergini folli e di chierici indegni (Lett. XXII, a Eustochio, sulla custodia della verginità). Invano la prudente Marcella prevede l'uragano, Girolamo non l'ascolta e osa dire ciò che altri osano fare (Lett. XXVII, al. CXX, a Marcella), ma ha fatto i conti senza la morte di Damaso, che sopravviene in quel momento.


A Betlemme.
Trascinato dal turbine, il giustiziere ritorna al deserto: non più Calcide, ma la quieta Betlemme, dove i ricordi dell'infanzia del Signore attirano questo forte tra i forti, dove Paola e la figlia vengono a stabilirsi, per non perdere i suoi insegnamenti, che preferiscono a tutto, per addolcire la sua amarezza, per medicare le ferite del leone dalla voce possente, che continua a destare echi in Occidente. Onore a queste valorose! La loro fedeltà, la loro sete di sapere, le loro pie importunità procureranno al mondo un tesoro che non ha prezzo: la traduzione autentica dei Libri santi (Conc. Trid. Sess. IV) che l'imperfezione dell'antica versione Italica e le sue varianti, diventate senza numero, hanno resa necessaria davanti ai Giudei, che accusano la Chiesa di aver falsato la Scrittura.
Ogni nuova traduzione destava nuove critiche, non sempre mosse dall'odio: riserve di paurosi, allarmati per l'autorità dei Settanta, grandissima nella sinagoga e nella Chiesa, rifiuti interessati di possessori di manoscritti dalle pagine di porpora, dalle splendide unciali, dalle lettere miniate in argento e oro, che sarebbero stati deprezzati. "Si tengano la loro metallurgia e ci lascino i nostri poveri quaderni - grida san Girolamo esasperato". "Siete proprio voi che mi costringete a subire tante sciocchezze e tante ingiurie, dice alle ispiratrici del suo lavoro, ma, per tagliar alla radice il male, sarebbe meglio impormi il silenzio". Ma la madre e la figlia non la pensavano a quel modo e Girolamo si adattava. "Quia vos cogitis... cogor... cogitis... " (passim).
Tutte le sante amicizie di un tempo facevano parte, da lontano, di questa attività studiosa e Girolamo a nessuno rifiutava il concorso della sua scienza e si scusava amabilmente del fatto che una metà del genere umano gli sembrava più privilegiata: "Principia, figlia mia in Gesù Cristo, io so che molti trovano cosa non buona che io qualche volta scriva a donne; mi si lasci dire ai miei detrattori: Non risponderei a donne, se mi interrogassero sulle Scritture gli uomini" (Lett. LXV, al. CXL, a Principia).
Un messaggio desta esultanza nei monasteri fondati in Efrata: da un fratello di Eustochio e da Leta, figlia cristiana di Albino, sacerdote pagano, è nata a Roma un'altra Paola. Consacrata allo Sposo prima ancora della nascita, balbetta in braccio al sacerdote di Giove l'Alleluia dei cristiani e sa che, oltre i monti e oltre il mare, ha un altro nonno e una zia totalmente consacrata a Dio e vuol partire. Girolamo scrive alla madre gioiosa: "Mandatela e io le sarò maestro e balio, la porterò sulle mie vecchie spalle, aiuterò la sua bocca balbettante a formare le parole, fiero più ancora di Aristotele, perché egli allevava soltanto un re di Macedonia e io invece preparerò al Cristo un'ancella, una sposa, una regina, destinata ad aver posto nei cieli" (Lett. CVII, al. VII, a Leta).


Gli ultimi giorni.
E Betlemme vide la dolce bambina. Giovanissima ancora, assumeva la responsabilità di continuarvi l'opera dei suoi e, presso il vegliardo morente, fu l'angelo del passaggio da questo mondo alla eternità.
L'ora dei profondi distacchi aveva preceduto il momento supremo. La prima Paola partì cantando: Ho preferito vivere umile nella casa di Dio che abitare nelle tende dei peccatori (Sal 83,11. Lett. CVIII, al. XXVII, a Eustochio). Di fronte alla prostrazione mortale, che parve annientare per sempre Girolamo (Lett. XCIX, al. XXXI, a Teofilo) Eustochio, affranta, respinse le sue lacrime e, per le pressioni della figlia, riprese a vivere, per mantenere le promesse fatte alla madre. La vediamo completare le traduzioni, riprendere i commenti del testo, passare da Isaia al Profeta Ezechiele quando sul mondo e su di essa cade il dolore inesprimibile del tempo: "Roma è caduta, si è spenta la luce della terra, in una città sola si è accasciato il mondo. Che cosa fare, se non tacere e pensare ai morti?".

Bisognava però pensare più ancora ai moltissimi fuggitivi, che, spogliati di tutto, giungevano ai Luoghi santi e Girolamo, l'implacabile lottatore, non sapeva risparmiare il suo cuore e le sue lacrime ad alcuno degli sventurati. Più ancora che insegnare la Scrittura, desiderando praticarla, dedicava il suo tempo all'ospitalità e per lo studio restava solo la notte ai suoi occhi quasi ciechi. Ma gli studi gli erano tuttavia carissimi, dimenticava in essi le miserie del giorno e si riempiva di gioia nel rispondere ai desideri della figlia che Dio gli aveva dato. Si leggano le prefazioni ai quattordici libri di Ezechiele e si vedrà quale parte ebbe la vergine di Cristo nell'opera strappata alle angosce del tempo, alle infermità di Girolamo e alle sue ultime lotte contro l'eresia. Si è detto che l'eresia profittava dello scompiglio del mondo per manifestare nuove audacie. Forti dell'appoggio del vescovo di Gerusalemme, i Pelagiani si armarono una notte di torcia e di spada e si gettarono all'assassinio e all'incendio sul monastero di Girolamo e sulle vergini, che dopo la morte di Paola riconoscevano per madre Eustochio. Virilmente affiancata dalla nipote, Paola la giovane, la santa raccolse le sue figliuole e riuscì ad aprirsi un passaggio in mezzo alle fiamme. Ma l'ansietà della terribile notte aveva consumate le sue forze e Girolamo la seppellì presso la mangiatoia del Dio Bambino, come la madre e, lasciando incompiuto il suo commento a Geremia, si dispose egli pure a morire.
VITA. - San Girolamo nacque a Stridone in Dalmazia tra il 340 e il 345 da genitori che lo inviarono poi a Roma a studiarvi grammatica e retorica. Preso per qualche tempo dai piaceri e dal desiderio di successi, presto ne fu stanco e chiese il battesimo a Papa Liberio. Dopo un soggiorno alla corte imperiale di Treviri, si ritirò ad Aquileia, e, poco appresso, partì per l'Oriente. Dimorò ad Antiochia nella Quaresima del 374 o 375 e, caduto gravemente infermo, promise di non leggere più libri profani. Guarito, parti per il deserto di Calcide, a sud-est di Antiochia, dove visse in romitaggio e imparò l'Ebraico. Tornato ad Antiochia, fu ordinato sacerdote e si portò a Costantinopoli, dove incontrò san Gregorio di Nazianzo. Nel 382 era a Roma e Papa Damaso lo scelse per segretario, gli consigliò di studiare la Sacra Scrittura e di rivedere la traduzione dei Vangeli e del Salterio. Allo studio unì la predicazione e la direzione spirituale. Dopo la morte del Papa, avvenuta nel 384, lasciò Roma e con Paola ed Eustochio, visitò la Palestina, l'Egitto e si stabilì a Betlemme nel 386. Paola costruì un monastero per lui e per i suoi compagni e un altro per sé e per le sue figlie. La sua vita fu da allora tutta conservata allo studio della Scrittura, alla traduzione dei Libri santi, alla direzione spirituale con Conferenze e Lettere. Morì nel 419 o nel 420, a 92 anni e il suo corpo è venerato a Roma, nella Chiesa di S. Maria Maggiore.

Il Santo.

Tu completi, o santo illustre, la brillante costellazione dei Dottori nel cielo della santa Chiesa. Già si annunzia l'aurora del giorno eterno e il Sole di giustizia apparirà presto sulla valle del giudizio. Modello di penitenza, insegnaci il timore, che preserva o ripara, guidaci nelle vie austere dell'espiazione. Monaco, storico di grandi monaci, padre di solitari, come te attirati a Betlemme dal profumo dell'Infanzia divina, mantieni lo spirito di lavoro e di preghiera nell'Ordine monastico in cui parecchie famiglie hanno preso da te il nome. Flagello degli eretici, stringici alla fede romana, zelatore del gregge, preservaci dai lupi e dai mercenari, vendicatore di Maria, ottieni che fiorisca sempre sulla terra la verginità.


Il Dottore.
La tua gloria o Girolamo, partecipa della gloria dell'Agnello. La chiave di Davide(Ap 3,7) ti fu data per aprire i sigilli molteplici delle Scritture e, sotto il velo delle parole, mostrarci Gesù. Oggi la Chiesa della terra canta le tue lodi per questo e per questo ti presenta ai suoi figli come l'interprete ufficiale del Libro ispirato, che la guida al suo destino. Gradisci, col suo omaggio, la nostra personale gratitudine. Per le tue preghiere, possa il Signore ridarci il rispetto e l'amore che la sua divina parola merita e, per i tuoi meriti, si moltiplichino attorno al sacro deposito i dotti e le loro sapienti ricerche. Ma tutti sappiano che, se si vuole capire Dio, lo si ascolta in ginocchio. Dio si accetta, non si discute anche se, nella interpretazione diversa che possono avere i suoi messaggi, è lecita la ricerca, sotto il controllo della Chiesa, per scoprire il vero; anche se è cosa lodevole scrutarne senza fine la profondità augusta. Beato chi ti segue in questo studio santo! L'hai detto tu: "Vivere in mezzo a tanti tesori, sprofondarsi in essi, non saper altro, non cercar altro, non è forse questo abitare già in cielo, mentre siamo ancora sulla terra? Impariamo nel tempo ciò che dovremo conoscere per l'eternità" (Lett. LIV, a Paolino).


[1] Hebraeam linguam, quam ego ab adolescentia multo labore ac sudore ex parte didici, et infatigabili meditatione non desero, ne ipse ab ea deserar (Lett. CVIII, l. XXVII, a Eustochio).
[2] Lett. CXXVII, l. XVI, a Principia. Et quia valde prudens erat, sic ad interrogata respondebat, ut etiam sua non sua diceret .... ne virili sexui, et interdum sacerdotibus de obscuris et ambiguis sciscitantibus, tacere videretur iniuriam.

da: dom Prosper Guéranger, L'anno liturgico. - II. Tempo Pasquale e dopo la Pentecoste, trad. it. L. Roberti, P. Graziani e P. Suffia, Alba, 1959, p. 1118-1124