venerdì 13 settembre 2013

Domenica 15 settembre 2013, XXIV Domenica delle ferie del Tempo Ordinario - Anno C



"Prendete, prendete quest’opera e ‘non sigillatela’, 
ma leggetela e fatela leggere"
Gesù (cap 652, volume 10), a proposito del
"Evangelo come mi è stato rivelato"
di Maria Valtorta



Domenica 15 settembre 2013, XXIV Domenica delle ferie del Tempo Ordinario - Anno C

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Luca 15,1-32.
Si avvicinavano a lui tutti i pubblicani e i peccatori per ascoltarlo.
I farisei e gli scribi mormoravano: «Costui riceve i peccatori e mangia con loro».
Allora egli disse loro questa parabola:
«Chi di voi se ha cento pecore e ne perde una, non lascia le novantanove nel deserto e va dietro a quella perduta, finché non la ritrova?
Ritrovatala, se la mette in spalla tutto contento,
va a casa, chiama gli amici e i vicini dicendo: Rallegratevi con me, perché ho trovato la mia pecora che era perduta.
Così, vi dico, ci sarà più gioia in cielo per un peccatore convertito, che per novantanove giusti che non hanno bisogno di conversione.
O quale donna, se ha dieci dramme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa e cerca attentamente finché non la ritrova?
E dopo averla trovata, chiama le amiche e le vicine, dicendo: Rallegratevi con me, perché ho ritrovato la dramma che avevo perduta.
Così, vi dico, c'è gioia davanti agli angeli di Dio per un solo peccatore che si converte».
Disse ancora: «Un uomo aveva due figli.
Il più giovane disse al padre: Padre, dammi la parte del patrimonio che mi spetta. E il padre divise tra loro le sostanze.
Dopo non molti giorni, il figlio più giovane, raccolte le sue cose, partì per un paese lontano e là sperperò le sue sostanze vivendo da dissoluto.
Quando ebbe speso tutto, in quel paese venne una grande carestia ed egli cominciò a trovarsi nel bisogno.
Allora andò e si mise a servizio di uno degli abitanti di quella regione, che lo mandò nei campi a pascolare i porci.
Avrebbe voluto saziarsi con le carrube che mangiavano i porci; ma nessuno gliene dava.
Allora rientrò in se stesso e disse: Quanti salariati in casa di mio padre hanno pane in abbondanza e io qui muoio di fame!
Mi leverò e andrò da mio padre e gli dirò: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te;
non sono più degno di esser chiamato tuo figlio. Trattami come uno dei tuoi garzoni.
Partì e si incamminò verso suo padre. Quando era ancora lontano il padre lo vide e commosso gli corse incontro, gli si gettò al collo e lo baciò.
Il figlio gli disse: Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te; non sono più degno di esser chiamato tuo figlio.
Ma il padre disse ai servi: Presto, portate qui il vestito più bello e rivestitelo, mettetegli l'anello al dito e i calzari ai piedi.
Portate il vitello grasso, ammazzatelo, mangiamo e facciamo festa,
perché questo mio figlio era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato. E cominciarono a far festa.
Il figlio maggiore si trovava nei campi. Al ritorno, quando fu vicino a casa, udì la musica e le danze;
chiamò un servo e gli domandò che cosa fosse tutto ciò.
Il servo gli rispose: E' tornato tuo fratello e il padre ha fatto ammazzare il vitello grasso, perché lo ha riavuto sano e salvo.
Egli si arrabbiò, e non voleva entrare. Il padre allora uscì a pregarlo.
Ma lui rispose a suo padre: Ecco, io ti servo da tanti anni e non ho mai trasgredito un tuo comando, e tu non mi hai dato mai un capretto per far festa con i miei amici.
Ma ora che questo tuo figlio che ha divorato i tuoi averi con le prostitute è tornato, per lui hai ammazzato il vitello grasso.
Gli rispose il padre: Figlio, tu sei sempre con me e tutto ciò che è mio è tuo;
ma bisognava far festa e rallegrarsi, perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita, era perduto ed è stato ritrovato».
Traduzione liturgica della Bibbia


Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 3 Capitolo 205 pagina 327.


1“Giovanni di Endor, vieni qui con Me. Ti devo parlare”, dice Gesù affacciandosi sull’uscio.
L’uomo accorre lasciando il bambino al quale insegnava qualcosa. “Che mi vuoi dire, Maestro?”, chiede.
“Vieni con Me qui sopra”.
Salgono sulla terrazza e si siedono dalla parte più riparata perché, per quanto sia mattina, il sole è già forte. Gesù gira lo sguardo sulla campagna coltivata, in cui i grani di giorno in giorno divengono d’oro e gli alberi gonfiano le loro frutta. Pare volere attingere il pensiero da quella metamorfosi vegetale.
“Senti, Giovanni. Oggi Io credo che verrà Isacco per condurmi i contadini di Giocana prima della loro partenza. Ho detto a Lazzaro di prestare a Isacco un carro per fare loro accelerare il ritorno senza tema di giungere con un ritardo che provocherebbe loro un castigo. E Lazzaro lo fa. Perché Lazzaro fa tutto ciò che Io dico. Ma da te Io voglio un’altra cosa. Ho qui una somma che mi è stata data da una creatura per i poveri del Signore. Generalmente è un mio apostolo l’incaricato di tenere le monete e di dare gli oboli. È Giuda di Keriot generalmente; qualche volta gli altri. Giuda non è presente. Gli altri non voglio siano a cognizione di quel che voglio fare. Anche Giuda questa volta non lo sarebbe. Lo farai tu, in mio nome…”.
“Io, Signore?… Io?… Oh! non ne sono degno!…”.
“Ti devi abituare a lavorare in mio nome. Non sei venuto per questo?”.
“Sì. Ma pensavo dovere lavorare a ricostruire la povera anima mia”.
“E Io te ne do il mezzo. In che hai peccato? Contro la misericordia e l’amore. Con l’odio hai demolito la tua anima. Con l’amore e la misericordia la ricostruirai. Io te ne do il materiale. Ti adibirò particolarmente alle opere di misericordia e di amore. Tu sei anche capace di curare, tu sei capace di parlare. Per questo sei atto ad avere cura delle infelicità fisiche e morali, e hai capacità di farlo. Inizierai con quest’opera. Tieni la borsa. La darai a Michea e ai suoi amici. Fànne parti uguali. Ma fàlle così come Io dico. La dividi per dieci, poi ne dai quattro parti a Michea: una per sé, una per Saulo, una per Gioele e una per Isaia. E le altre sei le dai a Michea perché le dia al vecchio padre di Jabé, per sé e per i suoi compagni. Potranno così avere qualche conforto”.
“Va bene. Ma che dico loro per giustificare?”.
“Dirai: “Questo è perché vi ricordiate di pregare per un’anima che si redime””.
“Ma potranno pensare che sia io! Non è giusto!”.
“Perché? Non ti vuoi redimere?”.
“Non è giusto che pensino che sia io il donatore”.
“Lascia, e fa’ come Io dico”.
“Ubbidisco… ma almeno concedimi di mettere anche io qualche cosa. Tanto… ora non mi occorre più nulla. Libri non ne compero più, polli da nutrire non ne ho più. A me basta tanto poco… Tieni, Maestro. Serbo solo un minimo per le spese dei sandali…”, ed estrae da una borsa che aveva in cintura molte monete e le aggiunge alle monete di Gesù.
205.2

“Dio ti benedica per la tua misericordia… 2Giovanni, fra poco ci lasceremo perché tu andrai con Isacco”.
“Me ne duole, Maestro. Ma ubbidisco”.
“Anche a Me duole di allontanarti. Ma ho tanto bisogno di discepoli peregrinanti. Io non basto più. Presto lancerò gli apostoli, poi manderò i discepoli. E tu farai molto bene. Ti serberò a speciali missioni. Intanto con Isacco ti formerai. È tanto buono e lo Spirito di Dio lo ha veramente istruito durante la lunga malattia. Ed è l’uomo che tutto ha sempre perdonato… Lasciarci, del resto, non vuole dire non vederci più. Ci incontreremo sovente, e ogni volta che ci ritroveremo parlerò proprio per te, ricordatelo…”.
Giovanni si piega su se stesso, si nasconde il volto fra le mani con un aspro scoppio di pianto, e geme: “Oh! allora dimmi subito qualche cosa che mi persuada che io sono perdonato… che io posso servire Dio… Se sapessi, ora che è caduto il fumo dell’odio, come vedo la mia anima… e come… e come penso a Dio…”.
“Lo so, non piangere. Resta nell’umiltà, ma non ti avvilire. L’avvilimento è ancora superbia. Solo, solo umiltà abbi. Suvvia, non piangere…”.
Giovanni di Endor si calma poco a poco…
Quando lo vede calmato, Gesù dice: “Vieni, andiamo sotto quel folto di meli e raduniamo i compagni e le donne. Parlerò a tutti, ma ti dirò come Dio ti ama”.
Scendono, radunandosi intorno gli altri man mano che vanno, e si siedono poi a cerchio sotto l’ombra del pometo. Anche Lazzaro, che parlava con lo Zelote, si aggiunge alla compagnia. Venti persone in tutto.
205.3
3“Udite. È una bella parabola che vi guiderà con la sua luce in tanti casi.

Un uomo aveva due figli. Il maggiore era serio, lavoratore, affezionato, ubbidiente. Il secondo era intelligente più del maggiore — che in verità era un poco ottuso e si lasciava guidare per non avere da affaticarsi a decidere da sé — ma in compenso era anche ribelle, svagato, amante del lusso e del piacere, dissipatore e ozioso. L’intelligenza è un grande dono di Dio. Ma è un dono che va usato saggiamente. Altrimenti è come certi farmachi i quali, usati in mal modo, non sanano ma uccidono. Il padre — era nel suo diritto e nel suo dovere — lo richiamava a vita più saggia. Ma senza alcun utile, tolto quello di averne male risposte e un maggior irrigidimento del figlio nelle proprie cattive idee.
Infine un giorno, dopo una disputa più fiera, il figlio minore disse: “Dàmmi la mia parte dei beni. Così non sentirò più i tuoi rimproveri e i lagni del fratello. Ognuno il suo e sia finito tutto”. “Guarda”, rispose il padre, “che presto sarai rovinato. Che farai allora? Pensa che io non sarò ingiusto in favore di te e non riprenderò un picciolo a tuo fratello per darlo a te”. “Non ti chiederò nulla. Sta’ sicuro. Dàmmi la mia parte”.
Il padre fece stimare le terre e le cose preziose e, visto che denaro e gioielli facevano tanto quanto le terre, dette al maggiore i campi e i vigneti, le mandre e gli ulivi, e al minore il denaro e i gioielli, che il giovane vendette subito mutando tutto in denaro. E fatto questo, in pochi giorni, se ne andò in lontano paese dove visse da gran signore, scialacquando tutto il suo in bagordi di ogni specie, facendosi credere un figlio di re perché si vergognava di dire: “sono campagnolo”, rinnegando perciò il padre suo. Festini, amici e amiche, vesti, vini, giuoco… vita dissoluta… Presto vide scemare la sostanza e venire avanti la miseria. E con la miseria, a farla più grave, venne nel paese una grande carestia che dette fondo ai resti della sostanza.
205.4

4Avrebbe potuto andare dal padre. Ma era superbo e non volle. Andò allora da un riccone del paese, già suo amico nei tempi buoni, e lo pregò dicendo: “Accoglimi fra i tuoi servi in ricordo di quando godesti delle mie dovizie”. Vedete voi come è stolto l’uomo! Preferisce mettersi sotto la frusta di un padrone anziché dire ad un padre: “Perdono! Ho sbagliato!”. Quel giovane aveva imparato tante cose inutili con la sua intelligenza aperta, ma non aveva voluto imparare il detto dell’Ecclesiastico: “Quanto è infame colui che abbandona il padre suo e quanto è maledetto da Dio chi fa inquietare la madre”. Era intelligente ma non sapiente.
L’uomo a cui si era rivolto, in cambio del molto che aveva goduto dal giovane stolto, mise questo stolto di guardia ai porci — perché si era in paese pagano e vi erano molti porci — e lo mandò a pasturare nei suoi possessi le mandre dei porci. Lurido, stracciato, puzzolente, affamato — perché il cibo era scarso per tutti i servi e specie per gli infimi, e lui, straniero mandriano di porci e deriso, era ritenuto tale — vedeva i porci satollarsi delle ghiande e sospirava: “Potessi almeno io pure empirmi il ventre di questi frutti! Ma sono troppo amari! Neppure la fame me li fa parere buoni”. E piangeva pensando ai ricchi festini da satrapo fatti poco tempo prima fra risa, canti, danze… e pensava poi agli onesti pranzi ben nutriti della sua casa lontana, alle porzioni che il padre faceva a tutti imparzialmente, serbando per sé sempre il meno, lieto di vedere il sano appetito dei suoi figli… e pensava anche alle parti fatte ai servi da quel giusto, e sospirava: “I garzoni di mio padre, anche i più infimi, hanno pane in abbondanza… e io qui muoio di fame…”. Un lungo lavoro di riflessione, una lunga lotta per strozzare la superbia…
205.5

5Infine venne il giorno che, rinato nell’umiltà e nella sapienza, sorse in piedi e disse: “Io vado dal padre mio! È stolto questo orgoglio che mi fa prigione. E di che? Perché soffrire e nel corpo e più nel cuore mentre posso avere perdono e sollievo? Vado dal padre mio. È detto. Che gli dirò? Ma quello che è nato qui dentro, in questa abbiezione, fra queste lordure, fra i morsi della fame! Gli dirò: ‘Padre, ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato tuo figlio; trattami perciò come l’infimo dei tuoi garzoni, ma sopportami sotto il tuo tetto. Che io ti veda passare…’. Non potrò dirgli: ‘…perché ti amo’. Non lo crederebbe. Ma lo dirà la mia vita, ed egli lo comprenderà, e prima di morire mi benedirà ancora… Oh! lo spero. Perché mio padre mi ama”. E, tornato la sera in paese, si licenziò dal padrone e mendicando per via tornò a casa sua.
Ecco i campi paterni… e la casa… e il padre che dirigeva i lavori, invecchiato, scarnito dal dolore, ma sempre buono… Il colpevole, guardando quella rovina causata da lui, si fermò intimorito… ma il padre, girando l’occhio, lo vide e gli corse incontro, perché era ancora lontano, e raggiuntolo gli gettò le braccia al collo e lo baciò. Solo il padre aveva riconosciuto in quel mendicante avvilito la sua creatura e solo lui aveva avuto un movimento di amore. Il figlio, stretto fra quelle braccia, con il capo sulla spalla paterna, mormorò fra i singhiozzi: “Padre, lascia che io mi getti ai tuoi piedi”. “No, figlio mio! Non ai piedi. Sul mio cuore, che ha tanto sofferto della tua assenza e che ha bisogno di rivivere col sentire il tuo calore sul mio petto”. E il figlio, piangendo più forte, disse: “Oh! padre mio! Io ho peccato contro il Cielo e contro di te, non sono più degno di essere chiamato da te: figlio. Ma permettimi di vivere fra i tuoi servi, sotto il tuo tetto, vedendoti, mangiando il tuo pane, servendoti, bevendo il tuo alito. Ad ogni boccone di pane, ad ogni tuo respiro si riformerà il mio cuore tanto corrotto e diverrò onesto…”. Ma il padre, tenendolo sempre abbracciato, lo condusse verso i servi, che si erano ammucchiati in distanza e che osservavano, e disse loro: “Presto, portate qui la veste più bella e catini di acque odorose, lavatelo, profumatelo, rivestitelo, mettetegli dei calzari nuovi e un anello al dito. Poi prendete un vitello ingrassato e ammazzatelo. E si prepari un banchetto. Perché questo figlio mio era morto ed ora è risuscitato, era perduto ed è stato ritrovato. Io voglio che ora lui pure ritrovi il suo semplice amore di pargolo; e il mio amore e la festa della casa per il suo ritorno glielo devono dare. Deve capire che egli è sempre per me il caro bambino ultimo nato, quale era nella infanzia sua lontana, quando mi camminava al fianco facendomi beato col suo sorriso e il suo balbettio”. E così fecero i servi.
6Il figlio maggiore era in campagna e non seppe nulla fino al
205.6

suo ritorno. A sera, venendo verso casa, la vide luminosa di lumi e udì suoni di strumenti e danze uscire da essa. Chiamò un servo che correva indaffarato e gli disse: “Che avviene?”. E il servo rispose: “È tornato tuo fratello! Tuo padre ha fatto ammazzare il vitello grasso perché ha riavuto il figlio e sano, guarito dal suo grande male, ed ha ordinato banchetto. Non si attende che te per cominciare”. Ma il primogenito, in collera perché gli pareva ingiustizia tanta festa per il minore, che oltre che minore era stato cattivo, non volle entrare e anzi fece per allontanarsi da casa.
Ma il padre, avvertito di questo, corse fuori e lo raggiunse tentando di convincerlo e pregandolo di non amareggiargli la sua gioia. Il primogenito rispose al padre suo: “E vuoi che io non sia inquieto? Tu fai ingiustizia e spregio al tuo primogenito. Io da quando ho potuto lavorare ti ho servito, e sono molti anni. Io non ho mai trasgredito ad un tuo comando, neppure ad un tuo desiderio. Io ti sono sempre stato vicino e ti ho amato per due per farti guarire dalla piaga fatta da mio fratello. E tu non mi hai dato neppure un capretto per godermelo cogli amici. Questo, che ti ha offeso, che ti ha abbandonato, che è stato infingardo e dissipatore e che torna ora perché è spinto dalla fame, tu lo onori e per lui ammazzi il vitello più bello. Vale la pena essere lavoratori e senza vizi! Questo non me lo dovevi fare!”.
Il padre disse allora stringendoselo al seno: “Oh! figlio mio! E puoi credere che io non ti ami perché non stendo un velo di festa sulle tue azioni? Le tue azioni sono sante di loro, e il mondo ti loda per esse. Ma questo tuo fratello, invece, ha bisogno di essere rialzato nella stima del mondo e nella stima sua stessa. E credi tu che io non ti ami perché non ti do un premio visibile? Ma mattina e sera e in ogni mio alito e pensiero tu sei presente al mio cuore, e ad ogni attimo io ti benedico. Tu hai il premio continuo di essere sempre con me, e tutto quanto è mio è tuo. Ma era giusto banchettare e fare festa per questo tuo fratello, che era morto ed è risuscitato al Bene, che era perduto ed è stato ritornato al nostro amore”. E il primogenito si arrese.

205.7

7Così, amici miei, succede nella Casa del Padre. E chi si sa uguale al figlio minore della parabola pensi pure che, se lo imita nell’andare al Padre, il Padre gli dice: “Non ai miei piedi. Ma sul mio cuore, che ha sofferto della tua assenza e che ora è beato per il tuo ritorno”. Chi è in condizioni di figlio primogenito e senza colpa verso il Padre, non sia geloso della gioia paterna, ma ne prenda parte, dando amore al fratello redento.
Ho detto. Rimani, Giovanni di Endor, e tu, Lazzaro. Gli altri vadano a preparare le mense. Presto verremo”.
Tutti si ritirano. Quando Gesù, Lazzaro e Giovanni sono soli, Gesù dice a Lazzaro e Giovanni: “Così si farà dell’anima cara che tu attendi, Lazzaro, e così si fa della tua, Giovanni. La bontà di Dio supera ogni misura”…
205.8

8…Gli apostoli, insieme alla Madre e alle donne, vanno verso casa preceduti da Marjziam che saltella correndo avanti. Ma presto ritorna e prende Maria per mano dicendole: “Vieni con me. Ti devo dire una cosa, da soli”. E Maria lo accontenta.
Torcono verso il pozzo, sito in un angolo del cortiletto, tutto velato da una pergola folta che da terra sale con un arco verso la terrazza. Là dietro è l’Iscariota.
“Giuda, che vuoi? Vai, Marjziam… Parla, che vuoi?”.
“Io sono in colpa… Non oso andare dal Maestro né affrontare i compagni… Aiutami…”.
“Ti aiuterò. Ma non pensi quanto dolore dài? Mio Figlio ha pianto per causa tua. E i compagni ne hanno sofferto. Ma vieni. Nessuno ti dirà niente. E, se puoi, non ricadere più in queste colpe. È indegno di un uomo, ed è sacrilego verso il Verbo di Dio”.
“E tu, Madre, mi perdoni?”.
“Io? Io non conto presso te che ti senti tanto grande. Io sono la più piccola delle serve del Signore. Come ti puoi preoccupare di me se non hai pietà di mio Figlio?”.
“Perché ho anche io una madre e, se ho il tuo perdono, mi pare di avere il suo”.
“Ella non sa questa tua colpa”.
“Ma ella mi aveva fatto giurare di essere buono col Maestro. Sono spergiuro. Sento il rimprovero dell’anima di mia madre”.
“Senti questo? E il lamento e il rimprovero del Padre e del Verbo non lo senti? Sei un disgraziato, Giuda! Semini, in te e in chi ti ama, il dolore”.
Maria è molto seria e mesta. Senza acredine parla, ma con molta serietà. Giuda piange.
“Non piangere. Ma migliorati. Vieni”, e lo prende per mano entrando così nella cucina.
Lo stupore di tutti è vivissimo. Ma Maria previene ogni uscita poco pietosa. Dice: “Giuda è ritornato. Fate come il primogenito dopo il discorso del padre. Giovanni, va’ ad avvisare Gesù”.
Giovanni di Zebedeo parte di corsa.
Un silenzio grava nella cucina… Poi Giuda dice: “Perdonatemi, tu Simone per il primo. Hai un cuore tanto paterno. Sono un orfano io pure”.
“Sì, sì, ti perdono. Per favore, non parlarne più. Siamo fratelli… e non mi piacciono questi alti e bassi di perdoni chiesti e di ricadute fatte. Avviliscono chi li fa e chi li dà. Ecco Gesù. Vai da Lui. E basta”.
Giuda va mentre Pietro, non potendo fare altro, si dà a spezzare con foga delle legna secche…

Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortiano http://www.mariavaltorta.com/
COR AMANTISSIMUM
ORA PRO NOBIS

Santo Rosario CANTATO + Coroncina alla Divina Misericordia









GESU' MARIA AMORE

VENITE INSIEME NEL MIO CUORE!



Preziosa intervista



Intervista fatta da Raymond Arroyo, direttore di EWTN News (Eternal Word Television Network -Global Catholic Network USA), e mandata in onda il 5 settembre 2003. Estratti

Raymond: Parliamo un poco del Concilio Vaticano II, in particolare dell' applicazione del Concilio. Lei ne ha parlato e scritto così tanto. Ritengo che per la gente della mia generazione la cosa che risalta di più nella fede, anche in quella dei nostri padri e dei padri dei nostri padri, è la liturgia, la Messa. Lei ha parlato di riforma della riforma, di riformare la riforma. Come pensa di attuarla? Come ritiene che possa concretamente prendere forma via via che andiamo avanti ?
Cardinale Ratzinger: In generale, ritengo che la riforma liturgica non sia stata applicata bene, perché si trattava di una idea generale. Oggi la liturgia è una cosa della comunità. La comunità rappresenta se stessa, e con la creatività dei preti o di altri gruppi si creano le loro liturgie particolari. Si tratta più della presenza delle loro esperienze ed idee personali, che dell'incontro con la Presenza del Signore nella Chiesa; e con questa creatività e questa auto-presentazione della comunità sta scomparendo l'essenza della liturgia.
Con l'essenza della liturgia noi possiamo superare le nostre proprie esperienze e ricevere ciò che non deriva da esse, ma che è un dono di Dio. Così penso che dobbiamo restaurare non tanto certe cerimonie, ma l'idea essenziale della liturgia - capire che nella liturgia non rappresentiamo noi stessi, ma riceviamo la grazia della presenza del Signore nella Chiesa del cielo e della terra. E mi sembra che l'universalità della liturgia sia essenziale. Definire la liturgia e ripristinare questa idea aiuterebbe anche ad essere più ubbidienti alle norme, non nel senso di un positivismo giuridico, ma proprio come condivisione, partecipazione a quello che ci è dato dal Signore nella Chiesa .

Raymond: E quel senso di sacrificio e di culto di cui Lei ha parlato così eloquentemente, come lo vede ripristinato in concreto? Assisteremo al ritorno della disposizione del prete "ad orientem", rivolto verso Est, che volge le spalle al popolo durante il Canone, al ritorno del latino, a più latino nella Messa?
Cardinale Ratzinger: "Versus orientem", direi che potrebbe essere un aiuto, perché si tratta realmente di una tradizione dei tempi apostolici. Non è solo una norma, ma è anche l'espressione della dimensione cosmica e della dimensione storica della liturgia. Noi celebriamo con il cosmo, con il mondo. È la direzione del futuro del mondo, della nostra storia rappresentata dal sole e dalle realtà cosmiche.
Io penso che oggi questa nuova scoperta del nostro rapporto con il mondo creato può essere capita anche dalla gente, forse meglio di 20 anni fa. E ancora, si tratta di una direzione comune - prete e popolo orientati insieme verso il Signore. Per questo penso che potrebbe essere un aiuto.
Da sempre, i gesti esteriori non sono semplicemente un rimedio in se stessi, ma possono essere un aiuto, perché si tratta della classica interpretazione di cos'è la direzione nella liturgia. In generale io penso che tradurre la liturgia nelle lingue parlate sia stata una cosa buona, perché dobbiamo capirla, dobbiamo prendervi parte anche con il nostro pensiero, ma una presenza più marcata di alcuni elementi latini aiuterebbe a dare una dimensione universale, a far sì che in tutte le parti del mondo si possa dire: "io sono nella stessa Chiesa".


Amici cari


13.09.12


Eletti, amici cari, il tempo è il Mio Tempo, lo spazio è il Mio spazio. Voi, amici cari, siete entrati, già in terra, nella Mia Dimensione. La Gioia che vi ho donato è duratura e la Pace non uscirà dal vostro cuore.



Sposa amata, beato l’uomo che vive già in terra nella Mia Dimensione! Beato l’uomo che Mi ha detto subito il suo sì ed è entrato nella Mia Reggia! Sposa cara, ti ricordi il Mio racconto per farti capire bene il concetto?

Mi dici: “Adorato, Adorato, Adorato, è semplice, è bellissimo, è significativo. Provo a ripeterlo: un uomo, misero e povero più che mai, trascinava la sua vita in una squallida caverna; un giorno passò vicino a lui un grande signore, ricco, dovizioso, un re dalle molte ricchezze. Vedendolo in tali condizioni, ne ebbe compassione e disse: “Vuoi venire a vivere nella Mia ReggiaLì avrai tutto e non mancherai di nulla”. Il misero spalancò gli occhi dalla sorpresa: quando mai un ricco si era interessato a lui? Subito, subito raccolse la sua roba e seguì il grande, meraviglioso signore. Giunse alla sua reggia: era veramente grandiosa e stupenda! Vi entrò e la sua vita cambiò completamente. Dolce Amore, col Tuo racconto hai voluto parlare del Tuo Cuore, Reggia meravigliosa, dove vuoi accogliere ogni uomo della terra. Se egli accetta di seguirTi la sua vita cambia completamente.

Sposa amata, il Mio Cuore è la Reggia dove voglio accogliere ogni uomo della terra, togliendolo dalla sua condizione di miseria e povertà. Sposa cara, ora ti racconto la seconda parte della storia: il grande re, vedendo la miseria estrema di molti uomini, fece loro lo stesso invito e disse: “Nella mia reggia ci sono molti posti. Venite e toglietevi da tale condizione”. Costoro non vollero credere alle parole del re e si dissero l’un l’altro: “Restiamo nella nostra condizione e non cambiamo”. Passò il tempo, peggiorò la loro situazione e crebbe l’infelicità per quelli che avevano rifiutato l’invito. Sposa diletta, che hai capito delle Mie Parole?

Mi dici: “Amore Infinito, ho capito che assai diversa nel presente è la situazione degli uomini. Quelli che hanno accolto il Tuo Invito ora vivono lieti nella Tua Reggia, scoprono le Tue Meraviglie e godono le Tue Delizie, giorno dopo giorno. Quelli che non hanno accolto il Tuo Invito restano affondati nella loro miseria che cresce sempre di più: soffrono, gemono, ma sono tanto testardi, che non si decidono a cambiare, perché un terribile nemico li ha avvolti, come fa il serpente con le sue spire, che stringe sempre di più, fino a giungere a soffocare la preda. Ecco, Dolce Amore, ecco la mia supplica: aiuta i miseri a mutar condizione, altrimenti il nemico ne farà sua preda, assai presto.

Sposa amata, certo, non faccio mancare le Grazie di salvezza che scendono, copiose, e così sarà ancora; ma, ti dico che i miseri, che hanno rifiutato prima, continueranno a rifiutare dopo. Tale è la loro scelta.

Mi dici: “Adorato, il mio cuore trema, come foglia scossa dal vento tempestoso, perché vede la rovina di molte anime, per loro libera scelta.”

Sposa amata, ognuno ha ciò che si sceglie. Questo è il Mio Decreto. Resta, felice, nel Mio Cuore Ardente e godine le Delizie d’Amore di questo giorno. Ti amo.
Vi amo.

                                                                                              Gesù

L'artefice non riesce a modellare la resina pregiata


Le parabole di Gesù
(026)
L'artefice non riesce a modellare la resina pregiata (337.3)

Ad un artefice venne portato da un ricco stolto un grosso blocco di una sostanza bionda come il miele del più fino, e gli venne ordinato di lavorarlo riducendolo ad ornata ampolla.
"Non è sostanza buona al lavoro, questa" disse l'artefice al riccone. "Vedi? E' molliccia, elastica. Come posso scolpirla e modellarla?"
"Come? Non è buona? E' una resina pregiata, e un mio amico ne ha una piccola anfora nella quale il suo vino acquista un prezioso sapore. L'ho pagata a peso d'oro, per avere un'anfora più grande, e mortificare così il mio amico che se ne vanta. Fammela. E subito. O dirò che sei un artefice incapace."

"Ma quella del tua amico sarà di biondo alabastro".
"No. E' di questa sostanza".
"Sarà d'ambra fina".
"No. E' di questa sostanza".
"Sarà, mettiamolo, di questa sostanza, ma resa compatta, dura da secoli di antichità o da mescolanze con altre sostanze solidificanti. Chiediglielo e torna a dirmi come fu fatta la sua."
"No. Me l'ha venduta lui stesso assicurandomi che va usata così."
"E allora ti ha truffato per punirti della tua invidia sulla sua bell'anfora."
"Guarda come parli! Lavora, o io ti punirò levandoti la bottega. Chè tanto non vale tutto quanto hai per quello che mi costa questa resina stupenda."


L'artefice, desolato, si mise all'opera. Impastava.... Ma la pasta gli si appiccicava alle mani. Cercava di solidificarne in briciolo con mastici e polveri.... Ma la resina perdeva la sua trasparenza d'oro. La portava presso il forno fusorio sperando che il calore la indurisse e con le mani nei capelli doveva levarla perchè si faceva liquida. Mandò sull'alto Ermon a prendere neve gelata e ve la immerse.... Induriva, era bella. Ma non si modellava più. <La modellerò con lo scalpello> disse. Al primo colpo di scalpello la resina andò in pezzi.

L'artefice, disperato del tutto, già convinto che nulla poteva rendere lavorabile quella sostanza, tentò un'ultima prova. Riunì i pezzi, li fece di nuovo fluidi nel calore del forno, li ricongelò, ma non troppo, con la neve, e nella massa, molliccia appena, provò a lavorare di scalpello e di spatola. Si modellava, oh! sì! Ma appena levato scalpello e spatola tornava alla forma di prima, quasi fosse la pasta del pane gonfiante nella madia.

L'uomo si dette per vinto. E per fuggire alle rappresaglie del ricco e alla rovina, nella notte caricò su un carro la moglie, i figli, le suppellettili e gli arnesi di lavoro, lasciando al centro della stanza da lavoro, vuota di ogni cosa, la massa bionda della resina con sopra un cartiglio e la parola: <Inlavorabile>, e fuggi oltre i confini....