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sabato 12 ottobre 2013

"Linee essenziali del vostro carattere di apostoli".


<<...No. Non piangete, o voi migliori. Non piangete. Io non vi porto rancore, né sono intransigente per vedervi così tardi. Siete appena presi e non posso pretendere che siate perfetti. Ma non lo pretenderò neppure fra
anni, dopo aver detto cento e duecento volte le stesse cose inutilmente. Anzi, udite, fra anni sarete, almeno alcuni, meno ardenti di ora che siete neofiti. La vita è così... l'umanità è così... Perde lo slancio dopo il primo
balzo. Ma (Gesù si alza di scatto) ma Io vi giuro che Io vincerò. Depurati per natural selezione, fortificati da soprannaturale mistura, voi migliori diverrete i miei eroi.

Gli eroi del Cristo. Gli eroi del Cielo.

La potenza dei Cesari sarà polvere rispetto alla regalità del vostro sacerdozio. Voi, poveri pescatori di Galilea, voi ignoti giudei, voi, numeri fra la massa degli uomini presenti, sarete più noti, acclamati, venerati
di Cesare e di tutti i Cesari che ebbe e avrà la Terra. Voi noti, voi benedetti in un prossimo futuro e nel più remoto dei secoli, sino alla fine del mondo. A questa sublime sorte Io vi eleggo. Voi che siete onesti nella
volontà. E, perché di essa siate capaci, vi do le linee essenziali del vostro carattere di apostoli.

*
Esser sempre vigili e pronti.
I vostri lombi siano cinti, sempre cinti, e le vostre lampade accese come è di coloro che da un attimo all'altro devono partire o correre incontro ad un che arriva. E infatti voi siete, voi sarete, sin che la morte vi fermi, gli instancabili pellegrini alla ricerca di chi è errante; e finché la morte la spenga, la vostra lampada deve esser tenuta alta e accesa per indicare la via agli sviati che vengono verso l'ovile di Cristo.

Fedeli dovete essere al Padrone che vi ha preposti a questo servizio. Sarà premiato quel servo che il Padrone trova sempre vigilante e che la morte sorprende in stato di grazia.
Non potete, non dovete dire: "Io sono giovane. Ho tempo di fare questo e quello, e poi pensare al Padrone, alla morte, all'anima mia".  
Muoiono i giovani come i vecchi, i forti come i deboli. E all'assalto della tentazione sono vecchi e giovani, forti e deboli, ugualmente soggetti. Guardate che l'anima può morire prima del corpo e voi potete portare, senza sapere, in giro un' anima putrida. È così insensibile il morire di un'anima! Come la morte di un fiore. Non ha grido, non ha convulsione... china solo la sua fiamma come corolla stanca, e si spegne.
Dopo, molto dopo talora, immediatamente dopo talaltra, il corpo si accorge di portare dentro un cadavere verminoso, e diviene folle di spavento, e si uccide per sfuggire a quel connubio...
Oh! non sfugge! Cade proprio con la sua anima verminosa su un brulicare di serpi nella Geenna.

Non siate disonesti come sensali
o causidici che parteggiano per due opposti clienti, non siate falsi come i politicanti che dicono "amico" a questo e a quello, e poi sono di questo e di quello nemici. Non pensate di agire in due modi. Dio non si irride e non si inganna. Fate con gli uomini come fate con Dio, perché offesa fatta agli uomini è come fatta a Dio. Vogliate che Dio veda voi quali volete esser veduti dagli uomini.

Siate umili.
Non potete rimproverare il vostro Maestro di non esserlo. Io vi do l'esempio. Fate come faccio.
Umili, dolci, pazienti. Il mondo si conquista con questo. Non con violenza e forza.

Forti e violenti siate
contro i vostri vizi. Sradicateli, a costo di lacerarvi anche lembi di cuore. Vi ho detto, giorni or sono, di vigilare gli sguardi. Ma non lo sapete fare. Io vi dico: meglio sarebbe diveniste ciechi con lo strapparvi gli
occhi ingordi, anziché divenire lussuriosi.

Siate sinceri. Io sono Verità. Nelle eccelse come nelle umane cose. Voglio siate schietti voi pure. Perché andare con inganno o con Me, o coi fratelli, o con il prossimo? Perché giocare di inganno? Che? Tanto
orgogliosi qual siete, e non avete l'orgoglio di dire: "Voglio non esser trovato bugiardo"?

E schietti siate con Dio. Credete di ingannarlo con forme di orazione lunghe e palesi? Oh! poveri figli! Dio vede il cuore! Siate casti nel fare il bene. Anche nel fare elemosina. Un pubblicano ha saputo esserlo prima
della sua conversione. E voi non lo sapreste? Sì, ti lodo, Matteo, della casta offerta settimanale che Io e il Padre solo conoscevamo tua, e ti cito ad esempio. È una castità anche questa, amici. Non scoprire la vostra
bontà come non scoprireste una figlia giovinetta agli occhi di una folla. Siate vergini nel fare il bene. È vergine l'atto buono quando è esente da connubio di pensiero di lode e di stima o da fomite di superbia.

Siate sposi fedeli della vostra vocazione a Dio. Non potete servire due padroni. Il letto nuziale non può accogliere due spose contemporaneamente. Dio e Satana non possono dividersi i vostri amplessi. L'uomo non può, e non lo possono né Dio né Satana, condividere un triplice abbraccio in antitesi fra i tre che se lo
dànno.

Siate alieni da fame d'oro come da fame di carne, da fame di carne come da fame di potenza. Satana questo vi offre. Oh! le sue bugiarde ricchezze! Onori, riuscita, potere, dovizie: mercati osceni che hanno a
moneta la vostra anima. Siate contenti del poco. Dio vi dà il necessario. Basta. Questo ve lo garantisce come lo garantisce all'uccello dell'aria, e voi siete da ben più degli uccelli.

Ma vuole da voi fiducia e morigeratezza. Se avrete fiducia, Egli non vi deluderà. Se avrete morigeratezza, il suo dono giornaliero vi basterà. Non siate pagani, pur essendo, di nome, di Dio. Pagani sono coloro che, più
che Dio, amano l'oro e il potere per apparire dei semidei. Siate santi e sarete simili a Dio nell'eternità.

Non siate intransigenti. Tutti peccatori, vogliate essere con gli altri come vorreste che gli altri con voi fossero: ossia pieni di compatimento e perdono. Non giudicate. Oh! non giudicate! Da poco siete con Me,
eppure vedete quante volte già Io, innocente, fui a torto mal giudicato e accusato di peccati inesistenti. Il mal giudizio è offesa. E solo chi è santo vero non risponde offesa ad offesa. Perciò astenetevi da offendere per
non essere offesi. Non mancherete così né alla carità né alla santa, cara, soave umiltà, la nemica di Satana insieme alla castità. Perdonate, perdonate sempre. Dite: "Perdono, o Padre, per essere da Te perdonato dei miei infiniti peccati".

Miglioratevi d'ora in ora, con pazienza, con fermezza, con eroicità. E chi vi dice che divenire buoni non sia penoso? Anzi vi dico: è fatica più grande di tutte. Ma il premio è il Cielo e merita perciò consumarsi in questa fatica.

E amate. Oh! quale, quale parola devo dire per persuadervi all'amore? Nessuna ve ne è atta a convertirvi ad esso, poveri uomini che Satana aizza! E allora, ecco Io dico: "Padre, affretta l'ora del lavacro. Questa terra e questo tuo gregge è arido e malato. Ma vi è una rugiada che lo può molcere e mondare. Apri, apri la fonte di essa. Me apri, Me. Ecco, Padre. Io ardo di fare il tuo desiderio che è il mio e quello dell'Amore eterno. Padre, Padre, Padre! Guarda il tuo Agnello e siine il Sacrificatore"».

Gesù è realmente ispirato. Ritto in piedi, a braccia aperte a croce, il volto verso il cielo, coll'azzurro del lago
di dietro, nella sua veste di lino, pare un arcangelo orante.
Mi si annulla il vedere su questo suo atto.>>

M.Valtorta: L'Evangelo come mi è stato rivelato

"MISERERE NOSTRI,
REGINA GLORIAE ET HONORIS,
ET DE OMNI PERICULO

CUSTODI VITAM NOSTRAM!"


sabato 15 giugno 2013

La parabola del fariseo e del pubblicano


Le parabole di Gesù
(049)
La parabola del fariseo e 
del pubblicano (523.7 - 523.8)

Un giorno due uomini andati a Gerusalemme per affari salirono al Tempio come si conviene ad ogni buon israelita ogni qualvolta pone piede nella Città Santa. Uno era un fariseo. L'altro un pubblicano.

Il primo era venuto a riscuotere il fitto di alcuni empori e per fare i conti con i suoi fattori che abitavano nelle vicinanze della città. L'altro per versare le imposte riscosse e per invocare pietà in nome di una vedova che non poteva pagare la tassazione della barca e delle reti, perchè la pesca, fatta dal figlio maggiore, le era appena sufficiente per dare da mangiare ai molti altri figli.

Il fariseo prima di salire al tempio era passato dai tenutari degli empori, e gettato uno sguardo in essi empori, vistili pieni di merci e di compratori, si era compiaciuto in se stesso e poi aveva chiamato il tenutario del luogo e gli aveva detto: "Vedo che i tuoi commerci vanno bene".
"Sì, per grazia di Dio. Sono contento del mio lavoro. Ho potuto aumentare le merci e spero di farlo ancora di più. Ho migliorato il luogo, e l'anno veniente non avrò le spese dei banchi e scaffali, e perciò avrò più guadagno."
"Bene! Bene! Ne sono felice! Quanto paghi tu per questo luogo?"
"Cento didramme al mese. E' caro ma la posizione è buona..."
"Lo hai detto. La posizione è buona. Perciò io ti raddoppio il fitto":
"Ma signore" esclamò il negoziante "In tal maniera tu mi levi ogni utile!"
"E' giusto. Devo forse io arricchire te? E sul mio? Presto. O tu mi dai duemilaquattrocento didramme, e subito, o ti caccio fuori e mi tengo la merce. Il luogo è mio e ne faccio ciò che voglio":
Così al primo, così al secondo e al terzo dei suoi affittuari, ad ognuno raddoppiando il prezzo, sordo ad ogni preghiera. E perchè il terzo, carico di figli, volle fare resistenza, chiamò le guardie e fece porre i sigilli di sequestro, cacciando fuori l'infelice.

Poi nel suo palazzo, esaminò il registro dei fattori, trovando di che punirli come fannulloni e sequestrando loro la parte che si erano tenuti di diritto. Uno aveva il figlio morente, e per le molte spese aveva venduto una parte del suo olio per pagare le medicine. Non aveva dunque che dare all'esoso padrone.

"Abbi pietà di me, padrone. Il mio povero figlio sta per morire e dopo farò dei lavori straordinari per rifonderti ciò che ti sembra giusto. Ma ora, tu lo comprendi, non posso".
"Non puoi? Io ti farò vedere se puoi o non puoi". E andato col povero fattore nel frantoio lo privò anche di quel resto di olio che l'uomo si era tenuto per il misero cibo e per alimentare la lampada che permetteva di vegliare il figlio nella notte.


Il pubblicano invece, andato dal suo superiore e versate le imposte riscosse, si sentì dire: " Ma qui mancano trecentosettanta assi. Come mai ciò?"
"Ecco, ora ti dico. Nella città è una vedova con sette figli. Il primo solo è in età da lavorare. Ma non può andare lontano da riva con la barca perchè le sue braccia sono deboli ancora per il remo e la vela, e non può pagare un garzone di barca. Stando vicino a riva poco pesca, e il pescato basta appena a sfamare quelle otto infelici persone. Non ho avuto cuore di esigere la tassa".
"Comprendo. Ma la legge è legge. Guai se si sapesse che essa è pietosa! Tutti troverebbro ragioni per non pagare. Il giovinetto cambi mestiere e venda la barca se non possono pagare":
"E' il loro pane futuro.... e è il ricordo del padre":
"Comprendo. Ma non si può transigere":
"Va bene. Ma io non posso pensare otto infelici privati dell'unico bene. Pago io i trecentosettanta assi."


Fatte queste cose, i due salirono al Tempio, e passando presso il gazofilacio il fariseo trasse con ostentazione una voluminosa borsa dal seno e la scosse sino all'ultimo picciolo nel Tesoro. In quella borsa erano le monete prese in più ai negozianti e il ricavato dell'olio levato al fattore, e subito venduto ad un mercante.
Il pubblicano invece gettò un pugnello di piccioli dopo aver levato quanto gli era necessario al ritorno al suo luogo. L'uno e l'altro dettero perciò quanto avevano. Anzi, in apparenza, il più generoso fu il fariseo perchè dette fino all'ultimo dei piccioli che aveva seco.
Però occorre riflettere che nel suo palazzo egli aveva altre monete e aveva crediti aperti presso dei ricchi cambiavalute.


Indi andarono davanti al Signore. Il fariseo proprio avanti, presso il limite dell'Atrio degli Ebrei, verso il Santo; il pubblicano in fondo, quasi sotto la volta che portava nel Cortile delle Donne, e stava curvo, schiacciato dal pensiero della sua miseria rispetto alla Perfezione divina. E pregavano l'uno e l'altro.
Il fariseo, ben ritto, quasi insolente, come fosse il padrone de luogo e fosse lui che si degnasse di ossequiare un visitatore, diceva: "Ecco che sono venuto a venerarti nella Casa che è la nostra gloria. Sono venuto benchè senta che Tu sei in me perchè io sono giusto. So esserlo. Però, per quanto sappia che soltanto per mio merito sono tale, ti ringrazio, come è legge, di ciò che sono.
Io non sono rapace, ingiusto, adultero, peccatore come quel pubblicano che ha gettato contemporaneamente a me un pugnello di piccioli nel Tesoro. Io, lo hai visto, ti ho dato tutto quanto avevo meco. Quell'esoso, invece, ha fatto due parti e a Te ha dato la minore. L'altra, certamente, la terrà per gozzoviglie e le femmine. Ma io sono puro. Non mi contamino io. Io sono puro e giusto, digiuno due volte alla settimana, pago le decime di quanto possiedo. Si. Sono puro, giusto e benedetto, perchè santo. Ricòrdatelo, o Signore."


Il pubblicano, dal suo angolo remoto, senza osare di alzare lo sguardo verso le porte preziose dell'hecol, e battendosi il petto pregava così: "Signore, io non son degno di stare in questo luogo. Ma Tu sei giusto e santo, e me lo concedi ancora perchè sai che l'uomo è peccatore e se non viene da Te diviene un demonio. Oh! mio Signore! Vorrei onorarti notte e giorno e devo per tante ore essere schiavo del mio lavoro. Lavoro rude che mi avvilisce perchè è dolore al mio prossimo più infelice. Ma devo ubbidire ai miei superiori perchè è il mio pane. Fa', o mio Dio, che io sappia temperare il dovere verso i superiori con la carità verso i miei poveri fratelli, perchè nel mio lavoro non trovi la mia condanna.
Ogni lavoro è santo se operato con carità. Tieni la tua carità sempre presente al mio cuore perchè io, miserabile qual sono, sappia compatire i miei soggetti come Tu compatisci me, gran peccatore. Avrei voluto onorarti di più, o Signore. Tu la sai. Ma ho pensato che levare il denaro destinato al Tempio per sollevare otto cuori infelici fosse cosa migliore che versarlo nel gazofilacio e poi far versare lacrime di desolazione a otto innocenti infelici. Però se ho sbagliato fammelo comprendere, o Signore, e io ti darò fino all'ultimo picciolo, e tornerò al paese a piedi mendicando un pane.
Fammi capire la tua giustizia. Abbi pietà di me, o Signore, perchè io sono un gran peccatore".

Chi si umilia sarà esaltato,
chi si esalta sarà umiliato.

venerdì 7 giugno 2013

ATTENTI ALL' ORGOGLIO


Le parabole di Gesù
(051)

Paragono l'anima ad una stoffa. Quando viene infusa è nuova, senza strappi. Ha solo la macchia originale ma non ha ferite nella sua compagine, nè altre macchie, nè consunzioni. Poi, col tempo e per l'accoglimento dei vizi, si logora talora sino a recidersi, per le imprudenze si macchia, per i disordini si lacera.

Ora quando è lacerata non bisogna fare un rammendo maldestro, origine a più numerosi strappi, ma un paziente e lungo rammendo perfetto per annullare il più che si può la rovina fatta. E se troppo è lacerata la stoffa, anzi se è talmente lacerata da averne asportato un pezzo, non si deve superbamente pretendere di annullare la rovina da sè, ma andare da Chi si sa che può rendere novellamente integra l'anima perchè tutto gli è concesso di fare e tutto Egli può fare. Parlo di Dio, mio Padre, e del Salvatore che Io sono.

Ma l'orgoglio dell'uomo è tale che più grande è la rovina della sua anima e più cerca di rabberciarla con rimedi incompleti che creano un malanno sempre più grande.
Mi potrete obiettare che uno strappo sempre si vedrà. Lo ha detto anche Salome. Sì, si vedranno sempre le ferite che un'anima ha subito. Ma l'anima lotta la sua battaglia, e perciò è conseguente che venga colpita. Tanti sono i nemici che ha attorno. Ma nessuno vedendo un uomo coperto di cicatrici, segni di altrettante gloriose ferite ricevute in battaglia per conseguire vittoria, può dire: "Quest'uomo è immondo. Anzi dirà: "Costui è un eroe. Ecco là i segni porpurei del suo valore". Nè mai si vedrà che un soldato eviti di farsi curare vergognandosi di una gloriosa ferita, ma anzi va dal medico e gli dice con santo orgoglio: "Ecco, ho combattuto e ho vinto. Non mi sono risparmiato. Tu lo vedi. Ora risarciscimi perchè io sia pronto per altre battaglie e vittorie."

Invece colui che è piagato da malattie immonde, causate in lui da vizi indegni, colui che si vergogna delle sue piaghe e davanti ai famigliari e gli amici, e anche davanti ai medici, e talora è così assolutamente stolto che le tiene nascoste sinchè il loro fetore non lo disvela. Ma allora è troppo tardi per riparare. Gli umili sono sempre sinceri, e anche sono dei valorosi che non hanno da vergognarsi delle ferite riportate nella lotta. I superbi sono sempre menzogneri e vili, per il loro orgoglio giungono alla morte non volendo andare da Chi può guarirli e dirgli: "Padre, io ho peccato. Ma se Tu vuoi mi puoi guarire".

Molte sono le anime che per l'orgoglio di non avere a confessare una colpa iniziale giungono a morte. E allora, anche per esse, è troppo tardi. Non riflettono che la misericordia divina è più potente e vasta di ogni cancrena, per potente e vasta che sia, e che tutto può risanare. Ma esse, le anime degli orgogliosi, quando si accorgono di aver sprezzato ogni salvezza, cadono in disperazione, perchè sono senza Dio, e dicendo: "E' troppo tardi", si danno l'ultima morte: quella della dannazione.

Nutri le nostre anime 
con i tuoi divini influssi, o Maria!

venerdì 8 febbraio 2013

L'affabilità

S. Francesco di Sales colla sua benignità ottenea dagli altri quanto voleva; e così gli riusciva di tirar a Dio anche i peccatori più ostinati.
Lo stesso praticava S. Vincenzo de' Paoli, il quale insegnava a' suoi questa massima: «L'affabilità, dicea, l'amore e l'umiltà mirabilmente si guadagnano i cuori degli uomini, e gl'inducono ad abbracciare le cose più ripugnanti alla natura».
Una volta egli consegnò ad un padre de' suoi un gran peccatore, affinchè l'avesse ridotto a penitenza; ma quel padre, per quanto avesse faticato, niente profittò; onde pregò il santo a dirgli esso qualche cosa. Allora gli parlò il santo e lo convertì. Quel peccatore disse poi che la singolar dolcezza e carità del P. Vincenzo gli aveano guadagnato il cuore.
Quindi il santo non potea soffrire che i suoi missionari trattassero i penitenti con asprezza, e dicea loro che lo spirito infernale si serve del rigore di alcuni per maggiormente rovinare le anime.
Bisogna praticar la benignità con tutti, ed in ogni occasione, ed in ogni tempo. Avverte S. Bernardo che taluni sono mansueti finchè le cose avvengono a loro genio, ma appena poi che son toccati con qualche avversità o contraddizione, subito si accendono, e cominciano a fumare come il monte Vesuvio. Costoro posson dirsi carboni ardenti, ma nascosti sotto la cenere.
Chi vuol farsi santo bisogna che in questa vita sia come un giglio tra le spine, che per quanto venga da quelle punto non lascia di esser giglio, cioè sempre egualmente soave e benigno. L'anima amante di Dio conserva sempre la pace nel cuore, e la dimostra anche nel volto, comparendo sempre eguale a se stessa negli eventi, così prosperi come avversi, siccome cantò il cardinal Petrucci:
"Mira cangiarsi in variate forme
Fuori di sè le creature, e dentro
Il suo più cupo centro
Sempre unita al suo Dio vive uniforme."
V/. Maria Mater gratiæ, Mater misericordiæ. 
R/. Tu nos ab hoste protege, et hora mortis suscipe.

mercoledì 6 febbraio 2013

I cinque alberi del PICCOLO NULLA, Beata Maria di Gesù Crocifisso.


«Ed ho aperto una mela e vi ho trovato in mezzo cinque piccoli scomparti che formavano una stella, e dentro vi si trovavano i semi.

Durante l'orazione, ho visto una bella mela, essa è diventata marcia sotto i miei occhi; e quando è stata completamente fradicia, i semi del cuore della mela, sono germinati: sono spuntati cinque alberi. Il chicco più basso ha prodotto l'albero più alto, il chicco che seguiva ha prodotto un albero un po' più piccolo e i tre chicchi più in alto hanno prodotto alberi ancora più piccoli. 
Le cinque radici di questi al­beri erano talmente unite ed intrecciate, da formare una sola radice, e così si soste­nevano le une con le altre.

L' albero più alto portava frutti maturi, che si immergevano in acqua, e quest'ac­qua bagnava la radice che nutriva gli altri alberi; quest'albero più alto si chiama l'albero dell'amore.

Il secondo, un po' più piccolo, portava frutti che pendevano dalla parte della ter­ra e pareva volesse offrirli; quest'albero è quello della carità.

Il terzo non sembrava che si appoggiasse a terra e le sue radici pareva che fos­sero nell'aria e si sarebbe detto che stesse per cadere: quest'albero è quello del­l'abbandono.

Il quarto era tutto spoglio come gli alberi durante l'inverno ma, nello stesso tem­po, era pieno di vita: quest'albero è quello della povertà.

Il quinto era verde e coperto di frutti ma questi frutti erano in basso e come na­scosti e non si vedevano: quest'albero è quello dell'umiltà.
*
Ho visto in seguito altri cinque alberi.

Il primo portava un frutto corposo e soli­do al vedersi, ma marcio e come fosse pieno di fumo all'interno: questo è l'amore di sé e di tutto ciò che è sulla terra, il che indurisce talmente il frutto che finisce per imputridirsi.

Il secondo aveva i rami elevati e nessuno poteva raggiungerli per cogliere il frut­to; questo frutto, del resto, era raro e macchiato per la malattia: è l'avarizia che ha paura di spogliarsi, se dona; il che fa sì che il frutto si guasti e cada.

Il terzo aveva le radici profondamente radicate; ed è l'attaccamento alle cose create.

Il quarto sembrava coperto di foglie e di frutti e molto bello: sono le ricchezze, frutti che marciscono alla minima nevicata, o al più piccolo freddo.

Il quinto portava molti frutti, tanto che essi nascondevano le foglie: è l'orgoglio, che appare ricchissimo agli occhi degli uomini ma il minimo soffio di vento, la più piccola contrarietà, fa cadere questo frutto e quelli che lo vogliono mangiare lo tro­vano amaro».

Recordare nostri, Domina, 
et non apprehendent nos mala

domenica 30 dicembre 2012

Battezzato nel giorno natale del martire Valente, Valentino volle essere detto

Mi piace pubblicare anzitempo  una bella antichissima omelia. Il tutto
potrà servire per il prossimo 14 febbraio! 


L'Omelia per san Valentino


16 - 1, ore 6 ant.

Scrivo alla luce del lumino di cera, e non so come scriverò. Ma non voglio
soffrire quello che ho sofferto ieri. Mentre dicevo il “Veni Sancte Spiritus” mi
si presenta questa visione, ed è così prepotente che capisco l’inutilità di
insistere a pregare. La seguo perciò. E vedendola complessa la scrivo come posso
a questa luce.

Sono di certo nelle catacombe. In quale? In quale secolo? Non so. Sono in una
chiesa catacombale fatta così: [grafico]. Insomma a rettangolo terminato da una
vasta aula rotonda nel cui centro è l’altare: una tavola rettangolare, staccata
dalla parete, coperta da una vera tovaglia, ossia da un telo di lino ad alti
orli su tutti i quattro lati, ma senza merletti e ricami.

Sulla parete dell’abside è dipinta una scena evangelica: il Buon Pastore. Non è
certo un capolavoro. Una via di campagna che pare mota gialla; una chiazza
verdastra oltre la via, a sinistra di chi guarda, sarebbe il prato; sette pecore
ammassate tanto da parere un blocco solo, di cui solo delle due prime si vede il
muso mentre le altre paiono fagotti panciuti, camminano sulla via, venendo verso
chi guarda, ai limiti del prato. Il Buon Pastore è al loro fianco, sul fondo,
vestito di bianco e col manto rosso sbiadito. Ha sulle spalle una pecorina che è
tenuta per le zampette da Lui. Il pittore, o mosaicista, ha fatto tutto quello
che ha potuto... ma non si può certo dire che Gesù sia bello. Ha il
caratteristico volto piatto, largo più che lungo perché preso di fronte, dai
capelli stesi e appiccicati, troppo scuri e opachi, dei dipinti e mosaici
cristiani primitivi. Non ha neppure la barba. Però nel suo brutto ha uno sguardo
mesto e amoroso che attira, ed una mossa, sulla bocca, di sorriso doloroso che
fa pensare.
Nel punto segnato da una crocetta vi è una bassa apertura. Ma tanto bassa che
solo un fanciullo potrebbe passare senza urtarvi il capo. Sopra, una lapide
lunga quanto un uomo segna un loculo. Sulla lapide è scritto il “Pax” che si
usava allora e sotto in latino: “Ossa del beato martire Valente”. Ai lati della
epigrafe sono graffite una ampolla e una foglia di palma.

In fondo alla chiesa, dove è il segno rotondo, un’altra bassa apertura, e presso
ad essa vedo quattro robusti fossori, armati di pale e picconi. Sono vicini a
due mucchi di arenaria di sterro. Arguisco che si sia in tempo di persecuzioni e
che siano pronti a far franare la parete e ad occultare la chiesa con la frana e
coi mucchi di arenaria già pronti.

Nella chiesa vi è il solito chiarore giallo-rosso tremolante delle lampadette ad
olio. Verso l’altare la luce è più viva. Nel fondo è appena un chiarore nel
quale si perdono i contorni delle persone vestite per lo più di scuro.
L’altare ha sopra il calice, ancora coperto. Ma la Messa deve essere già
iniziata. All’altare vi è un vegliardo dal volto ascetico, pallidissimo, sembra
scolpito nel vecchio avorio. La tonsura si perde nella calvizie che mette solo
una corona di soffici capelli bianchi intorno al capo sino al disopra delle
orecchie. Il resto è nudo, e la fronte pare immensa. Sotto essa due chiari occhi
cilestrini, miti, tristi, limpidi però come quelli di un bimbo. Naso lungo e
sottile, bocca dalla caratteristica piega dei vecchi, dalle mascelle molto
sdentate. Un viso magro e austero di santo. Lo vedo bene perché è vòlto verso di
me, stando nel rito dall’altra parte dell’altare. Ha la pianeta di allora, ossia
a mantellina, e sopra ha il pallio oltre la stola.

Sul davanti dell’altare vi sono inginocchiati (dove ho messo i tre punti) tre
giovani. I due ai lati hanno la casacchetta dei diaconi, con le maniche larghe e
lunghe oltre i gomiti. Quello di centro ha la veste già a pianeta, con le
maniche fatte da una mantellina che va dalle coste alle scapole, a tracolla ha
la stola. Vedendo la stola, che se bene mi ricordo non vidi nelle prime Messe,
arguisco che non vedo scena dei primi tempi. Penso essere nella fine del II
secolo o agli inizi del III. Però potrei sbagliare, perché questa è riflessione
mia e in fatto di archeologia cristiana e di cerimonie di quei tempi sono
analfabeta.

Il Pontefice - deve essere tale per il pallio - passa sul davanti dell’altare e
viene a porsi di fronte ai tre giovani inginocchiati. Impone le mani al primo e
al terzo pronunciando preghiere in latino. Poi si porta di fronte a quello di
centro, quello della stola a tracolla, e impone anche a lui le mani sul capo;
poi, servito da uno vestito da diacono, intinge le dita in un vaso d’argento e
unge la fronte e le palme delle mani del giovane, alita a lui in viso, anzi
prima alita poi unge le mani, gliele lega insieme con un lembo della stola che
l’aiutante ha slegata dal corpo di lui, e l’altra parte gliela passa sul collo
come un giogo. Poi lo fa alzare e, tenendolo per le mani legate, lo fa salire
sui tre scalini che conducono all’altare e glielo fa baciare, e baciare quello
che suppongo sia il Vangelo: un voluminoso rotolo tenuto da un nastro rosso. Poi
lo bacia a sua volta e lo conduce con sé dall’altra parte e continua la Messa.

Capisco ora, però, che era da poco iniziata, perché dopo poco (è quasi uguale
alla nostra e anche questo mi fa capire che siamo almeno alla fine del II
secolo) si giunge al Vangelo. Lo canta il nuovo sacerdote (penso sia stata una
ordinazione sacerdotale). Viene di nuovo sul davanti dell’altare, e i due che
erano ancora in ginocchio si alzano, uno prende una lampadetta, l’altro il
rotolo del Vangelo che gli porge quello che già serviva all’altare. Il diacono
svolge il rotolo e lo tiene aperto al punto giusto, stando di fronte al neo
sacerdote che ha al fianco quello della lampada. Il neo sacerdote, che è alto,
bruno, coi capelli piuttosto ondulati, sui trent’anni, dal volto
caratteristicamente romano, canta con bella voce il Vangelo di Gesù e del
giovane che gli chiede che fare per seguire Lui
(Matteo 19, 16-30; Marco 10, 17-27; Luca 18, 18-30.)

Ha una voce sicura e forte, ben tonata. Empie la chiesa.
Canta con canto fermo e con un sorriso luminoso nel
volto, e quando giunge al “Vade, quaecumque habes vende et da pauperibus et
habebis thesaurum in coelo et veni sequere Me” la sua voce è uno squillo di
gioia e di amore.
Bacia il Vangelo e torna presso il Pontefice che ha ascoltato in piedi il
Vangelo, vòlto verso il popolo e con le mani congiunte in preghiera. Il neo
sacerdote si inginocchia ora.

Il Pontefice [Marcello] invece pronuncia la sua omelia:

«Battezzato nel giorno natale del martire Valente, il nuovo figlio della Chiesa
Apostolica e Romana, e fratello nostro, ha voluto assumere il nome del martire
beato, ma con quella modifica che l’umiltà attinta dal Vangelo - l’umiltà: una
delle radici della santità - gli dettava. E non Valente, ma Valentino volle essere detto.

Oh! ma che in vero Valente egli è. Guardate quanto cammino ha fatto il pagano la
cui religione era il vizio e la prepotenza. Voi lo conoscete quale è ora, nel seno della Chiesa. 
Qualcuno fra voi - e specie quelli che padri e madri di vera generazione gli sono stati, per essere quelli che con la parola e l’esempio
l’hanno fatto concepire dalla Santa Madre Chiesa e partorire da essa per l’altare e per
il Cielo - sanno quello che egli era non come cristiano Valente ma come il
pagano di prima, il cui nome egli, e noi con lui, non vogliamo neppur ricordare.
Morto è il pagano. 

E dall’acqua lustrale è risorto il cristiano. 
Ora egli è il vostro prete. Quanto cammino! Quanto! 
Dalle orgie ai digiuni; 
dai triclini alla chiesa; 
dalla durezza, dall’impurità, dall’avarizia, all’amore, alla castità, alla generosità assoluta.

Egli era il giovane ricco, e un giorno ha incontrato, portato a lui dal cuore
dei santi, che anche senza parole illustrano Cristo - perché Egli traluce dal
loro animo - ha incontrato Gesù, Signor nostro benedetto. 
Gli occhi dolcissimi del Maestro si sono fissati 
sul volto del pagano. E il pagano ha provato una seduzione che nessun piacere gli aveva 
ancor data, una emozione nuova, dal nome
sconosciuto, dalla non descrivibile sensazione. 

Un che di soave come carezza di madre, di onesto come odore di pane testé sfornato, di puro come alba di primavera, di sublime come sogno ultraterreno.

Cadete voi larve del mondo e dell’Olimpo pagano quando il Sole Gesù bacia un suo
chiamato. Come nebbie vi dissolvete. Come incubi demoniaci fuggite. Che resta di
voi? Di voi che sembravate tanto splendida cosa? Un mucchio lurido di detriti
inceneriti malamente e ancor fetidi di corruzione.
“Maestro buono, che devo fare per seguire Te e avere la vita eterna?” ha chiesto. 
E il dolce, divino Maestro, con poche parole gli ha dato l’insegnamento di Vita: 
“Osserva questi comandi”. Oh! non gli poteva dire: “Segui la Legge!”.
Il pagano non la conosceva. Gli disse allora: “Non uccidere, non rubare, non spergiurare, 
non essere lussurioso, onora i parenti e ama Dio e prossimo come te stesso”
Parole nuove! Méte mai pensate! 
Orizzonti infiniti pieni di luce. Della sua luce.

Il pagano non poteva dare la risposta del giovane ricco. Non poteva. Perché nel
paganesimo sono tutti i peccati ed egli tutti li aveva nel cuore. Ma volle poterla dare. 
E venne ad un povero vecchio, al Pontefice perseguitato, e disse:
“Dàmmi la Luce, dàmmi la Scienza, dàmmi la Vita! Un’anima dàmmi, in questo mio
corpo di bruto!”, e piangeva.
E il povero vecchio, che io sono, ha preso il Vangelo ed in esso ha trovato la Luce, 
la Scienza, la Vita per il mendicante piangente. Ho trovato tutto nel Vangelo di Gesù, nostro Signore, per lui. 

E gli ho potuto dare l’anima. L’anima
morta evocarla a vita, e dirgli: “Ecco l’anima tua. Custodiscila per la vita eterna”.
Allora, bianco del bagno battesimale, egli si è dato a ricercare il Maestro buono e lo ha trovato ancora e gli ha detto: “Ora posso dirti che faccio ciò che Tu mi hai detto. Che altro manca per seguire Te?”. 
E il Maestro buono ha risposto: 
“Va’, vendi quanto hai e dallo ai poveri. Allora sarai perfetto e potrai seguire Me”.

Oh! allora Valentino ha superato il giovane di Palestina! Non se ne andò via,
incapace di separarsi da tutti i suoi beni. 
Ma questi beni mi ha portato per i
poveri di Cristo e, libero dal giogo delle ricchezze, pesante giogo che impedisce 
di seguire Gesù, mi ha chiesto il giogo luminoso, alato, paradisiaco del Sacerdozio.
Eccolo. Lo avete visto sotto quel giogo, con le mani legate, prigioniero di Cristo, salire al suo altare. Ora vi frangerà il Pane eterno e vi disseterà col Vino divino. 

Ma lui, come io, per esser perfetti agli occhi del Maestro buono vogliamo ancora una cosa. Farci noi pane e vino: immolarci, frantumarci,
spremerci sino all’ultima stilla, ridurci a farina per essere ostie. 
Vendere l’ultima, l’unica ricchezza che ci resta: la vita. Io la mia cadente vita di vecchio. 
Egli la fiorente vita di giovane.

Oh! non deluderci, Pontefice eterno. Concedici il beato martirio! Col sangue
vogliamo scrivere il tuo Nome: Gesù Salvatore nostro. Un altro battesimo vogliamo, per la nostra stola che l’imperfezione umana sempre corrompe: quello del sangue. 
Per salire a Te con stole immacolate e seguirti, o Agnello di Dio che levi i peccati del mondo, che li hai levati col tuo Sangue! 

Beato martire Valente, nella cui chiesa siamo, al tuo Pontefice Marcello e per il tuo fratello
sacerdote chiedi dal Pontefice eterno la stessa tua palma e corona.»

E non c’è altro.

Fonte: Scritti di Maria Valtorta



AVE MARIA PURISSIMA 
SENZA PECCATO ORIGINALE CONCEPITA

AMDG et DVM

venerdì 23 novembre 2012

L'umiltà! "Chi si umilia sarà esaltato"


  1. La sacra Scrittura si rivolge a noi, fratelli, proclamando a gran voce: "Chiunque si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato".
  2. Così dicendo, ci fa intendere che ogni esaltazione è una forma di superbia,
  3. dalla quale il profeta mostra di volersi guardare quando dice: "Signore, non si è esaltato il mio cuore, né si è innalzato il mio sguardo, non sono andato dietro a cose troppo grandi o troppo alte per me".
  4. E allora? "Se non ho nutrito sentimenti di umiltà, se il mio cuore si è insuperbito, tu mi tratterai come un bimbo svezzato dalla propria madre".

  5. Quindi, fratelli miei, se vogliamo raggiungere la vetta più eccelsa dell'umiltà e arrivare rapidamente a quella glorificazione celeste, a cui si ascende attraverso l'umiliazione della vita presente,
  6. bisogna che con il nostro esercizio ascetico innalziamo la scala che apparve in sogno a Giacobbe e lungo la quale questi vide scendere e salire gli angeli.
  7. Non c'è dubbio che per noi quella discesa e quella salita possono essere interpretate solo nel senso che con la superbia si scende e con l'umiltà si sale.
  8. La scala così eretta, poi, è la nostra vita terrena che, se il cuore è umile, Dio solleva fino al cielo;
  9. noi riteniamo infatti che i due lati della scala siano il corpo e l'anima nostra, nei quali la divina chiamata ha inserito i diversi gradi di umiltà o di esercizio ascetico per cui bisogna salire.

  10. Dunque il primo grado dell'umiltà è quello in cui, rimanendo sempre nel santo timor di Dio, si fugge decisamente la leggerezza e la dissipazione,
  11. si tengono costantemente presenti i divini comandamenti e si pensa di continuo all'inferno, in cui gli empi sono puniti per i loro peccati, e alla vita eterna preparata invece per i giusti.
  12. In altre parole, mentre si astiene costantemente dai peccati e dai vizi dei pensieri, della lingua, delle mani, dei piedi e della volontà propria, come pure dai desideri della carne,
  13. l'uomo deve prendere coscienza che Dio lo osserva a ogni istante dal cielo e che, dovunque egli si trovi, le sue azioni non sfuggono mai allo sguardo divino e sono di continuo riferite dagli angeli.
  14. E' ciò che ci insegna il profeta, quando mostra Dio talmente presente ai nostri pensieri da affermare: "Dio scruta le reni e i cuori"
  15. come pure: "Dio conosce i pensieri degli uomini".
  16. Poi aggiunge: "Hai intuito di lontano i miei pensieri"
  17. e infine: "Il pensiero dell'uomo sarà svelato dinanzi a te".
  18. Quindi, per potersi coscienziosamente guardare dai cattivi pensieri, bisogna che il monaco vigile e fedele ripeta sempre tra sé: "Sarò senza macchia dinanzi a lui, solo se mi guarderò da ogni malizia".
  19. Ci è poi vietato di fare la volontà propria, dato che la Scrittura ci dice: "Allontanati dalle tue voglie"
  20. e per di più nel Pater chiediamo a Dio che in noi si compia la sua volontà.
  21. Perciò ci viene giustamente insegnato di non fare la nostra volontà, evitando tutto quello di cui la Scrittura dice: "Ci sono vie che agli uomini sembrano diritte, ma che si sprofondano negli abissi dell'inferno"
  22. e anche nel timore di quanto è stato affermato riguardo ai negligenti: "Si sono corrotti e sono divenuti spregevoli nella loro dissolutezza".
  23. Quanto poi alle passioni della nostra natura decaduta, bisogna credere ugualmente che Dio è sempre presente, secondo il detto del profeta: "Ogni mio desiderio sta davanti a te".
  24. Dobbiamo quindi guardarci dalle passioni malsane, perché la morte è annidata sulla soglia del piacere.
  25. Per questa ragione la Scrittura prescrive: "Non seguire le tue voglie".
  26. Se dunque "gli occhi di Dio scrutano i buoni e i cattivi"
  27. e se "il Signore esamina attentamente i figli degli uomini per vedere se vi sia chi abbia intelletto e cerchi Dio",
  28. se a ogni momento del giorno e della notte le nostre azioni vengono riferite al Signore dai nostri angeli custodi,
  29. bisogna, fratelli miei, che stiamo sempre in guardia per evitare che un giorno Dio ci veda perduti dietro il male e isteriliti, come dice il profeta nel salmo e,
  30. pur risparmiandoci per il momento, perché è misericordioso e aspetta la nostra conversione, debba dirci in avvenire: "Hai fatto questo e ho taciuto".

  31. Il secondo grado dell'umiltà è quello in cui, non amando la propria volontà, non si trova alcun piacere nella soddisfazione dei propri desideri,
  32. ma si imita il Signore, mettendo in pratica quella sua parola, che dice: "Non sono venuto a fare la mia volontà, ma quella di colui che mi ha mandato".
  33. Cosa" pure un antico testo afferma: "La volontà propria procura la pena, mentre la sottomissione conquista il premio".

  34. Terzo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco per amore di Dio si sottomette al superiore in assoluta obbedienza, a imitazione del Signore, del quale l'Apostolo dice: "Fatto obbediente fino alla morte".

  35. Il quarto grado dell'umiltà è quello del monaco che, pur incontrando difficoltà, contrarietà e persino offese non provocate nell'esercizio dell'obbedienza, accetta in silenzio e volontariamente la sofferenza
  36. e sopporta tutto con pazienza, senza stancarsi né cedere secondo il monito della Scrittura: " Chi avrà sopportato sino alla fine questi sarà salvato".
  37. E ancora: "Sia forte il tuo cuore e spera nel Signore".
  38. E per dimostrare come il servo fedele deve sostenere per il Signore tutte le possibili contrarietà, esclama per bocca di quelli che patiscono: "Ogni giorno per te siamo messi a morte, siamo trattati come pecore da macello".
  39. Ma con la sicurezza che nasce dalla speranza della divina retribuzione, costoro soggiungono lietamente: "E di tutte queste cose trionfiamo in pieno, grazie a colui che ci ha amato",
  40. mentre altrove la Scrittura dice: "Ci hai provato, Signore, ci hai saggiato come si saggia l'argento col fuoco; ci hai fatto cadere nella rete, ci hai caricato di tribolazioni".
  41. E per indicare che dobbiamo assoggettarci a un superiore, prosegue esclamando: "Hai posto degli uomini sopra il nostro capo".
  42. Quei monaci, però, adempiono il precetto del Signore, esercitando la pazienza anche nelle avversità e nelle umiliazioni, e, percossi su una guancia, presentano l'altra, cedono anche il mantello a chi strappa loro di dosso la tunica, quando sono costretti a fare un miglio di cammino ne percorrono due,
  43. come l'Apostolo Paolo sopportano i falsi fratelli e ricambiano con parole le offese e le ingiurie.

  44. Il quinto grado dell'umiltà consiste nel manifestare con un'umile confessione al proprio abate tutti i cattivi pensieri che sorgono nell'animo o le colpe commesse in segreto,
  45. secondo l'esortazione della Scrittura, che dice: "Manifesta al Signore la tua via e spera in lui".
  46. E anche: "Aprite l'animo vostro al Signore, perché è buono ed eterna è la sua misericordia",
  47. mentre il profeta esclama: "Ti ho reso noto il mio peccato e non ho nascosto la mia colpa.
  48. Ho detto: "confesserò le mie iniquità dinanzi al Signore" e tu hai perdonato la malizia del mio cuore".

  49. Il sesto grado dell'umiltà è quello in cui il monaco si contenta delle cose più misere e grossolane e si considera un operaio incapace e indegno nei riguardi di tutto quello che gli impone l'obbedienza,
  50. ripetendo a se stesso con il profeta: "Sono ridotto a nulla e nulla so; eccomi dinanzi a te come una bestia da soma, ma sono sempre con te".

  51. Il settimo grado dell'umiltà consiste non solo nel qualificarsi come il più miserabile di tutti, ma nell'esserne convinto dal profondo del cuore,
  52. umiliandosi e dicendo con il profeta: "Ora io sono un verme e non un uomo, l'obbrobrio degli uomini e il rifiuto della plebe";
  53. "Mi sono esaltato e quindi umiliato e confuso"
  54. e ancora: "Buon per me che fui umiliato, perché imparassi la tua legge".

  55. L'ottavo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non fa nulla al di fuori di ciò a cui lo sprona la regola comune del monastero e l'esempio dei superiori e degli anziani.

  56. Il nono grado dell'umiltà è proprio del monaco che sa dominare la lingua e, osservando fedelmente il silenzio, tace finché non è interrogato,
  57. perché la Scrittura insegna che "nelle molte parole non manca il peccato"
  58. e che "l'uomo dalle molte chiacchiere va senza direzione sulla terra".

  59. Il decimo grado dell'umiltà è quello in cui il monaco non è sempre pronto a ridere, perché sta scritto: "Lo stolto nel ridere alza la voce".

  60. L'undicesimo grado dell'umiltà è quello nel quale il monaco, quando parla, si esprime pacatamente e seriamente, con umiltà e gravità, e pronuncia poche parole assennate, senza alzare la voce,
  61. come sta scritto: "Il saggio si riconosce per la sobrietà nel parlare".
  62. Il dodicesimo grado, infine, è quello del monaco, la cui umiltà non è puramente interiore, ma traspare di fronte a chiunque lo osservi da tutto il suo atteggiamento esteriore,
  63. in quanto durante l'Ufficio divino, in coro, nel monastero, nell'orto, per via, nei campi, dovunque, sia che sieda, cammini o stia in piedi, tiene costantemente il capo chino e gli occhi bassi;
  64. e, considerandosi sempre reo per i propri peccati, si vede già dinanzi al tremendo giudizio di Dio,
  65. ripetendo continuamente in cuor suo ciò che disse, con gli occhi fissi a terra il pubblicano del Vangelo: "Signore, io, povero peccatore, non sono degno di alzare gli occhi al cielo".
  66. E ancora con il profeta: "Mi sono sempre curvato e umiliato".

  67. Una volta ascesi tutti questi gradi dell'umiltà, il monaco giungerà subito a quella carità, che quando è perfetta, scaccia il timore;
  68. per mezzo di essa comincerà allora a custodire senza alcuno sforzo e quasi naturalmente, grazie all'abitudine, tutto quello che prima osservava con una certa paura;
  69. in altre parole non più per timore dell'inferno, ma per amore di Cristo, per la stessa buona abitudine e per il gusto della virtù.
  70. Sono questi i frutti che, per opera dello Spirito Santo, il Signore si degnerà di rendere manifesti nel suo servo, purificato ormai dai vizi e dai peccati.

    Da Regola di san Benedetto


    Giuseppe Ghedine 1870.jpg



    Citazioni sull' umiltà.

    • Cercate la giustizia, cercate l'umiltà, | per trovarvi al riparo | nel giorno dell'ira del Signore. (Bibbia, Sofonia)
    • Chi vuole trovare il vero riposo per la sua anima impari l'umiltà! (Doroteo di Gaza)
    • Ciò che Lucifero perdette con la superbia, Maria lo guadagnò con l'umiltà; ciò che Eva dannò e perdette con la disobbedienza, Maria lo salvò con l'obbedienza. (Louis Marie Grignion de Montfort)
    • Dubitare di sé non è umiltà, credo persino che spesso sia la forma più esaltata, quasi delirante, dell'orgoglio, una sorta di ferocia gelosa che fa rivoltare un disgraziato contro se stesso, per divorarsi. Il segreto dell'inferno dev'essere in ciò. (Georges Bernanos)
    • Il senso del nostro essere soggetti all'errore e il senso della nostra debolezza […] dovrebbero renderci modesti e umili. (Benjamin Whichcote)
    • Il Signore tanto ama l'umiltà che, a volte, permette dei peccati gravi. Perché? perché quelli che li hanno commessi, questi peccati, dopo, pentiti, restino umili. (Papa Giovanni Paolo I)
    • L'amore di Dio, quando brucia, produce della cenere: è l'umiltà. (Madeleine Delbrêl)
    • L'umiltà è come una bilancia: più ci si abbassa da una parte, più ci si innalza dall'altra. (Giovanni Maria Vianney)
    • L'umiltà è il fondamento su cui poggia tutta la santità. (Natale Ginelli)
    • L'umiltà è l'anticamera di tutte le perfezioni. (Marcel Aymé)
    • L'umiltà è l'inizio della santità. (Madre Teresa di Calcutta)
    • L'umiltà è la sola che beatifica ed eterna le virtù, che fa forza al regno dei cieli, che ha umiliato il Signore della Maestà fino alla morte, la morte della croce. L'umiltà fu la prima a invitare a discendere fra noi il Verbo di Dio, stabilito nell'alto dei cieli. (Bernardo di Chiaravalle)
    • L'umiltà raccoglie sempre compassione; mentre la durezza di cuore e la mancanza di fede raccolgono sempre eventi duri ed imprevisti, finché all'improvviso insorge contro di loro il Male ed esse sono consegnate al giudizio finale. (Isacco di Ninive)
    • L'umiltà vera è una specie di auto-annullamento; e questo è il centro di tutte le virtù. (John Wesley)
    • La gente è superba soltanto quando ha qualcosa da perdere, e umile quando ha qualcosa da guadagnare. (Henry James)
    • La virtù dell'umiltà è necessaria massimamente a coloro che sono costituiti in dignità, perché più facilmente sono esposti alla superbia. Questa virtù è il fondamento di tutta la vita cristiana. (Giovanni Crisostomo)
    • Le due ali per volare in Paradiso sono la purità e l'umiltà. (Giuseppe Marello)
    • Le prostitute sono più vicine a Dio delle donne oneste: han perduto la superbia e non hanno più l'orgoglio. Non si gloriano di quel nulla di cui la matrona si onora. Posseggono l'umiltà,pietra angolare delle virtù gradite al Cielo. (Anatole France)
    • Oh, che veleno di lodi ho visto servire alla Madre Priora! Come bisogna che un'anima sia distaccata e innalzata sopra se stessa per non subirne del male! (Teresa di Lisieux)
    • Questa umiltà creaturale non è l'umiltà dello schiavo, non è l'umiltà di fronte all'incomprensibile fato, è l'umiltà filiale così come è rappresentata da Maria, che discute, che vuol comprendere, che ha le sue obiezioni da fare. (Ernesto Balducci)
    • Si è umili, umili nel senso popolare della parola: il popolo dice umile il lievito quando è unto d'olio ed è tutto elastico e tutto obbediente alla sua opera: anche il corpo nostro diviene unto: questo corpo che oltre ad essere il veicolo ha pure la presenza del male, questo corpo ove agisce la seduzione e la morte, questo stesso corpo diviene come un principio di bene e di eternità: si ha bisogno di portarlo con tutte le più piccole operazioni, con tutte le più impercettibili cose ad esprimere l'Adorazione e l'Amore. (Giorgio La Pira)
    • Umiltà è la virtù che frena il desiderio innato dell'uomo di innalzarsi sopra il proprio merito. (Tommaso d'Aquino)
    • Vidi tutte le reti del Maligno distese sulla terra e dissi gemendo: – Chi mai potrà scamparne? E udii una voce che mi disse: – l'umiltà. (Antonio abate)
    • Umiltà vuol dire verità. (Giuseppe Marello)

    Proverbi      

    Italiani 

    • All'umiltà felicità, all'orgoglio calamità.
    • Chi rimane in umile stato, non ha da temer caduta.
    • Chi si umilia sarà esaltato, chi si esalta sarà umiliato. (Vangelo di Matteo 23:12)
    • Dove entra la fortuna, esce l'umiltà.
    • È meglio essere umile a cavallo, che orgoglioso a piedi.
    • La troppa umiltà vien dalla superbia.
    • L'allodola vola in alto, ma fa il suo nido in terra.
    • L'orgoglio è stoltezza, l'umiltà è saviezza.
    • L'umiliarsi è da saggio, l'avvilirsi è da bestia.
    • L'umiliazione va dietro al superbo.
    • L'umiltà è il miglior modo di evitare l'umiliazione.
    • L'umiltà è la corona di tutte le virtù.
    • L'umiltà è la madre dell'onore.
    • L'umiltà è una virtù che adorna tanto la vecchiaia, quanto la gioventù.
    • L'umiltà ottiene spesso più dell'alterigia.
    • L'umiltà sta bene a tutti.
    • L'umiltà sta bene con la castità.
    • Maggiore il santo, maggiore la sua umiltà.
    • Nessuna corona è più bella di quella dell'umiltà.
    • Più alta la condizione, più si deve essere umili.
    • Preghiera umile entra in cielo.
    • Senza umiltà tutte le virtù sono vizi.
    • Spesso vince più l'umiltà che il ferro.
    • Superbia povera spiace anche al diavolo; umiltà ricca piace anche a Dio.
    • Umiltà e cortesia adornano più di una veste tessuta d'oro.


    Cor Mariæ Immaculatum, 
    intercede pro nobis