sabato 29 settembre 2012

BEATO P. GABRIELE M. ALLEGRA: "Io penso che solo per un carisma dello Spirito Santo, solamente col suo aiuto una povera donna ammalata, di cultura biblica limitata, poté nello spazio di tre anni scrivere ventimila pagine che, stampate, equivalgono a dieci volumi: e quali pagine! ... "


ALCUNE TESTIMONIANZE DEL BEATO P. GABRIELE ALLEGRA



Dal suo diario:

Martedì e Mercoledì Santo, 9-10 aprile 1968, Macao
Il poema dell'Uomo-Dio di M. Valtorta è stato pubblicato come un romanzo, e spero che a tal titolo continui a ristamparsi e spesso nell'avvenire, ma non è un romanzo. È il complemento delle quattro tradizioni evangeliche e la spiegazione di esse. 
Questa spiegazione a volte ci sorprende, ci sembra così nuova, così vera e così energica che siamo tutti pronti a trascurarla. Si tratta di rivelazioni private! e poi fatte a una donna! E noi uomini, noi sacerdoti, sappiamo bene imitare in ciò gli Apostoli, che chiamarono delirio di femminette la visione che esse ebbero del Cristo Risorto. 
 Certo S. Paolo nell'elenco dei testi della Resurrezione esclude le donne, ma i Vangeli danno invece ad esse una parte preponderante. Però tutti i sacerdoti in questo vogliono imitare S. Paolo! 
Ora il Poema dell'Uomo-Dio non merita davvero di essere negletto con quella superba sicurezza e con quel sussiego, che è la caratteristica di molti teologi moderni. Nella Chiesa c'è lo Spirito e ci sono quindi i carismi dello Spirito. Io penso che solo per un carisma dello Spirito Santo, solamente col suo aiuto una povera donna ammalata, di cultura biblica limitata, poté nello spazio di tre anni scrivere ventimila pagine che, stampate, equivalgono a dieci volumi: e quali pagine! 

E noto pure che certi discorsi del Signore, dei quali nei Vangeli è solo accennato l'argomento principale, sono sviluppati in quest'opera con una naturalezza, con una concatenazione di pensiero così logica, così spontanea, così aderente al tempo, al luogo, alle circostanze, che non ho trovato nei più famosi esegeti. Cito solo il discorso del Signore con Nicodemo e quello del Pane di vita. 
Ma gli esegeti, seguaci del Metodo della Storia delle forme, non si umilieranno mai (!) a dare uno sguardo a quest'opera, dove con una facilità meravigliosa vengono sciolti molti problemi e rifatti tanti discorsi dei quali purtroppo ci resta solo il tema. Insomma ritengo che quest'opera della Valtorta merita almeno quell'attenzione che i teologi prestarono alla Mistica Ciudad de Dios della Ven. Agreda, alle Rivelazioni della Ven.[ora Beata] A. C. Emmerich e a quelle di S. Brigida. 
Nessuno mi potrà far credere che una povera inferma, solo in virtù del suo fervido sentimento religioso, abbia scritto il Poema, tanto più che i diversi quadri o scene della vita del Signore essa non li vide in ordine cronologico ma contro invece un tal ordine, sparse o rappresentatele confusamente per lo spazio di tre anni. 

Quale fu questo carisma, quali le sue dimensioni? Come lo strumento umano cooperò con esso? Cosa viene dallo Spirito attraverso la mente e il cuore di una pia cristiana, e cosa è frutto esclusivo della psiche della Valtorta? E perché Gesù, nella ipotesi di visioni soprannaturali, adopera il linguaggio di un teologo del secolo XX e non quello del suo tempo? Ha voluto forse insegnarci cosa si trovi nelle Sacre Scritture e come bisogna esprimerlo oggi? 
Tante questioni che meritano di essere studiate e meditate, prima di esporre ragionatamente come il Poema dell'Uomo-Dio non contraddica mai al Vangelo, ma lo completa mirabilmente e lo rende vivo e potente, tenero ed esigente. 
Determinata bene la natura del carisma dello Spirito e la realtà della sua azione in Maria Valtorta, quale atteggiamento deve assumere il cristiano leggendo queste mirabili pagine evangeliche? Mi pare che si imponga la stessa conclusione pratica per chi ha letto e studiato i documenti della Storia delle Apparizioni di Paray le Monial, Lourdes, Fatima, Siracusa... E con lo stesso grado di fede, e nella misura che Gesù Signore e la Chiesa lo desiderano, io ci credo.

*

ED ECCO UN ALTRO SCRITTO DEL BEATO GABRIELE MARIA ALLEGRA DELLA STESSA EPOCA SULLA MEDESIMA MARIA VALTORTA

*

Critica del Beato G. M. Allegra

Critica dell'opera di Maria Valtorta,
 scritta a Macao tra il 1968 e il 1970

<<Il Poema dell'Uomo-Dio, ossia : 
L'EVANGELO COME MI E' STATO RIVELATO 
contiene, anzi è una serie di visioni,
alle quali l'Autrice assiste, come se fosse una contemporanea,
e perciò vede e sente quanto riguarda
la vita di Gesù a cominciare dalla nascita di Maria
SS., avvenuta per grazia celeste nella vecchiaia di
Anna e Gioacchino, sino alla Resurrezione e
Ascensione del Signore, anzi sino all'Assunzione
della Beata Vergine in Cielo.
La Veggente-ascoltatrice comincia di solito a descrivere
il sito della scena che contempla, riporta
il chiacchiericcio della folla e dei discepoli e poi,
a seconda di quanto vede e ascolta, descrive i miracoli,
riferisce i discorsi del Signore, ovvero i
dialoghi dei presenti con Lui, o coi discepoli, o
fra di loro. La rievocazione della vita di Gesù, dei
tempi e dell'ambiente, nei suoi diversi aspetti:
fisico, politico, sociale, familiare, è fatta senza
sforzo alcuno; l'Autrice riporta quello che ha visto
e sentito; il suo stile non sente l'erudizione,
che si nota anche nelle più famose vite di Gesù; è
il resoconto di una teste oculare e auricolare. Se
Maria di Magdala o Giovanna di Cusa, durante la
loro vita, avessero potuto vedere quello che vide
Maria Valtorta e l'avessero scritto, credo che la
loro testimonianza non differirebbe molto da
quella del Poema. La Valtorta osservava con tanta
intensità il luogo e i personaggi delle sue visioni
che chi è stato per ragioni di studio in Terra
Santa e ha letto ripetutamente i Vangeli non fa
uno sforzo eccessivo per ricostruire le scene.

Che un romanziere o un drammaturgo di genio
creino dei caratteri indimenticabili, lo si sapeva;
ma dei tanti romanzieri o drammaturghi che si
sono accostati al Vangelo per utilizzarlo nelle loro
creazioni, io non ne conosco uno che ne abbia
cavato una tale ricchezza e ne abbia tracciato con
tale forza ed in modo così accattivante le figure di
Pietro, di Giovanni, di Maria Maddalena, di Lazzaro,
di Giuda -specialmente di Giuda e della sua
tragica e pia madre, Maria di Simone- e di tanti e
tanti altri (e non parlo ora di Gesù e di Maria)
come lo fa Maria Valtorta senza il minimo sforzo
e con la massima naturalezza. Penso che non pochi
lettori del Poema ben sovente si siano soffermati
a riflettere e, come M. Vinicio allorché
ascoltava la rievocazione della Passione del Signore
fatta da san Pietro all'Ostrianum, abbiano
detto: costei ha visto.

I discorsi

La cosa più impressionante, almeno per me, sono
i discorsi del Signore. Naturalmente ci sono
tutti quelli che si trovano nei S. Vangeli, ma sviluppati,
come pure sono stati sviluppati parecchi
temi che nel Vangelo sono appena abbozzati o
accennati. Inoltre sono riportati molti altri discorsi
di cui nulla si dice nel Vangelo, ma che le
circostanze indussero Gesù a pronunziare.
Anche questi son costruiti come i primi; è lo
stesso Signore che parla, sia che adoperi lo stile
delle parabole - il Poema contiene una quarantina
di parabole "agrapha" - sia quello esortativo o
profetico, sia in ultimo quello sapienziale in uso
presso i rabbini dell’epoca Neo-testamentaria.
Pertanto, oltre ai grandi discorsi dei Vangeli,
come quello della montagna, quello della missione
degli Apostoli, quello escatologico, quelli
dell'ultima settimana e quelli dell'ultima Cena,
nel Poema ce ne sono moltissimi altri che spiegano
il Decalogo, le opere di misericordia corporali
e spirituali, ovvero che costituiscono «speciali
istruzioni alle discepole, ai discepoli, a persone
singole, a uditori misti di giudei e di gentili...
e in fine i discorsi sul Regno di Dio o più
chiaramente sulla Chiesa, prima della Passione
tenuti in un colloquio col fratello-cugino Giacomo
sul Carmelo, e dopo la Resurrezione sviluppati
parlando agli Apostoli e ai discepoli sul Tabor
e su un altro monte della Galilea, il di cui
tema è indicato da san Luca con la semplice frase:
loquens de Regno Dei.
A considerarne sommariamente la materia, si trova
in essi tutta la Fede, la Vita, la Speranza cristiana.
Il tono e lo stile non si smentiscono mai, è
sempre lo stesso: lucido, forte, profetico, a volte
pieno di maestà, a volte traboccante di tenerezza.
Arreco qualche esempio. Noi conosciamo lo sforzo
dei più grandi esegeti per situare e spiegare nel
loro contesto, ad esempio, il colloquio con Nicodemo,
il discorso sul Pane di vita, i discorsi teologico-
polemici pronunziati a Gerusalemme:
quanti sforzi e quanto diversi! Nel Poema la loro
concatenazione è spontanea, naturale, comecché
fluisce logicamente dalle circostanze.
Quello che si dice dei discorsi, vale per i miracoli.
Nel Poema ce ne sono tanti, che il Vangelo comprende
con le frasi: e guariva e sanava tutti...
come pure ci sono alcuni avvenimenti, cui né
esegeti, né romanzieri, né apocrifi hanno pensato.
Per esempio l'evangelizzazione della Giudea, accennata
da san Giovanni (Gv 3, 22) all'inizio del
ministero di Gesù, il misericordioso apostolato
del Signore in favore dei Samaritani, dei poveri,
dei contadini di Doras e di Giocana, degli abitanti
del quartiere dell'Ofel, i viaggi continui dell'instancabile
Maestro per il territorio di tutte le dodici
antiche tribù, e la congiura ordita, da alcuni
in buona fede, in mala fede dai più, per proclamarlo
re, onde distruggerlo più facilmente per
mano romana, congiura cui Giovanni (6, 14-15)
accenna così sobriamente. E come dimenticare
l'eroica fedeltà dei dodici pastori betlemiti, e la
duplice prigionia di Giovanni Battista, e i convertiti
del convertito Zaccheo; e quelle persone che
Gesù salvò anche materialmente, come Sintica,
Aurea Galla, Beniamino di Aenon; e le ultime
voci profetiche del Popolo eletto: Sabea di Bethlechi,
il samaritano lebbroso guarito, Saul di
Kerioth; e le relazioni di Gesù con Gamaliele, con
alcuni membri del sinedrio, con un gruppo di
donne pagane che gravitano attorno a Claudia
Procula, la moglie di Pilato; e la storia e la figura
di Maria Maddalena, del fanciullo Marziam, dei
singoli Apostoli il cui carattere si imprime indelebilmente
nel cuore del lettore attento, specialmente
il carattere di Pietro, Giovanni e Giuda e
della sua pia e sventurata madre?

Il mondo palestinese

E quanto non s'impara circa la situazione politica,
religiosa, economica, sociale, familiare della
Palestina nel primo secolo della nostra èra, anche
dai discorsi dei più umili, anzi specialmente
da questi, che l'Autrice, veggente e ascoltatrice,
riporta! Direi che in quest'opera il mondo palestinese
del tempo di Gesù risusciti davanti ai nostri
occhi e gli elementi migliori e peggiori del
carattere del popolo eletto - il popolo degli
estremi e schivo di ogni mediocrità - balzino vivi
dinanzi a noi.

La rivelazione privata

Il Poema ci si presenta come il completamento
dei quattro Vangeli e una lunga spiegazione di
essi; l'Autrice è l'illustratrice delle scene evangeliche.
La spiegazione e il completamento sono
giustificati in parte dalle parole di San Giovanni:
"molti altri prodigi fece Gesù dinanzi ai suoi discepoli,
che non sono scritti nel presente libro..."
(20, 30); e: "molte altre cose fece Gesù che se si
dovessero scrivere una a una, penso che il mondo
intero non potrebbe contenere i libri da scriversi"
(21, 25). Completamento e spiegazione,
ripeto, giustificati solo in parte o in principio,
giacché dal punto di vista storico-teologico la rivelazione
si è chiusa con gli Apostoli e tutto ciò
che si aggiunge al deposito rivelato, anche se non
lo contraddice ma felicemente lo completa, potrà
al massimo essere il frutto di un carisma particolare,
individuale, che obbliga alla fede colui che
lo riceve e coloro che credono trattarsi di un vero
carisma o di più veri carismi, che nel caso nostro
sarebbero quelli della rivelazione, della visione,
del discorso della sapienza e del discorso della
scienza (cfr. 1 Cor 12, 8; 2 Cor 12,1...).
In breve, la Chiesa non ha bisogno di questa opera
per svolgere la sua missione salvatrice sino
alla seconda venuta del Signore, come non aveva
bisogno delle apparizioni della Madonna a La
Salette, a Lourdes, a Fatima... Sennonché la
Chiesa può tacitamente o pubblicamente riconoscere
che certe rivelazioni private possono giovare
alla conoscenza e alla pratica del Vangelo e
all'intelligenza dei suoi misteri, e quindi approvare
in forma negativa, cioè dichiarando che le rivelazioni
in parola non sono contrarie alla fede, o
può ufficialmente ignorarle, lasciando ai suoi figli
piena libertà di formarsi il proprio giudizio.
In forma negativa sono state approvate le rivelazioni
di santa Brigida, di santa Madide, di santa
Gertrude, della Ven. D'Agreda, di san Giovanni
Bosco e di molti altri santi e sante.

Raffronto con altre opere

Chi si mette a leggere con animo onesto e con
impegno può ben vedere da sé l'immensa distanza
che esiste tra Il Poema e gli Apocrifi del Nuovo
Testamento, specialmente gli Apocrifi dell'Infanzia
e quelli dell'Assunzione, e può anche notare la
distanza che c'è fra quest'opera e le Rivelazioni
della Ven. Emmerich, D'Agreda etc. Negli scritti
di queste due visionarie è impossibile non sentire
l'influsso di terze persone, influsso, invece, che
mi pare si debba assolutamente escludere dal nostro
Poema. Per convincersene basta fare il paragone
tra la vasta e sicura dottrina teologica, biblica,
geografica, storica, topografica... che si addensa
in ogni pagina del Poema e la stessa materia
o le stesse materie nelle opere summenzionate.
Non parlo poi di opere letterarie, che di quelle
che coprono tutta la vita di Gesù, a cominciare
dalla nascita all'Assunzione della Madonna, non
ce ne sono, o almeno mi sono sconosciute. Ma
anche se ci limitiamo all'intreccio delle più celebri,
come: Ben Hur, La Tunica, II grande pescatore,
The silver chalice, The spear... questo non
può affatto sostenere il paragone con l'intreccio
naturale, spontaneo, sgorgante dal contesto degli
eventi e dal carattere delle tante persone - una
vera folla! - che forma la possente travatura del
Poema.
Ripeto: è un mondo che risuscita e l'Autrice lo
domina come se possedesse il genio dello Shakespeare
o del Manzoni. Però le opere di questi due
grandi, quanti studi non richiesero, quante veglie,
quante meditazioni! Maria Valtorta, invece, pur
possedendo una intelligenza brillante, una memoria
tenace e pronta, neppure terminò gli studi medi
superiori, fu per anni e anni afflitta da diverse
malattie e confinata al letto, aveva pochi libri che
stavano tutti in due palchetti del suo scaffale, non
lesse alcuno dei grandi commentari della Bibbia,
che avrebbero potuto giustificare o spiegare la
sua sorprendente cultura scritturistica, ma si serviva
della versione popolare della Bibbia del P.
Tintori ofm; eppure scrisse i dieci volumi del
Poema dal 1943 al 1947, in quattro anni!

Dettagli salienti

Tutti sanno quante ricerche abbiano fatto gli eruditi,
specialmente ebrei, per disegnare le differenti
carte della geografia politica della Palestina, dal
tempo dei Maccabei sino all'insurrezione di Bar
Cocheba; hanno dovuto compulsare per più di
vent'anni un cumulo di documenti: il Talmud, G.
Flavio, l'epigrafia, il folklore, gli antichi itinerari...
eppure l'identificazione di parecchie località
rimane ancora incerta; nel Poema, invece, quale
che possa essere il giudizio che si dà della sua
origine, non vi è alcuna incertezza (almeno per
quattro cinque casi, i recenti studi danno ragione
alle identificazioni in esso supposte, e il numero
penso che crescerebbe se qualche specialista volesse
studiare a fondo questa questione). L'Autrice
vede il biforcarsi delle strade, i cippi miliari
che ne indicano la direzione, le diverse colture a
seconda della diversa qualità del terreno, i tanti
ponti romani gettati su diversi fiumi o torrenti, le
sorgenti vive in certe stagioni e disseccate in altre;
essa nota la differenza della pronunzia fra i
diversi abitanti delle diverse regioni della Palestina
e un cumulo di altre cose che rendono perplesso
o almeno pensoso il lettore.
Una serie di visioni, nelle quali il mistero della
nascita di Gesù, della sua agonia, della sua passione
e della sua resurrezione vien descritto con
parole e immagini celesti, con un eloquio angelico,
mentre d'altra parte tanta luce si proietta sul
mistero di Giuda, sul tentativo di proclamare re
Gesù, sui due fratelli-cugini che non credevano
in Lui, sull'impressione da Lui destata nei Gentili,
sul suo amore per i lebbrosi, i poveri, i vecchi,
i bambini, i Samaritani e specialmente sul suo
amore così ardente, soave e delicato per l'Immacolata
sua Madre.
E chi, dal punto di vista non solo umano, ma specialmente
teologico, può rimanere indifferente
leggendo i due capitoli sulla desolazione della
SS. Madre dopo la tragedia del Calvario, che ci
rivelano come la Corredentrice sia stata tentata
da Satana come era stato tentato il suo Figlio Redentore?
Si paragoni la sublime teologia di questi
due capitoli con quella dei tanti Planctus
dell'Addolorata.

Armonie storiche e dottrinali

Oggi sulla storicità del Vangelo dell'Infanzia e
sui racconti della Resurrezione gli esegeti, anche
cattolici, si prendono le più strane e audaci libertà,
come se con la "Formgeschichte" e con la
"Redaktionsgeschichte Methode" si sia trovato il
toccasana per tutte le difficoltà, che non furono
ignote ai Padri della Chiesa. Veramente, per parlare
solo di alcuni recenti esegeti, Fouard63,
Sepp64, Fillion65, Lagrange66, Ricciotti67... su
questi punti difficili dissero la loro parola equilibrata
e luminosa, ma oggi altri sono i maestri,
che anche i nostri seguono con tanta fiducia. Ebbene,
per tornare a noi, io invito i lettori del
Poema a leggere le pagine consacrate alla resurrezione,
alla ricostruzione degli eventi del giorno
di Pasqua, e constateranno come tutto vi è armoniosamente
legato, così come si sforzarono di
fare, ma senza riuscirci pienamente, tanti esegeti
che seguivano il metodo critico-storicoteologico,
i quali non turbavano ma allietavano il
cuore dei fedeli e ne rafforzavano la fede!

Lingua

Ma c'è un'altra sorpresa: questa donna del secolo
ventesimo, che, confinata sul letto di dolore, è
divenuta la fortunata contemporanea e seguace di
Cristo, all'infuori di certi momenti da lei diligentemente
notati, quando cioè gli Apostoli e Gesù
pregavano in ebraico o aramaico, li sente parlare
in italiano, ma in un italiano aramaizzante. Inoltre
il Signore, la Madonna, gli Apostoli, anche quando
trattano di argomenti trattati nel Nuovo Testamento,
adoperano il linguaggio teologico di
oggi, cioè il linguaggio iniziato dal primo grande
teologo san Paolo e arricchitosi attraverso tanti
secoli di riflessione e di meditazione e diventato
preciso, chiaro, insostituibile.
C'è dunque nel Poema una trasposizione, una traduzione
della buona novella annunziata da Gesù
nella lingua della sua Chiesa di oggi, trasposizione
voluta da Lui, giacché la veggente era priva di
qualsiasi formazione teologica tecnica: e questo,
penso, per farci comprendere che il messaggio
evangelico annunziato oggi, dalla sua Chiesa di
oggi, con la lingua di oggi, è sostanzialmente
identico alla sua predicazione di venti secoli fa.

63 Abate C. Fouard, autore di "Le origini della Chiesa.
La vita di Gesù Cristo" - 1927
64 Johann Nepomuk Sepp, autore di "La vita di Nostro
Signore Gesù Cristo" 1861
65 P. Louis-Claude Fillion, autore di "La vita di Nostro
Signore Gesù Cristo"- 1922
66 P. Marie-Joseph Lagrange, autore di "Il Vangelo di
Gesù Cristo "1939
67 Giuseppe Ricciotti, autore di "Vita di Gesù Cristo"
1947


Il fenomeno Valtorta

Un libro di grande mole, composto in circostanze
eccezionali e in un tempo relativamente brevissimo:
ecco un aspetto del fenomeno valtortiano.
L'Autrice confessa ripetutamente che lei è solo un
portavoce, un fonografo, una che scrive quello
che vede e sente mentre sta "crocifissa a letto".
Quindi, secondo lei, il Poema non è suo, non le
appartiene; le è stato rivelato, mostrato, essa altro
non ha fatto che descrivere quello che ha visto,
riferire quello che ha sentito, pur partecipando
con tutto il suo cuore di donna e di devota cristiana
alle visioni. Da questa sua intima partecipazione
nasce l'antipatia che sente per Giuda, e al
contrario l'affetto intenso che sente per Giovanni,
per la Maddalena, per Sintica... e non parlo del
Signore Gesù e della Madonna Santissima, verso
i quali a volte effonde il suo cuore e il suo amore
con parole di un lirismo appassionato, degno delle
più grandi mistiche della Chiesa.
Nei dialoghi e nei discorsi che formano l'ossatura
dell'opera c'è, accanto a una inimitabile spontaneità
(dialoghi), qualcosa di antico e a volte di
ieratico (discorsi), si sente insomma una traduzione
ottima di una parlata aramaica, o ebraica, in
un italiano vigoroso, polimorfo, robusto. È ancora
da notarsi che nella struttura di questi discorsi
Gesù, o si muove nella scia dei grandi Profeti,
ovvero si accorda al metodo dei grandi rabbini
che spiegavano il Vecchio Testamento applicandolo
alle circostanze contemporanee; si ricordi il
Pesher di Habacuc trovato a Qumran e si confronti,
passi la parola, col "pesher" che ce ne da
Gesù 68.
Si paragonino pure altre spiegazioni che il Signore
da di altri passi del Vecchio Testamento, e per i
quali possediamo in tutto o in parte i commentari
dei Rabbi del 3°o 4° secolo d. C., ma che evidentemente
seguono uno stile tradizionale di composizione
molto più antico e probabilmente contemporaneo
a Gesù, e si constaterà, accanto a una
somiglianza esterna di forma, una tale superiorità
quanto al fondo, alla sostanza, che comprendiamo
finalmente appieno perché la folla diceva: nessuno
ha parlato come quest'uomo.

68 Documenti trovati a Qumran Cava 1, famoso per una
frase sulla fede nel Maestro di Giustizia, identificato dai
commentatori con Gesù Cristo.

Un dono del Signore

Ritengo che l'opera (di Maria Valtorta) richieda una origine sopranaturale. Penso che sia il prodotto di uno o più carismi e che dovrebbe essere studiata alla luce della dottrina dei carismi, facendo anche uso dei contributi dei recenti studi di psicologia
delle scienze affini, che certamente non potevano
essere conosciute da teologi antichi quali
Torquemada69, Lanspergius70, Scaramelli71, ecc.

È proprio dei carismi che essi vengano elargiti
dallo Spirito-Gesù per il bene della Chiesa, per
l'edificazione del Corpo di Cristo; e io non vedo
come si possa ragionevolmente negare che Il
Poema edifichi e diletti i figli della Chiesa. Senza
dubbio la carità è la via più eccellente (1 Cor 13,
1); è pure risaputo che alcuni carismi, che abbondavano nella Chiesa primitiva, si sono in seguito rarefatti, ma è del pari certo che essi non si sono mai estinti del tutto. 
La Chiesa attraverso i secoli
deve perciò continuare a saggiare se essi provengono dallo Spirito di Gesù ovvero sono un camuffamento dello spirito delle tenebre, travestitosi in angelo di luce: probate spiritus si ex Deo sint! (1 Gv 4,1).

Ora, senza prevenire il giudizio della Chiesa, che
sin da questo momento accetto con sottomissione
assoluta, mi permetto di affermare che, essendo
per il discernimento degli spiriti principale criterio
la parola del Signore: "Dai loro frutti li riconoscerete…" (Matteo 3,20), e producendo il
Poema buoni frutti in un numero sempre crescente di lettori, io penso che esso venga dallo Spirito di Gesù.>>

Padre Gabriele Allegra (O.f.m.)

69 Il cardinale Juan de Torquemada (1388-1468) e Johannes
Turrecremata. Scrittore da non confondere con l'inquisitore.
70 Jean Juste di Landsberg (1489-1539)
71 Giovanni Battista Scaramelli (1687-1752)



!Maria, 
Madre de gracia y Madre de Misericordia
En la vida y en la muerte ampàranos, dulce Madre!




La messa di Padre Pio! Nessuna penna riuscirà mai a descriverla. Solo chi ha avuto il privilegio di viverla, può capire...




LA «SUA» MESSA
(Dal libro: Io... testimone del Padre)

Molti già prima di me hanno tentato di descrivere «la messa di Padre Pio», ma credo che nessuno sia riuscito a tratteggiare, in tutta la misteriosa realtà, ciò che per cinque decenni è avvenuto ogni mattina sull'altare, a San Giovanni Rotondo.
Certamente non sarò io a ripetere il tentativo che di sicuro sarebbe più infruttuoso degli altri. Cercherò, pertanto, solo di fissare su queste pagine ciò che mi è parso di capire, ciò che ho visto e ciò a cui ho assistito servendo, in tante occasioni, la messa celebrata dal venerato Padre.
Fu proprio lui ad impartirmi preziosi insegnamenti sul modo di «servire» al banchetto eucaristico.
Ho sempre cercato di osservare attentamente Padre Pio, seguendolo con lo sguardo dal momento in cui, all'alba, lasciava la sua cella per recarsi a celebrare.
Lo vedevo in uno stato di sofferta agitazione. Smaniava.
Appena giunto in sacrestia per indossare i paramenti sacri, avevo l'impressione che già non s'accorgesse più di ciò che avveniva intorno a lui.
Era assorto e profondamente consapevole di quanto si accingeva a vivere.
Se qualcuno osava rivolgergli qualche domanda, si scuoteva e rispondeva a monosillabi.
Il suo viso, apparentemente normale nel colorito, diventava paurosamente cereo nel momento in cui indossava l'amitto.
Da quell'istante non dava più retta a nessuno.
Appariva completamente assente.
Indossati i sacri paramenti, si avviava all'altare.
Pur precedendolo nel breve tragitto, notavo che il suo passo diveniva più strisciante, il volto dolorante. Era quasi ogni volta più curvo.
Avevo la sensazione che fosse schiacciato dal peso di una enorme, invisibile croce.
Giunto all'altare, lo baciava teneramente ed il suo viso cereo s'incendiava. Le gote s'imporporavano. La pelle diveniva trasparente quasi per evidenziare l'afflusso di sangue che gli irrorava le gote.

Al confiteor, come se si accusasse di tutti i peggiori peccati commessi dagli uomini, si batteva il petto con colpi sordi e forti.
I suoi occhi rimanevano serrati senza riuscire a trattenere grosse lagrime che si dileguavano nella folta barba.

Al vangelo le sue labbra, annunciando la parola di Dio, sembrava che di quella parola si cibassero, gustandone l'infinita dolcezza.
Subito dopo iniziava l'intimo colloquio di Padre Pio con l'Eterno.
Quel colloquio procurava al Padre copiosi effluvi di lagrime che gli vedevo asciugare con un largo fazzoletto.
Padre Pio, che aveva ricevuto dal Signore il dono della contemplazione, entrava negli abissi del mistero della redenzione.
Squarciati i veli di quel mistero dagli strali della sua fede e del suo amore, per i suoi occhi tutte le cose umane scomparivano.
Davanti al suo sguardo c'era solo Dio!
La contemplazione dava alla sua anima una balsamica dolcezza che si alternava alla sofferenza mistica, riflessa in modo evidente anche nel fisico.
Tutti vedevano Padre Pio penante.
Le preghiere liturgiche venivano pronunciate a fatica, interrotte dai singhiozzi.
Era enorme il disagio che il Padre provava nello stare alla presenza e sotto gli occhi indagatori degli altri. Avrebbe preferito forse celebrare in solitudine, per dare così libero sfogo al suo dolore, al suo indescrivibile amore.
La sua anima estatica, incendiata da un «fuoco divoratore», doveva certamente implorare dal cielo benefiche piogge di grazia.

Padre Pio viveva in quei momenti, sensibilmente, realmente, la passione del Signore.
Il tempo correva veloce; ma egli era fuori del tempo!
Perciò la sua messa durava un'ora e mezza o forse più.

Al sanctus elevava con tanto fervore l'inno di lode al Signore che precedeva il divino olocausto.

All'elevazione il suo dolore raggiungeva il culmine.
Nei suoi occhi leggevo l'espressione di una madre che assiste all'agonia del figlio sul patibolo, che lo vede spirare e che, strozzata dal dolore, muta, ne accoglie il corpo esangue tra le braccia, riuscendo solo a tentare lievi carezze.
Vedendo il suo pianto, i suoi singhiozzi, temevo che il cuore gli scoppiasse, che stesse per venir meno da un momento all'altro.
Lo Spirito di Dio era ormai penetrato in tutte le sue membra.
La sua anima era rapita in Dio.
Padre Pio, mediatore tra la terra e il cielo, si offriva con Cristo vittima per l'umanità, per i fratelli d'esilio.
Ogni suo gesto denotava il suo rapporto con Dio.

Il suo cuore gli doveva ardere come un vulcano. Pregava intensamente, per i suoi figli, per i suoi ammalati, per coloro che avevano già lasciato questo mondo.
Ogni tanto si abbandonava sull'altare puntando sui gomiti, forse per alleviare, dalla pesantezza del corpo, i suoi piedi piagati.
Lo sentivo spesso ripetere tra le lagrime: «Mio Dio! Mio Dio!».

Uno spettacolo di fede, di amore, di dolore, di commozione che toccava punte di drammaticità nel momento in cui il Padre sollevava l'ostia: le maniche del camice scendevano giù e le sue mani squarciate, sanguinanti, erano sotto lo sguardo di tutti. Il suo sguardo invece era in Dio!

Alla comunione sembrava placarsi.
Trasfigurato, in un appassionato, estatico abbandono, si cibava delle carni e del sangue di Gesù.
L'incorporazione, l'assimilazione, la fusione erano totali!
Quanto amore si sprigionava dal suo viso!
La gente, attonita, non poteva fare a meno di piegare il ginocchio davanti a quella mistica agonia, a quel totale annientamento.
Il Padre rimaneva come stordito a gustare le divine dolcezze che solo Gesù eucaristico sa dare.

Quindi il sacrificio della messa si completava con reale partecipazione di amore, di sofferenza, di sangue. E portava frutti copiosi di conversione.
Al termine della messa, Padre Pio bruciava di un fuoco divino appiccato da Cristo alla sua anima, per attrazione.

Un'altra ansia lo divorava: quella di andare in coro per restare raccolto col suo Gesù nell'intima, silenziosa lode di ringraziamento.
Rimaneva immobile, come privo di vita.
Se qualcuno l'avesse scosso non se ne sarebbe accorto, tanto era assorto nel divino amplesso.
La messa di Padre Pio!
Nessuna penna riuscirà mai a descriverla.
Solo chi ha avuto il privilegio di viverla, può capire...


CUORE IMMACOLATO DI MARIA
FIDUCIA SALVEZZA SPERANZA GIOIA MIA!

Papa Leone XIII : «Ho visto la terra avvolta dalle tenebre e da un abisso, ho visto uscire legioni di demoni che si spargevano per il mondo per distruggere le opere della Chiesa ed attaccare la stessa Chiesa che ho visto ridotta allo stremo. Allora apparve San Michele e ricacciò gli spiriti malvagi nell’abisso. Poi ho visto San Michele Arcangelo intervenire non in quel momento, ma molto più tardi, quando le persone avessero moltiplicato le loro ferventi preghiere verso l’Arcangelo».


San Michele Arcangelo difensore della Chiesa

(di Cristina Siccardi) Il 29 settembre la Liturgia della Chiesa ricorda la festività di San Michele Arcangelo. In un’epoca in cui le forze del male hanno enorme libertà di azione, fuorviando e rapendo anime, la figura di San Michele assume un valore di prim’ordine. Il suo nome deriva dall’espressione «Mi-ka-El», che significa «chi è come Dio?» e poiché nessuno è come l’Onnipotente, l’Arcangelo combatte tutti coloro che si innalzano con superbia, sfidando l’Altissimo.  Nella Sacra Scrittura è citato cinque volte:  nel libro di Daniele, di Giuda, nell’Apocalisse e in tutti i brani biblici è considerato «capo supremo dell’esercito celeste», ovvero degli angeli in guerra contro il male.
Nella Tradizione Michele è l’antitesi di Lucifero, capo degli angeli che decisero di fare a meno di Dio e perciò precipitarono negli Inferi. Michele, generale degli angeli, è colui che difende la Fede, la Verità e la Chiesa. Dante (1265-1321) illustra mirabilmente la bellezza e la potenza di questo Principe celeste e la sua solerzia nel proteggere il genere umano dalle insidie di Satana. Nelle litanie dei Santi pregate in Purgatorio da coloro che in terra furono invidiosi, San Michele è il secondo nominato, dopo Maria Santissima, segno del suo grande potere di intercessione (Purgatorio XIII, 51).
Maria Vergine e l’Arcangelo Michele sono associati nel loro combattimento contro il demonio ed entrambi,iconograficamente parlando, hanno sotto i loro piedi, a seconda dei casi, il serpente, il drago, il diavolo in persona, che l’Arcangelo tiene incatenato e lo minaccia, pronto a trafiggerlo, con la sua spada. Il suo culto è molto diffuso sia in Oriente che in Occidente, ne danno testimonianza le innumerevoli chiese, santuari, monasteri e anche monti a lui intitolati. In Europa, durante l’alto Medioevo, furono edificati in suo onore tre gioielli di devozione, di storia, di architettura ed arte: l’abbazia di Mont Saint-Michel in Normandia, La Sacra di San Michele sul Monte Pirchiriano, in Piemonte e il santuario del Monte Gargano in Puglia. Difensore della Chiesa, la sua statua compare sulla sommità di Castel Sant’Angelo a Roma ed egli è protettore del popolo cristiano, come un tempo lo era dei pellegrini medievali contro le insidie che incontravano lungo la via.
Leone XIII (1810-1903), il 13 ottobre 1884, dopo aver terminato di celebrare la Santa Messa nella cappella vaticana, restò immobile una decina di minuti in stato di profondo turbamento. In seguito si precipitò nel suo studio. Fu allora che il Papa compose la preghiera a San Michele Arcangelo. Successivamente racconterà il Pontefice di aver udito Gesù e Satana e di aver avuto una terrificante visione dell’Inferno: «ho visto la terra avvolta dalle tenebre e da un abisso, ho visto uscire legioni di demoni che si spargevano per il mondo per distruggere le opere della Chiesa ed attaccare la stessa Chiesa che ho visto ridotta allo stremo. Allora apparve San Michele e ricacciò gli spiriti malvagi nell’abisso. Poi ho visto San Michele Arcangelo intervenire non in quel momento, ma molto più tardi, quando le persone avessero moltiplicato le loro ferventi preghiere verso l’Arcangelo».
Dopo circa mezz’ora fece chiamare il Segretario della Sacra Congregazione dei Riti, ordinandogli di far stampare il foglio che aveva in mano e farlo pervenire a tutti i Vescovi della Chiesa: il manoscritto conteneva la preghiera che il Papa dispose di far recitare al termine della Santa Messa, la supplica a Maria Santissima e l’invocazione al Principe delle milizie celesti, per mezzo del quale si implora Dio affinché ricacci il Principe del mondo nell’Inferno. Tale supplica è caduta in disuso. Nessun Pontefice ha abrogato questa preghiera dopo il Santo Sacrificio e neppure il Novus Ordo la nega, anche se dagli anni Settanta si prese a non più recitarla, privando la Chiesa di una preziosa arma di difesa. (Cristina Siccardi)


Testo

(LA) (IT)
«
Sancte Michael Archangele,
defende nos in proelio;
contra nequitiam et insidias diaboli esto praesidium.
Imperet illi Deus, supplices deprecamur:
tuque, Princeps militiae caelestis,
Satanam aliosque spiritus malignos,
qui ad perditionem animarum
pervagantur in mundo,
virtute, in infernum detrude.
Amen.
»
«
San Michele Arcangelo,
difendici in battaglia;
sii presidio contro il male e le insidie del diavolo.
Che Dio imperi su di lui, preghiamo supplici:
e tu, Principe della milizia celeste,
con virtù divina, ricaccia nell'inferno
Satana e gli altri spiriti maligni
che si aggirano per il mondo
per causare la perdizione delle anime.
Amen. (traduzione conoscitiva) »

Sancte Michael Arcangele, 
defende nos in proelio

venerdì 28 settembre 2012

Teoria geocentrica ed eliocentrica: INTERESSANTE ARTICOLO DEL DOTT. GIANCARLO INFANTE




Una controversia dalla quale la Chiesa cattolica non ha tratto esplicito beneficio, è quella relativa alla questione galileiana, con il conseguente abbandono della cosmologia geocentrica per l’adozione di quella eliocentrica. 

Ben note sono le polemiche che Galilei, innanzitutto, innescò con la gerarchia ecclesiastica. Famosi i processi che egli subì da parte della Chiesa rinascimentale, accusata, ingiustamente, di arretratezza culturale, oscurantismo, ecc. 

Altrettanto conosciuto è lo sfruttamento, sproporzionato, di tale complessa vicenda da parte dei circoli anticlericali, che fiutarono in questa controversia astronomica la possibilità di sferrare un micidiale attacco non solo alla cosmologia e filosofia scolastica, ma al cuore stesso della dottrina facente capo alla Chiesa romana. Certo, non sono mancate voci autorevoli che hanno abilmente cercato di ridimensionare tale erronea interpretazione. Tra le altre, quella dell’allora cardinale ...

... Ratzinger che citò testualmente Bloch, «con il suo marxismo romantico», il quale scrisse che «il sistema eliocentrico - così come quello geocentrico - si fonda su presupposti indimostrabili». Ratzinger spiega che, secondo Bloch, «il vantaggio del sistema eliocentrico rispetto a quello geocentrico non consiste perciò in una maggior corrispondenza alla verità oggettiva, ma soltanto nel fatto che ci offre una maggiore facilità di calcolo». Ratzinger prosegue il suo intervento chiamando in causa il filosofo agnostico P. Feyerabend, secondo il quale: « ‘La Chiesa dell’epoca di Galileo si attenne alla ragione più che lo stesso Galileo, e prese in considerazione anche le conseguenze etiche e sociali della dottrina galileiana. La sua sentenza contro Galileo fu razionale e giusta, e solo per motivi di opportunità politica se ne può legittimare la revisione’.

Dal punto di vista delle conseguenze concrete della svolta galileiana, infine, C. F. von Weizsacker fa ancora un passo avanti, quando vede una ‘via direttissima’ che conduce da Galileo alla bomba atomica» (1). 

Per quanto riguarda la precedente osservazione di Bloch, citata da Ratzinger, è necessaria una pun-tualizzazione. Non è vero infatti che la teoria di Copernico apportava una semplificazione di calcolo, dal momento che gli epicicli utilizzati da Tolomeo per spiegare il moto retrogrado dei pianeti non vennero eliminati dall’ipotesi eliocentrica, che postulava un terzo moto di declinazione della Terra, oltre a quelli di rotazione e rivoluzione. 

La teoria copernicana pertanto non produsse «nessun progresso nella precisione dell’osservazione, come pure negli strumenti matematici o nella fisica. La teoria geocentrica e quella eliocentrica rendono conto senza dubbio egualmente dei fenomeni, sono equivalenti dal punto di vista dell’osservazione» (2). Come rendendosi conto di questo stato di fatto, l’illustre Karl Popper giunse alla conclusione che: «La rivoluzione copernicana, dunque, non prende le mosse da delle osservazioni, ma da un’idea di carattere religioso o mitologico» (3), che cercheremo di indicare in questo intervento. «Se i due sistemi erano pressoché equivalenti in quanto a complessità» (4) resta da comprendere il motivo che sta alla base di tale sovvertimento della visione celeste.

Al di là di ogni sterile polemica, è bene allora premettere che, in tale controversia, solo apparentemente scientifica, emergono prospettive finora sottaciute, che esulano dal ristretto ambito astronomico al quale sembrano riferirsi, per confluire nelle forme inquietanti della cultura e della religiosità iniziatica, le cui radici affondano nella più cupa era primordiale, ove ragione e superstizione costituivano un unico «corpus» dottrinale. 
Non per pura coincidenza, peraltro, con l’avvento della rivoluzione astronomica rinascimentale ha ripreso vigore, insieme alla cosiddetta filosofia induttiva propria della scienza moderna, quella pletora di idoli e di credenze irrazionali e naturalistiche che l’imporsi del cristianesimo aveva relegato nei luoghi oscuri della clandestinità, in seguito alle condanne inequivocabili impartite dai Padri della Chiesa (5). 

E’ chiaro che chi non è sensibile a questi temi, potrebbe giudicare fuori luogo porre in relazione la nascita e l’affermazione di un modello astronomico, che si impose dopo una pungente polemica con i difensori della tradizione aristotelico-tomista, con quelle pratiche e credenze proprie della più oscura magia, che ai nostri occhi appaiono prive di qualunque fondamento razionale, se non proprio frutto di fantasia. Che rapporto infatti ci può essere fra le bizzarre formule di invocazione di quei «diavoli che hanno la potenza di scompigliare i cuori degli uomini e delle donne» (6) con le asettiche relazioni geometriche che descrivono il tranquillo transito dei pianeti intorno al sole? Apparentemente, niente.

 Tuttavia, è risaputo che proprio la magia e le pratiche occulte hanno svolto un ruolo centrale nella determinazione dei nuovi indirizzi culturali, in particolare il razionalismo scientifico, che andavano formandosi dopo il disfacimento del Medioevo, epoca: «che rappresentò per l’Europa una straordinaria culminazione spirituale (ogni commento sarebbe davvero superfluo, da questo punto di vista, circa la ridicola storiella dei ‘secoli bui’), prima che gli elementi disgregatori dell’Ecumene medievale finissero per travolgere anche quelle organizzazioni esoteriche che ne rappresentarono in certo modo il simbolo più augusto. E difatti tali Ordini si estinsero e solo la Massoneria poté sopravvivere, anche se profondamente modificata» (7). 

A ben vedere, allora, è possibile rilevare una stretta attinenza fra eliocentrismo e magia, ovvero fra scienza (apparente) e dottrina (mascherata), che proietta la complessa questione della rivoluzione scientifica rinascimentale nell’oscuro ambito del pitagorismo magico. Infatti, il modello eliocentrico possiede una doppia valenza, dal momento che può essere considerato sia secondo la nota prospettiva copernicana ma anche e soprattutto secondo l’accezione mistica di Giordano Bruno, che vedeva in esso come un sigillo spirituale, segreto, da sfruttare, per rimettere in gioco quelle entità spirituali spodestate dalla dottrina evangelica, ma alle quali si rifacevano, e si rifanno, i cultori della religiosità egizia e del linguaggio allusivo e simbolico. 
Mircea Eliade, dopo aver riconosciuto che: «Un risultato estremamente sorprendente degli studi contemporanei è stata la scoperta del ruolo che la magia e l’esoterismo ermetico hanno avuto non solo nel Rinascimento italiano, ma anche nel trionfo della ‘nuova astronomia’ di Copernico, cioè nella teoria eliocentrica del sistema solare», attesta chiaramente che: «Se Giordano Bruno salutò con entusiasmo le scoperte di Copernico, ciò non fu in primo luogo per la loro importanza scientifica e filosofica; fu perché per Giordano Bruno l’eliocentrismo aveva un profondo significato religioso e magico. Durante la sua permanenza in Inghilterra, Bruno profetizzò l’imminente ritorno della religione egizia com’è descritta nell’Asclepio, il famoso testo ermetico. Interpretando il diagramma celeste copernicano come un geroglifico dei misteri divini, Bruno si sentiva superiore a Copernico, che intendeva la propria teoria solo da matematico» (8). Fantasie di un visionario, quelle di Bruno? 

I riferimenti all’aspetto metafisico ed ermetico presente nel modello eliocentrico sono ben noti. Copernico stesso li espose, nel «De revolutionibus orbium coelestium», pubblicato alla fine della sua vita, nel 1543. In tale ambito, l’astronomo polacco rivolge una dedica al Papa Paolo III nella quale riconosce di aver preso spunto dai pitagorici Filolao ed Eraclide Pontico, oltre che dall’enigmatico Ermete Trismegisto, circa l’idea rivoluzionaria del moto terrestre (9). Nel corso della sua opera, in particolare nel «Capitolo X», Copernico si riallaccia chiaramente all’arcaica metafisica solare, esaltando il sole solennemente, al pari di una divinità: «In mezzo a tutti [i pianeti] sta il sole. In effetti, chi in questo tempio bellissimo, potrebbe collocare questa lampada in un luogo diverso o migliore da quello da cui possa illuminare tutto quanto insieme? Per questo, non a torto, alcuni lo chiamano lucerna del mondo, altri mente, altri guida. Trismegisto [lo chiama] Dio visibile. Così, certamente, il sole, come su un trono regale, governa la famiglia degli astri che gli sta intorno» (10). E’ alla luce di tali misticheggianti argomentazioni, in linea con quelle sostenute, tra l’altro, da Marsilio Ficino, primo traduttore del «Corpus Hermeticum», pubblicato nel 1471, che l’astronomo polacco si convinse della validità della tesi dell’immobilità del sole e della rotazione terrestre. Copernico infatti si riannodò all’idea pitagorica che, siccome l’immobilità è da ritenersi più nobile del movimento, allora il sole, aspetto visibile di una presunta divinità invisibile, non può muoversi intorno alla terra, ma stazionare al centro della compagine planetaria.

Questa è la concezione metafisico-pitagorica che costituisce l’idea basilare dell’ambivalente paradigma copernicano. Tutte le tabelle, le prove scientifiche (si fa per dire) prodotte dall’astronomo polacco, che da platonico si dimostrò alquanto disinteressato all’osservazione celeste, sono tese alla conferma di tale presupposto ermetico, successivamente oscurato dagli sviluppi puramente astronomici della teoria. L’idea della rotazione terrestre, divenuta al giorno d’oggi più che una certezza, non possiede dunque un vero e proprio fondamento scientifico, nonostante la raffinatezza formale delle prove ricercate «a posteriori» nel corso di cinquecento anni, durante i quali tutti gli studiosi di tutte le Università ed Osservatori del mondo, accettando senza ombra di dubbio tale ipotesi, si sono impegnati a dimostrarla come vera. Anzi, come reale. Occorre invece riconoscere che l’unica palese certezza alla quale tutti sono soggetti, è la sensazione di immobilità della terra. Alla quale, però, secondo le istruzioni della filosofia galileiana, ben pochi attribuiscono fondamento. 
Un’autorevolissima prova dell’immobilità della terra, potrebbe essere addirittura l’esperienza di Michelson e Morley, effettuata nel 1887 per misurare la velocità della terra nello spazio cosmico, identificato con il misterioso etere, ma che ripetutamente fallì. Infatti, se l’etere fosse immobile e la terra in movimento, allora si dovrebbe rilevare il cosiddetto «vento d’etere». Se invece non si misura nessun vento d’etere, ciò significa o che l’etere è completamente trascinato dalla terra nel suo moto rotatorio e traslatorio, o semplicemente che la terra è immobile. Ovviamente, questa seconda possibilità non viene presa nemmeno lontanamente in considerazione, perché la scienza accademica esclude in modo radicale qualunque riferimento alla quiete terrestre (11). Pertanto, influenzata dalle conclusioni scientifiche ufficiali, l’opinione pubblica al giorno d’oggi è assolutamente convinta che - come sosteneva Galilei - la palese immobilità della terra sia solo apparente ed illusoria, perché i sensi ingannano, e che invece la terra ruoti intorno al sole a più di centomila chilometri all’ora, ed intorno a sé a più di mille chilometri orari, con un moto misterioso, visto che non si rilevano effetti fisici consistenti. E poiché questo è il paradigma scientifico dominante, certamente pochi, sono propensi a credere il contrario. Ovvero, che la realtà è fonte di luce, e che l’occhio non si inganna quando giudica la terra in quiete ed il sole muoversi e tramontare, come invece sosteneva il Bellarmino (12).


Definitivamente archiviate le tesi scolastiche fondate sulla metafisica aristotelica, che allacciavano in modo certo il cosmo reale a Dio, tramontata l’idea di una cosmologia che risalga dalla contemplazione delle creature al creatore, secondo lo spirito ed il monito paolino (13), si è assunto, inconsapevolmente, insieme al modello scientifico eliocentrico, anche il presupposto occulto, di matrice egizia, in esso custodito, al quale si rifacevano gli ermetisti. Ovvero, l’idea dell’esistenza di uno spirito centrale, bramoso di potere e gloria, intorno al quale gravitano tutti gli altri spiriti minori, come indicano alcuni passi del «Corpus Hermeticum». Allora, altro che sognatore! In tale prospettiva, sembra proprio che Bruno avesse ragione, quando individuava nel modello eliocentrico una forma di religiosità vincente, perché fondata su di un potere spirituale misterioso, riattivabile mediante pratiche magiche segrete, e ben disciplinate. Aveva ragione quando, esaltando questo modello per i suoi alti contenuti spirituali, si impegnava a restituire ai demoni vincolati al Sole «il potere sulle vicende e sui disordini della terra, operandovi ogni genere di scompiglio, per le città e le popolazioni in generale e per ciascun individuo in particolare», come recita il «Poimandres», XVI, 14. 

Benché profetizzasse una nefasta concezione, e come il realizzarsi dell’oscuro avvento della «bestia», sotto le forme autorevoli ed insospettabili dei canoni scientifici, comunque Bruno non si sbagliava. Se quanto stiamo scrivendo non costituisce una pura farneticazione, i risvolti iniziatici contenuti nel pentacolo copernicano sembrano essere del tutto ragguardevoli. Infatti, il semplice ed innocuo modellino del sole centrale contornato da una serie di pianeti - raffigurato dappertutto in modo sbagliato, perché non è possibile rispettare le giuste proporzioni che intercorrono fra le masse e le distanze dei corpi che compongono tale modello - riproduce in metafora l’arcaica religiosità naturalistica di indole solare, collegata all’idea dialettica del tempo ciclico che si ripete perennemente, nell’alternanza degli opposti, all’interno del quale l’uomo è come imprigionato ed impossibilitato ad esprimere la propria potenza spirituale.

In tale linea interpretativa, il modello eliocentrico diventa allora il baluardo, il manifesto, il simbolo dell’uomo massonico, celebrato sia dai cosiddetti iniziati, che dai cultori dell’antico, ma sempre attuale, sapere egizio (14). E tacitamente approvato da una grande massa di inconsapevoli «profani», che si fermano alle soglie del suo ben noto significato apparente, senza minimamente immaginare che, invece, in esso sono contenuti, simbolicamente, quegli argomenti naturalistici, riconducibili alla «mistica» eraclitea, che esaltano la confusione del bene e del male, del vero e del falso, e di tutti gli opposti. Argomenti assai graditi al celebrato spirito centrale, di natura ambigua, contraddittoria, menzognera. Idolo al tempo stesso imprevedibile e ovvio, benevolo e maligno, eccelso e bestiale, vero e falso, luce e tenebra. Ovvero, lucifero. 

Il numero che gli iniziati attribuiscono al sole, è infatti il «seicentossessantasei», la cifra della bestia, citata dall’apostolo Giovanni, nel capitolo 13 dell’«Apocalisse». Tale cifra, in relazione al sole, è celebrata anche nell’ambito numerologico. Un esempio è costituito dal quadrato magico del sole, composto da trentasei cifre (6 righe e 6 colonne), tale che sommando i numeri in ogni direzione, si ottiene 111 che moltiplicato per il nume-ro delle cifre di ciascuna linea (6) dà appunto il numero apocalittico e solare 666. 
Numeri a parte, per quanto riguarda il possibile rapporto fra la fatidica cifra apocalittica e la scienza moderna, abbiamo fornito un’importante interpretazione circa un significativo episodio in cui incorsero Galilei ed il padre Riccardi, incaricato di concedere l’«imprimatur» necessario per la pubblicazione dell’opera «Dialogo sui due massimi sistemi del mondo» (15). Il quadrato magico del sole. Immagine tratta dal libro, H. Hoffmann, «La verità sul segreto di Fatima» Edizioni Mediterranee, Roma, 1985 Padre Riccardi si insospettì per via di un curioso simbolo, contenente tre delfini in circolo, presente sul frontespizio di tale opera, che si diceva fosse il marchio della tipografia.
Tale marchio però non compariva su altri libri pubblicati dallo stesso stampatore. Ebbene, a nostro avviso, il cosiddetto «marchio dei delfini» non è altro che una forma simbolizzata della cifra «seicentosessantasei». Ingrandimento del cosiddetto «marchio dei delfini» - 666 Questa piccola, ma indicativa scoperta ci ha molto impressionato. Infatti, ci è sembrato strano che una così importante opera galileiana contenesse un inspiegabile riferimento simbolico alla cultura iniziatica ed anticristiana, che costituiva altresì come una sorta di inquietante premessa ai contenuti ivi espressi.

 Di certo, la possibilità di incorrere in errore è quanto mai presente, specialmente in un campo così ambiguo ed insidioso come quello relativo al sapere iniziatico. Tuttavia, il sospetto che ci sia qualcosa di grosso, dal punto di vista spirituale, finora sottaciuto, dietro il cambio di paradigma astronomico rinascimentale, permane. Anche se questa possibilità aprirebbe il campo ad una prospettiva insolita, alla quale in parte abbiamo alluso, e che pone in relazione la simbolica bestia apocalittica con diversi aspetti della scienza moderna, in un certo senso in grado di «sedurre gli abitanti della terra», impossessandosi delle menti e delle azioni («fronte e mani») degli uomini, e di compiere, con la sua raffinata tecnologia, «grandi prodigi» (16). 

Prospettiva insolita, dicevamo, alla luce della quale gli insigni padri della scienza, Galilei, Newton Einstein, tanto per fare i nomi più rappresentativi, sembrano costituire come un’intoccabile triade della ragione scientifica. Una triade di sei, sulla quale si è fondata in gran parte, quasi al pari di una nuova «eresia» razionalistica, la scienza moderna. D’altronde, proprio in tale chiave interpretativa, ognuno di questi tre grandi personaggi ha in una qualche misura sfidato e contrastato l’autorità della Chiesa di Roma.
A cominciare da Galilei che, sotto la parvenza di cristiano osservante, schernì il Papa nella stessa opera che sembra contenere, semicelata, nel frontespizio, la «cifra della bestia». Proseguendo con Newton, che addirittura riteneva il Papa e la Chiesa romana l’anticristo e la Bestia (17). Proprio lui che, nelle sue abbondanti e poco conosciute ricerche alchemiche, scelse lo pseudonimo «Jeova Sanctus Unus» (18), in sintonia - forse inconsapevole - con l’uso dei satanisti di farsi simili a Dio. Fino al grande Einstein, forse anche «gran maestro», visto che il suo nome compare sugli elenchi pubblici dei massoni celebri, che celebrava il panteismo spinoziano come soluzione agli interrogati-vi religiosi, giungendo ad ironizzare con pungenti affermazioni sulla infinita Sapienza (19) e sulla possibilità, per noi certezza, che Dio sia persona (20). Frontespizio dell’opera galileiana, «Dialogo sui due massimi sistemi» 

Da questo punto di vista, i tre grandi scienziati appaiono non solo come i principali fondatori della cosiddetta scienza moderna. Ma anche, e soprattutto, come i maggiori demolitori di quella precedente. Che proponeva il quadro di un cosmo armonico - niente affatto azzardato, perché rigorosamente fondato su principi logici ben definiti e formalizzati -, ordinato a Dio. Un cosmo sacralizzato. Un tempio cosmologico, oggi irriso, che i servi del Signore avevano eretto nei lunghi secoli di ascesa medievale, per celebrare razionalmente Dio all’interno della sua creazione, partendo dalla realtà visibile, per giungere a quella invisibile ed eterna. La distruzione di questo tempio spirituale non è stata però senza conseguenze. Alcune delle quali svelate dai più recenti, riprovevoli, sviluppi della scienza in campo bellico e genetico. Sviluppi che delineano una società che si evolve di continuo secondo linee tecnologiche e paganizzanti, che la rendono sempre più superba, violenta, imbarbarita. Di fronte a questo Egitto spirituale, sarebbe però troppo ingenuo rimpiangere un Medioevo ormai concluso, insieme alle sue concezioni, alle sue molteplici luci ed ombre. 

Ogni epoca esprime infatti le proprie contraddizioni, al giorno d’oggi però divenute globali. Allora, non resta che «protendersi verso il futuro», ed al pari di Neemia, afflitto per la distruzione di Gerusalemme, sollecitare il «resto d’Israele» all’opera di ricostruzione delle sacre mura spirituali. Opera che corrisponde alla coraggiosa ricerca e difesa della Verità, Via e Vita. Ovvero, Gesù Maestro. Prospettiva insolita, dicevamo. Ripetutamente scartata, nel corso degli ultimi anni. Tuttavia, come se fondata su una specifica iniziazione, quella paolina, essa si ripresenta. Inspiegabilmente, rinforzata.


Note
1) J. Ratzinger, «La crisi della fede nella scienza», tratto da: «Svolta per l’Europa? Chiesa e modernità nell’Europa dei rivolgimenti», Paoline, Roma, 1992, pagine 76-79.
2) J. P. Verdet, «Storia dell’astronomia», Longanesi, Milano, 1995, pagina 78.
3) K. Popper, «Congetture e confutazioni», Il Mulino, Bologna, 1972, pagina 177.
4) W. Shea, «Copernico: un rivoluzionario prudente», Le Scienze, edizione italiana di Scientific American, collana: «I grandi della scienza», numero 20, 2004, pagina 69.
5) Lattanzio, nel «De origine erroris», attua una critica durissima irridendo le divinità pagane ed il loro culto, denunciando nel contempo la «vetustatis auctoritas», l’autorità dell’antichità classica, intesa come improponibile cultura dell’assurdo. E San Giovanni Crisostomo considera idolatrica qualunque pratica magica, in quanto azione diretta del demonio. Sant’Agostino condanna senza mezzi termini le prospettive teurgiche, il culto delle statue-dei in quanto fonte di pericolosa magia, e come tentativo diabolico, niente affatto divino, di manipolazione del reale. Nel libro VIII della «Civitas Dei» egli definisce la demonologia come frutto di una curiosità nefasta: «sia che la si chiami magia o col nome ancor più odioso di geotia o con quello più nobile di teurgia».
6) Da «Il Vero Libro del 500» - La Clavicola del Re Salomone», Brancato Editore, Catania, 1989, pagina 27.
7) G. Faraci, «Il vero fine della Massoneria», Arktos, Carmagnola (Torino) 1993, pagina 30.
8) M. Eliade, «Occultismo, stregoneria e mode culturali», Sansoni, Firenze, 2004, pagina 57.
9) Copernico (1473 - 1543), dopo aver studiato per quattro anni a Cracovia (Polonia), si trasferì in Italia. Egli trascorse 10 anni tra le Università di Bologna e di Padova. In questo periodo aderì al neoplatonismo, che influenzò la sua opera scientifica. Si dice che egli desse molto risalto ad una lettera pitagorica, nella quale lo stesso Pitagora ammoniva che: «... non dobbiamo divulgare a tutti e in ogni luogo quanto abbiamo appreso con sforzi tanto grandi, allo stesso modo che è vietato agli uomini qualunque penetrare nei segreti degli dei elísei ...». Forse anche in base a tale sentenza, Copernico fu sempre molto restio a pubblicare la sua ipotesi.
10) Queste affermazioni copernicane riecheggiano chiaramente quanto espresso a più riprese nel «Corpus Hermeticum», e nell’ «Asclepius», 29: «Il sole stesso non trae tanto dalla sua luce il potere di illuminare le stelle, quanto dalla sua divinità e santità: questo, o Asclepio, devi considerare come secondo Dio che governa tutte le cose e illumina tutti gli esseri viventi della terra, dotati di anima o no … Il sole allora, poiché il mondo è eterno, governa eternamente le cose capaci di vivere, cioè tutto il complesso della vitalità che esso distribuisce in continuazione». E nel passo successivo, il 30, si dà come un significato mistico ed allegorico al presunto movimento della terra: «Il mondo si muove nella stessa vita dell’eternità e in questa stessa eternità di vita è il luogo del mondo. Perciò il mondo non si arresterà mai né mai perirà, avvolto e protetto come da un vallo da questa eternità di vita … Il movimento del mondo è costituito da una duplice attività; il mondo è vivificato eternamente dall’eternità che lo circonda e contemporaneamente dà vita agli esseri che contiene».
11) «Uno studioso francese ha comunque avanzato l’ipotesi che il vero significato dell’esperimento Michelson - Morley sia la fattuale immobilità della Terra, con conseguente ritorno al punto di vista pre-copernicano. Si veda: Maurice Ollivier, ‘Physique moderne et réalité’, Èditions du Cédre, Paris, 1962», S. Waldner, «Nota introduttiva» a B. Thüring, «Einstein e il Talmud», Edizioni di Ar, Padova, 1977, pagina 12, nota 5.
12) Confronta la lettera di San Roberto Bellarmino al padre Foscari, 12 aprile 1615, in Galilei, «Opere», XII, pagina 171.
13) Confronta la «Lettera ai Romani», 1, 18-32.
14) Il ritorno del sapere egizio è fondato sugli insegnamenti del mitico Ermete Trismegisto, cheincarna la figura del sacerdote e teurgo pagano. Nell’«Asclepio», Ermete rivela tra l’altro la teoria delle statue-dei e del loro potere magico. Il neoplatonico Giamblico distingue in proposito la posizione del «teologos», che detiene la conoscenza degli dei, da quella del «theurgos», che invece agisce direttamente sulla divinità ed il cui prototipo è costituito appunto da Ermete. Il fedelissimo discepolo di Plotino, Porfirio, nel «De regressu animae», indica nella teurgia la più alta pratica di magia, come elemento di primaria importanza nel processo di riunificazione con il divino. Il vero teurgo interagisce ed evoca gli dei, esortandoli ad interagire con la dimensione concreta nella quale si esplicano le vite sia dell’iniziato che del profano. Egli opera in una prospettiva cosmogonica, perseguita dopo una lunga opera di trasformazione interiore, di levigazione della pietra occulta, all’interno della quale riconosce le tracce del divino, che solo il vero teurgo sarebbe in grado di attivare, al fine di ristabilire l’armonia universale, trarre l’ordine dal caos, rifuggendo da tutto quanto possa oscurare la sua presunta comunione con il divino.
15) Confronta il breve saggio, G. Infante, «Le radici esoteriche della scienza moderna», Edizioni Segno, Udine, 2006, II 4.
16) Secondo San Tommaso, «Quaestio» 178 della «Secunda Secundae», «De Gratia miraculorum», solo Dio è in grado di compiere miracoli «per manifestare il soprannaturale», modificando in modo straordinario e per fini spirituali l’ordine da Lui fissato nella natura. Satana invece, tramite i suoi emissari, opera dei prodigi, che sono falsi miracoli, perché non hanno «il sigillo divino». Egli opera per sconvolgere e contrastare l’ordine naturale con mezzi puramente naturali. Pertanto, il prodigio imita il miracolo nel suo svolgersi, ma non nel suo essere.
17) «Si sono spesso sottolineati alcuni aspetti ‘ereticali’ del pensiero di Newton: il suo conclamato arianesimo, nel senso originario del termine, che implica una professione di fede antitrinitaria; l’identificazione dell’Anticristo con il Papa, e della Bestia con la Chiesa cattolica, responsabile della grande apostasia», in M. Mamiani, «Introduzione», I. Newton, «Trattato sull’Apocalisse», Bollati Boringhieri, Torino, 1994, pagina xv.
18) Confronta M. White, «Newton l’ultimo mago», Rizzoli, Milano 2001, pagina 197.
19) «Quando gli chiesero quale sarebbe stata la sua reazione se l’eclissi di sole del 1919 avesse invalidato la sua teoria, Einstein rispose: ‘Mi sarebbe molto dispiaciuto per il povero Signore - la teoria è giusta’ », S. L. Jaki, «Dio e i cosmologi», Libreria Editrice Vaticana, Città del Vaticano, 1991, pagina 97, nota 32.
20) Scrive Einstein: «Nella loro lotta per il bene etico, i dottori della fede devono trovare il coraggio di rinunciare alla dottrina di un Dio personale, vale a dire, di rinunciare a quella fonte di paura e di speranza che nel passato consegnò tanto potere nelle mani dei preti». Ed a proposito di Gesù, lo scienziato ebreo afferma che: «E’ del tutto possibile che si possano compiere imprese più grandi di quelle di Gesù; infatti, tutto quello che la Bibbia scrive di lui è poeticamente abbellito», A. Einstein, «Pensieri di un uomo curioso», Mondadori, Milano, 1997, pagine 115, 116. Ma, a parte il presunto abbellimento poetico al quale allude Einstein, domandiamo: chi sarebbe in grado di compiere qualcosa di più grande della morte, risurrezione e transustanziazione di Cristo? Ovvero, come più propriamente disse San Michele Arcangelo: «Chi è come Dio?».
Articolo pubblicato su EffediEffe.com. Rilanciato su M.S.M.A. con autorizzazione dell'autore Dott. Giancarlo Infante (Amico della M.S.M.A.)
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MEMENTO NOSTRI DOMINA, 
ET ORA PRO NOBIS:
IN LAETITIAM BONAM VERTE MOESTITIAM NOSTRAM.

giovedì 27 settembre 2012

Ma voi dovete dire ciò che dice lui: “Io non riposo”. Lui non ri­posa per popolare l’inferno. Voi non dovete riposare per popolare il Paradiso. Non dategli quartiere. Io vi predìco che più lo combatterete più vi farà soffrire.




Domenica 30 settembre 2012, XXVI Domenica del Tempo Ordinario - Anno B

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Marco 9,38-43.45.47-48.

<<Giovanni gli disse: «Maestro, abbiamo visto uno che scacciava i demòni nel tuo nome e glielo abbiamo vietato, perché non era dei nostri».
Ma Gesù disse: «Non glielo proibite, perché non c'è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me.
Chi non è contro di noi è per noi.
Chiunque vi darà da bere un bicchiere d'acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa.

Chi scandalizza uno di questi piccoli che credono, è meglio per lui che gli si metta una macina da asino al collo e venga gettato nel mare.
Se la tua mano ti scandalizza, tagliala: è meglio per te entrare nella vita monco, che con due mani andare nella Geenna, nel fuoco inestinguibile.
Se il tuo piede ti scandalizza, taglialo: è meglio per te entrare nella vita zoppo, che esser gettato con due piedi nella Geenna.
Se il tuo occhio ti scandalizza, cavalo: è meglio per te entrare nel regno di Dio con un occhio solo, che essere gettato con due occhi nella Geenna, dove il loro verme non muore e il fuoco non si estingue.>>
Traduzione liturgica della Bibbia

Corrispondenza nel "Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta : Volume 5 Capitolo 352 pagina 372.

[...] 13
<<E guardatevi dallo scandalizzare uno di questi piccoli il cui occhio vede Iddio. Non si deve mai dare scandalo a nessuno. Ma guai, tre volte guai, chi sfiora il candore ignaro dei fanciul­li! Lasciateli angeli più che potete. Troppo ripugnante è il mon­do e la carne per l’anima che viene dai Cieli! E il fanciullo, per la sua innocenza, è ancora tutt’anima. Abbiate rispetto all’ani­ma del fanciullo e al suo stesso corpo, come avete rispetto al luogo sacro. Sacro è anche il fanciullo perché ha Dio in sé. In ogni corpo è il tempio dello Spirito. Ma il tempio del fanciullo è il più sacro e profondo, è oltre il doppio Velo. Non scuotete nep­pure le tende della sublime ignoranza della concupiscenza col vento delle vostre passioni.
Io vorrei un fanciullo in ogni famiglia, in mezzo ad ogni ac­colta di persone, perché fosse di freno alle passioni degli uomi­ni. Il fanciullo santifica, dà ristoro e freschezza solo col raggio dei suoi occhi senza malizia.
Ma guai a coloro che levano san­tità al fanciullo col loro modo di agire scandaloso! Guai a coloro che con le loro licenze danno malizie ai fanciulli! Guai a coloro che con le loro parole e ironie ledono la fede in Me dei fanciulli! Sarebbe meglio che a tutti questi si legasse al collo una pietra da macina e si gettassero in mare perché affogassero col loro scandalo. Guai al mondo per gli scandali che dà agli innocenti! Perché se è inevitabile che avvengano scandali, guai all’uomo che per sua causa li provoca.
Nessuno ha il diritto di fare violenza al suo corpo e alla sua vita. Perché vita e corpo ci vengono da Dio, e solo Lui ha diritto di prenderne delle parti o il tutto. Ma però Io vi dico che se la vostra mano vi scandalizza è meglio che la mozziate, che se il vostro piede vi porta a dare scandalo è bene che voi lo mozzia­te. Meglio per voi entrare monchi o zoppi nella Vita che essere gettati nel fuoco eterno con le due mani e i due piedi. E se non basta avere mozzo un piede o una mano, fate che vi siano moz­zati anche l’altra mano o l’altro piede, per non fare più scanda­lo e per avere tempo da pentirvi prima di essere lanciati dove il fuoco non si estingue, e rode come un verme in eterno. E se è il vostro occhio che vi è cagione di scandalo, cavatevelo. È meglio essere orbi di un occhio che essere nell’inferno con tutti e due. Con un occhio solo, o anche senz’occhi, giunti al Cielo vedreste la Luce, mentre coi due occhi scandalosi, tenebre e orrore ve­dreste nell’inferno. E questo solo.
14Ricordatevi tutto questo. Non disprezzate i piccoli, non scandalizzateli, non derideteli. Sono da più di voi, perché i loro angeli vedono sempre Iddio che dice loro le verità da rivelare ai fanciulli e a quelli dal cuor di fanciullo.
E voi come fanciulli amatevi fra di voi. Senza dispute, senza orgogli. State in pace fra voi. Abbiate spirito di pace con tutti. Fratelli siete, nel nome del Signore, e non nemici. Non ci sono, non ci devono essere dei nemici per i discepoli di Gesù. L’unico Nemico è Satana. Di quello siate nemici acerrimi, scendendo in battaglia contro di lui e contro i peccati che portano Satana nei cuori.

Siate instancabili nel combattere il Male quale che sia la forma che assume. E pazienti. Non c’è limitazione all’operare dell’apostolo, perché non c’è limitazione all’operare del Male. Il demonio non dice mai: “Basta. Ora sono stanco e mi riposo”. Egli è l’instancabile. Passa agile come il pensiero, e più ancora, da questo a quell’uomo, e tenta e prende, e seduce, e tormenta, e non dà pace. Assale proditoriamente e abbatte se non si è più che vigilanti. Delle volte si insedia da conquistatore per debo­lezza dell’assalito, altre vi entra da amico, perché il modo di vi­vere della preda cercata è già tale da essere alleanza col Nemi­co. Tal’altra, scacciato da uno, gira e piomba sul migliore, per farsi vendetta dello smacco avuto da Dio o da un servo di Dio. Ma voi dovete dire ciò che dice lui: “Io non riposo”. Lui non ri­posa per popolare l’inferno. Voi non dovete riposare per popolare il Paradiso. Non dategli quartiere. Io vi predìco che più lo combatterete più vi farà soffrire. Ma non dovete tenere conto di ciò. Egli può scorrere la terra. Ma nel Cielo non penetra. Perciò là non vi darà più noia. E là saranno tutti quelli che lo hanno combattuto...».

15 Gesù si interrompe bruscamente e chiede: «Ma insomma, perché date sempre noia a Giovanni? Che vogliono da te?».

Giovanni si fa rosso come una fiamma e Bartolomeo, Tommaso, l’Iscariota chinano la testa vedendosi scoperti.
«Ebbene?» chiede con imperio Gesù.
«Maestro, i miei compagni vogliono che io ti dica una cosa».
«Dilla, dunque».
«Oggi, mentre Tu eri da quel malato, e noi giravamo per il paese come Tu avevi detto, abbiamo visto un uomo, che non è tuo discepolo e che neppure mai abbiamo notato fra quelli che ascoltano la tua dottrina, il quale cacciava dei demoni in tuo nome da un gruppo di pellegrini che andavano a Gerusalemme. E ci riusciva. Ha guarito uno che aveva un tremito che gli im­pediva ogni lavoro, e ha reso la favella ad una fanciulla che era stata assalita nel bosco da un demonio in forma di cane che le aveva legato la lingua. Egli diceva: “Vattene, demonio maledet­to, in nome del Signore Gesù il Cristo, Re della stirpe di Davi­de, Re d’Israele. Egli è il Salvatore e Vincitore. Fuggi davanti al suo Nome!»., e il demonio fuggiva realmente. Noi ci siamo ri­sentiti. E glielo abbiamo proibito. Ci ha detto: “Che faccio di male? Onoro il Cristo liberandogli la via dai demoni che non so­no degni di vederlo”. Gli abbiamo risposto: “Non sei esorcista secondo Israele e non sei discepolo secondo Cristo. Non ti è leci­to farlo”. Ha detto: “Fare il bene è sempre lecito”, e si è ribellato alla nostra ingiunzione dicendo: “E continuerò a fare ciò che faccio”. Ecco, volevano ti dicessi questo, specie ora che Tu hai detto che in Cielo saranno tutti quelli che hanno combattuto Satana».
16«Va bene. Quell’uomo sarà di questi. Lo è. Egli aveva ragione e voi torto. Infinite sono le vie del Signore e non è detto che solo quelli che prendono la via diretta giungano al Cielo. In ogni luogo e in ogni tempo, e con mille modi diversi, ci saranno creature che verranno a Me, magari da una strada inizialmen­te cattiva. Ma Dio vedrà la loro retta intenzione e li attirerà al­la via buona. Ugualmente vi saranno alcuni che per ebbrezza concupiscente e triplice usciranno dalla via buona e prenderan­no una via che li allontana o addirittura li dirotta. 
Non dovete perciò mai giudicare i vostri simili. Solo Dio vede. Fate di non uscire voi dalla via buona, dove, più che la vostra volontà, quel­la di Dio vi ci ha messi. E quando vedete uno che crede nel mio Nome e per esso opera, non lo chiamate straniero, nemico, sa­crilego. È sempre un mio suddito, amico e fedele, perché crede nel Nome mio, spontaneamente e meglio di molti fra voi. Per questo il mio Nome sulla sua bocca opera prodigi pari ai vostri e forse più. Dio lo ama perché mi ama, e finirà di portarlo al Cielo. Nessuno che faccia prodigi in mio Nome mi può essere nemico e dire male di Me. Ma col suo operare dà al Cristo onore e testimonianza di fede. In verità vi dico che credere al mio No­me è già sufficiente a salvare la propria anima. Perché il mio Nome è Salvezza. Perciò vi dico: se lo incontrerete ancora, non glielo proibite più. Ma anzi chiamatelo “fratello” perché tale è, anche se è ancora fuori del recinto del mio Ovile. Chi non è con­tro di Me è con Me. Chi non è contro di voi è con voi».

«Abbiamo peccato, Signore?» chiede attrito Giovanni.

«No. Avete agito per ignoranza, ma senza malizia. Perciò non c’è colpa. Però in avvenire sarebbe colpa, perché ora sape­te. Ed ora andiamo alle nostre case. La pace sia con voi».

Estratto di "l'Evangelo come mi è stato rivelato" di Maria Valtorta ©Centro Editoriale Valtortianohttp://www.mariavaltorta.com/

“AVE MARIA
 VIRGO POTENS!”