Gesù e Roma, affare di Stato
Ci sono ancora degli increduli i che sostengono che Gesù non sia mai esistito, perchè i Vangeli sono la sola testimonianza della sua esistenza, testimonianza interessata e dunque non credibili. E che le fonti pagane che ne parlano, indipendenti dai Vangeli, sono interpolazioni e falsificazioni inserite nei testi dai primi cristiani.Questi increduli sono gli eredi attardati della iper-critica anticristiana ottocentesca, che per esempio bollò come interpolazioni, ossia falsi inseriti da cristiani, il passo negli Annali di Tacito (XV 44,5), dove si dice che un tal Cresto fu messo a morte dal procuratore Pilato; e ancor più la frase di Giuseppe Flavio nelle Antichità Giudaiche (XVIII, 64) dove si parla di Gesù e di come, «su denuncia dei nostri notabili (Giuseppe era ebreo) Pilato lo condannò a morte»: il celebre testimonium flavianum, rigettato come falso.
Ma pochi sanno che la ricerca storica ha fatto nel frattempo grandi passi avanti, debellando gli ipercritici.
L'iscrizione recante il nome di Ponzio Pilato, Prefetto della Giudea negli anni 26-36 dopo Cristo
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Specie gli studi della storica Marta Sordi e dei suoi ricercatori (per lo più ricercatrici) hanno rivoluzionato le conoscenze dei primi anni del cristianesimo. Al punto da consentire di stabilire una precisa e minuziosa cronologia degli eventi.
Proviamo qui a delinearla.
Anno 31 della nostra era: a Roma, cade in disgrazia Seiano, il troppo potente prefetto dei pretoriani (le guardie del corpo imperiali) a cui il caratteriale Tiberio, ritiratosi a Capri, aveva affidato gli affari. Avvertito da delatori che Seiano stava tramando per scalzarlo nell’impero, Tiberio passò dalla fiducia eccessiva alla totale sfiducia e fece uccidere il suo braccio destro.
Perché la caduta di Seiano è cruciale nel destino mortale di Gesù? Perché Pilato, prefetto di Giudea, era un raccomandato di Seiano, un suo cliente. Gli doveva la carriera. Pilato dunque, privato di colpo del suo protettore a Roma, si sente debole e insicuro nel 31, che è l’anno probabile del processo (alcuni storici ne fissano la data: 27 aprile), e non in grado di resistere alle pressioni dei sacerdoti che sobillano la folla contro il Nazareno. Quando questi gli gridano: se salvi Gesù, «non sei amico di Cesare», Pilato deve pensare: accidenti, questi mi rovinano.
Non era la prima volta che i capi ebraici avevano fatto arrivare all’imperatore dei rapporti contro di lui. Per esempio Tiberio, informato dai notabili giudaici, gli aveva ordinato di togliere certi scudi dorati, da lui dedicati per adulazione all’imperatore ed esposti nel palazzo di Erode. Un segno di più che l’imperatore non lo aveva in simpatia; a quel punto, Tiberio il sospettoso poteva persino sospettare Pilato di complicità nella trama di Seiano. Il che significava la morte.
Per contro i capi ebrei si sentivano forti: con Seiano era caduto un loro nemico, un antisemita (diremmo oggi) che aveva osteggiato duramente il proselitismo ebraico nella capitale. Gesù dunque fu mandato sulla croce nel quadro di questo contesto di potere repentinamente mutato, e di rapporti di forza improvvisamente rovesciati.
Anno 34: esecuzione di Stefano, il primo martire.
La sua lapidazione, raccontata negli Atti degli Apostoli (ci dicono anche che Saulo di Tarso, allora allievo zelante e feroce del sapiente rabbino Gamaliele, partecipò all’esecuzione), era una violazione delle norme romane: nelle province, la prerogativa di infliggere la pena capitale spettava al governatore romano, non alle autorità etniche locali.
Ciò dà a Tiberio l’occasione, probabilmente da lungo tempo attesa, di mettere ordine nella sediziosa provincia giudaica. Infatti, come attesta Tacito, (Annali VI, 38,5) l’imperatore manda un suo delegato, L. Vitellio, per provvedere «alla sistemazione generale dei problemi dell’Oriente».
Anno 36 o 37: Vitellio piomba a Gerusalemme e, come primo provvedimento, depone il gran sacerdote ebraico Caifa, quello stesso che aveva fatto condannare Gesù: evidentemente, come responsabile dell’esecuzione sommaria di Stefano, illegale per Roma.
Secondo provvedimento: Vitellio depone Pilato, che non viene più riabilitato, e lo sostituisce con un suo uomo di fiducia, di nome – ricordatelo – Marcello.
Il fatto è che nel frattempo la corte imperiale aveva ricevuto un altro rapporto contro Pilato, stavolta inviato dai samaritani; ma certo anche la debolezza mostrata dal governatore non nel processo a Gesù (formalmente legale) ma per non aver impedito la lapidazione abusiva di Stefano, devono aver avuto una parte nella deposizione.
Come lo sappiamo?
Uno storico armeno del V secolo riporta una lettera di Tiberio ad Agbar, toparca di Edessa tra il 13 e il 50 dopo Cristo, in cui l’imperatore comunica che «punirà i giudei» non appena avrà sedato la rivolta degli iberi, e intanto ha già mandato via Pilato.
Un falso, dicono gli ipercritici: invece no. La lettera descrive con precisione la missione affidata da Tiberio a Vitellio e riportata da Tacito, «sistemazione generale dell’Oriente».
Gli Iberi di cui si parla infatti non sono gli spagnoli, ma gli Iberi del Caucaso, con cui Vitellio ebbe a che fare effettivamente (Vitellio si occupò anche dei Parti e poi di Areta, etnarca di Damasco che si era sottratto al dominio di Roma, nel quadro della sistemazione generale).
Gli Atti degli apostoli attestano a modo loro la stessa cosa: attestano che nel 36 (Pietro e Paolo sono a Gerusalemme in quella data) c’è «la pace per la Chiesa in Giudea, Galilea e Samaria».
Dunque Vitellio aveva fatto cessare la persecuzione degli ebrei contro i primi cristiani.
Ma ora, un piccolo passo indietro: cruciale, importantissimo.
Anno 35: Tiberio propone al Senato di riconoscere il cristianesimo comereligio licita (religione riconosciuta); il Senato, per ripicca perché l’ammissione di nuovi culti era sua prerogativa, respinge la mozione dell’imperatore. E lo fa con un senatoconsulto fatale, perché diverrà il fondamento legale di tutte le future persecuzioni: Non licet esse christianos.
Un senatoconsulto infatti ha forza di legge. Tiberio non può far altro – come un presidente americano d’oggi – che porre il veto: finchè lui è vivo, questa legge anti-cristiana viene sospesa.
Questo, in breve, è ciò che racconta Tertulliano nella sua Apologia (V, 2).
Ribattono gli ipercritici: Tertulliano scrive nel secondo secolo, questa proposta di Tiberio, avvenuta cento anni prima, non poteva conoscerla, s’è inventato tutto di sana pianta.
Ma l’obiezione non regge: Tertulliano scrive ai «responsabili dell’impero» (imperii antistites) per convincerli ad abrogare quel senatoconsulto: come poteva inventarselo? I maggiorenti, che avevano a disposizione gli archivi di Stato, l’avrebbero subito sbugiardato. Anzi, Tertulliano aveva tutto l’interesse a negare l’esistenza di una simile legge, per affermare che le persecuzioni non avevano fondamento giuridico.
Di più. Tertulliano spiega che il Senato non conosceva la situazione in Palestina, mentre Tiberio ne era bene informato perché aveva «un rapporto di Pilato» sulla rapida diffusione della fede.
Insomma l’imperatore, contrariamente ai senatori, aveva studiato la pratica: e aveva capito quanto meno che i seguaci di Cristo toglievano al messianismo ebraico ogni spinta violenta e politica antiromana («Il mio regno non è di questo mondo») e dunque, che era politicamente opportuno riconoscere questa nuova fede, che prometteva di placare l’eterno ribellismo ebraico.
Falso, falso, ribattono gli ipercritici: non c’è alcuna prova di questo rapporto di Pilato.
In realtà, ne parlano anche Giustino ed Eusebio di Cesarea. Questo autore è tardo, è vero: ma racconta il processo e l’esecuzione di un senatore accusato di cristianesimo, Apollonio, avvenuta fra il 183-185, e dice che Apollonio fu condannato in base «al senatoconsulto che dice non essere lecito essere cristiani».
Non può esserselo inventato. E in verità, sarebbe strano il contrario, che Pilato non avesse riferito a Roma la situazione. Il governo romano era una cosa seria, la sua burocrazia era continuamente informata, le relazioni dei governatori delle province erano regolari e normali. Pilato potrà (forse) aver evitato di informare Tiberio del processo a Gesù, conclusosi dopotutto con un’esecuzionelegale, romana; ma non può aver taciuto dei processi ed esecuzioni illegali che il sinedrio aveva scatenato contro i seguaci di Cristo: era un problema urgente d’ordine pubblico.
Di più. Tutto ciò che abbiamo raccontato spiega e illumina il passo più sibillino delle lettere di San Paolo: nella Seconda Lettera ai Tessalonicesi, dove l’apostolo allude al katechon.
Ossia a qualcosa o qualcuno che «trattiene l’Anticristo» (2,1-7).
Scrive Paolo: vi ho raccontato a voce che qualcosa trattiene «l’uomo d’iniquità», c’è solo da aspettare che «chi lo trattiene sia tolto di mezzo».
Secondo Marta Sordi e le sue ricercatrici-detectives, Paolo accenna qui al veto opposto da Tiberio alla legge senatoriale che rendeva illecita la fede cristiana. Il veto è «ciò che trattiene» (katechon, neutro). Tiberio, «finchè non è tolto di mezzo», è colui che trattiene la persecuzione (qui Paolo usa non più il neutro, ma il maschile). La persecuzione avverrà alla morte dell’imperatore, quando salirà al trono Nerone.
Nei secoli, i cristiani non hanno più capito l’allusione. Ma hanno mantenuto l’idea che il katechon è il romanum imperium, come dice Tommaso d’Aquino: un potere politico amico dell’uomo, e della verità . Non andavano lontani dal vero.
Ma di quest’amicizia – amicizia dei livelli più alti del potere imperiale con i primi cristiani – ci sono altre prove.
(continua)
Maurizio Blondet