sabato 25 maggio 2013

Beata Elisabetta della Trinità Catez - Carmelitana


B.Elisabetta della Trinità 

Beata Elisabetta della Trinità Catez - Carmelitana (9 novembre)
Bourges, Francia, 18 luglio 1880 - Digione, 9 novembre 1906
Elisabeth Catez nacque il 18 luglio 1880 nel Campo d'Avor presso Bourges (Francia), e fu battezzata quattro giorni dopo. Nel 1887 la famiglia si trasferì a Digione. Quello stesso anno muore il papà.
Il 19 aprile 1890 riceve la Prima Comunione, l'anno dopo il sacramento della Confermazione. Nel 1894 emise il voto di verginità. Sentendosi chiamata alla vita religiosa chiese alla madre il permesso di poter entrare al Carmelo, ma questa le oppose un netto rifiuto, finché, non fu costretta a cedere ma a condizione che vi entrasse al compimento della maggiore età.
Il 2 agosto 1901 entrava nel Carmelo di Digione dove l'8 dicembre 1901 vestì l'abito religioso. L'11 gennaio 1903 emise la Professione religiosa.
Il 21 gennaio dello stesso anno compì la cerimonia della velazione monastica. I cinque anni della sua vita religiosa furono una continua ascesa verso Dio ed il Signore purificò la sua anima con sofferenze spirituali, e con sofferenze corporali attraverso il terribile morbo di Addison che la portò alla morte il 19 novembre 1906.
Martirologio Romano: A Digione in Francia, Beata Elisabetta della Santissima Trinità Catez, vergine dell’Ordine delle Carmelitane Scalze, che sin dalla fanciullezza cercò e contemplò nel profondo del cuore il mistero della Trinità e, ancora giovane, tra molte tribolazioni, giunse, come aveva desiderato, all’amore, alla luce, alla vita.
 
La bibliografia che parla di questa beata è immensa, segno di una incredibile spiritualità tutta da scoprire, meditare, analizzare; maturata nel chiuso di un Carmelo, contemporanea di quell’altra grande colonna dell’ascesi carmelitana, che fu santa Teresa del Bambino Gesù di Lisieux (1873-1897).
Elisabetta Catez nacque nel campo militare di Avor presso Bourges (Francia) il 18 luglio 1880, poi trasferita con la famiglia prima ad Auxonne e poi a Digione, dove nell’ottobre 1887 rimase orfana di padre.
Dotata di un carattere piuttosto duro, volitiva, impetuosa, ardente, estroversa, dovette lavorare a lungo e un poco alla volta per dominarsi o come diceva lei, di “vincersi per amore”, attirata da Cristo, particolarmente a cominciare dalla Prima Comunione, ricevuta il 19 aprile 1891 e con la cresima il 18 giugno successivo.
Senza frequentare mai scuole vere e proprie, ebbe i primi rudimenti del sapere, dello scrivere e delle scienze da due istitutrici, con una infarinatura di letteratura. Però fin da piccola frequentò il conservatorio di Digione, dove trovò nella musica una forma di donazione e di preghiera, ottenne i primi premi di esecuzione al pianoforte.
In piena adolescenza, cominciò a sentirsi attratta da Cristo e – racconta lei stessa – “senza attendere mi legai a Lui con il voto di verginità; non ci dicemmo nulla, ma ci donammo l’uno all’altra in un amore tanto forte, che la risoluzione d’essere tutta sua divenne per me ancor più definitiva”.
Sentì risuonare nel suo spirito la parola “Carmelo” per cui non ebbe altro pensiero che ritirarsi in tale sacra struttura. Ma trovò una forte opposizione nella madre, la quale rimasta vedova così giovane, aveva riposto nella figlia e nelle sue possibilità musicali, di avere un aiuto nella vita, pertanto si dimostrò contraria alla vocazione di Elisabetta, proibendole di frequentare il Carmelo di Digione, anzi proponendogli il matrimonio con un buon giovane.
Ma la giovane era ormai innamorata di Cristo e non c’era spazio per altri amori, ad ogni modo ubbidì alla madre per quanto riguardava i contatti con il monastero carmelitano, pur ribadendo la sua immutata volontà.
Solo quando raggiunse i 19 anni la signora Catez cedette, ma ponendo la condizione che avrebbe potuto entrare nel Carmelo solo nel 1901, quando avrebbe compiuto i 21 anni; nel frattempo la conduceva a varie feste danzantidella buona società, con la speranza che Elisabetta avrebbe cambiato idea.
Ma lei anche in mezzo al mondo, ascoltava il suo Gesù nel silenzio di un cuore che non voleva che essere che suo. Prima di uscire per queste feste, s’inginocchiava in casa, pregava, si offriva alla Madonna, poi con naturalezza e con un sorriso, viveva queste occasioni di festa gioiosa, tutta presa dal pensiero della Comunione che avrebbe ricevuta il mattino successivo e si rendeva estranea e insensibile a tutto quello che accadeva intorno a lei.
Si preparò così alla vita monastica, insegnando il catechismo ai piccoli della parrocchia, soccorrendo i poveri più abbandonati, in comunione stretta con la Trinità e con la Madonna. Il 2 agosto 1901 entrò nel Carmelo di Digione e l’8 dicembre ne vestì l’abito, dopo un fervoroso anno di noviziato, l’11 gennaio 1903 pronunciò i voti, prendendo il nome di Elisabetta della Trinità.
Ma la gioia di aver raggiunto la meta desiderata, dopo un inizio pieno di speranze e promesse, fu bloccata ben presto, perché il 1° luglio 1903, si manifestò nella giovane professa uno strano male, non diagnosticato correttamente e curato con terapie sbagliate, solo più tardi si diagnosticò per il terribile morbo di Addison (malattia caratterizzata da una profonda astenia, con ipotensione, dolori lombari, turbe gastriche, una colorazione bronzina della pelle, dovuta per lo più alla tubercolosi delle capsule surrenali).
Nessuno del monastero, ne i medici avvertirono subito la gravità del male, non conoscendone allora sintomi e terapia; il morbo ebbe una sua classificazione nel 1855 dal medico inglese Thomas Addison (1793-1860) da cui prese il nome.
Suor Elisabetta della Trinità accettava tutto con il sorriso e l’abbandono alla volontà di Dio, manifestando la sua “gioia di configurarsi al Crocifisso per amore” e diventando veramente “lode di gloria della Trinità”. Da un suo scritto datato, venerdì 24 febbraio 1899, rileviamo la conoscenza che lei aveva del suo male oscuro e la trasformazione della sofferenza in sublimazione: “Poiché mi è quasi impossibile impormi altre sofferenze, devo pure persuadermi che la sofferenza fisica e corporale non è che un mezzo, prezioso del resto, per arrivare alla mortificazione interiore e al pieno distacco da sé stessi. Aiutami Gesù, mia vita, mio amore, mio Sposo”. 
Il 21 novembre del 1904 si era offerta “come preda” alla Trinità con la celebre invocazione: “O mio Dio, Trinità che adoro”, uscita di getto dalla sua anima. Gli anni dal 1900 al 1905 trascorsero tra alti e bassi della malattia, ma nel 1906 la situazione 
precipitò; le crisi si susseguivano opprimendola e soffocandola, mentre le viscere davano la sensazione di essere dilaniate da bestie feroci; non riusciva ad assumere né cibo né bevande, ciò nonostante non smise mai di sorridere.
In quell’estate del 1906 obbedendo alla priora, scrisse le sue meditazioni, frutto di quei mesi terribili, nell’”Ultimo ritiro di Laudem gloriae” e nel “Come trovare il cielo sulla terra”. La progressione del male ormai la consumava e scrivendo alla madre, diceva: “il mio Sposo vuole che io gli sia una umanità aggiunta nella quale Egli possa soffrire ancora per la gloria del Padre e per aiutare la Chiesa… Egli ha scelto la tua figlia per associarla alla grande opera della Redenzione”.
Parlava comunque e stranamente di gioia; eppure al martirio del corpo si era aggiunto quello dello spirito, con un senso di vuoto e di abbandono da parte di Dio, che tutti i mistici hanno conosciuto, ebbe persino tentazioni di suicidio, superate nella fede dell’amore per Cristo.
Il morbo ebbe un decorso piuttosto lungo e doloroso, verso l’autunno sembrò avviarsi verso la fine; giunto il 1° novembre parve giunta l’ultima ora estrema e in quel giorno disse le sue ultime considerazioni: “Tutto passa! Alla sera della vita resta solo l’amore. Bisogna fare tutto per amore…”, poi per nove giorni si prostrò in uno stato precomatoso; in un ritornare momentaneo della coscienza, fu udita mormorare: “Vado alla luce, all’amore, alla vita”.
Morì il mattino del 9 novembre 1906, a soli 26 anni. Come s. Teresa del Bambino Gesù anche Elisabetta della Trinità fu una grande mistica, che seppe penetrare l’essenza dell’Amore “troppo grande” di Dio, in intima comunione con i suoi “TRE” come Elisabetta si esprimeva familiarmente parlando della SS. Trinità, perno della sua vita di oblata claustrale carmelitana.
Pur essendo vissuta nel monastero poco più di cinque anni e di cui tre in una condizione di ammalata grave e irreversibile, quindi con pochi contatti con l’esterno, essa dopo morta godé subito di una fama di santità, che fece pensare ben presto alla sua glorificazione.
Per diversi motivi il primo processo informativo si ebbe negli anni 1931-41 a Digione e il 25 ottobre 1961 venne introdotta la causa. Il 12 luglio 1982 furono riconosciute le sue virtù vissute in modo eroico, dandole il titolo di venerabile; infine papa Giovanni Paolo II l’ha beatificata il 25 novembre 1984. Il "Martirologio Romano" riporta la sua celebrazione al 9 novembre. Viene invece onorata come memoria dall'ordine carmelitano scalzo nel giorno 8 novembre. (Autore: Antonio Borrelli – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria. - Beata Elisabetta della Trinità Catez, pregate per noi.  
AVE GIGLIO BIANCO DELLA TRINITA' AVE!


Santa Geltrude (Gertrude) la Grande - Vergine


S.Geltrude la Grande 
Santa Geltrude (Gertrude) la Grande - Vergine (16 novembre)
Eisleben (Germania), ca. 1256 - Monastero di Helfta (Germania), 1302
Geltrude, detta la grande, entrò nel monastero cistercense di Helfta.
Donna di profonda cultura anche profana, alimentò la sua vita spirituale nella liturgia specialmente eucaristica, nella Scrittura e nei Padri.
Ebbe un'elevata esperienza mistica, caratterizzata dal vivo senso della libertà dei figli di Dio e da una teneradevozione all'umanità di Cristo.
Precorse il culto al Cuore di Gesù. (Mess. Rom.)
Etimologia: Geltrude = la vergine della lancia, dal tedesco
Emblema: Giglio
Martirologio Romano: Santa Geltrude, detta Magna, vergine, che, fin dall’infanzia si dedicò con grande impegno e ardore alla solitudine e agli studi letterari e, convertitasi totalmente a Dio, entrò nel monastero cistercense di Helfta vicino a Eisleben in Germania, dove percorse mirabilmente la via della perfezione, consacrandosi alla preghiera e alla contemplazione di Cristo crocifisso.
Il suo transito si celebra domani.
(17 novembre: A Helfta vicino a Eisleben nella Sassonia in Germania, anniversario della morte di santa Geltrude, vergine, la cui memoria si celebra il giorno precedente a questo).
 
Invece delle origini familiari, conosciamo le sue passioni giovanili: letteratura, musica e canto, arte della miniatura.
Per una ragazza del suo tempo, queste non sono cose tanto comuni.
Gertrude, infatti, ha fatto i suoi studi, ed è certo quindi che veniva da una famiglia benestante.
Ma non era figlia di nobili, come hanno scritto alcuni, confondendola con un’altra Gertrude.
Comunque, già all’età di cinque anni, la sua famiglia la mette a scuola nel monastero di Helfta, in Sassonia, che all’epoca segue le consuetudini cistercensi.
E qui Gertrude trova la grande Matilde di Magdeburgo, maestra di spiritualità e anche di bello scrivere: la narrazione delle sue esperienze mistiche, Lux divinitatis, costituisce un elegante testo poetico.
Matilde è il personaggio decisivo nella vita interiore di molte giovani che l’avvicinano, maestra di una spiritualità fortemente attratta dal richiamo mistico.
A questa scuola cresce Gertrude, che tuttavia non sembra percorrere tranquillamente la frequente trafila alunna-postulante-monaca.
Alcune fonti, addirittura, le attribuiscono momenti di vita “dissipata”.
Però a 26 anni diventa un’altra; o, come dirà successivamente lei stessa: il Signore, "più lucente di tutta la luce, più profondo di ogni segreto, cominciò dolcemente a placare quei turbamenti che aveva acceso nel mio cuore".
Una mutazione che sorprende molti, e che lei stessa attribuisce a una visione, seguita poi da altri fenomeni eccezionali come visioni, estasi, stigmate.
E in aggiunta vengono a tormentarla le malattie.
Ma accade a lei come ad altre donne e uomini misteriosamente “visitati” che l’infermità fisica, invece di fiaccarli, li stimola.
Gertrude vorrebbe vivere in solitudine questa avventura dello spirito, ma non sempre può: le voci corrono, arriva al monastero gente per confidarsi, per interrogarla, anche semplicemente per vederla.
E questa contemplativa malata ha momenti di stupefacente attivismo, nel contatto con le persone e nell’impegno di divulgatrice del culto per l’umanità di Gesù Cristo, tradotta nell’immagine popolarissima del Sacro Cuore.
Accoglie tanti disorientati e cerca di aiutarli.
Per raggiungerne altri scrive, sull’esempio di Matilde, e lo fa con l’eleganza che è frutto dei suoi studi.
Quell’impegno di adolescente e di giovane nelle discipline scolastiche l’ha preparata a essere “apostolo” nel modo richiesto dai suoi tempi.
E anche precorritrice di Teresa d’Avila e di Margherita Maria Alacoque.
La fama di santità l’accompagna già da viva, e dura nel tempo, anche se ci vorrà qualche secolo per il riconoscimento ufficiale del suo culto nella Chiesa universale.
Ma per chi l’ha conosciuta e ascoltata, Gertrude è già santa al momento della morte nel monastero di Helfta, all’età di circa 46 anni.
(Autore: Domenico Agasso – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria. - Santa Geltrude la Grande, pregate per noi.

COR IESU MISERERE NOBIS

E' una parola che ci fa disperare: ... con l’avvenimento della Theotókos, questo è cambiato radicalmente, ...



OPPORTUNISSIMA NUTRIENTE
RIFLESSIONE DEL SANTO PADRE ... 11.10.2010

Pubblichiamo di seguito il testo della meditazione che il Santo Padre Benedetto XVI ha tenuto ... nell’Aula del Sinodo,  dopo la lectio brevis dell’Ora Terza:

PAROLE DEL SANTO PADRE

Cari fratelli e sorelle,

l'11 ottobre 1962, trentotto anni fa, Papa Giovanni XXIII inaugurava il Concilio Vaticano II. Si celebrava allora l'11 ottobre la festa della Maternità divina di Maria, e, con questo gesto, con questa data, Papa Giovanni voleva affidare tutto il Concilio alle mani materne, al cuore materno della Madonna. Anche noi cominciamo l'11 ottobre, anche noi vogliamo affidare questo Sinodo, con tutti i problemi, con tutte le sfide, con tutte le speranze, al cuore materno della Madonna, della Madre di Dio.

Pio XI, nel 1931, aveva introdotto questa festa, millecinquecento anni dopo il Concilio di Efeso, il quale aveva legittimato, per Maria, il titolo Theotókos, Dei Genitrix. In questa grande parola Dei Genitrix, Theotókos, il Concilio di Efeso aveva riassunto tutta la dottrina di Cristo, di Maria, tutta la dottrina della redenzione. E così vale la pena riflettere un po', un momento, su ciò di cui parla il Concilio di Efeso, ciò di cui parla questo giorno.

In realtà, Theotókos è un titolo audace. Una donna è Madre di Dio. Si potrebbe dire: come è possibile? Dio è eterno, è il Creatore. Noi siamo creature, siamo nel tempo: come potrebbe una persona umana essere Madre di Dio, dell'Eterno, dato che noi siamo tutti nel tempo, siamo tutti creature? Perciò si capisce che c'era forte opposizione, in parte, contro questa parola. I nestoriani dicevano: si può parlare di Christotókos, sì, ma di Theotókos no: Theós, Dio, è oltre, sopra gli avvenimenti della storia


Ma il Concilio ha deciso questo, e proprio così ha messo in luce l'avventura di Dio, la grandezza di quanto ha fatto per noi. Dio non è rimasto in sé: è uscito da sé, si è unito talmente, così radicalmente con quest'uomo, Gesù, che quest'uomo Gesù è Dio, e se parliamo di Lui, possiamo sempre anche parlare di Dio. Non è nato solo un uomo che aveva a che fare con Dio, ma in Lui è nato Dio sulla terra. Dio è uscito da sé. Ma possiamo anche dire il contrario: Dio ci ha attirato in se stesso, così che non siamo più fuori di Dio, ma siamo nell'intimo, nell'intimità di Dio stesso.

La filosofia aristotelica, lo sappiamo bene, ci dice che tra Dio e l'uomo esiste solo una relazione non reciproca. L'uomo si riferisce a Dio, ma Dio, l'Eterno, è in sé, non cambia: non può avere oggi questa e domani un'altra relazione. Sta in sé, non ha relazione ad extra. È una parola molto logica, ma è una parola che ci fa disperare: quindi Dio stesso non ha relazione con me. Con l'incarnazione, con l’avvenimento della Theotókos, questo è cambiato radicalmente, perché Dio ci ha attirato in se stesso e Dio in se stesso è relazione e ci fa partecipare nella sua relazione interiore. Così siamo nel suo essere Padre, Figlio e Spirito Santo, siamo nell'interno del suo essere in relazione, siamo in relazione con Lui e Lui realmente ha creato relazione con noi. In quel momento Dio voleva essere nato da una donna ed essere sempre se stesso: questo è il grande avvenimento. E così possiamo capire la profondità dell’atto di Papa Giovanni, che affidò l’Assise conciliare, sinodale, al mistero centrale, alla Madre di Dio che è attirata dal Signore in Lui stesso, e così noi tutti con Lei.



Il Concilio ha cominciato con l'icona della Theotókos. Alla fine Papa Paolo VI riconosce alla stessa Madonna il titolo Mater Ecclesiae. E queste due icone, che iniziano e concludono il Concilio, sono intrinsecamente collegate, sono, alla fine, un’icona sola. Perché Cristo non è nato come un individuo tra altri.

È nato per crearsi un corpo: è nato — come dice Giovanni al capitolo 12 del suo Vangelo — per attirare tutti a sé e in sé. È nato — come dicono le Lettere ai Colossesi e agli Efesini — per ricapitolare tutto il mondo, è nato come primogenito di molti fratelli, è nato per riunire il cosmo in sé, cosicché Lui è il Capo di un grande Corpo. Dove nasce Cristo, inizia il movimento della ricapitolazione, inizia il momento della chiamata, della costruzione del suo Corpo, della santa Chiesa. La Madre di Theós, la Madre di Dio, è Madre della Chiesa, perché Madre di Colui che è venuto per riunirci tutti nel suo Corpo risorto.

San Luca ci fa capire questo nel parallelismo tra il primo capitolo del suo Vangelo e il primo capitolo degli Atti degli Apostoli, che ripetono su due livelli lo stesso mistero. Nel primo capitolo del Vangelo lo Spirito Santo viene su Maria e così partorisce e ci dona il Figlio di Dio. Nel primo capitolo degli Atti degli Apostoli Maria è al centro dei discepoli di Gesù che pregano tutti insieme, implorando la nube dello Spirito Santo. E così dalla Chiesa credente, con Maria nel centro, nasce la Chiesa, il Corpo di Cristo. Questa duplice nascita è l’unica nascita del Christus totus, del Cristo che abbraccia il mondo e noi tutti.

Nascita a Betlemme, nascita nel Cenacolo. Nascita di Gesù Bambino, nascita del Corpo di Cristo, della Chiesa. Sono due avvenimenti o un unico avvenimento. Ma tra i due stanno realmente la Croce e la Risurrezione. E solo tramite la Croce avviene il cammino verso la totalità del Cristo, verso il suo Corpo risorto, verso l'universalizzazione del suo essere nell'unità della Chiesa. E così, tenendo presente che solo dal grano caduto in terra nasce poi il grande raccolto, dal Signore trafitto sulla Croce viene l'universalità dei suoi discepoli riuniti in questo suo Corpo, morto e risorto.

Tenendo conto di questo nesso tra Theotókos e Mater Ecclesiae, il nostro sguardo va verso l'ultimo libro della Sacra Scrittura, l'Apocalisse, dove, nel capitolo 12, appare proprio questa sintesi. La donna vestita di sole, con dodici stelle sul capo e la luna sotto i piedi, partorisce. E partorisce con un grido di dolore, partorisce con grande dolore. Qui il mistero mariano è il mistero di Betlemme allargato al mistero cosmico. Cristo nasce sempre di nuovo in tutte le generazioni e così assume, raccoglie l'umanità in se stesso. E questa nascita cosmica si realizza nel grido della Croce, nel dolore della Passione. E a questo grido della Croce appartiene il sangue dei martiri.

Così, in questo momento, possiamo gettare uno sguardo sul secondo Salmo di questa Ora Media, il Salmo 81, dove si vede una parte di questo processo. Dio sta tra gli dei – ancora sono considerati in Israele come dei. In questo Salmo, in un concentramento grande, in una visione profetica, si vede il depotenziamento degli dei. Quelli che apparivano dei non sono dei e perdono il carattere divino, cadono a terra. Dii estis et moriemini sicut homines (cfr al 81, 6-7): il depotenziamento, la caduta delle divinità.

Questo processo che si realizza nel lungo cammino della fede di Israele, e che qui è riassunto in un'unica visione, è un processo vero della storia della religione: la caduta degli dei. E così la trasformazione del mondo, la conoscenza del vero Dio, il depotenziamento delle forze che dominano la terra, è un processo di dolore. Nella storia di Israele vediamo come questo liberarsi dal politeismo, questo riconoscimento — «solo Lui è Dio» — si realizza in tanti dolori, cominciando dal cammino di Abramo, l'esilio, i Maccabei, fino a Cristo. E nella storia continua questo processo del depotenziamento, del quale parla l'Apocalisse al capitolo 12; parla della caduta degli angeli, che non sono angeli, non sono divinità sulla terra. E si realizza realmente, proprio nel tempo della Chiesa nascente, dove vediamo come col sangue dei martiri vengono depotenziate le divinità, cominciando dall'imperatore divino, da tutte queste divinità. È il sangue dei martiri, il dolore, il grido della Madre Chiesa che le fa cadere e trasforma così il mondo.

Questa caduta non è solo la conoscenza che esse non sono Dio; è il processo di trasformazione del mondo, che costa il sangue, costa la sofferenza dei testimoni di Cristo. E, se guardiamo bene, vediamo che questo processo non è mai finito. Si realizza nei diversi periodi della storia in modi sempre nuovi; anche oggi, in questo momento, in cui Cristo, l'unico Figlio di Dio, deve nascere per il mondo con la caduta degli dei, con il dolore, il martirio dei testimoni. Pensiamo alle grandi potenze della storia di oggi, pensiamo ai capitali anonimi che schiavizzano l'uomo, che non sono più cosa dell’uomo, ma sono un potere anonimo al quale servono gli uomini, dal quale sono tormentati gli uomini e perfino trucidati. Sono un potere distruttivo, che minaccia il mondo. E poi il potere delle ideologie terroristiche.

Apparentemente in nome di Dio viene fatta violenza, ma non è Dio: sono false divinità, che devono essere smascherate, che non sono Dio. E poi la droga, questo potere che, come una bestia vorace, stende le sue mani su tutte le parti della terra e distrugge: è una divinità, ma una divinità falsa, che deve cadere. O anche il modo di vivere propagato dall'opinione pubblica: oggi si fa così, il matrimonio non conta più, la castità non è più una virtù, e così via.

Queste ideologie che dominano, così che si impongono con forza, sono divinità. E nel dolore dei santi, nel dolore dei credenti, della Madre Chiesa della quale noi siamo parte, devono cadere queste divinità, deve realizzarsi quanto dicono le Lettere ai Colossesi e agli Efesini: le dominazioni, i poteri cadono e diventano sudditi dell'unico Signore Gesù Cristo. Di questa lotta nella quale noi stiamo, di questo depotenziamento di dio, di questa caduta dei falsi dei, che cadono perché non sono divinità, ma poteri che distruggono il mondo, parla l'Apocalisse al capitolo 12, anche con un'immagine misteriosa, per la quale, mi pare, ci sono tuttavia diverse belle interpretazioni. Viene detto che il dragone mette un grande fiume di acqua contro la donna in fuga per travolgerla. E sembra inevitabile che la donna venga annegata in questo fiume. Ma la buona terra assorbe questo fiume ed esso non può nuocere. Io penso che il fiume sia facilmente interpretabile: sono queste correnti che dominano tutti e che vogliono far scomparire la fede della Chiesa, la quale non sembra più avere posto davanti alla forza di queste correnti che si impongono come l'unica razionalità, come l'unico modo di vivere. E la terra che assorbe queste correnti è la fede dei semplici, che non si lascia travolgere da questi fiumi e salva la Madre e salva il Figlio. Perciò il Salmo dice – il primo salmo dell’Ora Media – la fede dei semplici è la vera saggezza (cfr Sal 118,130). Questa saggezza vera della fede semplice, che non si lascia divorare dalle acque, è la forza della Chiesa. E siamo ritornati al mistero mariano.

E c'è anche un'ultima parola nel Salmo 81, "movebuntur omnia fundamenta terrae" (Sal 81,5), vacillano le fondamenta della terra. Lo vediamo oggi, con i problemi climatici, come sono minacciate le fondamenta della terra, ma sono minacciate dal nostro comportamento. Vacillano le fondamenta esteriori perché vacillano le fondamenta interiori, le fondamenta morali e religiose, la fede dalla quale segue il retto modo di vivere. E sappiamo che la fede è il fondamento, e, in definitiva, le fondamenta della terra non possono vacillare se rimane ferma la fede, la vera saggezza.

E poi il Salmo dice: "Alzati, Signore, e giudica la terra" (Sal 81,8). Così diciamo anche noi al Signore: "Alzati in questo momento, prendi la terra tra le tue mani, proteggi la tua Chiesa, proteggi l'umanità, proteggi la terra".
E affidiamoci di nuovo alla Madre di Dio, a Maria, e preghiamo: "Tu, la grande credente, tu che hai aperto la terra al cielo, aiutaci, apri anche oggi le porte, perché sia vincitrice la verità, la volontà di Dio, che è il vero bene, la vera salvezza del mondo". Amen

© Copyright 2010 - Libreria Editrice Vaticana



Beato Gabriele Ferretti


B.Gabriele Ferretti 
Beato Gabriele Ferretti - Francescano (9 novembre)
Ancona, 1385 - 12 novembre 1456
Nacque in Ancona dalla nobile famiglia Ferretti nel 1385. Il Conte Liverotto, suo padre, e Alvisia, sua madre, educarono Gabriele alle più squisite virtù cristiane, specialmente alla purezza che traspariva dal suo comportamento angelico. A 18 anni si fece Religioso francescano dell'Ordine dei Frati Minori.
Nel chiostro studiò filosofia e teologia con raro profitto, per cui ordinato Sacerdote, si dedico con frutto alla predicazione, convertendo molti peccatori. Ebbe da Dio il privilegio di conoscere il futuro, e il dono di guarire gli ammalati col semplice segno della Croce o al contatto della sua tonaca.
Nutrì tenera devozione alla Vergine Santissima, che spesso gli appariva col Bambino Gesù tra le braccia nel silenzio della cella o nel bosco del Convento. Il 12 novembre 1456, dopo una vita piena di virtù e di miracoli a favore degli umili e dei sofferenti, dolcemente spirava.
S. Giacomo della Marca, ai funerali solennissimi, ne tesseva l'elogio dinanzi al Vescovo, al Senato e al popolo Anconetano. Presso le Sue spoglie incorrotte, che si venerano nella Chiesa dei Frati Minori in Ancona, si moltiplicano da secoli grazie e miracoli; e i malati benedetti con l'olio della lampada del Beato Gabriele, ottengono la sua celeste protezione.
Martirologio Romano: Ad Ancona, Beato Gabriele Ferretti, sacerdote dell’Ordine dei Minori, che rifulse nell’assistenza ai bambini e ai malati, nell’obbedienza e nell’osservanza della regola.
 
Il Conte Frate e l’ultimo Papa Re: legati tra loro da un seppur legame di parentela, accomunati dallo stesso destino di gloria, culminato con la beatificazione di entrambi. A legare, innanzitutto, il Beato Gabriele e il Beato Pio IX è il cognome, Ferretti, anche se li separano quasi 400 anni. Gabriele, infatti, nasce ad Ancona nel 1385, in un ambiente nobile ed aristocratico ma non per questo meno cristiano.
Famiglia numerosa, la sua, ben dieci figli maschi, che nonostante una tradizione di devozione alla Chiesa ed al Papa non reagisce molto bene all’idea di Gabriele di farsi frate, frate di “Santo Francesco”, di cui nelle Marche e soprattutto ad Ancona sembra ancora aleggiare lo spirito, sicuramente il fascino ed il richiamo.
Una cosa è l’inclinazione di Gabriele per le cose di chiesa, la spiccata pietà, le numerose devozioni che contraddistinguono gli anni della fanciullezza e dell’adolescenza; altra cosa buttare alle ortiche titoli nobiliari e patrimoni di famiglia in cambio del rozzo saio francescano.
In qualche maniera, nella scelta non facile di Gabriele si ripete il dramma della scelta di San Francesco, che alla sua facoltosa famiglia preferisce “madonna Povertà”. Gabriele, una volta frate e sacerdote, comincia a distinguersi: non certo per i suoi nobili natali, soprattutto per la sua fervida intelligenza che gli procura incarichi delicati e preziosi, da maestro dei novizi a Vicario Provinciale dell’Ordine.
Se poi queste doti di natura si fondono con una serena concentrazione in Dio, una soda pietà, una tenera devozione alla Madonna, ecco completato il quadro di un frate che predica con successo, trascina le folle, ravviva la fede sopita, ottiene conversioni. Padre Gabriele percorre a piedi, in lungo e in largo, le Marche: prima come predicatore, poi come Vicario Provinciale: fonda conventi, in altri rinnova o rinvigorisce la vita religiosa, dappertutto lascia una scia di santità che affascina la gente.
Qualcuno prova anche a mettergli i bastoni fra le ruote, come quella volta ad Osimo, dove con la maldicenza lo cacciano dalla città, dove poi torna poco dopo, osannato dalla gente. E quando lo vogliono mandare in Bosnia a predicare contro i manichei, si muove addirittura il consiglio comunale di Ancona per chiedere al Papa di non lasciar partire un frate così. Che intanto invecchia, ma non perde il buon umore, l’umiltà e la carità.
La salute invece declina e il suo corpo, al quale con fatiche e penitenze ha chiesto davvero troppo, diventa fragile. Spira in un mare di luce il 12 novembre 1456 e sulla sua tomba inizia subito una processione di infermi, molti dei quali tornano a casa guariti. Nel 1753 Benedetto XIV decreta l’onore degli altari per il Conte Frate che, proclamato compatrono di Ancona, viene festeggiato il 12 novembre. Il Martyrologium Romanum pone la sua memoria al 9 novembre. (Autore: Gianpiero Pettiti – Fonte: Enciclopedia dei Santi)
Giaculatoria. - Beato Gabriele Ferretti, pregate per noi.  

Salve Patriae Lux

Sant' Agnese di Assisi



Sant'Agnese di Assisi 
Sant' Agnese di Assisi (16 novembre)
Assisi 1197 - Assisi 1253
Tra le primissime discepole di Santa Chiara, ad Assisi, ci fu la sorella minore Agnese.
Aveva appena quindici anni quando nel 1212, a pochi giorni dall'apertura, bussò alla porta del conventino di San Damiano che Francesco aveva designato come casa del second'ordine.
La leggenda narra dello scalpore suscitato ad Assisi dalla scelta delle due sorelle.
La stessa famiglia inizialmente si oppose.
Ma poi finì che anche una terza sorella, Beatrice, e la stessa madre, Ortolana, seguirono Chiara.
Troppo forte era, dunque, il fascino del rinnovamento spirituale che da Assisi stava iniziando a diffondersi al mondo.
E proprio Agnese fu scelta nel 1219 dalla sorella Chiara per andare a fondare il secondo monastero delle clarisse, quello di Monticelli a Firenze.
Qui visse in estrema povertà fino al 1253 quando già ormai malata, per suo desiderio venne ricondotta a San Damiano, dove morì.
Chiara si era spenta appena tre mesi prima. (Avvenire)
Etimologia: Agnese = pura, casta, dal greco
Martirologio Romano: Ad Assisi in Umbria nel convento di San Damiano, Santa Agnese, vergine, che, seguendo nel fiore della giovinezza le orme di sua sorella Santa Chiara, abbracciò con tutto il cuore la povertà sotto la guida di San Francesco.
 
Nel coro del poverissimo conventino di San Damiano, presso Assisi, si possono ancora leggere i nomi delle prime compagne che seguirono Santa Chiara e l'esempio di San Francesco sulla via della totale rinunzia e dell'assoluta povertà.
Sono nomi molto belli, di donne e fanciulle di Assisi, che si direbbero quasi simbolici di quelle " colombe deargentate " che a San Damiano ebbero il primo nido: Ortolana, Agnese, Beatrice, Pacifica, Benvenuta, Cristiana, Amata, Illuminata, Consolata...
I primi tre nomi appartengono a tre donne della stessa famiglia di Santa Chiara: quello di Ortolana alla madre; quelli di Agnese e di Beatrice a due sorelle.
Agnese era la sorella minore di Chiara, e giunse a San Damiano sedici giorni dopo che Francesco, nel 1212, aveva assegnato alla sorella maggiore l'umilissimo conventino come luogo di penitenza e primo nucleo dei Secondo Ordine francescano.
Poco dopo vi giunse l'altra sorella, Beatrice, e poco dopo ancora la madre, Ortolana.
Agnese di Assisi fu così la più fedele seguace della sorella Chiara, che fu a sua volta la seguace più fedele di San Francesco. Visse nell'ombra luminosa della sorella, assoggettandosi dolcemente al suo dolce coman-do, sempre obbediente e sempre affettuosa.
Già il suo nome di Agnese, derivato da quello di agnus, agnello, e portato da migliaia di donne e da molte Sante, dopo l'antica Martire romana, ce la dipinge mite e mansueta, senza però farci dimenticare che anche a lei, come alla sorella maggiore, va attribuita una fermezza di carattere eccezionale e quasi virile, soprattutto nell'osservanza più rigorosa della Regola francescana nella sua più assoluta durezza.
La leggenda ha insistito, con abbondanza di particolari, sui contrasti tra la decisione delle due fanciulle, Chiara e Agnese, e quella della famiglia, che non voleva permettere il loro abbandono del mondo e quale abbandono!Certo è che il fatto dovette suscitare un enorme scandalo nella buona società di Assisi, soprattutto perché le due sorelle non cedettero ad insistenze né a violenze, e restarono a San Damiano, seguite anzi dall'altra sorella e dalla Madre.
Veramente, Agnese non vi restò a lungo. Per quanto straziata dal distacco (ci è restata, per quanto di dubbia autenticità, una sua commoventissima lettera di commiato), obbedì alla sorella come sempre le avrebbe obbedito, per recarsi a Firenze, nel 1219, a fondarvi il secondo convento delle Clarisse, quello di Monticelli.
A Monticelli, Agnese fu superiora degna del proprio nome e della propria famiglia, affettuosa con le sue Clarisse e caritatevole verso il prossimo quanto era inflessibile verso se stessa, tenacemente attaccata ai voti francescani, soprattutto a quello dell'assoluta povertà. Visse - di pane e di acqua, con un rude cilicio intorno ai teneri fianchi - fino al 1253, quando morì a San Damiano, secondo il suo vivissimo desiderio, tre mesi dopo la sorella Chiara. Aveva cinquantasei anni, essendo appena quindicenne quando si era fatta tagliare i lunghi capelli di avvenente fanciulla assisiate.
La data di culto per la Chiesa universale è il 16 novembre, mentre l'ordine francescano, le Clarisse e la città di Assisi la ricordano il 19 novembre. (Fonte: Archivio Parrocchia)
Giaculatoria. - Sant' Agnese di Assisi, pregate per noi.

Salve sancte Pater