martedì 9 luglio 2013

LA MESSA STRAPAZZATA


LA MESSA STRAPAZZATA
di Sant'Alfonso Maria de' Liguori


"Io ho tratto tanti pensieri da un opuscolo di S. Alfonso: La Messa strapazzata, e li ho ridotti a trenta meditazioncelle: una per ogni giorno del mese. Ne leggo una tutte le mattine e trovo che aiuta nel preparamento alla Messa" (B. Giuseppe Allamano)

LA MESSA STRAPAZZATA
Non mai alcun sacerdote dirà la messa colla divozione dovuta, se non ha la stima che merita un tanto sacrificio. È certo che non può un uomo fare un'azione più sublime e più santa, che celebrare una messa: Nullum aliud opus, dice il concilio di Trento, adeo sanctum a Christi fidelibus tractari posse, quam hoc tremendum mysterium. Dio stesso non può fare che vi sia nel mondo un'azione più grande, che del celebrarsi una messa.
Tutti i sacrifici antichi, con cui fu tanto onorato Iddio, non furono che un'ombra e figura del nostro sacrificio dell'altare. Tutti gli onori che han dati giammai e daranno a Dio gli angeli co' loro ossequi, e gli uomini colle loro opere, penitenze e martirii, non han potuto né potranno giungere a dar tanta gloria al Signore, quanta gliene dà una sola messa; mentre tutti gli onori delle creature sono onori finiti; ma l'onore che riceve Iddio nel sacrificio dell'altare, venendogli ivi offerta una vittima d'infinito valore, è un onore infinito. La messa dunque è un'azione che reca a Dio il maggior onore che può darsegli: è l'opera che più abbatte le forze dell'inferno; che apporta maggior suffragio all'anime del purgatorio; che maggiormente placa l'ira divina contro i peccatori, e che apporta maggior bene agli uomini in questa terra.
Se sta promesso che quanto chiederemo a Dio in nome di Gesù, tutto otterremo: Si quid petieritis Patrem in nomine meo, dabit vobis: quanto più dobbiamo ciò sperare, offerendogli Gesù medesimo? Questo nostro amoroso Redentore continuamente in cielo sta intercedendo per noi:Qui etiam interpellat pro nobis. Ma ciò specialmente lo fa in tempo della messa, nella quale egli, anche a questo fine di ottenerci le grazie, presenta se stesso al Padre per mano del sacerdote. Se noi sapessimo che tutti i Santi colla divina Madre pregassero per noi, qual confidenza non concepiremmo per li nostri vantaggi? ma è certo che una sola preghiera di Gesù Cristo può infinitamente più che tutte le preghiere de' santi. Poveri noi peccatori, se non vi fosse questo sacrificio che placa il Signore! Huius quippe oblatione placatus Dominus, gratiam et donum poenitentiae concedens, crimina et peccata etiam ingentia dimittit, dice il Tridentino. In somma, siccome la passione di Gesù Cristo bastò a salvare tutto il mondo, così basta a salvarlo una sola messa; che però il sacerdote nell'oblazione del calice dice: Offerimus tibi, Domine, calicem salutaris...pro nostra et totius mundi salute.
La messa è il più buono e più bello della chiesa, secondo predisse il profeta: Quid enim bonum eius est, et quid pulchrum eius, nisi frumentum electorum et vinum germinans virgines? Poiché nella messa il Verbo incarnato si sacrifica all'eterno Padre e si dona a noi nel sagramento dell'eucaristia, il quale è il fine e lo scopo di quasi tutti gli altri sacramenti, come insegna l'angelico: Fere omnia sacramenta in eucharistia consummantur. Onde dice s. Bonaventura, che la messa è l'opera in cui Iddio ci mette avanti gli occhi tutto l'amore che ci ha portato, ed è un certo compendio di tutti i benefici che ci ha fatti: Est memoriale totius dilectionis suae, et quasi compendium quoddam omnium beneficiorum suorum. E perciò il demonio ha procurato sempre di toglier dal mondo la messa per mezzo degli eretici, costituendoli precursori dell'Anticristo, il quale, prima d'ogni altra cosa, procurerà d'abolire, ed in fatti gli riuscirà d'abolire, in pena de' peccati degli uomini, il santo sacrificio dell'altare, giusta quel che predisse Daniele: Robur autem datum est ei contra iuge sacrificium propter peccata.
Dice lo stesso s. Bonaventura che Dio in ogni messa non fa minor beneficio al mondo di quello che fece allora che s'incarnò: Non minus videtur facere Deus in hoc quod quotidie dignatur descendere super altare, quam cum naturam humani generis assumpsit. Sicché, come dicono i dottori, se mai non vi fosse stato ancora nel mondo Gesù Cristo, il sacerdote ve lo porrebbe con proferire la forma della consagrazione; secondo la celebre sentenza di s. Agostino, che scrisse: O veneranda sacerdotum dignitas, in quorum manibus velut in utero Virginis Filius Dei incarnatur!
Inoltre, non essendo altro il sacrificio dell'altare, che l'applicazione e la rinnovazione del sacrificio della croce, insegna l'angelico, che una messa apporta agli uomini tutti gli stessi beni e salute che apportò il sacrificio della croce: In qualibet missa invenitur omnis fructus, quem Christus operatus est in cruce. Quiquid est effectus dominicae passionis, est effectus huius sacrificii. Lo stesso scrisse il Grisostomo: Tantum valet celebratio missae, quantum valet mors Christi in cruce. E di ciò maggiormente ce ne assicura la s. chiesa, dicendo: Quoties huius hostiae commemoratio recolitur, toties opus nostrae redemptionis exercetur.Giacché il medesimo Salvatore che si offerì per noi sulla croce si sagrifica sull'altare per mezzo de' sacerdoti, come ci dichiara il Tridentino: Una enim eademque est hostia, idem nunc offerens sacerdotis ministerio, qui se ipsum in cruce obtulit, sola ratione offerendi diversa. Ond'è che per lo sagrificio dell'altare s'applica a noi il sagrificio della croce. La passione di Gesù Cristo ci fe' capaci della redenzione; la messa ce ne mette in possesso e fa che godiamo ne' suoi meriti.
Posto dunque che la messa è l'opera più santa e divina che possa da noi trattarsi, bene apparisce, dice il concilio di Trento, che dee impiegarsi ogni diligenza, acciocché un tal sagrificio si celebri colla maggior purità interna e divozione esterna che sia possibile: Satis etiam apparet omnem operam in eo ponendam esse, ut quanta maxima fieri potest interiori cordis munditia, atque exteriori devotione ac pietatis specie peragatur. E dice che la maledizione fulminata da Geremia contro coloro che negligentemente esercitano le funzioni ordinate al culto divino (Maledictus homo qui facit opus Dei negligenter), precisamente s'appartiene, a' sacerdoti che con irriverenza celebrano la messa, la quale, fra tutte le azioni che può fare l'uomo per onorare il suo Creatore, è la più grande ed eccelsa, soggiungendo che una tale irriverenza difficilmente può essere scompagnata dall'empietà: Quae ab impietate vix seiuncta esse potest,sono appunto le parole del concilio.
Acciocché dunque il sacerdote eviti sì grave irriverenza, ed insieme la divina maledizione, vediam che ha da fare prima di celebrare, che ha da fare nel celebrare, e che dopo aver celebrato. Prima di celebrare gli è necessario l'apparecchio. Nel celebrare dee usare la riverenza dovuta. Dopo aver celebrato, dee fare il ringraziamento.

Dell'apparecchio prima di celebrare
In primo luogo dee il sacerdote far l'apparecchio. Diceva un servo di Dio, che tutta la vita del sacerdote non dovrebbe esser altro che apparecchio e ringraziamento alla messa. È vero che la sagrosanta eucaristia è istituita a beneficio di tutti i fedeli, ma ella è un dono specialmente fatto ai sacerdoti: Nolite, dice il Signore parlando a' sacerdoti, dare sanctum canibus, neque ponatis margaritas vestras ante porcos. Si notino le parole margaritas vestras; col nome di margarite in greco son chiamate le particole consagrate, or queste margarite son dette cosa propria de' sacerdoti,margaritas vestras. Posto ciò, secondo parla il Grisostomo, ogni sacerdote dovrebbe partirsi dall'altare tutto infiammato d'amor divino, sì che mettesse spavento all'inferno:Tanquam leones igitur ignem spirantes ab illa mensa recedamus, facti diabolo terribiles. Ma ciò poi non si vede avvenire, ma si vede che la maggior parte de' sacerdoti escono dall'altare sempre più tepidi, più impazienti, superbi, golosi, e più attaccati all'interesse, alla stima propria ed ai piaceri terreni: Defectus non in cibo est, sed in sumente, dice il cardinal Bona. Il difetto non nasce dal cibo che prendono in tal mensa, poiché questo cibo una sola volta preso, come dicea s. Maria Maddalena de' Pazzi, basterebbe a renderli santi; ma nasce dal poco apparecchio che fanno in celebrar la messa.
L'apparecchio altro è rimoto, altro è prossimo. Il rimoto è la vita pura e virtuosa che dee far il sacerdote per degnamente celebrare. Se Iddio richiedea la purità da' sacerdoti antichi, sol perché doveano portare i vasi sagri: Mundamini, qui fertis vasa Domini: quanto più puro dee essere il sacerdote, che dee portar nelle mani e nel petto il Verbo incarnato: Quanto mundiores esse oportet, qui in manibus et in corpore portant Christum, dice Pietro Blessense. Ma per esser puro e santo il sacerdote, non basta che sia libero solamente da' peccati mortali, bisogna che sia esente anche da' veniali (s'intende deliberati); altrimenti, dice s. Bernardo, che Gesù C. non l'ammetterà ad aver parte seco: Nemo quae videntur modica contemnat; quoniam, sicut audivit Petrus, nisi laverit ea Christus, non habebimus partem cum eo. Bisogna dunque che tutte le azioni, le parole ed i pensieri del sacerdote che vuol dir la messa, sieno così santi, che possano esser disposizioni per ben celebrare.
Per l'apparecchio prossimo poi, è necessaria primieramente l'orazione mentale. Che messa divota potrà mai dire quel sacerdote che celebra senza aver fatta prima la meditazione? il p. m. Avila dicea che 'l sacerdote dee premettere alla messa almeno un'ora e mezza d'orazione mentale. Io mi contenterei di mezz'ora, e per alcuni più tepidi anche d'un quarto; ma non posso lasciar di dire che un quarto è troppo poco. Oh Dio! vi sono tanti belli libri di meditazioni per l'apparecchio alla messa; ma chi le fa? E perciò si vedono poi tante messe indevote e sconcertate che si dicono. Dice s. Tomaso che il Redentore ha istituito il ss. sagramento dell'altare, acciocché in noi fosse sempre viva la memoria dell'amore che ci dimostrò nella sua passione, e de' gran beni che ci ottenne col sacrificarsi per noi nella croce; e perciò l'apostolo ci avvertì, sempreché andiamo a prender la comunione, di ricordarci della morte del nostro Signore:Quotiescumque enim manducabitis panem hunc, et calicem bibetis, mortem Domini annunciabitis. Or se tutt'i fedeli debbon ricordarsi nella comunione della passione di Gesù Cristo, quanto più dee farlo il sacerdote, allorché dice la messa, in cui non solo si ciba delle sue carni sagrosante, ma rappresenta e rinnova sull'altare (benché in diverso modo) lo stesso sagrificio della croce?
Inoltre, ancorché il sacerdote abbia fatta la sua meditazione, prima non però di celebrare sempre conviene che almeno si raccolga per un poco di tempo, e consideri la grande azione che va a fare. Così ordinò a tutti i sacerdoti il concilio di Milano a' tempi di s. Carlo: Antequam celebrent, se colligant, et orantes mentem in tanti mysterii cogitationem defigant. In entrare il sacerdote nella sagrestia per celebrare, dee licenziar tutt'i pensieri di mondo e dire come dicea s. Bernardo: affari e sollecitudini terrene, aspettatemi qui sino a tanto che, dopo aver celebrata la messa che richiede tutta la mia attenzione, a voi ritorni. S. Francesco di Sales scrisse una volta alla b. Giovanna di Sciantal: Quand'io mi rivolgo all'altare per cominciar la messa, perdo di vista tutte le cose di terra. Consideri per tanto, che va a chiamare dal cielo in terra il Verbo incarnato, per familiarmente trattarvi sull'altare, per sacrificarlo di nuovo all'eterno Padre, e per cibarsi finalmente delle sue carni divine. Così cercava d'infervorarsi il ven. p. Giovanni Avila, dicendo: Ora io vo a consagrare il Figlio di Dio, vo a tenerlo nelle mie mani, a favellare e trattar seco, ed a riceverlo nel mio petto.
Di più dee considerare ch'egli va sull'altare a far l'intercessore per tutti i peccatori: Sacerdos, dum celebrat(dice s. Lorenzo Giustiniani), mediatoris gerit officium, propterea delinquentium omnium debet esse precator. Sicché il sacerdote, stando all'altare, come scrisse s. Gio. Grisostomo, sta in mezzo a Dio ed agli uomini, rappresenta le preghiere degli uomini, e loro ottiene le grazie da Dio:Medius sit sacerdos inter Deum et naturam humanam, illinc beneficia ad nos deferens. Nell'antica legge solamente una volta l'anno era permesso al sacerdote d'entrare nel sancta sanctorum a pregare per il popolo; ma oggi a tutt'i sacerdoti ogni giorno è concesso il potere offerire l'agnello divino all'eterno Padre, per ottenere a sé ed a tutta la chiesa le divine grazie. Quindi dice il concilio di Basilea, che se un vassallo ha da andare a chiedere qualche grazia al suo principe, non lascia egli di comporsi come meglio può nelle vesti decenti, nel gesto umile, nella dicitura modesta e nell'attenzione dovuta; quanto più dee ciò fare il sacerdote, quando va a pregare per sé e per gli altri la maestà di Dio?Si quis principem saeculi rogaturus, habitu honesto, gestu decenti, prolatione non praecipiti, attenta quoque mente se ipsum studet componere; quanto diligentius in sacro loco rogaturus Deum haec facere curabit?
Della riverenza nel celebrare
In secondo luogo nel celebrare dee il sacerdote usar la riverenza dovuta ad un tanto sagrificio. Questo già è l'intento o almeno il punto principale di questo libretto. Vediamo dunque che cosa importi questa riverenza. Importa per prima, che s'impieghi la dovuta attenzione alle parole della messa: e per secondo importa che si osservino esattamente le cerimonie prescritte dalle rubriche. In quanto all'attenzione alle parole, pecca il sacerdote che nel dir la messa volontariamente si distrae; e come dicono i dottori, chi si distraesse nella consagrazione e sunzione, o pure nel canone in notabil parte, peccherebbe mortalmente; così sentono Roncaglia, Concina e Tamburino, il quale benché sia benigno, anzi troppo benigno nelle sue opinioni, nulladimeno parlando di tal punto dice: Si sacerdos per notabile tempus voluntarie distractus, eas missae partes quae canonem continent recitet, peccabit mortaliter. Videtur autem mihi gravis irreverentia, qua quis dum profitetur Deum summe venerari, cum illo irreverenter per voluntariam distractionem se gerat. E dello stesso sentimento son io, checché si dicano alcuni altri autori: poiché, lasciando da parte la questione, se l'attenzione interna sia d'essenza dell'orazione, dico che il sagrificio dell'altare, oltre la ragione d'orazione, ha la ragione d'un eccellentissimo culto di religione, a cui sembra recar grave irriverenza chi, mentre attualmente professa di venerar religiosamente Iddio, volontariamente si distrae in pensieri alieni. Quindi avverte la rubrica: Sacerdos maxime curare debet, ut distincte et apposite proferat, non admodum festinanter, ut advertere possit quae legit etc.
In quanto poi all'adempimento delle cerimonie prescritte dalle rubriche nella celebrazione della messa, s. Pio V, nella bolla registrata nel messale comanda, districte et in virtute s. obedientiae, che la messa si celebri secondo le rubriche del messale: Iuxta ritum (son le sue parole), modum et normam in missali praescriptam. Onde ben dice il p. Suarez che l'omissione di qualunque cerimonia ordinata dalle rubriche, come d'ogni benedizione, genuflessione, inclinazione e simili, non può scusarsi da colpa veniale. E ciò lo dichiara poi espressamente Benedetto XIII nel concilio Romano, dicendo che nella celebrazione della messa, ritus, in minimis etiam, sine peccato negligi vel mutari haud possunt. Dicea s. Teresa: Io darei la vita per una cerimonia della chiesa; e 'l sacerdote poi le disprezza? Lo stesso dice La Croix con Pasqualigo, se, le dette cerimonie si fanno troppo velocemente; o pure se si fanno sconciamente, come ben dice il p. Concina parlando di que' celebranti che non genuflettono sino a terra, o vero che nel baciar l'altare fan solamente segno di baciarlo, o che malamente formano le benedizioni, secondo prescrivono le rubriche; poiché scrive il Gavanto con Ledesma, esser lo stesso tralasciar le cerimonie prescritte, che malamente farle, giusta l'assioma de' giuristi:Paria sunt non facere et male facere.
Di più dicono poi comunemente i dottori Wigandt, Roncaglia, Concina e La Croix che se taluno omette le cerimonie della messa in notabil parte, ancorché non sieno delle più gravi, non è scusato da colpa grave; mentr'essendo tali omissioni replicate nello stesso sagrificio, ben si uniscono a far materia grave atteso che unite elleno in notabil quantità, formano già una grave irriverenza al sagrificio. Sappiamo che anche nell'antica legge minacciò il Signore più maledizioni contro de' sacerdoti che trascuravano le cerimonie di quei sacrifici ch'eran semplici figure del nostro: Quod si audire nolueris vocem Domini, ut custodias caeremonias...venient super te omnes maledictiones istae: Maledictus eris in civitate, maledictus in agro... maledictus eris ingrediens etc.
Posto ciò, osservando il modo come dicono la messa la maggior parte de' sacerdoti con tanta fretta, e con tanto strapazzo di cerimonie, bisognerebbe piangere e piangere a lagrime di sangue. A costoro bene starebbe detto quel che rimproverava Clemente Alessandrino a' sacerdoti gentili, cioè che da essi il cielo faceasi diventare scena, e Dio diventar il soggetto della commedia: Oh impietatem! scenam coelum fecistis, et Deus factus est actus. Ma che dico commedia? Oh che attenzione vi metterebbero questi tali, se avessero a recitare una parte in commedia! E per la messa poi quale attenzione vi pongono? parole mutilate, genuflessioni a mezz'aria che sembrano più presto atti di disprezzo che di riverenza: benedizioni di croci che non si sa che cosa vogliano significare: camminano per l'altare, e si voltano in modo che muovono a ridere: maneggiano poi l'ostia sacrosanta e 'l calice consacrato, come se avessero in mano un pezzo di pane ed una tazza di vino: complicano le parole della messa disordinatamente colle cerimonie, anticipando l'une all'altre prima del tempo destinato dalle rubriche: in somma tutta la loro messa non è altro, dal principio sino alla fine, che un affastellamento di disordini e d'irriverenze.
E tutto ciò perché avviene? avviene parte per l'ignoranza delle rubriche che non si sanno né si cercano di sapere: e parte per l'ansia di finir la messa quanto più presto si può. Sembra che costoro dicano la messa, come stesse per cadere la chiesa o fossero per venire i turchi e non si avesse tempo di fuggire. Taluno sarà stato due ore prima a trattar faccende di mondo, o a ciarlare inutilmente in una bottega o nella sagrestia, e poi si dà tutta la fretta in dir la messa, non badando ad altro che a terminarla presto. Ci bisognerebbe sempre uno che lor dicesse quel che disse un giorno il p. maestro Avila, accostandosi all'altare, ad un sacerdote che celebrava in sì fatta maniera: Per carità, trattalo meglio, perché è figlio d'un buon padre. Ai sacerdoti antichi ordinò Iddio che in avvicinarsi al santuario tremassero per la riverenza: Pavete ad sanctuarium meum. E poi un sacerdote della nuova legge, stando sull'altare alla presenza di Gesù Cristo, mentre lo prende in mano, mentre l'offerisce e se ne ciba, ardisce usar tanta irriverenza?
Il sacerdote nell'altare, come dice s. Cipriano, e com'è certo, rappresenta la stessa persona di Gesù Cristo: Sacerdos vice Christi vere fungitur. Mentre ivi già in persona di Gesù Cristo egli dice: Hoc est corpus meum. Hic est calix sanguinis mei.Ma oh Dio! vedendo tanti sacerdoti d'oggidì celebrar con tanta irriverenza che mai dee dirsi? che rappresentino Gesù Cristo, o pure che sembrino tanti saltimbanchi che si vanno procacciando il vivere colle loro arti da giuoco, secondo quel che scrisse il sinodo spalatense: Plerique celebrantes conantur, non ut missam celebrent, sed ut absolvant; non ut victus sustentationem habeant; ita ut missae celebratio, non tamquam religionis mysteria, sed ut lucrandi ars quaedam exerceatur. E quel ch'è più ammirabile e (per meglio dire) deplorabile, è il vedere anche religiosi, e taluni anche di religioni riformate ed osservanti, dir la messa con tanta fretta e con cerimonie così sconce, che darebbero scandalo anche agl'idolatri, e peggio che se fossero sacerdoti secolari i più rilasciati che mai.
Quindi s'avverta che i sacerdoti i quali celebrano così indegnamente, non solo peccano per l'irriverenza grave che fanno al sacrificio, ma anche per il grave scandalo che danno al popolo che assiste alla messa. Siccome una messa divota concilia gran divozione e venerazione verso di lei (di s. Pietro di Alcantara si narra che facea più frutto la messa ch'egli divotamente celebrava, che tutti i sermoni de' predicatori di quella provincia dove stava), così all'incontro una messa indivota fa perdere il concetto e la venerazione che si dee ad un tanto sacrificio. Dice il concilio di Trento che non ad altro fine le cerimonie della messa sono state ordinate dalla chiesa, che insinuare a' fedeli la venerazione dovuta al sagrificio dell'altare ed agli altissimi misteri che in quello si contengono: Ecclesia (parla il concilio) caeremonias adhibuit ut maiestas tanti sacrificii commendaretur, et mentes fidelium per haec visibilia religionis signa ad rerum altissimarum, quae in hoc sacrificio latent, contemplationem excitarentur. Ma queste cerimonie, quando poi si fanno sconce o con fretta, non inducono già venerazione, ma più presto fan perdere a' secolari la venerazione verso un mistero sì santo. Dice Pietro Blessense, che per le messe dette con poca riverenza si dà motivo alla gente di far poco conto del ss. sacramento: Ex inordinatis et indisciplinatis sacerdotibus hodie datur ostentui nostrae redemptionis venerabile sacramentum. E perciò il concilio turonese nell'anno 1583 ordinò che i sacerdoti fossero bene istruiti nelle cerimonie della messa (notate il fine): Ne populum sibi commissum a devotione potius revocent, quam ad sacrorum mysteriorum venerationem invitent.
Come vogliono poi i sacerdoti con tali messe così indivote ottener perdono de' loro peccati e grazie da Dio, se nello stesso tempo che gliele offeriscono, l'offendono, e dal canto loro gli recano più disonore che onore? Cum omne crimen(disse Giulio papa) sacrificiis deleatur, quid pro delictorum expiatione Domino dabitur, quando in ipsa sacrificii oblatione erratur? Offenderebbe Dio quel sacerdote, che non credesse al sagramento dell'eucaristia, ma più l'offende chi lo crede, e non gli usa il dovuto rispetto, e nello stesso tempo fa che glielo perdano ancora gli altri, che lo vedon celebrare con tanto poca riverenza. I giudei rispettarono Gesù Cristo nel principio della sua predicazione, ma quando poi lo videro disprezzato da' sacerdoti, ne perderono affatto il buon concetto, e si posero in fine unitamente cogli stessi sacerdoti a gridare, tolle, tolle, crucifige eum. E così oggidì i secolari, vedendo trattarsi la messa dai sacerdoti con tanto strapazzo e negligenza, ne perdono quasi il concetto e la venerazione. Come dissi di sopra, una messa detta con divozione apporta divozione ad ognuno che la sente; all'incontro una messa strapazzata fa perdere la divozione agli assistenti, e quasi anche la fede. Mi narrò un certo religioso di molto credito un fatto orrendo circa questo punto; e questo fatto lo ritrovo anche accennato dal p. Serafino Maria Loddi domenicano nel suo libretto, Motivi per celebrare la messa senza fretta ecc.In Roma vi fu un certo eretico che stava risoluto di abbiurare, siccome avea promesso di fare al sommo pontefice (che fu Clemente XI); ma avendo poi veduta celebrare in una chiesa una messa indivota, se ne scandalizzò in modo, che se ne andò al papa e gli disse ch'egli non volea più abbiurare, essendosi persuaso che né i sacerdoti, né lo stesso pontefice aveano vera fede per la chiesa cattolica: ma gli disse il papa che l'indivozione d'un sacerdote, o di più sacerdoti negligenti, non potea pregiudicare alle verità di fede che la chiesa insegnava. Non però rispose l'eretico: ma se io fossi papa, e sapessi esservi un sacerdote che dice la messa con tanta irriverenza, lo farei bruciar vivo; vedendo io poi che vi sono sacerdoti che celebrano così indegnamente in Roma ed in faccia al papa, e non sono castigati, mi persuado che neppure il papa ci crede: e così dicendo si licenziò, ed ostinatamente non volle più abbiurare. Aggiungo a tal proposito che un certo secolare (appunto stamattina mentre sto scrivendo la presente operetta), vedendo una messa di questa sorta, non ha potuto trattenersi di dire ad un nostro compagno della congregazione che me l'ha riferito: Veramente questi sacerdoti con queste messe che dicono ci fan perdere la fede.
Odasi come piange su questo scandalo così lacrimabile delle messe strapazzate da' sacerdoti il piissimo cardinal Bellarmino, riferito da Benedetto XIV: Aliud est etiam lacrymis uberrimis dignum, quod ob nonnullorum sacerdotum incuriam aut impietatem, sacrosancta mysteria tam indigne tractentur, ut qui illa tractant videantur non credere maiestatem Domini esse praesentem. Sic enim aliqui sine spiritu, sine affectu, sine timore, festinatione incredibili sacrum perficiunt, quasi fide Christum non viderent, aut ab eo se videri non crederent. Poveri sacerdoti! Il ven. p. m. Avila, essendo morto un sacerdote dopo d'aver celebrata la sola prima messa, disse: Oh che gran conto questo sacerdote avrà dovuto rendere a Dio per questa prima messa che ha detta! Or considerate che dovea dire il p. Avila de' sacerdoti che per trenta o quarant'anni avranno detta una messa scandalosa, nel modo che abbiam divisato di sopra?
Si narra negli annali de' pp. cappuccini a proposito della messa strapazzata il seguente caso terribile. Vi era un certo rettore d'una chiesa che celebrava la messa con molta fretta ed irriverenza; onde un giorno il p. fra Matteo da Basso, primo generale de' cappuccini, subito che quel sacerdote entrò in sagristia dopo la messa lo corresse, dicendogli che la sua messa non edificava la chiesa, ma più presto la distruggeva; e perciò lo pregava o a celebrarla colla gravità dovuta o almeno ad astenersi di dirla, per non recare più al popolo lo scandalo che dava. Il rettore talmente si offese di quella riprensione, ch'essendosi presto spogliato delle sagre vesti, corse dietro al religioso per farne risentimento, ma non ritrovandolo, si ritirò in sua casa, dove indi a poco il misero fu assalito da certi suoi nemici, e restò sì malamente ferito, che nello spazio d'un'ora infelicemente spirò; ed allora uscì una sì fiera tempesta di venti che svelsero dalle radici anche le querce e sollevarono gli armenti in aria. Quindi essendosi scongiurato un ossesso, s'intese per bocca di lui, che tutti i demoni di quel paese eransi uniti ad impedire che quel sacerdote si convertisse prima di morire; e che avendo ottenuto l'intento, in segno del loro trionfo aveano eccitata nell'aria quella tempesta.
Io non so poi con qual coscienza i parrochi e i sagrestani ammettono a celebrare nelle loro chiese tali sacerdoti che dicono la messa con tanta irriverenza. Il p. Pasqualigo non sa scusarli da colpa grave, dicendo: Praelatos etiam regulares et rectores ecclesiarum peccare mortaliter, si permittant subditos celebrare cum nimia festinatione, quia ratione muneris tenentur curare ut celebratio congruo modo se habeat. E non ha dubbio che i vescovi son tenuti con obbligo stretto a proibir la celebrazione (senza riguardo) a tali sacerdoti, siccome ordinò il Tridentino, parlando delle messe: Decernit s. synodus ut ordinarii locorum ea omnia prohibere sedulo curent ac teneantur, quae irreverentia (quae ab impietate vix seiuncta esse potest) induxit. Si notino le parole: prohibere curent ac teneantur, ond'è che i prelati sono obbligati ad invigilare e ancora ad informarsi diligentemente del come si celebri la messa nelle loro diocesi; e debbon sospendere dalla celebrazione quei sacerdoti che la dicono senza la dovuta riverenza. E ciò corre anche a rispetto dei sacerdoti regolari; mentre i vescovi in ciò son costituiti dal concilio delegati apostolici: Ipsi ut delegati sedis apostolicae prohibeant, mandent, corrigant, atque ad ea servanda censuris aliisque poenis compellant.
Ma veniamo ad esaminare quanto tempo dee spendersi per celebrar la messa, per dirla senza difetto. Dice il p. Molina che il tempo di un'ora nel dir la messa non si dee tenere per eccedente. Nulladimeno il card. Lambertini colla sentenza comune degli altri autori conclude, che la messa non dee esser più lunga di mezz'ora né più breve di un terzo; poiché (dice) in tempo più breve d'un terzo ella non può celebrarsi colla dovuta riverenza; ed in tempo più lungo di mezz'ora riescirebbe di tedio agli assistenti. Ecco le sue parole: Non breviorem triente, nec longiorem dimidia hora debere esse missam; quia breviori spatio non possunt omnia debito honore peragi; et longiori, taedio esset adstantibus. Lo stesso si disse nel capitolo generale de' chierici regolari: Nemo missam longius horae semisse protrahat, neque triente contrahat. Lo stesso dicesi nelle costituzioni de' carmelitani scalzi: Missa privata per dimidiam circiter horam sed non ultra, extendatur. Lo stesso nelle regole della compagnia di Gesù: Semihoram in faciendo sacro nec multum excedat, neque ita brevis sit, ut illam non expleat. Lo stesso scrisse il p. Gobato dove spiegando il breviter, richiesto nella celebrazione da' dottori, dice intendersi il tempo di mezz'ora in circa: Breviter, id est circa dimidiam horam; vix enim breviori spatio possunt omnia in communibus missis peragi cum debito decore et devotione. E soggiunge, difficilmente potersi egli persuadere che (ordinariamente parlando) possa terminarsi la messa con divozione dentro il solo spazio d'un quarto d'ora: Nec facile quis mihi suadebit, se communiter cum sensu pietatis intra horae quadrantem finire sacrum.Dicendo parergli impossibile che la messa possa terminarsi in un quarto d'ora, senza commettervi molte imperfezioni. Quindi il p. Roncaglia tiene per certo non potersi scusar da peccato grave quel sacerdote che finisce la messa nello spazio minore d'un quarto d'ora: Nemo credat missam esse prolixam, si mediam horam non excedat, et nimis brevem, ut saltem tertiam partem horae non compleat, ut communiter dd. docent. Quia tamen qui infra quadrantem missam absolvit necesse est valde indevote celebrare, plura confundere, truncare, vel saltem syncopare, ideo communiter dicitur peccare mortaliter. Ex hoc autem oritur in episcopis et praelatis regularibus obligatio sub gravi turpem hanc et scandalosam celeritatem extirpare. E lo stesso dicono Pasqualigo ed altri comunemente appresso il citato cardinal Lambertini, come Quarto, Bisso, Clericato ecc. Posto ciò, dico doversi concludere che il sacerdote il quale celebra in minor tempo di un quarto d'ora qualunque messa (ancorché sia de' morti o della Madonna, de s. Maria in sabbato), difficilmente, per non dire impossibilmente, può essere scusato da peccato mortale, perché è impossibile terminar la messa nello spazio minore di un quarto, senza far grave irriverenza al sagrificio e senza dar grave scandalo al popolo.
Ma udiamo le scuse che adducono i sacerdoti che strapazzano la messa. Per prima dice taluno: Io dico la messa breve, ma in niente manco, mentre per grazia del Signore sono spedito di lingua e di moto; sicché in breve tempo ben proferisco tutte le parole e fo esattamente tutte le cerimonie. Ma no, che non basta (rispondo) per dir la messa senza difetto, non basta proferir le parole e far le cerimonie in fretta, bisogna farle colla gravità conveniente, la quale anch'è intrinsecamente necessaria alla riverenza richiesta; altrimenti, se son fatte con celerità non formano più la riverenza né inducono la venerazione dovuta al sacrificio; ma (come di sopra si è dimostrato) formano grave irriverenza e grave scandalo agli assistenti. Ecco come parlano i dottori. Il p. Paolo Maria Quarto dice: Certum requiri tantum spatium, quod possit commode satis esse ad perficiendas caeremonias ea gravitate, quae tantum sacrificium decet. Lo stesso scrive Pasqualigo: Dicendum est satius esse declinare ad prolixitatem, quam ad accelerationem, quia maiestas sacrificii exigit potius illum modum, qui congruit gravitati actionis, quam declinationem ad oppositum. E di ciò ne dà la ragione, perché nell'accelerar la messa, non solo può esservi il peccato, ma anche lo scandalo; il quale non vi sarà nel prolungamento, che al più non causerà altro che un certo tedio negli assistenti. Qui missam praecipitant (conclude il mentovato Quarto) valde timendum est ne in infernum praecipitentur.
Per secondo mi dirà che tra le condizioni le quali comunemente si assegnano da' dottori al modo come si ha da celebrar messa, vi è la brevità: Alte, breviter, dare, devote et exacte. Non però io primieramente dimando a chi parla così: ma, sacerdote mio, perché voi volete solamente attendere ad osservar questa sola condizione della brevità, e non già l'altre che sono devote et exacte? Ma inoltre ben la rubrica spiega, come s'intende quel breviter, cioè che la messa si dica, non nimis morose, ne audientes taedio afficiantur. Di più avvertasi che la rubrica stessa, dopo le suddette parole, immediatamente soggiunge, nec nimis festinanter. Quindi saggiamente scrive il Continuatore di Tournely: Brevis intelligitur, modo non destruat devotionem; unde si esset infra dimidium horae, non potest dici devota, et consequenter male diceretur. Pertanto soggiunge che la parola brevis dicesi per opporsi alla lunghezza affettata che apportasse notabil tedio agli ascoltanti. Del resto il medesimo autore conferma quel che disse Pasqualigo riferito di sopra: Melius est declinare in longitudinem, quam in brevitatem; quia cum longitudine non potest peccari graviter, et scandalum dari, sicut in nimis brevi. Disse una volta un certo sacerdote, per iscusare lo strapazzo ch'egli facea della sua messa: Ma s. Filippo Neri mettea mezzo quarto d'ora in dir la sua messa. Che melensaggine! È vero che s. Filippo, come dice lo scrittor della sua vita, quando stava in pubblico, celebrava la messa in breve tempo, ma per questo breve tempo non intendea certamente lo scrittore quello di mezzo quarto, né d'un quarto d'ora, intendea solo di escludere quella prolissità che apporta tedio ed è riprovata dalle rubriche; del resto nella stessa vita narrasi che 'l santo celebrava con tanta divozione la messa, anche in pubblico, che moveva a piangere per la compunzione ognuno che l'ascoltava. Colla messa d'un mezzo quarto non avrebbe mosso a piangere, ma più presto a ridere ed a burlarsi di lui.
Per terzo replicherà: ma i secolari si lamentano e s'impazientano se la messa è lunga. Dunque, rispondo per prima, la poca divozione dei secolari ha da esser regola della venerazione dovuta alla messa? Inoltre rispondo che se i sacerdoti dicessero la messa colla riverenza e gravità richiesta, i secolari ben concepirebbero il rispetto che si dee ad un sagrificio così sagrosanto, e non si lagnerebbero nel dovervi assistere per mezz'ora; ma perché per lo più le messe son così brevi e così strapazzate, e non muovono a divozione, perciò i secolari, ad esempio de' sacerdoti che le dicono, vi assistono indivotamente e con poca fede; e se vedono poi che qualche sacerdote passa un terzo o un quarto d'ora, per lo mal uso fatto, si tediano e se ne lamentano; e dove non rincresce loro di stare per più ore ad un tavolino di giuoco o in mezzo ad una strada a perdere il tempo, si tediano poi a star per una mezz'ora a sentire una messa. Di tutto questo male son causa i sacerdoti: Ad vos, o sacerdotes, esclama il Signore, quia despicitis nomen meum, et dixistis: In quo despeximus nomen tuum? in eo quod dicitis, mensa Domini despecta est. Ciò significa che il poco conto che si fa da' sacerdoti della riverenza dovuta alla messa è causa ch'ella sia disprezzata ancora dagli altri.
Per tanto, sacerdote mio caro, attendete voi a dir la messa come si dee, e non vi curate d'esser tacciato dagli altri. Contentatevi che vi lodi Iddio e gli angeli che vi assistono d'intorno all'altare. E se mai alcun personaggio, per autorevol che sia, vi dice che sbrighiate presto la messa, rispondetegli come rispose s. Teotonio canonico regolare a Tarasia regina di Portogallo, la quale avendo un affare di premura disse al santo che procurasse di sbrigar la messa. Ma il santo rispose esservi in cielo una regina molto più degna di lei, nel cui onore dovea celebrar quella messa; che per tanto, s'ella non potea trattenersi se n'andasse per li fatti suoi, ma ch'egli non potea mancar di riverenza al sagrificio, abbreviando il tempo che vi bisognava: Respondit aliam in coelo esse reginam longe meliorem, cui solemnia missae peragere disposuerat; in potestate eius esse vel missam audire vel penitus discedere. Ma che avvenne? la regina, entrata poi in se stessa, si fe' chiamare il santo, ed umiliata se gli gittò a' piedi, e piangendo propose di far la penitenza della sua temerità.
Procuriamo intanto di emendarci, sacerdoti miei, se per lo passato abbiamo celebrato questo gran sagrificio con poca divozione e riverenza. Consideriamo la grande azione che andiamo a fare, quando andiamo a dir messa; e consideriamo il gran tesoro de' meriti che ci acquisteremo col celebrarla divotamente. Oh che bene è una messa per quel sacerdote che la dice con divozione! Scrive il discepolo:Oratio citius exauditur in ecclesia in praesentia sacerdotis celebrantis. Or se l'orazione d'un secolare è più presto esaudita da Dio, quando è fatta in presenza del sacerdote che celebra, quanto più presto sarà esaudita l'orazione che fa lo stesso sacerdote, se celebra con divozione? Chi dice la messa ogni giorno con qualche divozione riceverà sempre da Dio nuovi lumi e nuove forze; Gesù Cristo sempre più l'istruirà, lo consolerà, l'animerà, e gli concederà le grazie che desidera. Specialmente dopo la consacrazione sta sicuro il sacerdote che avrà dal Signore quanto dimanda. Dicea il ven. p. Antonio de Colellis pio operaio: Io, quando celebro e tengo Gesù Cristo nelle mie mani, ne ho quel che voglio.
Per ultimo, parlando del rispetto che si dee a Gesù Cristo, che si sacrifica nella messa, non voglio lasciar di ricordare il precetto imposto da Innocenzo III: Praecipimus quoque ut oratoria, vasa, corporalia et vestimenta nitida conserventur; nimis enim videtur absurdum in sacris negligere quae dedecent in profanis. Ebbe troppa ragione questo pontefice di parlar così, poiché in verità alcuni non si vergognano di celebrare o di far celebrare gli altri con certi corporali; purificatoi e calici, de' quali essi non avrebber lo stomaco di servirsene nelle loro mense domestiche.
Del ringraziamento dopo la celebrazione
Per ultimo bisogna che 'l sacerdote, dopo d'aver celebrato, faccia il ringraziamento. Dice s. Gio. Grisostomo che se gli uomini per ogni picciol favore che ci fanno vogliono che noi siamo lor grati e lor ne rendiamo la ricompensa, quanto più dobbiamo noi esser grati con Dio dei gran beni che ci dona, mentr'egli non aspetta da noi ricompensa, ma solo per nostro utile vuol esserne ringraziato? Si homines parvum beneficium praestiterint, expectant a nobis gratitudinem, quanto magis id nobis faciendum in iis quae a Deo accepimus, qui hoc solum ob nostram utilitatem vult fieri? Se almeno (siegue a dire il santo) non possiamo ringraziare il Signore per quanto egli lo merita, almeno ringraziamolo per quanto possiamo. Ma che miseria e che disordine poi è il vedere tanti sacerdoti, che, finita la messa, dopo aver ricevuto da Dio l'onore di offerirgli in sagrificio il suo medesimo Figlio, e dopo d'essersi cibati del suo sagratissimo corpo, appena entrati in sagrestia, colle labbra ancor rosseggianti del suo sangue, recitata qualche breve orazione tra' denti, senza divozione e senza attenzione, subito mettonsi a discorrere di cose inutili o di faccende di mondo! o pure se n'escono dalla chiesa e si portano per le strade Gesù Cristo che ancora sta nel loro petto colle specie sagramentali. Con costoro bisognerebbe far sempre quel che fece una volta il p. Giovanni Avila, il quale vedendo un sacerdote uscir dalla chiesa subito dopo d'aver celebrato, lo fece accompagnare con due torce da due chierici; i quali, interrogati poi da quel sacerdote che andassero facendo, risposero: Andiamo accompagnando il ss. sagramento che portate dentro di voi.A questi tali va ben detto ciò che scrisse una volta s. Bernardo a Fulcone arcidiacono: Heu quomodo Christum tam cito fastidis! Oh Dio, e come così presto prendi in fastidio la compagnia di Gesù Cristo che sta dentro di te!
Tanti libri divoti esortano ed inculcano il ringraziamento dopo la messa; ma quanti son poi que' sacerdoti che veramente lo fanno? Quei che lo fanno si possono mostrare a dito. E la meraviglia si è che alcuni fanno bensì l'orazione mentale, fanno diverse altre divozioni; ma poi poco o niente si trattengono dopo la messa in trattare con Gesù Cristo. Il ringraziamento dopo la messa non dovrebbe terminare che colla giornata. Dicea il p. m. Avila che dee farsi gran conto del tempo dopo la messa. Il tempo dopo la messa è tempo prezioso da negoziare con Dio e guadagnar tesori di grazie. Dicea s. Teresa: Dopo la comunione non perdiamo così buona opportunità di negoziare; non suole sua divina Maestà pagar male l'alloggio, se gli vien fatta buona accoglienza. Dicea di più la santa che Gesù dopo la comunione si mette nell'anima come in trono di grazie, e par che le dica, come disse al cieco nato: Quid vis ut tibi faciam? Dimmi, che vuoi ch'io faccia per te, mentre sto pronto a darti tutte le grazie che mi dimandi?
Di più bisogna sapere ciò che insegnano più dottori, il Suarez, il Gonet ed altri, che l'anima, dopo la comunione, quanto più si dispone con atti buoni per tutto il tempo in cui durano le specie sagramentali, tanto maggior frutto ne ricava; poiché essendo stato istituito questo sagramento a modo di cibo, siccome il cibo terreno quanto più si trattien nello stomaco più nudrisce il corpo, così questo cibo celeste tanto più nudrisce l'anima di grazie, quanto più si trattien nel corpo, sempre che l'anima accresce con atti buoni la sua disposizione. Si aggiunga che in quel tempo ogni atto buono ha maggior valore e merito, giacché allora la persona sta unita con Gesù Cristo, secondo disse egli stesso: Qui manducat meam carnem, in me manet et ego in eo. E come dice il Grisostomo, allora Gesù Cristo ci fa una cosa con sé:Ipsa re nos suum efficit corpus. E perciò gli atti sono di maggior merito, perché son fatti dall'anima unitamente con Gesù Cristo.
Ma all'incontro il Signore non vuol perdere le sue grazie cogl'ingrati, secondo quel che dice s. Bernardo: Numquid non perit, quod donatur ingratis? Pertanto il p. Avila ordinariamente dopo di aver celebrato tratteneasi per due ore in orazione a trattare con Gesù Cristo. Oh con quanta tenerezza ed affetto suol parlare Gesù Cristo all'anime dopo la comunione! e quante finezze d'amore suole usare con esse in tal tempo! Non sarebbe dunque gran cosa che ogni sacerdote si trattenesse almeno un'ora con Gesù Cristo dopo la messa. Almeno vi prego, sacerdote mio, a trattenervici per una mezz'ora; almeno per un quarto: ma oh Dio, è troppo poco un quarto! Disse s. Ambrogio: Verus minister altaris, Deo, non sibi, natus est. Se dunque il sacerdote, dal giorno ch'è stato ordinato non è più suo né del mondo né de' suoi parenti, ma è solo di Dio, a che dee spendere i giorni della sua vita, se non per Dio, e specialmente a stringersi con Gesù Cristo, dopo che l'ha ricevuto nella santa comunione?
In fine voglio dir (così di passaggio) una parola circa il punto, se sia più accetto a Dio il dir la messa, o il non dirla per umiltà. E dico che l'astenersene per umiltà è atto buono, ma non è il migliore. Gli atti d'umiltà danno a Dio un onor finito, ma la messa gli dà un onore infinito, essendo onore che gli vien dato da una persona divina. Si noti quel che dice il ven. Beda: Sacerdos non legitime impeditus celebrare omittens, quantum in eo est, privat ss. Trinitatem gloria, angelos laetitia, peccatores venia, iustos subsidio, in purgatorio existentes refrigerio, ecclesiam beneficio, et se ipsum medicina. Il glorioso s. Gaetano, stando in Napoli, ed avendo inteso che in Roma un cardinale suo amico, il quale prima era solito di celebrare ogni giorno, di poi per causa degli affari avea cominciato a tralasciar la messa, il santo, con tutto che correva allora il tempo canicolare, non volle lasciare anche con pericolo della vita di portarsi in Roma a persuader l'amico che proseguisse l'uso antico; ed in fatti andò e poi se ne ritornò in Napoli. Narrasi ancora del p. Giovanni Avila che andando egli un giorno a dir messa in un romitaggio, s'intese per lo strapazzo del viaggio talmente indebolito, che diffidando di poter giungere a quel luogo, da cui stava ancor lontano, già disponea di restarsi e tralasciar la messa; ma gli apparve allora Gesù Cristo in forma d'un pellegrino, gli scoprì il petto, e facendogli veder le sue piaghe, e specialmente quella del sagro costato, gli disse:Quando io era impiagato, era più stracco ed indebolito di te;e ciò detto, disparve. Così il p. Avila si fece animo, andò e celebrò la messa.

I NOSTRI CARI E IL PURGATORIO


I NOSTRI CARI E IL PURGATORIO

Dal Libro "Il peccato veniale" di don Andrea Beltrami, salesiano avviato agli onori degli Altari, citassi qui alcuni esempi riguardo al Purgatorio.
Un religioso francescano apparve ad un confratello lamentandosi perchè da molto tempo più non lo suffragava. Si scusò questi dicendo che lo pensava in Cielo da molto tempo. Un gri­do lamentevole diede allora il defunto e disse tre volte: Nessun può credere, nessun può crede­re, nessun può credere quanto minuzioso sia il Giudizio di Dio e quanto severa la punizione del­la Sua Giustizia.

Verso il 1850 a Foligno una suora morta in concetto di santità venne a chieder suffragi e mentre diceva: Ahi, quanto soffro! toccò colla palma della mano una porta del convento e vi lasciò impressa l'impronta d'essa come se fosse stata di ferro arroventato, riempiendo la stanza di fumo per il legno bruciato. La porta si conser­va pur ora.

Un religioso francescano comparve a un do­menicano dicendogli: Niente vi è sulla terra che possa dare un'idea delle mie pene! - E per dar­gliene una prova stese la mano su una tavola che tosto andò come in fiamme e vi rimase fonda la impronta carbonizzata.

Un domenicano polacco vide un dì, mentre pregava per i defunti, un'anima purgante che era come un carbone in mezzo ad una fornace ar­dente. Il religioso la interrogò se quel fuoco del Purgatorio era più penetrante che quello della terra. Quell'anima rispose: Ahimè! tutto il fuoco della terra, paragonato a quello del Purgatorio, è come un soffio-d'aria freschissima! - Riprese a dire il religioso: Vorrei farne una prova, a patto che ciò giovasse a farmi scontare un po' del Pur­gatorio che mi toccherà fare. - Ma l'anima repli­cò: Nessun mortale potrebbe sopportarne la mi­nima parte, senza morire all'istante, se Dio non lo sostiene. Se vuoi convincerti, stendi la mano. - Senza temere il religioso stese la mano e l'anima del Purgatorio vi lasciò cader sopra una sola goc­cia del suo sudore. Subito il religioso stramazzò al suolo con grida acute di spasimo. La goccia gli aveva forata la mano lasciandovi una gran piaga profonda. Una anno intero penò fra spasimi tre­mendi causa quella piaga e poi morì, mentre quel fatto, divenuto notorio, rianimò il fervore di tutti i monasteri di quelle contrade.

II ven. Bernardino da Busto racconta che un suo fratellino morto a otto anni, dovette scontare in Purgatorio le mancanze di devozione nelle sue preghiere del mattino e della sera. E il venerabile lo sentì spesso recitarle con gran fer­vore proprio lì dove da vivo le aveva dette con distrazione.

Nella storia dell'Ordine Cistercense si legge che una suora disse, senza necessità, qualche pa­rolina, sia pur sottovoce, in coro durante l'Uffi­zio; e un religioso perchè non aveva chinato il capo al Gloria Patri, come era regola. E compar­vero cinti di fiamme a chieder aiuto ai confratel­li.

Al grande San Martino comparve Vitalina, per la quale egli alla sepoltura non aveva voluto dir il requiem bensì il gloria, tanto era nota la sua vita virtuosa, ed essa gli disse di essere in Pur­gatorio perchè un venerdì si era acconciata i ca­pelli, contrariamente alla regola che lo vietava, essendo il dì della morte del Salvatore.

Un domenicano di gran pietà fu punito atrocemente per il soverchio amore che aveva avu­to per i suoi scritti; e un cappuccino per aver consumato, come cuoco del convento, un po' di legna più del bisogno.

San Pier Damiani dice che san Severino, Ve­scovo di Colonia, dovette scontare in Purgatorio la lieve mancanza di aver anticipato senza biso­gno la recita del Breviario.

S. Gregorio il Grande, Papa, narra il fatto che a lunga espiazione fu condannato in Purgato­rio il diacono Pascasio. Eppure la sua vita era sta­ta ben santa se la sua dalmatica, stesa sul feretro, aveva operato gran prodigi! Anche san Valerio vescovo di Augusta dovette fare del Purgatorio perchè da vecchio cercò di lasciare come succes­sore un nipote, che però era ottimo sacerdote. Ma Dio gli tolse subito il nipote con morte pre­matura e lui dal Purgatorio chiedeva pietà e mi­sericordia mentre il popolo lo invocava come santo.
Anche l'altro vescovo di Augusta, san Pelle­grino, dovette fare del Purgatorio.

In Fiandra apparve l'anima di un novizio cappuccino al suo maestro e guardiano e gli dis­se, tutto avvolto in fiamme, che per una ben leg­gera mancanza contro la Regola era da qualche ora in Purgatorio; ma Gesù gli faceva la grazia di venire a chiedere la benedizione del suo maestro e anche ciò che gli imponesse la penitenza che credeva, compiuta la quale poteva volare in Cie­lo. Lo benedì il Guardiano e gli disse che per pe­nitenza doveva restare in Purgatorio fino alla re­cita dell'ora canonica delle ore otto ossia Prima. Era passata di poco la mezzanotte colla recita del Mattutino e i monaci erano a riposo. Al sen­tire la penitenza impostagli, il novizio prese a ur­lar come un disperato, correndo per la Chiesa, e lamentandosi così: Padre snaturato! Cuore du­rissimo e senza pietà! Come mai volete punire tanto severamente un fallo che in vita avreste giudicato degno di ben piccola punizione? Ah voi ignorate la atrocità dei miei tormenti! Oh, penitenza imposta senza pietà! - E ciò dicendo sparì. Cercò di rimediare il Guardiano del Con­vento col far suonar la campana e riunire i mo­naci e far loro anticipare Prima, lor raccontan­do tutto, pur dubitando che potesse porta l'ef­fetto bramato.

Un santo religioso seppe dal suo Angelo Cu­stode che doveva presto morire e rimaner in Pur­gatorio solo finchè gli avessero detta una santa Messa di suffragio. Egli allora se la fece promet­ter da un Confratello. E quando preso dopo quel religioso morì, subito corse a celebrare per lui. Dopo Messa in sacrestia gli apparve il defunto raggiante di gioia che andava in Cielo, ma gli mosse un dolce lamento chè lo aveva lasciato un anno in Purgatorio prima di dirgli la Messa che gli aveva promesso. - Ti inganni, riprese egli, ap­pena spirato eri e io venni tosto a celebrare per te. II tuo corpo morto è ancor caldo - Ohimè! - disse allora il defunto - come son spaventevoli le pene del Purgatorio! Un'ora sola mi è parsa un anno!

Il gran Papa Innocenzo terzo famoso per o­pere di zelo meraviglioso, apparve a santa Lut­garda dopo morto, e di tra le fiamme le annun­ciò che il suo purgatorio doveva durare fino al giorno del Giudizio. San Bellarmino diceva di rabbrividire pensando a ciò e diceva che se a un santo Pontefice toccava questo, cosa sarebbe toccato agli altri?

Santa Perpetua mentre era in carcere prima del martirio si vide apparirle il fratellino defunto che ella pensava in Cielo e invece chiedeva il suo aiuto dal Purgatorio. Era morto di una terribile ulcera che gli aveva sfigurato il volto in vita, era morto a sette anni di età; eppure pativa ancora per espiare. Ardeva di sete e gli era vicina una va­sca di acqua freschissima, ma coll'orlo più alto che la persona sicchè non poteva giungervi.

Sant'Agostino temeva che la Madre, Santa Monica, fosse in Purgatorio, quando eran già pas­sati vent'anni dalla di lei morte.

La pia Contessa Metilde di Canossa alla morte del marito fece celebrare un milione di Messe, oltre le sue preghiere e penitenze, e fece gran elemosine ai poveri e ai monasteri per suf­fragare il consorte.

Nella vita del Beato Ugone si legge che un monaco apparve dopo quaranta anni di Purgato­rio dicendo che gliene restavan ancor dieci da fare.

In un castello - racconta lo scrittore Mog­giolo - un'anima vagava facendo gran rumori e gridando che le eran toccati mille anni di purga­torio tremendissimo.

Raccontano i diari della Compagnia di Ge­sù dell'anno 1597 che un bravo giovine, che era modello di virtù, e che in morte aveva avuto il privilegio di una apparizione della Madonna, e che aveva profetizzato l'ora della morte sua e an­che di un altro, a ben quattro anni di Purgatorio fu condannato. Ed un altro, pur distinto per san­tità, quattordici! Eppure son molti i suffragi che si fanno negli Ordini Religiosi per i membri de­funti!

Nel Libro del Rossignoli "Meraviglie sul Purgatorio" si legge che un pittore aveva in gio­ventù dipinto un quadro con delle nudità; ma se ne pentì e per riparare dipinse da allora in poi sempre devote immagini sacre, e l'ultimo quadro fu un gran lavoro che donò alla Chiesa dei Car­melitani che frequentava, affinchè lo suffragas­sero con Messe dopo la morte. Qualche d ì dopo la morte egli apparve a uno di quei religiosi scon­giurandolo di recarsi da quella persona che gli a­veva commissionato quel quadro osceno, e gli di­cesse che lo distruggesse subito, e gli annunciasse anche che Dio gli avrebbe tolto con morte pre­matura i due figli che aveva, causa dei peccato commesso. II quadro fu tosto bruciato, e anche la predizione si avverò.

Santa Margherita Maria Alacoque, mentre pregava per tre anime del Purgatorio, si sentì chieder da Gesù quale volesse ella per prima li­berare. La santa rispose che facesse il Salvatore quanto era di Sua maggior gloria. Ed egli liberò allora quella anima che era di una persona seco­lare, mentre le altre due eran di persone religio­se; e aggiunse che a Lui ispiravano ben poca compassione le persone religiose penanti in Pur­gatorio, perchè in vita avevano avuto tanti mez­zi per raggiungere il Cielo direttamente, e per propria colpa non lo avevano fatto.
La stessa Santa si vide apparire una conso­rella defunta che le domandava aiuto e deplorava di essersi in vita fatta dispensar con troppa facili­tà da certi esercizi della vita religiosa.

S. Luigi Bertrando vide apparirgli un reli­gioso circondato di fiamme che lo supplicò a perdonargli una parola pungente dettagli molti anni prima. Quella sola parola gli aveva fatto fare Purgatorio. E chiese una santa Messa per esser li­berato.

Una santa Religiosa vide in Purgatorio un povero prete le cui dita erano rose e divorate da ulcere schifosissime, perchè in vita aveva fatto il segno di Croce senza la dovuta devozione.
Il famoso padre Nieremberg della Compa­gnia di Gesù, tanto devoto delle anime purganti, mentre a Madrid una notte pregava per esse, si vide comparirgli un confratello, il quale, per aver talora parlato del prossimo con poca carità, ave­va la lingua di continuo bruciata da un ferro ro­vente. Ed era stata la sua devozione alla Madon­na che gli aveva ottenuto di apparir per chiedere aiuto.

Un abate benedettino fu condannato ad a­cerbo purgatorio perchè era stato di uno zelo troppo austero con i suoi monaci, che lui voleva tutti santi e perfetti insistendo con eccessiva se­verità. E comparve a Santa Lutgarda, sua peni­tente in vita, chiedendo aiuto. E la santa si fla­gellò e pregò e fece gran penitenze per lui. Ma con tutto ciò per molto tempo non riuscì a libe­rarlo. Solo quando ella offrì infine se stessa co­me vittima di espiazione, solo allora il monaco fu liberato e le annunciò che ben undici anni an­cora avrebbe egli dovuto star in Purgatorio se el­la non l'avesse aiutato.

Il beato Stefano, francescano, che soleva passar ogni notte lunghe ore davanti al SS. Sacra­mento, vide una volta seduto in coro un religioso incapucciato e gli chiese chi era. "Sono un reli­gioso di questo monastero - rispose egli - condan­nato dalla Divina Giustizia a fare qui il mio Pur­gatorio per le imperfezioni commesse qui nella recita del Divino Uffizio". Il beato Stefano allo­ra cominciò a pregar per lui e vide che ne aveva molto sollievo, e per molte notti avvenne questo, finchè una volta, dopo la recita del De profundis con gran gioia egli partì, chè la prova era finita.

Narra santa Margherita M. Alacoque: "Una volta vidi in visione una religiosa morta da un pezzo, e mi disse che soffriva tantissimo in Pur­gatorio, e per di più da un po' di tempo la Giu­stizia di Dio le aveva inflitto una pena incompa­rabile: la vista cioè di una sua parente precipi­tata nell'inferno. Dopo tal visione avuta in sogno mi svegliai ma così afflitta e con tali pene, da parermi che quell'anima mi avesse impresso le sue; e il corpo lo sentivo così rotto che potevo appena muoverlo. Io ne facevo poco conto di quel che credevo un sogno, ma quell'anima mi forzò a pensar ad essa, pressandomi così forte­mente, che proprio non mi dava riposo, dicen­domi di continuo: Pregate il Signore per me! OffriteGli i vostri patimenti, uniti a quelli di Gesù Cristo, per sollevare i miei. Datemi il meri­to di tutto quello che farete fino al primo vener­dì di maggio, in cui vi comunicherete per me. E io feci così, col permesso della mia Superiora. Ma la mia pena aumentò tanto; che mi oppri­meva senza lasciarmi prender alcun sollievo. La Superiora perciò mi fece andare a letto a prende­re un po' di riposo. Ma appena vi fui, vidi l'infeli­ce accanto a me che mi diceva: Eccoti nel tuo letto ben comoda! guarda me invece coricata in un letto di fiamme; ove soffro mali intollerabili! - E mi dava a vedere quell'orribile letto, che mi fa fremere ogni volta che ci penso. Infatti la par­te di sopra di esso era formata di punte acute, tutte infuocate, che le entravano nelle carni; e mi diceva che ciò era per cagione della sua pigri­zia e negligenza avuta nella osservanza delle rego­le, e per le sue infedeltà verso Dio... "Mi strazia­no il cuore con pettini di ferro ardenti - diceva poi - e questo è il mio più crudele dolore: e que­sto è a punizione dei pensieri di mormorazione e di disapprovazione, in cui mi sono trattenuta contro i miei Superiori. La mia lingua è mangia­ta da vermi, e ciò in punizione delle mie parole contro la carità; e per i mancamenti all'osservan­za del silenzio, ecco, vedi la mia bocca intera­mente ulcerata da piaghe! Ah, vorrei bene che tutte le anime consacrate a Dio mi vedessero in questi terribili tormenti! Se potessi far loro sen­tire la grandezza delle mie pene e quelle prepara­te a tutti coloro che vivono negligentemente nel­la loro vocazione, oh senza dubbio esse cammi­nerebbero con un ardore ben diverso nell'esatta osservanza delle loro regole, e si guarderebbero bene dal cadere nei difetti che ora fan me tanto soffrire! - Tutto ciò mi eccitava al pianto, e le monache, credendo che io avessi male, mi vole­van dare dei rimedi, ma allora quell'anima mi disse: - Si pensa bene a sollevare i tuoi mali; nes­suno invece pensava sollevare i miei! Ohimè! Ep­pure un giorno di esatto silenzio di tutto il Mo­nastero guarirebbe la mia bocca ulcerata! Un al­tro giorno passato nelle pratiche della carità, senza commettere alcun fallo, medicherebbe la mia lingua piagata! Un terzo giorno passato sen­za fare la minima mormorazione nè critica con­tro il prossimo, guarirebbe il mio cuore strazia­to!" - Quell'anima, dopo che le fu applicata la Comunione ch'io feci per lei, mi disse che i suoi orribili tormenti erano ben diminuiti, anche perchè aveva avuto la applicazione di una Messa in onore della Passione; ma aggiunse che doveva pe­rò rimanere ancora a lungo nel Purgatorio, e pa­tirvi le pene riserbate alle anime negligenti nel servizio di Dio. Così scrisse la Santa.
   Il di lei Padre spirituale, il beato Claudio de la Colombiere, gesuita, dovette stare in Purgato­rio fino al momento della sepoltura del suo cor­po, e ciò per qualche negligenza sua nel fare atti di amor a Dio.

Le sante compagne di Teresa d'Avila, Dot­tore di Santa Chiesa e Riformatrice del Carmelo, quasi tutte dovettero fare un po' di Purgatorio. E nelle moltissime visioni che la Santa ebbe sulla sorte futura delle anime, tre sole Ella dice di a­verne visto volare direttamente in Cielo. Una era del gran penitente San Pietro d'Alcantara, cele­bre per le sue mortificazioni. Eppure a quei tem­pi vivevano persone molto illustri per santità!

Santa Geltrude vide un giorno il demonio che con gran cura raccoglieva i fiocchi di lana che le suore del Monastero lasciavan cadere nel filare; e comprese che sarebbero stati tutti pre­senti al tribunale di Dio, come difetti contro la povertà da espiare in Purgatorio.

Sant'Alfonso racconta che un monaco non teneva conto dei pezzetti di pane avanzato a mensa e in morte si vide venirgli innanzi il diavo­lo con un sacco che li conteneva tutti e disse: Ci rivedremo tra breve al Tribunale di Dio! Que­sti tozzi di pane saran tanti carboni ardenti nel tuo purgatorio!


Dal libro "Le Divine parole" di P. Augusto Saudreau O.P.
Nostro Signore fece conoscere a Margherita da Cortona che i di lei genitori eran usciti dal Purgatorio. "Rallegrati, figlia, le disse, perchè o­ra tua madre fu liberata dal Purgatorio ove stette dieci anni". Riguardo al padre della Santa, le disse: "Ti annuncio che tuo padre, per cui mi pregasti con tanta istanza, è uscito dal Purgato­rio. Non aver inquietudine riguardo alla sua vita passata, che tu conosci; perchè le pene del Purga­torio son di varie specie, ed egli ha sofferto le più afflittive, perchè volevo liberarlo più presto purificandolo più terribilmente". - "Riguardo ai tre defunti per cui mi pregasti con insistenza, ti dirò che non sono dannati, contrariamente alla opinione di quelli che li giudicano. Però essi deb­bono sopportare supplizi così spaventosi, che, se non fossero visitati dagli angeli, si crederebbero dannati, tanto si trovano vicini a quelli che lo so­no. Per questo i loro eredi dovrebbero celebrare un grande anniversario, contribuendo largamente alla costruzione del nuovo oratorio del B. Fran­cesco, affinchè le lacrime che vi si verranno a versare mitighino le pene che quelli incorsero per l'ingiustizia del loro commercio. Per questo pec­cato la Mia Giustizia, esigerebbe ch'essi la subis­sero sin alla fin del mondo; nondimeno, in grazia delle tue preghiere, essi non vi resteranno che vent'anni. Compiuto questo tempo, la Madre Mia li libererà e li introdurrà nella eterna Gloria".

Pregava un dì suor Matilde per un curato che era morto di recente. Ella vide la sua anima rivestita di una grande dignità, però ancora in at­tesa della gloria del Cielo. Gli chiese il perchè di quella dignità, ed egli rispose: "Perchè amavo la solitudine e pregavo il Signore con gran rispe­tto". Domandò ancora Matilde: "E perchè non ve ne siete subito volato cogli angioli?" - Rispose egli allora: "La gloria che io devo ricevere perchè vissi puramente nello stato clericale è così gran­de che io non vi posso ancor pervenire".

Santa Brigida, pregava per un vecchio sacer­dote eremita di gran virtù, la cui salma, già por­tata in chiesa, aspettava la sepoltura. La Santissi­ma Vergine le apparve e le disse: "Sappi, figlia mia, che l'anima di questo eremita, amico mio, sarebbe entrata in Cielo subito dopo la sua mor­te, se avesse avuto nel morire un perfetto deside­rio di vedere e possedere Iddio. Questo fa sì che egli sia or trattenuto nel Purgatorio di desiderio ove non vi è altra pena che il desiderare di giun­gere a Dio; ma prima che il suo corpo sia nella tomba, l'anima sua sarà in Cielo".

S. Brigida vide un Re che era in Purgatorio; alla sua sinistra stava un demonio e alla sua de­stra un angelo. Si fece udire la voce del Giudice che diceva: "Tu o demonio non puoi avere que­st'anima, a motivo del suo splendore, e tu, o an­gelo, non la puoi toccare, a motivo della sua im­purità. Il giudizio vuole che tu, demonio, la puri­fichi, e che tu, angelo, la consoli, finchè sia giun­ta alla gloria eterna. E a te, o anima, è permesso di guardare l'angelo e di prendere consolazione da lui. Tu parteciperai al Sangue di Gesù Cristo, alle preghiere della Madre Sua e della Chiesa". E la Santa vide il demonio torturare orribilmente quell'anima e rinfacciarle i suoi peccati, ma la anima sollevava gli occhi verso l'angelo, non di­cendo nulla ma indicando col suo atteggiamento ch'ella era consolata da Lui e che presto ella sa­rebbe stata liberata dalle sue pene.

S. Geltrude, pregava per un frate defunto che era sempre stato tanto affezionato alla Con­gregazione; e il Signore le disse: "Io ho già, per le preghiere della Congregazione, ricompensato il suo amore in tre cose: la sua benevolenza natu­rale gli dava già una gran gioia intima di poter prestar servizio a qualcheduno; ora tutte quelle gioie che egli provava dopo qualche servizio nuo­vo, sono oggi riunite insieme e le sente tutte nel medesimo tempo nell'anima sua. Egli possiede ancora la gioia di tutti i cuori che egli ha rallegra­to coi suoi benefizi: quelli dei poveri per una li­mosina; quelli dei bambini per i regali loro fatti; quelli dei malati per un frutto o un sollievo loro dato. Infine egli ha più gioia perchè sa che tutte queste cose mi erano gradite. E se occorre anco­ra qualche cosa affinchè il suo sollievo sia per­fetto, questo non gli mancherà a lungo".

Santa Geltrude pregava per frate Ermanno, converso, morto di recente. Essendole stata mo­strata quest'anima, che era in Purgatorio, ella le domandò: "Per quale motivo, per quale mancan­za soffrite voi di più?" - ed egli: "Per la mia volontà propria: anche quando facevo del bene, preferivo farlo di mia testa anzichè seguire il pa­rere altrui. Io ne soffro adesso una così gran pe­na che, se si riunissero tutte le pene che oppri­mono il cuore di tutti gli uomini, non vi sarebbe nulla di simile a quello che io soffro!" - Geltrude allora prese a recitare il Padre nostro per lui, e giunta essa alle parole "perdonateci i nostri de­biti come noi li rimettiamo tali peccati" quella anima prese un'aria piena di ansietà e disse: "Quando ero nel mondo, peccai molto per non aver facilmente perdonato a quelli che avevano agito contro di me: serbavo per molto tempo un contegno serio con loro, e adesso, quando sento quelle parole, io soffro una vergogna intollerabi­le e piena di ansietà". Offrendosi per quest'ani­ma il santo sacrifizio, parve che ella ne fosse me­ravigliosamente allietata e glorificata. Geltrude chiese allora al Signore: "Quest'anima ha ora soddisfatto a tutto ciò che doveva soffrire?" Rispose il Signore: "Ha soddisfatto di più di quel che potresti tu ed altri pensare, tuttavia non è talmente purificata da poter essere ammessa a godere la mia presenza. Ma la sua consolazione e il suo sollievo vanno ora sempre più crescendo a misura che si prega per lei. Nondimeno le vostre preghiere non possono soccorrerla tanto pronta­mente quanto invece lo farebbero se ella non a­vesse commesso in vita quella mancanza di mo­strarsi dura e inesorabile e di non piegare la sua volontà a quella altrui, non volendo ammettere quello che essa non aveva nella volontà sua".

Apparve a santa Geltrude una defunta che aveva agli orecchi una dura cartilagine che biso­gnava raspare duramente con le unghie fino a che non fosse scomparsa. Ciò era in pena di ave­re essa ascoltato le mormorazioni e le maldicen­ze. Di più ella aveva la bocca internamente rico­perta d'una pelle spessa che le impediva di gusta­re le dolcezze divine; e questo ella lo soffriva per aver detto qualche maldicenza. Intorno alla qual cosa Geltrude ricevette dal Signore questa istru­zione: "Se quest'anima, che si era resa di ciò col­pevole per semplicità, e se ne era sovente penti­ta, aveva meritato tali castighi, quelli che com­mettono la medesima colpa con persistenza sof­frono assai di più; per loro quella pelle è guarnita di piccole punte che li pungono dalla lingua al palato e dal palato alla lingua, li lacerano doloro­samente e producono una detestabile marcia".

Suor Matilde pregava per l'anima di una persona che era stata uccisa, come viveva, nel peccato. Nostro Signore disse alla Sua Serva: "Sette anni di digiuni, e sette quarantene non sa­rebbero che una goccia d'acqua in un gran fuo­co. Costui starà trent'anni senza nulla ottenere da me, perchè per un orgoglio insensato, egli ha perduta la vita trent'anni prima del termine che gli era stato assegnato; bisogna che egli mi paghi codesti anni nelle pene!" Chiese allora Matilde: "E come si salvò egli?" Gesù rispose: "Quando egli udiva la mia parola, era commosso e sospira­va; io lo ricompensai permettendo che nei suoi ultimi momenti sospirasse pe' suoi peccati.

Santa Veronica Giuliani parla nel suo Dia­rio di "anime scordate" alle quali il Signore non applica, per un certo tempo nè le preghiere della Chiesa nè quei suffragi che per loro fan parenti o amici. Anche santa Geltrude aveva saputo che quando un'anima è in Purgatorio per avere com­messo certe colpe numerose e gravissime, ella non può essere aiutata dai suffragi comuni della Chiesa, e per un tempo fissato dalla Giustizia di Dio ella non riceve quella continua rugiada, quel balsamo pieno di soavità, quella rinfrescante be­vanda. La Santa aveva ottenuto che un'anima che le si raccomandava e che era in tal condizio­ne, fosse subito liberata da tale ostacolo. Ella Chiese al Signore con quali travagli e con quali preci si poteva ottener a queste anime sì disgra­ziate siffatta grazia; e Gesù rispose: "Tu non puoi fare alcun lavoro, nè alcuna preghiera che possa recare all'anima sì potente soccorso, per­chè ciò non può ottenersi tutto ad un tratto se non per effetto di un amore simile a quello che hai provato or ora. Ebbene: questo è un favore che non si può avere, salvo che io non lo dia. Pa­rimenti un tal soccorso non può essere accordato ad un'anima dopo la morte, salvo che ella non lo abbia meritato, per una grazia speciale, in que­sta vita. Sappi però che una tal pena può essere, a lungo andare, sollevata mediante preci e buone opere compiute con fedeltà dagli amici di questa anima. Questo tempo è più o meno lungo, a se­conda che i suoi amici vi mettano per lei più de­vozione e più amore, e anche secondo quant'ella meritò ciò durante la vita".

Maria Giuseppa Kumi, in un tempo in cui era in preda a prove spaventevoli, udì queste su­perne parole: "L'uomo deve piuttosto desiderare di restar sopra la terra con tutte le calamità, al fine di purificarvisi, anzichè passare un sol gior­no nelle fiamme del Purgatorio".

Essendo morta nel Monastero di Hefta una novizia ferventissima, santa Geltrude la vide co­me una vergine che andava a presentarsi al suo sposo, e il Signore presso di lei, che per virtù del­le sue cinque Piaghe dava a quell'anima gioie dol­cissime e la consolava con ogni sorta di carezze. Nondimeno la defunta appariva triste, e se ne meravigliava Geltrude. Ma il Signore le disse: - Or ella dalla mia presenza non riceve che le dolcezze della mia Umanità, che non possono pienamente consolarla. Con ciò io la ricompenso della devo­zione ch'ella ebbe per la mia Passione nei suoi ul­timi momenti; ma quando ella sarà poi piena­mente purificata delle negligenze della sua vita passata, allora godrà della presenza della mia Di­vinità e la gioia che ne riceverà, la consolerà sen­za riserva". Chiese poi Geltrude: "Come mai le negligenze della sua vita passata non furono tut­te riparate dalla devozione che ella manifestò ne­gli ultimi istanti?"' Gesù rispose: "Quando un uomo giunge all'estremo per la perdita delle sue forze, il suo mondo ordinario di vivere continua in certo qual modo sino alla fine, perchè egli non ha più la forza, ma solo la volontà. Se per un ef­fetto della mia gratuita Bontà, io gli do allora una buona volontà, un desiderio pio, egli ne ha ben il profitto, ma però non a tal punto da can­cellare tutte le macchie delle negligenze passate, come avrebbe potuto verificarsi se nella pienezza della sua salute e delle sue forze egli avesse posta tutta la sua buona volontà per riformarsi". Chie­se poi la Santa: "La vostra così tenera misericor­dia, o Signore, non potrebbe assolvere da tutte le sue negligenze quest'anima, a cui fin dalla sua in­fanzia Voi avevate dato un cuore affettuoso per tutti e una carità così benevola?" Rispose il Signore: "Io ricompenserò con sovrabbondanza l'affetto del suo cuore e la sua carità grande, pe­rò in forza della Mia Giustizia è d'uopo che sia cancellata ogni minima macchia di negligenza! ­E il Signore, facendo una carezza alla novizia, aggiunse: "Questa mia sposa è su questo punto perfettamente d'accordo colla Mia Giustizia. E allorchè essa sarà purificata, la gloria della Mia Divinità saprà ben ricompensarla!"

Francesca della Madre di Dio pregava inten­samente per una suora del suo convento, che ella vedeva soffrire in Purgatorio. Nostro Signore le fece vedere che aveva una cura speciale della sua liberazione, ispirando a molte persone di recitar preghiere e far buone opere per lei. E stimolava Francesca perchè pur lei facesse per la defunta lunghe discipline e portasse il cilizio. E le disse: "Io sono fedele; e siccome ella ebbe cura di ono­rarmi durante la sua vita, così io adesso ho cura di lei". Il dì seguente aggiunse: "Mi si offra tutto quello che si desidera fare per lei e io lo riceverò e glielo applicherò come se fosse compiuto di fatto". Qualche tempo dopo, alle replicate istan­ze di Francesca, Nostro Signore disse: "Io sono santo e la mia santità non può soffrire alcuna im­purità. Io ho maggior desiderio di liberarla che non ne abbiate voi e lei stessa; ma bisogna che si compia la mia ordinazione. Io eccito a pregare per lei. E Francesca vedeva questo divin Salvato­re come un gran Re che distribuisce ed applica tutti i suoi propri meriti e le opere buone che si fanno per ciascuna delle anime purganti secondo la fedeltà che Gli prestarono quando erano sulla terra. Vedeva altresì che Nostro Signore ha un così grande amore per quelle povere anime che, quando si prega per loro, ciò gli procura una sin­golare contentezza.

Disse un dì il Salvatore a S. Margherita da Cortona: "Fa' sapere ai Frati Minori che si ricor­dino delle Anime del Purgatorio! Sono esse così numerose che appena si può crederlo; e, purtrop­po, sono esse assai poco soccorse dai loro amici, e di' ai tuoi Confratelli che i religiosi che si im­mischiano negli affari del secolo, in Purgatorio soffriranno dei grandi supplizi".

Il Signore disse a Matilde: "Chiunque per compassione o per carità, intercede per un de­funto, ha parte a tutti i beni che si compiono in tutta la Chiesa per quel morto, e nel giorno della sua partenza dal mondo, egli li troverà tutti pre­parati per il sollievo e per la salute dell'anima sua".

Venne a morire una persona che durante la sua vita aveva pregato molto per le anime del Purgatorio, ma che per fragilità umana era stata negligente nell'obbedienza, preferendo a questa virtù le austerità. S. Geltrude la vide fregiata di vari ornamenti, ma con un carico di pietre così pesante che ci vollero parecchie persone per con­durla davanti al Signore. Quelle conduttrici - fu detto alla Santa - erano le anime che ella aveva liberato dal Purgatorio; quegli ornamenti erano le preghiere che aveva fatto per esse; e le pietre così pesanti eran le sue colpe di disobbedienza. Disse allora il Signore: "Queste anime, spinte dalla riconoscenza, non mi lasciano farla passare per il Purgatorio ordinario, però bisogna pure che ella sia purificata delle sue colpe di disobbe­dienza e di suo proprio giudizio".

Al fine di eccitare lo zelo di S. Geltrude in favore delle anime del Purgatorio, il Signore le disse: "Supponi un Re che ritenesse in prigione alcuni dei suoi più grandi amici e che li rimette­rebbe volentieri in libertà se la giustizia non glie­lo impedisse; spinto dal desiderio della loro libe­razione e, vedendo che da se stessi non possono contribuirvi, supponi che questo Re accettasse con gioia che qualcuno pagasse, con oro o argen­to o in altro modo, ciò che fosse necessario per il saldo del loro debito. Ebbene: in questo modo io accetto tutto ciò che mi vien offerto per la li­berazione delle anime che riscattai col mio pre­zioso Sangue; allora io ho l'occasione di libe­rarle dalle loro pene e di condurle alle gioie che son loro preparate da tutta l'eternità". Chiese poi Geltrude: "Quanto Vi è gradita, o Signore, la pratica devota della recita del Salterio in uso qui?" Egli rispose: "Essa mi è così accetta come se, coi loro denaro, riscattassero me stesso dalla schiavitù, ogni volta che un'anima è liberata dal­le loro preghiere. E certissimamente io ciò glielo contraccambierò a tempo opportuno nella mi­sura che comporta la Onnipotenza della Mia li­berale Bontà".

La notte di Pasqua S. Geltrude chiedeva al Signore che liberasse dal Purgatorio le anime che l'avevan amato d più, e a tal fine disse: "In unio­ne alla Vostra Innocentissima Passione vi offro tutto ciò che il mio cuore e il mio corpo hanno sofferto nelle mie continue infermità". Il Signo­re le fece allora vedere la moltitudine di anime allora liberate e disse: "Tutte te le dono in dote al tuo amore e si vedrà eternamente in Cielo che furon liberate, per le tue preci, e ciò sarà per te un eterno gaudio in faccia di tutti i Miei Santi.

LAUS DEO ET MARIAE


Lascia consumare dall'Amore lo stame di tua vita. Riversa il tuo amore sul Purgatorio per aprire le porte del Cielo a chi ami. Te beata se saprai amare sino all'incenerimento di ciò che è debole e che peccò. Allo spirito purificato dalla immolazione d'amore vengono incontro i Serafi­ni e gli insegnano il "Sanctus" eterno da cantare ai piedi del mio trono".


Dal libro "Invito all'amore"; messaggi di N.S. a Jo­sepha Menendez (1890 - 1923) ed. Lice

GLI INSEGNAMENTI DEL PURGATORIO

Josepha non è mai discesa nel purgatorio, ma ha visto ed udito numerose anime venute a solleci­tare le sue preghiere, o a dirle che, grazie alle sue sofferenze, erano sfuggite all'inferno.
Queste anime, in generale, si accusavano umilmente delle cause del loro soggiorno in purga­torio (Biografia, cap. V 4 marzo - 15 aprile 1922). Qui è aggiunto qualche particolare:

«Avevo la vocazione e la perdetti per una cat­tiva lettura: avevo anche disprezzato e buttato via il mio scapolare!» 27 luglio 1921).
«Stavo immersa in una grande vanità e sul punto di maritarmi. Nostro Signore si è servito di un mezzo assai duro per sbattermi le porte dell'infer­no». (10 aprile 1921).
«La mia vita religiosa è stata priva di fer­vore!».
«La mia vita religiosa è stata lunga, ma ho passato i miei ultimi anni più a curarmi ed a soddi­sfarmi che ad amare N. Signore. Grazie ai meriti di un sacrifizio che tu hai fatto ho potuto morire nel fervore e devo anche a te di non trascorrere lunghi anni in purgatorio come avrei meritato. L'im­portante non è l'entrata in religione... ma l'entrata nell'eternità» (7 aprile 1922).

«Da un anno e tre mesi sono in purgatorio. Senza i tuoi atti dovrei stare per lunghi anni anco­ra! Una persona del mondo ha meno responsabili­tà se non ne profitta! Ma quante anime religiose si rendono poco conto del come si espiano qui le proprie colpe! La lingua orribilmente tormentata espia le mancanze al silenzio... la gola riarsa espia le colpe contro la carità... e l'angustia di questa prigione le ripugnanze ad obbedire... Nel mio Ordine poche sono le comodità e piccoli i sollievi, ma si può sempre giungere a procurarse­ne ...e quando qui occorre espiare la più piccola immortificazione!... Frenare gli sguardi per non ce­dere alla curiosità può costare un grande sforzo, ma qui... quale tormento soffrono gli occhi impedi­ti di vedere Dio!» (10 aprile 1922).

Un'altra religiosa si accusa di mancanza con­tro la carità e di mormorazioni all'elezione di una sua superiora.
«Sono stata in purgatorio fino ad ora... per­chè durante la mia vita religiosa ho parlato molto e con poca discrezione. Ho comunicato spesso le mie impressioni e i miei lamenti e queste comuni­cazioni sono state causa di molte mancanze di carità per molte mie consorelle».
«Si profitti bene di questa lezione - aggiunge­va la S. Vergine presente a questa apparizione - perchè molte anime urtano contro questo scoglio».
E nostro Signore sottolineava ancora tale am­monimento importante con queste parole: «Quest'anima si trova in purgatorio per le sue mancanze al silenzio, poichè questo difetto ne produce molti altri: anzitutto la disobbedienza alla re­gola: in secondo luogo in questi difetti vi sono spesso mancanze alla carità ed allo spirito religio­so, ricerche di soddisfazione personale, le espan­sioni del cuore che non convengono alle anime religiose e questo senza contare che non solo si è in colpa con noi stessi, ma con sé si inducono alla mancanza una o più altre persone.
Perciò quest'anima è ora in purgatorio e si consuma dal desiderio di venire a me» (22 feb­braio 1923).

«Sono in purgatorio perchè non ho avuto ab­bastanza cura delle anime che Dio mi aveva affida­to; non sapevo abbastanza ciò che valgono le ani­me, e la dedizione che questo prezioso deposito esige» (agosto 1922).


«Sono stata in purgatorio un po' meno di un'ora e mezza per espiare alcune mancanze di fiducia in Dio. È vero che l'ho sempre amato mol­to: ma con un po' di timore. È anche vero che il giudizio di un'anima religiosa è rigoroso, poichè non è il nostro sposo, ma il nostro Dio che ci giudica. Tuttavia occorre mentre si vive avere un'immensa fiducia nella sua misericordia e crede­re alla sua bontà per noi. Quante grazie perdono le anime religiose che non hanno abbastanza fidu­cia in lui!» (settembre 1922).

«Sono in purgatorio perchè non ho saputo trattare le anime che Gesù mi affidava con la cura che meritavo... Mi sono lasciata condurre da senti­menti umani e naturali, senza vedere abbastanza Dio, come devono sempre fare le superiore, nelle anime che mi erano affidate, poichè, se è ve­ro che ogni religiosa deve vedere Dio N. Signore nel­la superiora, è pur vero che la superiora deve ve­derlo nelle sue figlie...».
«Vi ringrazio che avete contribuito a liberarmi dalle pene del purgatorio...».
«Oh! se le religiose sapessero fin dove può condurre un impulso sregolato... come si appliche­rebbero a dominare la loro natura ed a reprimere le passioni!» (aprile 1923).

«Il mio purgatorio sarà lungo poichè non ho accettato la volontà di Dio, nè ho fatto con suffi­ciente rassegnazione il sacrificio della mia vita du­rante la malattia».
«La malattia è una grande grazia di purifica­zione, è vero: ma se non si fa attenzione può esse­re anche occasione di allontanarsi dallo spirito reli­gioso... di dimenticare che si sono fatti i voti di povertà, castità, obbedienza e che si è tutto amo­re, si! ma Egli è pure tutto giustizia!» (novembre 1923).


Dal libro: "l quaderni del 1943" (Scritti di Ma­ria Valtorta 1961) - Edizioni Pisani
Isola del Liri, 1976

17 ottobre 1943 Dice Gesù
"Ti voglio spiegare cosa è e in cosa consiste il Purgatorio. E te lo spiego Io, con forma che urterà tanti che si credono depositari della cono­scenza dell'al di là e non lo sono.
Le anime immerse in quelle fiamme non soffrono che per l'amore.
Non immeritevoli di possedere la Luce, ma neppure degne di entrarvi subito, nel Regno di Luce, esse, al loro presentarsi a Dio, vengono in­vestite dalla Luce. E' una breve, anticipata beatitudine, che le fa certe della loro salvezza e le fa cognite di cosa sarà la loro eternità ed e­sperte di ciò che commisero verso la loro anima, defraudandola di anni di beata possessione di Dio. Immerse poi nel luogo di purgazione, sono investite dalle fiamme espiatrici.
In questo, coloro che parlano del Purgato­rio dicono giusto. Ma dove non sono nel giusto è nel volere applicare nomi diversi a quelle fiam­me.
Esse sono incendio d'Amore. Esse purifica­no accendendo le anime d'amore. Esse danno l'Amore perchè, quando l'anima ha raggiunto in esse quell'amore che non raggiunse in terra, ne viene liberata e si congiunge all'Amore in Cielo. Ti pare dottrina diversa dalla cognita, vero?
Ma rifletti.
Cosa vuole il Dio Uno e Trino per le anime da Lui create? Il Bene.
Chi vuole il Bene per una creatura, che sen­timenti ha per la creatura? Sentimenti d'amore. Quale è il comandamento primo e secondo, i due più importanti, quelli che Io ho detto non esservene più grandi ed essere in quelli la chiave per raggiungere la vita eterna? E' il comanda­mento d'amore: "Ama Dio con tutte le tue for­ze, ama il prossimo come te stesso".
Per bocca mia e dei profeti e dei santi, cosa vi ho detto infinite volte? Che la Carità è la più grande delle assoluzioni. La Carità consuma le colpe e le debolezze dell'uomo, perchè chi ama vive in Dio, e vivendo in Dio poco pecca, e se pecca subito si pente, e per chi si pente vi è il perdono dell'Altissimo.
A cosa mancarono le anime? All'Amore. Se avessero molto amato, avrebbero commesso po­chi e lievi peccati, connessi alla debolezza e im­perfezione vostra. Ma non avrebbero mai rag­giunto la pertinacia cosciente nella colpa anche veniale. Si sarebbero studiate di non addolorare il loro Amore, e l'Amore, vedendo la loro buona volontà, le avrebbe assolte anche delle venialità commesse.
Come si ripara, anche sulla terra, una col­pa? Espiandola e, se appena si può, attraverso il mezzo con cui si è commessa. Chi ha danneggia­to, restituendo quanto ha levato con prepoten­za. Chi ha calunniato, ritrattando la calunnia, e così via.
Ora, se questo vuole la povera giustizia u­mana, non lo vorrà la Giustizia santa di Dio? E quale mezzo userà Dio per ottenere riparazione? Se stesso, ossia l'Amore, ed esigendo amore. Questo Dio che avete offeso, e che vi ama paternamente, e che vuole congiungersi con le sue creature, vi porta ad ottenre questo congiun­gimento attraverso a Se stesso.
Tutto si impernia sull'Amore, Maria, fuor­chè per i "morti" veri: i dannati. Per essi "mor­ti" è morto anche l'Amore. Ma per i tre regni - quello più pesante: la Terra; quello in cui è abo­lito il peso della materia ma non dell'anima gra­vata dal peccato: il Purgatorio; e infine quello dove gli abitatori di esso condividono con il Pa­dre loro la natura spirituale che li affranca da o­gni gravame - il motore è l'Amore. E' amando sulla terra che lavorate per il Cielo. E' amando nel Purgatorio che conquistate il Cielo che in vi­ta non avete saputo meritare. E' andando in Pa­radiso che godete il Cielo.
Quando un'anima è nel Purgatorio non fa che amare, riflettere, pentirsi alla luce dell'A­more che per lei ha acceso quelle fiamme, che già sono Dio, ma le nascondono Dio per sua punizione.
Ecco il tormento. L'anima ricorda la visio­ne di Dio avuta nel giudizio particolare. Si porta seco quel ricordo e, poichè l'avere anche solo in­travisto Iddio è gaudio che supera ogni creata co­sa, l'anima è ansiosa di rigodere di quel gaudio.
Quel ricordo di Dio e quel raggio di luce che l'ha investita al suo comparire davanti a Dio, fanno sì che l'anima "v e d a" nella loro vera entità le mancanze commesse contro il suo Bene, e que­sto "v e d e r e" costituisce, insieme al pensiero che per quelle mancanze si è volontariamente in­terdetto il possesso del Cielo e l'unione con Dio per anni o secoli, costituisce la sua pena purga­tiva.
E' l'amore, la certezza di avere offeso l'A­more, il tormento dei purganti. Più un'anima nella vita ha mancato e più è come accecata da spirituali cataratte, che le rendono più difficile il conoscere e raggiungere quel perfetto pentimen­to d'amore che è il coefficiente primo della sua purgazione e dell'entrata nel Regno di Dio. L'a­more è appesantito nel suo vivere e reso tardo quanto più un'anima lo ha oppresso con la col­pa. Man mano che per potere dell'Amore essa si monda, si accelera la sua risurrezione all'amore e, di conseguenza, la sua conquista dell'Amore, che si completa nel momento in cui, finita l'e­spiazione e raggiunta la perfezione dell'amore, essa viene ammessa nella Città di Dio.
Bisogna molto pregare perchè queste ani­me, che soffrono per raggiungere la Gioia, siano veloci nel raggiungere l'amore perfetto che le as­solve e le unisce a Me. Le vostre preghiere, i vo­stri suffragi, sono altrettanti aumenti di fuoco di amore. Aumentano l'ardore. Ma - oh! beato tor­mento! - aumentano anche la capacità di amare. Accelerano il processo di purgazione. Innalzano a gradi sempre più alti le anime immerse in quel fuoco. Le portano alle soglie della Luce. Aprono le porte della Luce, infine, e introducono l'ani­ma in Cielo. Ad ognuna di queste operazioni, provocate dalla vostra carità per chi vi ha prece­duto nella seconda vita, corrisponde un sopras­salto di carità per voi. Carità di Dio che vi ringra­zia di provvedere ai suoi figli penanti, carità dei penanti che vi ringraziano di adoperarvi per immetterli nel gaudio di Dio. Mai come dopo la morte della terra i vostri cari vi amano, perchè il loro amore è ormai infuso della Luce di Dio e a questa Luce essi comprendono come voi li amate e come avrebbero dovuto amarvi.
Non possono più darvi parole che invocano perdono e danno amore. Ma le dicono a Me per voi, ed Io ve le porto, queste parole dei vostri Morti, che ora vi sanno vedere e amare come si deve. Ve le porto insieme alla loro richiesta di a­more e alla loro benedizione. Già valida sin dal Purgatorio, perchè già infusa dell'accesa Carità che li arde e purifica. Perfettamente valida, poi, dal momento in cui, liberati, verranno incontro a voi sulle soglie della Vita o si riuniranno a voi nella stessa, se già voi li avete preceduti nel Re­gno d'Amore.
Fida in Me, Maria, Io lavoro per te e per i tuoi più cari. Solleva il tuo spirito. Vengo per darti la gioia. Fidati di Me".

21 ottobre 1943 Dice Gesù:

"Riprendo l'argomento delle anime accolte nel Purgatorio.
Se non hai afferrato il senso completo delle mie parole, non importa. Queste sono pagine per tutti, perchè tutti hanno nel Purgatorio degli es­seri cari e quasi tutti, con la vita che conducono, sono destinati a sostare in quella dimora. Per gli uni e per gli altri continuo dunque.
Ho detto che le anime purganti non soffro­no che per l'amore ed espiano con l'amore. Ecco le ragioni di questo sistema di espiazione.
Se voi, uomini irriflessivi, considerate atten­tamente la mia Legge nei suoi consigli e nei suoi comandi, vedete che essa è tutta imperniata sul­l'amore. Amore verso Dio, amore verso il prossi­mo.
Nel primo comandamento Io, Dio, mi im­pongo al vostro amore riverenziale con tutta la solennità che è degna della mia Natura rispetto alla vostra nullità: - Io sono il Signore Iddio tuo".
Troppe volte ve ne dimenticate, o uomini che vi credete dèi e, se non avete in voi uno spi­rito vivificato dalla grazia, altro non siete che polvere e putredine, animali che all'animalità u­nite l'astuzia dell'intelligenza posseduta dalla Be­stia, che vi fa commettere opere da bestie, peg­gio che da bestie: da demoni.
Ditevelo mattina e sera, ditevelo a mezzo­giorno e a mezzanotte, ditevelo quando mangia­te, quando bevete, quando andate a dormire, quando vi svegliate, quando lavorate, quando ri­posate, ditevelo quando amate, ditevelo quando contraete amicizie, ditevelo quando comandate e quando ubbidite, ditevelo sempre: "Io non sono Dio. Il cibo, la bevanda, il sonno, non sono Dio. Il lavoro, il riposo, le occupazioni, le opere del genio, non sono Dio. La donna, o peggio: le don­ne, non sono Dio. Le amicizie non sono Dio. I superiori non sono Dio. Uno solo è Dio: è il Si­gnore mio che mi ha dato questa vita perchè con essa mi meriti la Vita che non muore, che mi ha dato vesti, cibi, dimore, che mi ha dato il lavoro perchè mi guadagni la vita, la genialità perchè te­stimoni d'essere il re della terra, che mi ha dato capacità d'amare e creature da amare 'con santi­tà' e non con libidine, che mi ha dato il potere, l'autorità perchè ne faccia mezzo di santità e non di dannazione. Io posso divenire simile a Lui poichè Egli l'ha detto: 'Voi siete dèi', ma solo se vivo la sua Vita, ossia la sua Legge, ma solo se vi­vo la sua Vita, ossia il suo Amore. Uno solo è Dio: io sono il suo figlio e suddito, l'erede del suo regno. Ma se diserto e tradisco, se mi creo un regno mio in cui voglio umanamente essere re e dio, allora perdo il Regno vero e la mia sorte di figlio di Dio decade e si degrada a quella di figlio di Satana, poichè non si può contemporanea­mente servire l'egoismo e l'amore, e chi serve il primo serve il Nemico di Dio e perde l'Amore, ossia perde Dio".
Levate dalla vostra mente e dal vostro cuo­re tutti i bugiardi dèi che vi avete messi, comin­ciando dal dio di fango che siete voi quando non vivete in Me. Ricordatevi cosa mi dovete per tut­to quanto vi ho dato - e più vi avrei dato se voi non aveste legato le mani al vostro Dio col vo­stro metodo di vita - cosa vi ho dato per la vita di ogni giorno e per la vita eterna. Per questa, Dio vi ha dato suo Figlio, acciò fosse immolato come agnello senza macchie lavasse e col suo Sangue i vostri debiti e non facesse così ricadere, come nei tempi mosaici, le iniquità dei padri sui figli sino alla quarta generazione dei peccatori, che sono "coloro che mi odiano" poichè il pec­cato è offesa a Dio e chi offende odia.
Non alzate altri altari a dèi non veri. Abbia­te, e non tanto sugli altari di pietra, ma sull'alta­re vivo del vostro cuore, solo ed unico il Signore Iddio vostro. A Lui servite e porgete culto vero di amore, di amore, di amore, o figli che non sa­pete amare che dite, dite, dite parole di preghie­ra, parole soltanto, ma non fate dell'amore la vo­stra preghiera, l'unica che Dio gradisca.
Ricordate che un vero palpito d'amore, che salga come nube di incenso dalle fiamme del vo­stro cuore innamorato di Me, ha per Me un valo­re infinite volte più grande di mille e mille pre­ghiere e cerimonie fatte col cuore tiepido o fred­do. Attirate la mia Misericordia col vostro amo­re. Se sapeste come è attiva e grande la mia Mise­ricordia con chi mi ama! E' un'onda che passa e lava quanto in voi costituisce macchia. Vi dà candida stola per entrare nella Città santa del Cielo, nella quale splende come sole la Carità dell'Agnello che si è fatto immolare per voi. Non usate il Nome santo per abitudine o per dare forza alla vostra ira, per sfogare la vo­stra impazienza, per corroborare le vostre male­dizioni. E soprattutto non applicate il termine "dio" a creatura umana che amate per fame di sensi o per culto di mente. A Uno solo va detto quel Nome. A Me. E a Me deve essere detto con amore, con fede, con speranza. Allora quel No­me sarà la vostra forza e la vostra difesa, il culto di questo Nome vi giustificherà, perchè chi opera mettendo a sigillo delle sue azioni il Nome mio non può commettere azioni malvagie. Parlo di chi agisce con verità, non dei mentitori che cer­cano coprire se stessi e le loro opere col fulgore del mio Nome tre volte santo. E chi cercano di ingannare? Io non sono soggetto ad inganno, e gli uomini stessi, a meno che non siano dei mala­ti di mente, dal confronto delle opere dei menti­tori col loro dire comprendono che sono dei falsi e ne provano sdegno e schifo.
Voi che non sapete amare altra che voi stes­si e il vostro denaro e vi pare perduta ogni ora che non sia dedicata ad accontentare la carne o a impinguare la borsa, sappiate, nel vostro godere o lavorare da ingordi e da bruti, mettere una so­sta che vi dia modo di pensare a Dio, alle sue bontà, alla sua pazienza, al suo amore. Dovreste, lo ripeto, avermi sempre presente qualunque co­sa facciate; ma poichè non sapete operare con­servando lo spirito fisso in Dio, cessate una volta alla settimana, di operare per pensare unicamen­te a Dio.
Questa, che vi può parere legge servile, è invece prova di come Dio vi ama. Lo sa il vostro buon Padre che siete macchine fragili che si usu­rano nell'uso continuo e ha provveduto alla vo­stra carne, anche a quella poichè è essa pure ope­ra sua, dandovi comando di farla riposare un giorno su sette per dare ad essa giusto ristoro. Dio non vuole le vostre malattie. Foste rimasti suoi figli, proprio suoi, da Adamo in poi, non a­vreste conosciuto le malattie. Sono queste frut­to delle vostre disubbidienze a Dio, insieme al dolore e alla morte; e come fungaia sono nate e nascono sulle radici della prima disubbidienza: quella d'Adamo, e rampollano le une dalle altre, tragica catena, dal germe che vi è rimasto in cuo­re, dal veleno del Serpente maledetto che vi dà febbri di lussuria, di avarizia, di gola, di accidia, di imprudenze colpevoli.
Ed è imprudenza colpevole il voler forzare il vostro essere a continuo lavoro per il guada­gno, come lo è il volere supergodere della gola o del senso col non contentarvi del cibo necessario alla vita e della compagna necessaria alla conti­nuazione della specie, ma saziandovi oltre misura come animali da pantano e spossandovi e avvi­lendovi come - anzi, non come bruti, i quali non sono simili ma superiori a voi nel connubio al quale vanno obbidendo a leggi di ordine - ma avvilendovi peggio dei bruti: come dei demoni che disubbidiscono alle leggi sante dell'istinto retto, della ragione e di Dio.
II vostro istinto voi lo avete corrotto ed es­so ormai vi conduce a preferire pasti corrotti, formati da lussurie nelle quali profanate il corpo vostro: opera mia; l'anima vostra: capolavoro mio; e uccidete embrioni di vite negandole alla vita, perchè le sopprimete anzi tempo volonta­riamente o attraverso le vostre lebbre che sono veleno mortale alle vite sorgenti.
Quante sono le anime che un vostro appe­tito sensuale chiama dal Cielo e alle quali voi chiudete poi le porte della vita? Quante quelle che giungono appena al termine, e vengono alla luce morenti o già morte, e alle quali precludete il Cielo? Quante quelle alle quali voi imponete un peso di dolore, che non sempre possono por­tare con una esistenza malata, marcata da morbi dolorosi e vergognosi? Quante quelle che non possono resistere a questa sorte di martirio non voluto, ma apposto da voi come un marchio a fuoco sulla carne, che avete generato senza ri­flettere che, quando si è corrotti come sepolcri pieni di putredine, non è più lecito generare dei figli per condannarli al dolore e al ribrezzo della società? Quante quelle che, non potendo resiste­re a questa sorte, si suicidano?
Ma che credete voi? Che Io le dannerò per questo loro delitto contro Dio e se stesse? No. Prima di loro, che peccano contro due, vi siete voi che peccate contro tre: contro Dio, contro voi stessi e contro gli innocenti che generate per portarli alla disperazione. Pensatelo. Pensatelo bene. Dio è giusto, e se pesa la colpa pesa anche le cause della colpa. E in questo caso il peso del­la colpa alleggerisce la condanna del suicida, ma carica la condanna di voi, veri omicidi delle vostre creature disperate.
In quel giorno di riposo che Dio ha messo nella settimana, e vi ha dato l'esempio suo di ri­poso - pensate, Lui: l'Agente infinito, il Gene­rante che da Se stesso si genera continuamente, Lui vi ha mostrato il bisogno di riposo, per voi lo ha fatto, per esservi Maestro nella vita. E voi, tra­scurabili potenze, volete non tenerne conto qua­si foste più potenti di Dio! -. In quel giorno di riposo per la vostra carne che si spezza sotto fati­ca eccessiva, sappiate occuparvi dei diritti e dei doveri dell'anima. Diritti: alla Vita vera. L'anima muore se è tenuta separata da Dio. La domenica datela all'anima vostra - poichè non sapete farlo tutti i giorni e tutte le ore - perchè in essa do­menica essa si nutra della Parola di Dio, si saturi di Dio, per avere vitalità durante gli altri giorni di lavoro. Così dolce è il riposo nella casa del pa­dre ad un figlio che il lavoro ha tenuto lontano per tutta la settimana! E perchè voi questa dol­cezza non la date all'anima vostra? Perchè insoz­zate questo giorno con crapule e labidini, invece di farne una terza luce per beatitudine vostra di ora e di poi?
E, dopo l'amore per chi vi ha creato, l'amo­re a chi vi ha generato e a chi vi è fratello. Se Dio è Carità, come potete dire di essere in Dio se non cercate di somigliarlo nella carità? E potete dire di somigliarlo se amate Lui solo e non gli altri creati da Lui? Sì, che Dio va amato più di tutti, ma non può dire di amare Dio chi spregia di amare coloro che Dio ama.
Amate dunque per primi quelli che per a­vervi generato sono i creatori secondi del vostro essere sulla terra. Il Creatore supremo è il Signo­re Iddio, che forma le vostre anime e, padrone come è della Vita e della Morte, permette il vo­stro venire alla vita. Ma creatori secondi sono co­loro che di due carni e di due sangui fanno una nuova carne, un nuovo figlio di Dio, un nuovo futuro abitante dei Cieli. Perchè è per i Cieli che siete creati, perchè è per i Cieli che dovete vivere sulla terra.
Oh! sublime dignità del padre e della ma­dre! Episcopato santo, dico con parola ardita ma vera, che consacra un nuovo servo a Dio col cri­sma di un amore coniugale, lo lava col pianto della genitrice, lo veste col lavoro del padre, lo rende portatore della Luce infondendo la cono­scenza di Dio nelle menti pargole e l'amore di Dio nei cuori innocenti. In verità vi dico che di poco inferiori a Dio sono i genitori solo per il fatto di creare un nuovo Adamo. Ma che poi, quando i genitori sanno fare del nuovo Adamo un nuovo piccolo Cristo, allora la loro dignità è appena di un grado inferiore a quella dell'Eter­no.
Amate dunque di amore unicamente infe­riore a quello che dovete avere per il Signore Id­dio vostro, il padre e la madre vostra, questa du­plice manifestazione di Dio che l'amore coniuga­le fa divenire una "unità". Amatela perchè la sua dignità e le sue opere sono le più simili a quelle di Dio per voi: sono essi genitori i vostri terreni creatori, e tutto in voi li deve venerare per tali. E amate la vostra prole, o genitori. Ricorda­te che ad ogni dovere corrisponde un diritto e che, se i figli hanno il dovere di vedere in voi la dignità più grande dopo Dio e di darvi l'amore più grande dopo quello totale che va dato a Dio, voi avete il dovere di essere perfetti per non smi­nuire il concetto e l'amore dei figli verso di voi. Ricordatevi che generare una carne è mol­to, ma è niente nello stesso tempo. Anche gli a­nimali generano una carne e molte volte la cura­no meglio di voi. Ma voi generate un cittadino dei Cieli. Di questo vi dovete preoccupare. Non spegnete la luce delle anime dei figli, non per­mettete che la perla dell'anima dei figli vostri prenda abitudine al fango, perchè essa abitudine non la spinga a sommergersi nel fango. Date a­more, amore santo ai figli vostri, e non stolte cu­re alla bellezza fisica, alla cultura umana. No. E' la bellezza della loro anima, l'educazione del lo­ro spirito, quella che dovete curare.
La vita dei genitori è sacrificio come è quel­la dei sacerdoti e dei maestri convinti della loro missione. Tutte e tre le categorie sono di "for­matori" di ciò che non muore: lo spirito, o la psiche, se più vi piace. E dato che lo spirito sta alla carne nella proporzione di 1000 a 1, consi­derate a quale perfezione dovrebbero attingere genitori, maestri e sacerdoti, per essere veramen­te quali dovrebbero. Dico "perfezione". Non ba­sta "formazione". Devono formare gli altri, ma per formarli non deformi devono modellarli su un perfetto modello. E come possono pretender­lo se sono imperfetti essi stessi? E come possono divenire perfetti essi stessi se non si modellano sul Perfetto che è Dio? E cosa può rendere capa­ce l'uomo di modellarsi su Dio? L'amore. Sem­pre l'amore. Siete ferro grezzo e informe. L'amo­re è la fornace che vi purifica e scioglie e vi fa fluidi per colare attraverso le vene soprannaturali nella forma di Dio. Allora sarete i "formatori" altrui: quando vi sarete formati sulla perfezione di Dio.
Molte volte i figli rappresentano il fallimen­to spirituale dei genitori. Si vede attraverso ai fi­gli ciò che valevano i genitori. Chè, se è vero che talora da genitori santi nascono figli depravati, questa è l'eccezione. Generalmente uno dei geni­tori almeno non è santo e, dato che vi è più faci­le copiare il male che il bene, il figlio copia il men buono. E' anche vero che talora da genitori depravati nasce un figlio santo. Ma anche qui è difficile che ambedue i genitori siano depravati. Per legge di compenso il più buono dei due è buono per due e con preghiere, lacrime e parole, compie l'opera di tutti e due formando il figlio al Cielo.
Ad ogni modo, o figli, quali che siano i vo­stri genitori, Io vi dico: "Non giudicate, amate soltanto, perdonate soltanto, ubbidite soltanto, fuorchè in quelle cose che sono contrarie alla mia Legge. A voi il merito dell'ubbidienza, del­l'amore e del perdono, del perdono di voi figli, Maria, che accelera il perdono di Dio ai genitori, e tanto più l'accelera quanto più è perdono com­pleto; ai genitori la responsabilità e il giusto giu­dizio, sia riguardo a voi, sia per quanto spetta a Dio, di Dio unico Giudice".
Superfluo è spiegare che uccidere è manca­re all'amore. Amore verso Dio, al quale levate il diritto di vita e di morte verso una sua creatura e il diritto di Giudice. Solo Dio è Giudice e Giudice santo e, se Egli ha concesso all'uomo di crearsi dei consessi di giustizia per mettervi un freno sia nel delitto sia nella punizione, guai a voi se, come mancate alla Giustizia di Dio, man­cate alla giustizia dell'uomo erigendovi a giudici di un vostro simile, che ha mancato o credete che vi abbia mancato.
Pensate, o poveri figli, che l'offesa, il dolo­re, sconvolgono mente e cuore, e che l'ira e lo stesso dolore mettono un velo alla vostra vista intellettuale, velo che vi preclude la visione della verità vera e della carità quale Dio ve la pre­senta perchè su di essa sappiate regolare il vo­stro anche giusto sdegno e non farne, con troppa spietata condanna, una ingiustizia. Siate santi an­che mentre l'offesa vi brucia. Ricordatevi di Dio soprattutto allora.
E voi pure, giudici della terra, siate santi. A­vete per le mani gli orrori più vivi dell'umanità. Scrutateli con occhio e mente intrisi di Dio. Ve­dete il "perchè" vero di certe "miserie". Pensate che se anche sono vere "miserie" della umanità che si degrada, molte sono le cause che le producono. Nella mano che uccise cercate la forza che la mosse ad uccidere e ricordatevi che voi pure siete uomini. Interrogatevi se voi: traditi, abban­donati, stuzzicati, sareste stati migliori di colui o di colei che vi è davanti in attesa di sentenza. Facendo il severo esame di voi, pensate se nes­suna donna può accusarvi di essere i veri ucciso­ri del figlio che ella soppresse, perchè dopo l'ora gioconda voi vi siete sottratti al vostro impegno d'onore. E, se lo petete fare, siate pure severi.
Ma se, dopo aver peccato contro la creatu­ra nata da una vostra insidia e da una vostra lus­suria,volete ancora ottenere un perdono da Colui che non si inganna e non si smemora con anni e anni di vita corretta, dopo quella scorrettezza che non avete voluto riparare, o dopo quel de­litto che avete provocato, siate almeno operosi nel prevenire il male, e specie là dove leggerezza femminile e miseria d'ambiente predispongono alle cadute nel vizio e nell'infanticidio.
Ricordate, o uomini, che Io, il Puro, non ho ricusato di redimere le donne senza onore. E per l'onore che più non avevano ho fatto sorgere nel loro animo, come fiore da un suolo profana­to, il fiore vivo del pentimento che redime. Ho dato il mio pietoso amore alle povere disgrazia­te che un cosiddetto "amore" aveva prostrate nel fango. Il mio amore vero le ha salvate dalla lus­suria che il cosiddetto amore aveva inoculato in loro. Se le avessi maledette e fuggite, le avrei per­dute per sempre. Le ho amate anche per il mon­do, che dopo averle godute le ricopre di ipocrito scherno e di bugiardo sdegno. Al posto delle ca­rezze di peccato, le ho carezzate con la purezza del mio sguardo; al posto delle parole di delirio, ho avuto per loro parole d'amore; al posto della moneta, vergognoso prezzo del loro bacio, ho dato le ricchezze della mia Verità.
Così si fa, uomini, per trarre dal fango chi nel fango sprofonda, e non ci si avvinghia al col­lo per perire o non si gettano pietre per sprofon­darvele di più. E' l'amore, è sempre l'amore che salva.
Quale peccato contro l'amore sia l'adulte­rio, ne ho già parlato e non ripeto, per ora alme­no. Vi è su questo rigurgito di animalità tanto da dire - e tanto che non capireste neppure, perchè d'essere traditori del focolare ve ne vantate - che per pietà della mia piccola discepola taccio. Non voglio esaurire le forze della creatura sfini­ta e turbare il suo animo con crudezze umane poichè, prossimo alla Mèta, pensa solo al Cielo.
Colui che ruba, è ovvio che manchi all'amo­re. Se si ricordasse di non fare agli altri ciò che non vorrebbe fatto a se stesso, e amasse gli altri quanto se stesso, non leverebbe con violenza e frode ciò che è del prossimo suo. Non manche­rebbe perciò all'amore, come invece vi manca commettendo ladroneccio che può essere di mer­ce, di denaro, come di occupazione. Quanti furti commettete derubando un posto all'amico, una invenzione al compagno! Siete ladri, tre volte la­dri, facendo ciò. Lo siete più che se rubaste un portafoglio o una gemma, perchè senza questi si può ancora vivere, ma senza un posto di guada­gno si muore, e con il derubato del posto muore la sua famiglia di fame.
Vi ho dato la parola come segno di eleva­zione su tutti gli altri animali della terra. Dovre­ste dunque amarmi per la parola, dono mio. Ma posso dire che mi amate per la parola, quando di questo dono di Cielo vi fate arma per rovinare il prossimo col giuramento falso? No, non amate nè Me nè il prossimo quando asserite il falso, ma sibbene ci odiate. Non riflettete che la parola uc­cide non solo la carne, ma la reputazione di un uomo? Chi uccide odia, chi odia non ama.
L'invidia non è carità: è anticarità. Chi desi­dera smodatamente la roba altrui è invidioso e non ama. Siate contenti di ciò che avete. Pensate che sotto l'apparenza di gioia vi sono sovente dolori che Dio vede e che sono risparmiati a voi, appa­rentemente meno felici di coloro che invidiate. Chè, se poi l'oggetto desiderato è la altrui moglie o l'altrui marito, allora sappiate che al peccato di invidia unite quello di lussuria o di adulterio. Compite perciò una triplice offesa alla Carità di Dio e di prossimo.
Come vedete, se voi contravvenite al deca­logo contravvenite all'amore. E così è per i con­sigli che vi ho dato, che sono il fiore della pianta della Carità. Ora, se contravvenendo alla Legge contravvenite all'amore, è ovvio che il peccato è mancanza all'amore. E perciò deve espiarsi con l'amore.
L'amore che non avete saputo darmi in terra, me lo dovete dare nel Purgatorio. Ecco perchè dico che il Purgatorio altro non è che sof­ferenza d'amore.
Avete per tutta la vita poco amato Dio nel­la sua Legge. Vi siete buttati dietro le spalle il pensiero di Lui, avete vissuto amando tutti e po­co amando Lui. E' giusto che, non avendo meri­tato l'Inferno e non avendo meritato il Paradiso, ve lo meritiate ora accendendovi di carità, arden­do per quanto siete stati tiepidi sulla terra. E' giusto che sospiriate per mille e mille ore di e­spiazione d'amore ciò che avete mille e mille vol­te mancato di sospirare sulla terra: Dio, scopo supremo delle intelligenze create. Ad ogni volta che avete voltato le spalle all'amore corrispondo­no anni e secoli di nostalgia amorosa. Anni o se­coli a seconda della vostra gravità di colpa.
Fatti ormai sicuri di Dio, cogniti della su­perna bellezza di Dio per quel fugace incontro del primo giudizio, il cui ricordo viene seco voi per rendervi più viva l'ansia d'amore, voi sospira­te a Lui, la lontananza di Lui piangete, d'esser stati voi la causa di tale lontananza vi rammarica­te e pentite, e sempre più vi rendete penetrabili a quel fuoco acceso della Carità per vostro supre­mo bene.
Quando i meriti del Cristo vengono, dalle preghiere dei viventi che vi amano, gettati come essenze d'ardore nel fuoco santo del Purgatorio, l'incandescenza d'amore vi penetra più forte e più addentro e, fra il rutilare delle vampe, sem­pre più si fa lucido in voi il ricordo di Dio visto in quell'attimo.
Come nella vita della terra più cresce l'amo­re e più sottile si fa il velo che cela al vivente la Divinità, altrettanto nel secondo regno più cre­sce la purificazione, e perciò l'amore, e più pros­simo e visibile si fa il volto di Dio. Già traluce e sorride fra il balenare del santo fuoco. E' come un Sole che sempre più si fa presso, e la sua luce e il suo calore annullano sempre più la luce e il calore del fuoco purgativo, finchè, passando dal meritato e benedetto tormento del fuoco al con­quistato e beato refrigerio del possesso, passate da vampa a Vampa, da luce a Luce, salite ad es­ser luce e vampa in Esso, Sole eterno, come scin­tilla assorbita da un rogo e come lampada getta­ta in un incendio.
Oh! gaudio dei gaudi, quando vi troverete assurti alla mia Gloria, passati da quel regno di attesa al Regno di trionfo. Oh! conoscenza per­fetta del Perfetto Amore!
Questa conoscenza, o Maria, è mistero che la mente può conoscere per volere di Dio, ma non può descrivere con parola umana. Credi che merita soffrire tutta una vita per possederla dalla ora della morte. Credi che non vè più grande ca­rità di procurarla con le preghiere a chi amaste sulla terra e che ora iniziano la purgazione nell'a­more, al quale chiusero in vita le porte del cuore tante e tante volte.
Animo, benedetta alla quale sono svelate le verità nascoste. Procedi, opera e sali. Per te stessa e per chi ami nell'al di là.

Requiem...