"Dignare me laudare Te Virgo sacrata. Da mihi virtutem contra hostes tuos". "Corda Iésu et Marìae Sacratìssima: Nos benedìcant et custòdiant".
venerdì 19 aprile 2013
I due caratteri distintivi del suo amore per Gesù: l'orrore per il peccato e uno zelo ardente per la gloria di Dio.
«Un giorno, eravamo sbarcati, ed io non sapevo che fare, non avevo mangiato niente da molto tempo; avevo fame, e niente per comprare qualsiasi cosa; non conoscevo né il posto, né qualcuno, e non potevo restare nella strada. Seguii i pas- 1 seggeri ed entrai con essi in un albergo e trovai ivi una camera aperta, vi entrai e mi trovai sola. La fame che avevo era tale che stavo per piangere, ma mi dissi: è meglio pregare. Vedo qualcuno che entra e che prepara sul tavolo un buon pasto; mi si dice di mangiare. Penso: è la Santa Vergine, e mangiai.
La padrona dell'albergo venne da me con molta bontà e mi mise nella mano un pezzo d'oro della sua acconciatura` e mi disse: quando uscirai, lo darai a mio marito per pagare il tuo pasto, se non lo vorrà, lo terrai per te. Il proprietario dell'albergo non volle in nessun modo essere pagato.
Insieme alla speranza, un'altra virtù che distingue questa bella anima e che le riassume tutte, è l'amore di Gesù. Amava Dio di un amore puro, disinteressato, costante ed eroico. Il suo cuore era come un braciere ardente. Il solo nome di Gesù faceva battere questo cuore e le provocava dei trasporti. Spesso cadeva in estasi sentendolo pronunciare, e siccome, con sua grande confusione, ciò le accadeva in presenza delle suore, le scongiurava di non ripetere davanti a lei questo nome adorabile.
Per amore di Dio aveva fatto i più duri sacrifici: sacrificio delle ricchezze, dei piaceri, della sua patria, dei suoi agi, della sua libertà! Non conosceva che Gesù e Gesù Crocifisso.
Gli testimoniava il suo amore con una delicatezza verginale di coscienza la quale faceva in modo che lei avesse paura, non soltanto del peccato, ma ancora dell'ombra stessa del peccato. Se le accadeva di cadere in una imperfezione nella quale temeva che vi fosse qualche volontà da parte sua, ne provava una desolazione estrema. Si può dire, in effetti, che, durante la sua vita e soprattutto al termine del corso della sua vita il carattere distintivo del suo amore per Gesù fosse l'orrore per il peccato.
Il secondo carattere del suo amore per Gesù, era uno zelo ardente per la gloria di Dio. E qui ancora, rassomigliava molto alla sua serafica Madre santa Teresa, che fu consumata, fino all'ultimo giorno della sua vita, nelle fiamme dello zelo più ardente.
Suor Maria di Gesù Crocifisso non si contentava di nutrire zelo per la sua perfezione, voleva ancora che attorno a lei si amasse Dio. Era gelosa della perfezione delle sue suore, nelle quali vedeva altrettante spose di Gesù. Leggendo nelle loro anime, come in un libro aperto, e seguendo perfino il volo rapido e capriccioso dell'immaginazione, le avvertiva con forza e bontà di tutto ciò che scorgeva di difettoso nella loro vita; ma non lo faceva che dopo averne ricevuto il permesso della Madre Priora.
La sua parola era nello stesso tempo, terribile come quella di un giudice, dolce e carezzevole come quella di una madre. Un atto di umiltà da parte della colpevole la disarmava e la rendeva sorridente. Rispose un giorno ad una suora che aveva mancato al silenzio e che le domandava in lacrime se Gesù le avesse perdonato: «Gesù non rimprovera che per perdonare».
da "Il piccolo nulla", capitolo 17:
Virtù di suor Maria di Gesù Crocifisso
AMDG et BVM
mercoledì 17 aprile 2013
Natura squisitamente divina della liturgia: un affacciarsi del Cielo sulla terra
L’undicesimo volume dell’Opera omnia di Joseph Ratzinger, quello sulla “Teologia della Liturgia”, riporta sul retro della copertina una neanche troppo velata dichiarazione: “Nel rapporto con la liturgia si decide il destino della fede e della chiesa”. Questi primi giorni di pontificato (anzi, di episcopato?) di papa Francesco la rendono tremendamente attuale e ci impongono inevitabilmente una riflessione sul rapporto tra la povertà (e non il pauperismo) e la liturgia. Una riflessione che, non va sottovalutato, è tra una dimensione umana, la povertà, e quella divina, la liturgia. Già, perché è sfuggito, in questi anni di convulsioni post conciliari, la natura squisitamente divina della liturgia: un affacciarsi del Cielo sulla terra, la prefigurazione terrena della Gerusalemme che, pertanto, ne deve richiamare la maestà e la gloria. Nella liturgia, attualizzazione incruenta del Sacrificio di Cristo sulla croce, è Dio che incontra l’uomo: essa non è fatta dall’uomo – altrimenti sarebbe idolatria – ma è divina, come richiama anche il Concilio Vaticano II.
In questo quadro, assume, evidentemente, una notevole importanza anche il discorso relativo ai paramenti. Lo ha già sottolineato magistralmente Annalena Benini nelle sue “Nostalgie benedettine” sul Foglio del 23 marzo scorso: “Benedetto XVI si rivestiva di simboli e di tradizione mostrando a tutti che lui non apparteneva più a se stesso, né tantomeno al mondo”. Era di Cristo, era l’“alter Christus” quale è il sacerdote nella liturgia. Con il paramento egli non è più un uomo privato, ma “prepara” (parare) il posto a qualcun altro: e quel qualcun altro è il Re dell’Universo. Impoverire la maestosità del paramento significa, inevitabilmente, impoverire Cristo. Ed è proprio Gesù stesso ad aver separato il concetto di povertà personale da quella dell’istituzione chiesa. Lo fa nel vangelo di Giovanni, laddove accettò l’unzione di una donna di Betania: “Maria allora, presa una libbra di olio profumato di vero nardo, assai prezioso, cosparse i piedi di Gesù e li asciugò con i suoi capelli, e tutta la casa si riempì del profumo dell’unguento. Allora Giuda Iscariota, uno dei suoi discepoli, che doveva poi tradirlo, disse: “Perché quest’olio profumato non si è venduto per trecento denari per poi darli ai poveri?”. Questo egli disse non perché gl’importasse dei poveri, ma perché era ladro e, siccome teneva la cassa, prendeva quello che vi mettevano dentro. Gesù allora disse: “Lasciala fare, perché lo conservi per il giorno della mia sepoltura. I poveri infatti li avete sempre con voi, ma non sempre avete me. Versando quest’olio sul mio corpo lo ha fatto in vista della mia sepoltura. In verità vi dico: dovunque sarà predicato questo vangelo, nel mondo intero, sarà detto anche ciò che essa ha fatto, in ricordo di lei” (Gv 12, 3-5). Innanzitutto, Egli giustifica il culto con oli costosi (e, guarda caso, Giovanni ricorda che è Giuda a lamentare lo spreco di danaro che, invece, avrebbe potuto essere destinato ai poveri) e, soprattutto, emerge l’esistenza di una cassa comune tra i dodici.
Torniamo alle origini? Allora si dovrà tornare ai drappi d’oro e porpora ritrovati nella tomba di Pietro. E’ evidente, dunque, che, non essendo il pauperismo un tratto distintivo della vita cultuale della chiesa, essa ci “trasmette ciò che ha ricevuto”, per usare un’affermazione dell’apostolo Paolo (1Cor 15, 3). Pio XII, emblema collettivo dell’opulenza liturgica, si dice che dormisse su tavole di legno nude e crude e seguisse modestissime diete. Ma in privato. L’ancoraggio liturgico alla tradizione fatta di mozzette, pianete e fanoni, è parziale manifestazione della Gerusalemme celeste, della liturgia degli angeli, come dice san Gregorio. Una tradizione fatta di canto gregoriano, che è incarnazione sonora della Parola di Dio, è garanzia di corretta risposta alla Parola stessa. Una tradizione fatta di una lingua sacra, il latino, immutabile nella quale ogni parola è già essa stessa teologia.
B-XVI, nella scuola di liturgia delle sue messe papali, ci ha insegnato magnificamente questo: ristabilire il primato della liturgia, fonte e culmine della vita della chiesa, e il primato di Cristo. “Non più io vivo, ma è Cristo che vive in me”, afferma san Paolo. Il sacerdote, coi paramenti, si “riveste” di Cristo (Gal 3, 27), dell’uomo nuovo (Ef 4, 24), per diventare per Cristo, con Cristo e in Cristo. Il Padre misericordioso, ci ha insegnato Joseph Ratzinger, dopo averlo abbracciato al suo ritorno, che è una risurrezione spirituale, ordina di andare a prendere “il vestito migliore” (Lc 15, 22).
E questo altro non è che l’applicazione di quel Concilio Vaticano II al quale molti si appellano per dimostrare il definitivo superamento dell’arte sacra della tradizione: “Una vigilanza speciale abbiano gli Ordinari nell’evitare che la sacra suppellettile o le opere preziose, che sono ornamento della casa di Dio, vengano alienate o disperse” (Sacrosanctum Concilium, 126) e precisa, inoltre, l’Ordinamento generale del Messale romano: “Nei giorni più solenni si possono usare vesti festive più preziose” (n. 346).
di Mattia Rossi
AVE MARIA PURISSIMA!
© - FOGLIO QUOTIDIANo
Il grande sermone del Papa sul fondamento della politica
Il grande sermone del Papa sul fondamento della politica
Ecco che cosa ha detto ieri il Papa al Bundestag, Berlino
E’ per me un onore e una gioia parlare davanti a questa Camera alta – davanti al Parlamento della mia Patria tedesca, che si riunisce qui come rappresentanza del popolo, eletta democraticamente, per lavorare per il bene della Repubblica Federale della Germania. Vorrei ringraziare il Signor Presidente del Bundestag per il suo invito a tenere questo discorso, così come per le gentili parole di benvenuto e di apprezzamento con cui mi ha accolto. In questa ora mi rivolgo a Voi, stimati Signori e Signore – certamente anche come connazionale che si sa legato per tutta la vita alle sue origini e segue con partecipazione le vicende della Patria tedesca.
Ma l’invito a tenere questo discorso è rivolto a me in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma, che porta la suprema responsabilità per la cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla Santa Sede quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli Stati. In base a questa mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti dello Stato liberale di diritto.
Ma l’invito a tenere questo discorso è rivolto a me in quanto Papa, in quanto Vescovo di Roma, che porta la suprema responsabilità per la cristianità cattolica. Con ciò Voi riconoscete il ruolo che spetta alla Santa Sede quale partner all’interno della Comunità dei Popoli e degli Stati. In base a questa mia responsabilità internazionale vorrei proporVi alcune considerazioni sui fondamenti dello Stato liberale di diritto.
Mi si consenta di cominciare le mie riflessioni sui fondamenti del diritto con una piccola narrazione tratta dalla Sacra Scrittura. Nel Primo Libro dei Re si racconta che al giovane re Salomone, in occasione della sua intronizzazione, Dio concesse di avanzare una richiesta. Che cosa chiederà il giovane sovrano in questo momento importante? Successo, ricchezza, una lunga vita, l’eliminazione dei nemici? Nulla di tutto questo egli chiede. Domanda invece: “Concedi al tuo servo un cuore docile, perché sappia rendere giustizia al tuo popolo e sappia distinguere il bene dal male” (1Re 3,9). Con questo racconto la Bibbia vuole indicarci che cosa, in definitiva, deve essere importante per un politico. Il suo criterio ultimo e la motivazione per il suo lavoro come politico non deve essere il successo e tanto meno il profitto materiale.
La politica deve essere un impegno per la giustizia e creare così le condizioni di fondo per la pace. Naturalmente un politico cercherà il successo che di per sé gli apre la possibilità dell’azione politica effettiva. Ma il successo è subordinato al criterio della giustizia, alla volontà di attuare il diritto e all’intelligenza del diritto. Il successo può essere anche una seduzione e così può aprire la strada alla contraffazione del diritto, alla distruzione della giustizia. “Togli il diritto – e allora che cosa distingue lo Stato da una grossa banda di briganti?” ha sentenziato una volta sant’Agostino.
1. Noi tedeschi sappiamo per nostra esperienza che queste parole non sono un vuoto spauracchio. Noi abbiamo sperimentato il separarsi del potere dal diritto, il porsi del potere contro il diritto, il suo calpestare il diritto, così che lo Stato era diventato lo strumento per la distruzione del diritto – era diventato una banda di briganti molto ben organizzata, che poteva minacciare il mondo intero e spingerlo sull’orlo del precipizio. Servire il diritto e combattere il dominio dell’ingiustizia è e rimane il compito fondamentale del politico. In un momento storico in cui l’uomo ha acquistato un potere finora inimmaginabile, questo compito diventa particolarmente urgente. L’uomo è in grado di distruggere il mondo.
Può manipolare se stesso. Può, per così dire, creare esseri umani ed escludere altri esseri umani dall’essere uomini. Come riconosciamo che cosa è giusto? Come possiamo distinguere tra il bene e il male, tra il vero diritto e il diritto solo apparente? La richiesta salomonica resta la questione decisiva davanti alla quale l’uomo politico e la politica si trovano anche oggi.
In gran parte della materia da regolare giuridicamente, quello della maggioranza può essere un criterio sufficiente. Ma è evidente che nelle questioni fondamentali del diritto, nelle quali è in gioco la dignità dell’uomo e dell’umanità, il principio maggioritario non basta: nel processo di formazione del diritto, ogni persona che ha responsabilità deve cercare lei stessa i criteri del proprio orientamento. Nel Terzo secolo, il grande teologo Origene ha giustificato così la resistenza dei cristiani a certi ordinamenti giuridici in vigore: “Se qualcuno si trovasse presso il popolo della Scizia che ha leggi irreligiose e fosse costretto a vivere in mezzo a loro… questi senz’altro agirebbe in modo molto ragionevole se, in nome della legge della verità che presso il popolo della Scizia è appunto illegalità, insieme con altri che hanno la stessa opinione, formasse associazioni anche contro l’ordinamento in vigore…”.
2. In base a questa convinzione, i combattenti della resistenza hanno agito contro il regime nazista e contro altri regimi totalitari, rendendo così un servizio al diritto e all’intera umanità. Per queste persone era evidente in modo incontestabile che il diritto vigente, in realtà, era ingiustizia. Ma nelle decisioni di un politico democratico, la domanda su che cosa ora corrisponda alla legge della verità, che cosa sia veramente giusto e possa diventare legge non è altrettanto evidente. Ciò che in riferimento alle fondamentali questioni antropologiche sia la cosa giusta e possa diventare diritto vigente, oggi non è affatto evidente di per sé. Alla questione come si possa riconoscere ciò che veramente è giusto e servire così la giustizia nella legislazione, non è mai stato facile trovare la risposta e oggi, nell’abbondanza delle nostre conoscenze e delle nostre capacità, tale questione è diventata ancora molto più difficile.
Come si riconosce ciò che è giusto? Nella storia, gli ordinamenti giuridici sono stati quasi sempre motivati in modo religioso: sulla base di un riferimento alla Divinità si decide ciò che tra gli uomini è giusto. Contrariamente ad altre grandi religioni, il cristianesimo non ha mai imposto allo Stato e alla società un diritto rivelato, un ordinamento giuridico derivante da una rivelazione. Ha invece rimandato alla natura e alla ragione quali vere fonti del diritto – ha rimandato all’armonia tra ragione oggettiva e soggettiva, un’armonia che però presuppone l’essere ambedue le sfere fondate nella Ragione creatrice di Dio. Con ciò i teologi cristiani si sono associati ad un movimento filosofico e giuridico che si era formato sin dal secolo II a. C. Nella prima metà del secondo secolo precristiano si ebbe un incontro tra il diritto naturale sociale sviluppato dai filosofi stoici e autorevoli maestri del diritto romano.
3. In questo contatto è nata la cultura giuridica occidentale, che è stata ed è tuttora di un’importanza determinante per la cultura giuridica dell’umanità. Da questo legame precristiano tra diritto e filosofia parte la via che porta, attraverso il Medioevo cristiano, allo sviluppo giuridico dell’Illuminismo fino alla Dichiarazione dei Diritti umani e fino alla nostra Legge Fondamentale tedesca, con cui il nostro popolo, nel 1949, ha riconosciuto “gli inviolabili e inalienabili diritti dell’uomo come fondamento di ogni comunità umana, della pace e della giustizia nel mondo”.
Per lo sviluppo del diritto e per lo sviluppo dell’umanità è stato decisivo che i teologi cristiani abbiano preso posizione contro il diritto religioso, richiesto dalla fede nelle divinità, e si siano messi dalla parte della filosofia, riconoscendo come fonte giuridica valida per tutti la ragione e la natura nella loro correlazione. Questa scelta l’aveva già compiuta san Paolo, quando, nella sua Lettera ai Romani, afferma: “Quando i pagani, che non hanno la Legge [la Torà di Israele], per natura agiscono secondo la Legge, essi… sono legge a se stessi. Essi dimostrano che quanto la Legge esige è scritto nei loro cuori, come risulta dalla testimonianza della loro coscienza…” (Rm 2,14s). Qui compaiono i due concetti fondamentali di natura e di coscienza, in cui “coscienza” non è altro che il “cuore docile” di Salomone, la ragione aperta al linguaggio dell’essere. Se con ciò fino all’epoca dell’Illuminismo, della Dichiarazione dei Diritti umani dopo la Seconda guerra mondiale e fino alla formazione della nostra Legge Fondamentale la questione circa i fondamenti della legislazione sembrava chiarita, nell’ultimo mezzo secolo è avvenuto un drammatico cambiamento della situazione.
L’idea del diritto naturale è considerata oggi una dottrina cattolica piuttosto singolare, su cui non varrebbe la pena discutere al di fuori dell’ambito cattolico, così che quasi ci si vergogna di menzionarne anche soltanto il termine. Vorrei brevemente indicare come mai si sia creata questa situazione. E’ fondamentale anzitutto la tesi secondo cui tra l’essere e il dover essere ci sarebbe un abisso insormontabile. Dall’essere non potrebbe derivare un dovere, perché si tratterebbe di due ambiti assolutamente diversi. La base di tale opinione è la concezione positivista, oggi quasi generalmente adottata, di natura e ragione. Se si considera la natura – con le parole di Hans Kelsen – “un aggregato di dati oggettivi, congiunti gli uni agli altri quali cause ed effetti”, allora da essa realmente non può derivare alcuna indicazione che sia in qualche modo di carattere etico.
4. Una concezione positivista di natura, che comprende la natura in modo puramente funzionale, così come le scienze naturali la spiegano, non può creare alcun ponte verso l’ethos e il diritto, ma suscitare nuovamente solo risposte funzionali. La stessa cosa, però, vale anche per la ragione in una visione positivista, che da molti è considerata come l’unica visione scientifica. In essa, ciò che non è verificabile o falsificabile non rientra nell’ambito della ragione nel senso stretto. Per questo l’ethos e la religione devono essere assegnati all’ambito del soggettivo e cadono fuori dall’ambito della ragione nel senso stretto della parola. Dove vige il dominio esclusivo della ragione positivista – e ciò è in gran parte il caso nella nostra coscienza pubblica – le fonti classiche di conoscenza dell’ethos e del diritto sono messe fuori gioco. Questa è una situazione drammatica che interessa tutti e su cui è necessaria una discussione pubblica; invitare urgentemente ad essa è un’intenzione essenziale di questo discorso.
Il concetto positivista di natura e ragione, la visione positivista del mondo è nel suo insieme una parte grandiosa della conoscenza umana e della capacità umana, alla quale non dobbiamo assolutamente rinunciare. Ma essa stessa nel suo insieme non è una cultura che corrisponda e sia sufficiente all’essere uomini in tutta la sua ampiezza. Dove la ragione positivista si ritiene come la sola cultura sufficiente, relegando tutte le altre realtà culturali allo stato di sottoculture, essa riduce l’uomo, anzi, minaccia la sua umanità. Lo dico proprio in vista dell’Europa, in cui vasti ambienti cercano di riconoscere solo il positivismo come cultura comune e come fondamento comune per la formazione del diritto, mentre tutte le altre convinzioni e gli altri valori della nostra cultura vengono ridotti allo stato di una sottocultura. Con ciò si pone l’Europa, di fronte alle altre culture del mondo, in una condizione di mancanza di cultura e vengono suscitate, al contempo, correnti estremiste e radicali.
La ragione positivista, che si presenta in modo esclusivista e non è in grado di percepire qualcosa al di là di ciò che è funzionale, assomiglia agli edifici di cemento armato senza finestre, in cui ci diamo il clima e la luce da soli e non vogliamo più ricevere ambedue le cose dal mondo vasto di Dio. E tuttavia non possiamo illuderci che in tale mondo autocostruito attingiamo in segreto ugualmente alle “risorse” di Dio, che trasformiamo in prodotti nostri. Bisogna tornare a spalancare le finestre, dobbiamo vedere di nuovo la vastità del mondo, il cielo e la terra ed imparare ad usare tutto questo in modo giusto.
Ma come lo si realizza? Come troviamo l’ingresso nella vastità, nell’insieme? Come può la ragione ritrovare la sua grandezza senza scivolare nell’irrazionale? Come può la natura apparire nuovamente nella sua vera profondità, nelle sue esigenze e con le sue indicazioni? Richiamo alla memoria un processo della recente storia politica, nella speranza di non essere troppo frainteso né di suscitare troppe polemiche unilaterali. Direi che la comparsa del movimento ecologico nella politica tedesca a partire dagli anni Settanta, pur non avendo forse spalancato finestre, tuttavia è stata e rimane un grido che anela all’aria fresca, un grido che non si può ignorare né accantonare, perché vi si intravede troppa irrazionalità. Persone giovani si erano rese conto che nei nostri rapporti con la natura c’è qualcosa che non va; che la materia non è soltanto un materiale per il nostro fare, ma che la terra stessa porta in sé la propria dignità e noi dobbiamo seguire le sue indicazioni. E’ chiaro che qui non faccio propaganda per un determinato partito politico – nulla mi è più estraneo di questo.
Quando nel nostro rapporto con la realtà c’è qualcosa che non va, allora dobbiamo tutti riflettere seriamente sull’insieme e tutti siamo rinviati alla questione circa i fondamenti della nostra stessa cultura. Mi sia concesso di soffermarmi ancora un momento su questo punto. L’importanza dell’ecologia è ormai indiscussa. Dobbiamo ascoltare il linguaggio della natura e rispondervi coerentemente. Vorrei però affrontare con forza ancora un punto che oggi come ieri viene largamente trascurato: esiste anche un’ecologia dell’uomo. Anche l’uomo possiede una natura che deve rispettare e che non può manipolare a piacere. L’uomo non è soltanto una libertà che si crea da sé. L’uomo non crea se stesso. Egli è spirito e volontà, ma è anche natura, e la sua volontà è giusta quando egli ascolta la natura, la rispetta e quando accetta se stesso per quello che è, e che non si è creato da sé. Proprio così e soltanto così si realizza la vera libertà umana.
Torniamo ai concetti fondamentali di natura e ragione da cui eravamo partiti. Il grande teorico del positivismo giuridico, Kelsen, all’età di 84 anni – nel 1965 – abbandonò il dualismo di essere e dover essere. Aveva detto che le norme possono derivare solo dalla volontà. Di conseguenza, la natura potrebbe racchiudere in sé delle norme solo se una volontà avesse messo in essa queste norme. Ciò, d’altra parte, presupporrebbe un Dio creatore, la cui volontà si è inserita nella natura. “Discutere sulla verità di questa fede è una cosa assolutamente vana”, egli nota a proposito.
5 Lo è veramente? – vorrei domandare. È veramente privo di senso riflettere se la ragione oggettiva che si manifesta nella natura non presupponga una Ragione creativa, un Creator Spiritus?
A questo punto dovrebbe venirci in aiuto il patrimonio culturale dell’Europa. Sulla base della convinzione circa l’esistenza di un Dio creatore sono state sviluppate l’idea dei diritti umani, l’idea dell’uguaglianza di tutti gli uomini davanti alla legge, la conoscenza dell’inviolabilità della dignità umana in ogni singola persona e la consapevolezza della responsabilità degli uomini per il loro agire. Queste conoscenze della ragione costituiscono la nostra memoria culturale. Ignorarla o considerarla come mero passato sarebbe un’amputazione della nostra cultura nel suo insieme e la priverebbe della sua interezza. La cultura dell’Europa è nata dall’incontro tra Gerusalemme, Atene e Roma – dall’incontro tra la fede in Dio di Israele, la ragione filosofica dei Greci e il pensiero giuridico di Roma. Questo triplice incontro forma l’intima identità dell’Europa. Nella consapevolezza della responsabilità dell’uomo davanti a Dio e nel riconoscimento della dignità inviolabile dell’uomo, di ogni uomo, questo incontro ha fissato dei criteri del diritto, difendere i quali è nostro compito in questo momento storico.
Al giovane re Salomone, nell’ora dell’assunzione del potere, è stata concessa una sua richiesta. Che cosa sarebbe se a noi, legislatori di oggi, venisse concesso di avanzare una richiesta? Che cosa chiederemmo? Penso che anche oggi, in ultima analisi, non potremmo desiderare altro che un cuore docile – la capacità di distinguere il bene dal male e di stabilire così un vero diritto, di servire la giustizia e la pace. Grazie per la vostra attenzione.
di Benedetto XVI
AVE MARIA PURISSIMA!
Mariae nomen longe melius quam divitiae, quia melius angustiam relevat (De laud. Virg., c. 2).
- O dulcis Virgo Maria.
§ unico. - Quanto sia dolce in vita ed in morte il nome di Maria.
Il gran nome di Maria, che fu dato alla divina Madre, non fu già ritrovato in terra, né inventato dalla mente o dall'arbitrio degli uomini, come succede in tutti gli altri nomi che s'impongono; ma egli scese dal cielo e fu imposto per divina ordinazione, come attestano S. Girolamo (Lib. de Nat. Mar.),1 S. Epifanio (Or. de Praes. Deip.),2 S. Antonino (P. I, Hist., tit. 4, c. 6)3 ed altri.
De thesauro Divinitatis Mariae nomen evolvitur, parla Riccardo di S. Lorenzo (De laud. Virg., pag. 14).4 Dal tesoro della divinità, o Maria, uscì il vostro eccelso ed ammirabil nome; poiché tutta la SS. Trinità, segue a dire lo stesso autore, diede a voi un tal nome, superiore ad ogni nome dopo il nome del vostro Figliuolo, e l'arricchì di tanta maestà e potenza, che al proferirsi il vostro nome volle che per riverenza tutti prostrati lo venerassero, il cielo, la terra e l'inferno: Dedit tibi, Maria, tota Trinitas nomen post nomen Filii tui supra omne nomen; ut in nomine tuo omne genuflectatur caelestium, terrestrium et infernorum (De laud. Virg., l. 1, c. 2).5
Ma tra gli altri pregi che 'l Signore ha dati al nome di Maria, vediamo ora quanto l'ha fatto dolce a' servi di questa santissima Signora, così in vita come in morte. E per prima parlando del tempo della vita, diceva il santo anacoreta Onorio che 'l nome di Maria è pieno d'ogni dolcezza divina: Hoc nomen Mariae plenum est omni dulcedine ac suavitate divina.6
In modo che il glorioso S. Antonio da Padova riconosceva nel nome di Maria le stesse dolcezze che S. Bernardo considerava nel nome di Gesù: Nomen Iesu, diceva questi, Nomen Mariae, ripigliava l'altro, iubilus in corde, mel in ore, in aure melos:7 Il nome di questa Vergine Madre è gioia al cuore, miele alla bocca, melodia all'orecchio de' suoi divoti.
- Si narra del V.P. Giovenale Ancina vescovo di Saluzzo, come si ha nella sua Vita, ch'egli in nominar Maria gustava una dolcezza sensibile così grande, che se ne lambiva anche le labbra.8 Si legge similmente che una certa donna in Colonia disse al vescovo Marsilio che sempre ch'ella pronunziava il nome di Maria, sentiva nella bocca un sapore più dolce del mele. Il che praticandolo indi Marsilio, anch'egli provò la stessa dolcezza.9
- Si ritrae da' Sacri Cantici che nell'Assunzione della Vergine tre volte gli angeli richiesero del suo nome: Quae est ista quae ascendit per desertum sicut virgula fumi? (Cap. III, 6). In altro luogo: Quae est ista quae progreditur quasi aurora consurgens? (Cap. VI, 9). In altro: Quae est ista quae ascendit de deserto deliciis affluens? (VIII, 5). Or dimanda Riccardo di S. Lorenzo, perché gli angeli replicano tante richieste del nome di questa Regina? e risponde: Forsitan quia dulce nomen sibi desiderant responderi (De laud. Virg., c. 2):10 Era così dolce anche agli angeli il sentir risonare il nome di Maria, che perciò ne fanno tante dimande. Ma io non parlo qui di questa dolcezza sensibile, poiché questa non si concede comunemente a tutti; ma parlo della dolcezza salutare di conforto, di amore, di letizia, di confidenza e di fortezza, che dona questo nome di Maria comunemente a coloro che con divozione lo proferiscono.
Di ciò parlando l'abbate Francone (De Grat. Nov. Test., tr. 6) dice che dopo il sacrosanto nome di Gesù, il nome di Maria è sì ricco di beni, che nella terra e nel cielo non risuona altro nome, da cui l'anime divote ricevano tanto di grazia, di speranza, di dolcezza: Neque enim post Filii nomen aliud nomen caelum et terra nominat, unde tantum gratiae, spei, et suavitatis piae mentes concipiant. Poiché, segue a dire, il nome di Maria racchiude in sé un certo che di ammirabile, di dolce e di divino, che quando conviene11 ai cuori amici, spira in essi un odore di santa soavità. E la maraviglia di questo gran nome si è, così conclude, che mille volte inteso dagli amanti di Maria, sempre si ascolta come nuovo, provando essi sempre la stessa dolcezza in udirlo nominare: Nomen namque Mariae mirum quid, suave atque divinum in se continet, ut cum convenit amicis cordibus, amicae suavitatis odorem spiret. Et mirum illud est de nomine Mariae, ut millies auditum, semper audiatur quasi novum (Loc. cit.).12
Di questa dolcezza parimente parlando il B. Errico Susone, diceva che in nominar Maria sentivasi talmente sollevare alla confidenza e con tal gioia accendere d'amore, che tra la gioia e le lagrime, fra cui proferiva l'amato nome, desiderava che 'l cuore dal petto gli saltasse fuor della bocca; mentre asseriva che questo dolcissimo nome qual favo di miele se gli liquefacea nel fondo dell'anima.13 Onde poi esclamava: O soavissimo nome! O Maria, qual sarete voi stessa, se il vostro solo nome è tanto amabile e grazioso?14
Quindi rivolto alla sua buona Madre l'innamorato S. Bernardo con tenerezza le dice: O magna, o pia, o multum laudabilis Maria; tu nec nominari potes quin accendas, nec cogitari quin recrees affectus diligentium te (S. Bern., ap. S. Bon., Spec., c. 8):15 O grande, o pia, o degna di tutte le lodi, SS. Vergine Maria, il vostro nome è così dolce ed amabile che non può esser nominato senza che infiammi d'amore verso di voi e di Dio chi lo nomina: anzi basta ch'egli s'affacci solamente al pensiero de' vostri amanti, per accenderli vie più ad amarvi, e consolarli.
E se le ricchezze consolano i poveri, poiché gli sollevano dalle loro miserie, oh quanto meglio consola noi miseri - parla Riccardo di S. Lorenzo - il vostro nome, o Maria, mentre meglio assai che le ricchezze della terra, egli ci solleva dalle angustie della presente vita: Mariae nomen longe melius quam divitiae, quia melius angustiam relevat (De laud. Virg., c. 2).16
Da <Le glorie di Maria >
Cuore Immacolato di Maria,
prega per noi adesso
e nell'ora della nostra morte.
e nell'ora della nostra morte.
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