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venerdì 26 dicembre 2014

FESTA DEI SANTI INNOCENTI

FESTA DEI SANTI INNOCENTI

1. In quel tempo: “Un angelo del Signore apparve in sogno a Giuseppe, e gli disse: Álzati, prendi con te il bambino e sua madre e fuggi in Egitto” (Mt 2,13).
In questo vangelo si devono considerare due fatti:
- la fuga del Signore in Egitto,
- la strage dei bambini innocenti.


I. la fuga del signore in egitto

2. “Un angelo del Signore”. In questa prima parte si dimostra, in senso morale, come ogni uomo di buona volontà debba custodire la sua opera ancor tenera(come un bambino appena nato) dalle insidie del diavolo e dal plauso del mondo. Vedremo che cosa significhino: l’angelo, Giuseppe e il suo sonno, che cosa la madre e il bambino, e che cosa infine l’Egitto ed Erode.
L’angelo del Signore raffigura l’ispirazione divina, che annunzia all’uomo che cosa debba e che cosa non debba fare. Si legge nell’Esodo: “L’angelo di Dio precedeva l’ac­cam­pa­mento d’Israele” (Es 14,19); e ancora: “Il mio angelo ti precederà” (Es 32,34), per due scopi: per mostrarti la via, e per difenderti dal nemico. E Tobia dice: “Fate un buon viaggio, il Signore vi sia vicino lungo il cammino e il suo angelo vi accompagni” (Tb 5,21).
Giuseppe, che s’interpreta “crescente” (cf. Gn 49,22), raffigura il cristiano che, inserito nella chiesa per la fede in Cristo, deve crescere di bene in meglio e portare frutti di vita eterna. Il suo sonno è la pace della mente o anche la dolcezza della contemplazione. Il sonno è la quiete delle facoltà animali, con la intensificazione e il raffozamento di quelle naturali (Aristotele. Vedi nota nel sermone della II dom. di Quaresima, n. 4).
Infatti quando si quietano gli stimoli del corpo ed emergono le aspirazioni dello spirito, allora Giuseppe entra nel sogno. Dice infatti Giobbe: “Adesso dormirei nel silenzio, e riposerei nel mio sonno con i re e i consoli della terra, che si costruiscono mausolei appartati; oppure con i prìncipi che possiedono oro e riempiono le loro case di argento” (Gb 3,13-14). Considera queste tre dignità: i re, i consoli e i prìncipi.

3. I re raffigurano “coloro che hanno fame e sete della giustizia” (Mt 5,6). Dice a proposito Agostino: Entra nel tribunale della tua mente: la ragione sia il giudice, la coscienza sia l’accusatore, il timore sia il carnefice, il dolore sia il tormento e il posto dei testimoni sia riser­vato alle opere.
consoli (consiglieri) della terra raffigurano “quelli che piangono” (Mt 5,6) la loro miseria e la loro colpa. Saggio consiglio quello di piangere se stessi! Lo suggeriva anche Geremia: “Tàgliati i capelli e gettali via, e datti al pianto in modo aperto e sincero” (Ger 7,29). I capelli simboleggiano le preoccupazioni terrene che ti impediscono di vedere la tua miseria e di piangere i tuoi peccati. Tàgliali dunque dal tuo capo e gettali lontano dalla tua mente, e così potrai darti al pianto apertamente, senza falsità. Si dà al pianto senza falsità colui che non perdona a se stesso e non cerca scuse. L’amor proprio sa bene scusare e piangere falsamente, per finta. E coloro che vogliono veramente mettere in pratica questo consiglio, devono costruirsi posti solitari ed isolati, non solo per la mente ma anche per il corpo. Diceva Girolamo: La città è per me un carcere, la solitudi­ne un paradiso.
Parimenti i prìncipi raffigurano “i poveri nello spirito” (Mt 5,3), che possiedono l’oro, cioè l’aurea povertà, e riempiono le loro case, cioè la loro coscienza, di argento, che ha un bel suono (argentino), e simboleggia il risuonare del canto di lode a Dio e quello della confessione del proprio peccato.
Giuseppe che dorme con tutti costoro, è lontano dal frastuono delle cose del secolo, e riposa nel suo sonno senza il tumulto dei pensieri; e quindi gli appare un angelo che gli dice: “Lèvati su!”, cioè “tendi all’alto”, perché tu sia veramente uno che cresce verso l’alto, e non verso il basso come la rapa, che cresce nella terra e sotto terra, ma come la palma che si spinge verso l’alto. “Lèvati su!”, dunque, e tendi all’alto come le rondini, le quali non prendono il cibo stando ferme, ma catturano i moscerini e li mangiano mentre sfrecciano nel cielo. Dice l’Apostolo: “Cercate le cose di lassù e non quelle che sono sulla terra” (Col 3,1.2).
“Lèvati su, dunque, e prendi il bambino e sua madre” (Mt 2,13).

4. La madre simboleggia la buona volontà che, ispirata da Dio, concepisce l’opera buona nel sentimento e la partorisce nell’azione. Per esempio: se hai la buona volontà, ma non hai nel cuore il proposito di fare il bene, la volontà è sterile, e sta scritto: “Maledetta la donna sterile in Israele!” (cf. Es 23,26; Dt 7,14). Quando fai il proposito di fare il bene, concepisci; quando porti ad esecuzione il proposito con l’opera, allora partorisci.
Dice infatti Isaia: “Mi unii a una profetessa, che concepì e partorì un figlio. E il Signore mi disse: chiamalo: Mahèr-salal-cash-baz, che significa: “Rapida preda, pronto bottino”, vale a dire: Affréttati, prendi le spoglie, affrèttati a predare!” (Is 8,3). La profetessa è figura dell’anima o anche della volontà dell’uomo, la quale deve predicare a se stessa la gloria del Regno, il castigo dell’inferno, la malizia del diavolo, la falsità del mondo e la propria miseria. Ti unisci a questa profetessa con la devozione, ed essa concepisce con il proposito e partorisce con l’esecuzione. E osserva che il figlio tuo, cioè la tua opera, ha tre nomi: si chiama infatti Affrèttati, perché l’indugio implica pericolo e il differire fu dannoso a chi era pronto ad agire (Lucano). “Quello che devi fare, fallo presto! (Gv 13,27). Ed ogni opera buona dev’essere fatta in tre modi: con prontezza, con carità e con un fine; affrèttati dunque, per agire con prontezza. Prendi le spoglie, prendi da te stesso per provvedere al prossimo con la carità. “Affrèttati a predare, ad impadronirti del regno dei cieli, che dev’essere lo scopo, il fine ultimo di ogni tua opera.
“Prendi dunque il bambino e sua madre”, perché Esaù non possa colpire la madre con il figlio (Gn 32,11), il faraone non anneghi il bambino nel fiume ed Erode non lo possa trafiggere di spada.

5. “Erode sta cercando il bambino per ucciderlo” (Mt 2,13). Il nome di Erode s’inter­preta “gloria della pelle”. Egli personifica il diavolo o anche il mondo. “Il diavolo si trasforma in angelo di luce” (2Cor 11,14), fa sfoggio del candore della pelle diversa, perché la sua è nerissima. Così è anche il mondo, simile ai sepolcri imbiancati che sono pieni di ogni sozzura (cf. Mt 23,27); la sua bellezza sta solo all’e­ster­no, nella bianchezza della pelle: infatti tutto ciò che fa, lo fa per essere ammirato dagli uomini (cf. Mt 6,5); e Giovanni dice: “Come potete credere, voi che prendete gloria gli uni dagli altri e non cercate la gloria che viene da Dio solo?” (Gv 5,44).
Il diavolo e il mondo sono perfettamente d’accordo nel tramare la rovina del bambino, per distruggere cioè la santità delle nostre opere: il diavolo con l’ingan­no, il mondo con il plauso; il diavolo con la suggestione, il mondo con l’adulazione. Questi sono i satiri, i fauni, dei quali Isaia dice: “I satiri si chiameranno l’un l’al­tro”(Is 34,14), per cercare il bambino e ucciderlo.
Nel salmo vengono indicate cinque astuzie escogitate da questi due [il diavolo e il mondo], che di solito portano alla rovina il bambino; però prima viene anche indicato un rimedio per salvarlo. Dice dunque il salmo: “La tua verità ti proteggerà come uno scudo” (Sal 90,5). La verità del Padre è il Figlio, il cui scudo è la croce, con la quale ti protegge per difenderti dal diavolo, dal mondo e dalla carne. Nella croce c’è l’umiltà contro la superbia del diavolo; c’è la povertà di Cristo contro l’avarizia del mondo; e c’è la crocifissione con i chiodi contro la lussuria della carne.
E quindi “non temerai il terrore notturno”, cioè la suggestione diabolica; “la freccia” della vanagloria “che vola di giorno”, della quale Geremia dice: “Tu sai che non ho desiderato il giorno (la gloria) dell’uomo” (Ger 17,16), e Luca: “E ora, in questo tuo giorno, non hai riconosciuto cioè che serviva alla tua pace” (Lc 19,42); [non temerai] “la peste che vaga nelle tenebre”, cioè l’inganno e l’ipocrisia, “il sopraggiungere” delle avversità, e “il demonio meridiano” (Sal 90,5-6) della prosperità, che brucia come il sole a mezzogiorno.

6. Perché il bambino non venga ucciso, “prendilo con la madre sua e fuggi in Egitto”, nome che s’interpreta “tene­bre" o anche “strettezze”, e in cui è simboleggiato le stato di penitenza. Osserva che la “gloria della pelle” consiste in due cose: nello splendore e nello sfarzo; al contrario la gloria della penitenza consiste nell’oscurità e nella ristrettez­za. Oscurità nella veste perché, come è detto nell’Apoca­lisse: “Il sole si fece nero come il sacco tessuto di crine (Ap 6,12); ristrettezza dell’umiltà, o anche dolore e angoscia dell’animo, di cui dice Isaia: “Mi hanno colto dolori come di una partoriente” (Is 21,3), cioè di un peniten­te che partorisce lo spirito della salvezza.
Vuoi dunque salvare il bambino? Fuggi in questo Egitto, “e resta lì finché non ti avvertirò” (Mt 2,13). Ricorda che Gesù, come dice la Glossa, restò nascosto in Egitto sette anni: anche tu devi abitare nell’Egitto della penitenza per l’intero settenario della tua vita. Solo dopo aver finito “i sette anni” ti sentirai dire: “Ritorna nella terra d’Israele” (Mt 2,20), cioè alla celeste Gerusalemme, nella quale vedrai Dio faccia a faccia (cf. 1Cor 13,12).

II. la strage dei bambini

7. “Allora Erode, vedendosi beffato dai magi”, ecc. (Mt 2,16). Dice la Glossa che probabilmente Erode infierì contro i bambini un anno e quattro giorni dopo la nascita del Redentore, e che forse differì il suo intervento a motivo di un viaggio a Roma, o perché sotto accusa, oppure per consigliarsi con i Romani su ciò che si raccontava di Cristo; o anche che si trattenne così a lungo dal cercare il bambino per sorprenderlo più facilmente, senza che aves­se nessuna possibilità di sfuggirgli.
“Dall’età di due anni in giù” (Mt 2,16), cioè dal bambino che era nato da una sola notte fino a quello di due anni: e li uccise tutti. Vedremo che cosa significhi tutto questo: i magi, l’inganno fatto a Erode, Betlemme e l’ucci­sione dei bambini, i due anni, Rama e Rachele.
I Magi che adorano Cristo e gli offrono doni raffigurano i penitenti che, illuminati dalla stella della grazia, adorano in spirito e verità (cf. Gv 4,23) , e offrono il triplice dono della penitenza. Da essi il diavolo viene beffato quando non ritornano più a lui, ma propongono di ritornare alla patria eterna per un’altra via, cioè per la via dell’umiltà. Dice Giobbe: “Beemot”, il mostro, “spera che il Giordano scorra dentro la sua bocca”; “ma ecco che la sua speranza viene frustrata” (Gb 40,18.28).
Giordano s’interpreta “umile discesa”, e simboleggia i penitenti che, dalla dignità del mondo scendono fino al disprezzo di sé. Il diavolo spera ancora di attirarli e di farli ritornare a sé; ma invano spera nel loro ritorno: l’avvertimento dell’angelo, cioè la grazia dello Spirito Santo li sostiene perché a lui più non ritornino. Oppure: Erode è figura del mondo, che essi beffano quando gli lasciano tutte le loro cose. Inganniamo un cane che ci rincorre, lascinadogli un nostro indumento. Così Giuseppe (l’antico) beffò la meretrice che lo tratteneva dicendogli: “Dormi con me. Ma lui, lasciato tra le sue mani il mantel­lo, fuggì e uscì all’aperto” (Gn 39,12). E quella, vedendo­si respinta, disse (al marito): Ecco che hai introdotto in casa quell’uomo ebreo perché ci ingannasse” (Gn 39,14). La meretrice è il mondo; se il mondo ti vuole trattenere nel peccato, lasciagli il mantello, cioè le cose temporali, e fuggi in libertà.

8. “S’infuriò terribilmente” – il diavolo, beffato, va su tutte le furie –, “e mandò ad uccidere tutti i bambini che erano a Betlemme e nei luoghi vicini” (Mt 2,16).
Il lupo divora di preferenza i piccoli, così il diavolo macchia di preferenza la purezza della continenza. Nessun’altra opera buona odia quanto la castità, e per questa ragione nel battesimo viene distrutto il suo potere, i peccati sono perdonati, viene infusa la grazia e viene aperta la porta della vita. Egli si sforza di distruggere tutto questo tentando con ogni mezzo di macchiare con la lussuria della carne, sia nell’uo­mo che nella donna, la stola dell’innocenza battesimale.
Ma ciò che è più doloroso e deplorevole, uccide “i piccoli a Betlemme”, nome che significa “casa del pane”. Betlemme raffigura la religione, l’ordine religioso, nel quale viene nutrita l’anima. I suoi bambini vengono uccisi quando i religiosi si corrom­pono con l’incontinenza della carne. E non solo nell’Ordine, ma anche “in tutti i luoghi vicini”: anche in coloro che sembrano in qualche modo seguire le loro orme e vivere secondo il loro insegnamento va perduto lo splendore della castità. E questo “dai due anni in giù”: nel numero due è indicata la perdita della duplice castità: dell’anima e del corpo.
In altro senso: Erode simboleggia l’ira; Betlemme l’anima; i bambini i sinceri sentimenti della ragione; i luoghi vicini raffigurano i sensi del corpo; i due anni gli atti della duplice carità.
L’ira impedisce all’animo di discernere la verità, turba la stabilità della mente, fa perdere i sentimenti della ragione. Dice Giobbe: “L’ira uccide lo stolto e l’odio uccide il bambino” (Gb 5,2). E questo non solo all’interno, ma anche all’esterno: l’occhio si oscu­ra, la lingua minaccia, la mano si prepara a colpire e così si perde la carità. Perciò: “L’ira dell’uomo non opera la giustizia di Dio” (Gc 1,20) e neppure quella del prossimo.
Ed ecco che, a motivo di tutti questi mali, il grido del lamento e del pianto – cioè la contrizione del cuore e la confessione della bocca – si deve sentire in Rama(cf. Mt 2,18), cioè nell’alto dei cieli, davanti a Dio: “Rachele piange i suoi figli, e non vuole essere consolata perché non sono più” (Mt 2,18). La chiesa piange, e non vuole essere consolata quaggiù, perché i suoi figli non sono di questo mondo.
Rachele, che s’interpreta “pecora” o anche “che vede Dio”, è figura dell’anima penitente, la quale, quasi con la semplicità della pecora, vede Dio nella contemplazione. Essa piange i figli, cioè le sue opere, perché esse non sono più così vive, piene e perfette, com’erano prima che commettesse il peccato mortale, e quindi non vuole essere consolata. Dice Isaia: “Allontanatevi da me, che io pianga amara­mente; non cercate di consolarmi per la desolazione della figlia del mio popolo” (Is 22,4). “Rifiutai che la mia anima fosse consolata” (Sal 76,3), perché spero di venir consolato “quando apparirà la tua gloria” (Sal 16,15).
Si degni di concederci questa gloria colui che è benedetto nei secoli. Amen.

III. sermone allegorico

9. “I tuoi figli, come virgulti di olivo, intorno alla tua mensa” (Sal 127,3). Anche in Luca troviamo un riferimento a questo: “I miei bambini sono a letto con me” (Lc 11,7). Dei figli è detto nel Deuteronomio: “Benedetto nei figli è Aser” (Dt 33,24). Aser s’interpreta “delizia” ed è figura di Cristo che è la delizia di tutti i beati.
Cristo è benedetto e lodato nei figli Innocenti, che per lui e al suo posto sono stati oggi uccisi da Erode. “Un bambino è cercato, vengono uccisi dei bambini, nei quali nasce l’immagine, la figura del martirio e nei quali viene consacrata a Dio l’infanzia della chiesa (Glossa). E la chiesa per bocca di Isaia dice: “Chi mi ha generato costoro? Io ero priva di figli e sterile, espatriata e condotta schiava: questi chi li ha allevati? Io ero abbandonata e sola, e questi dov’erano?”(Is 49,21). “I tuoi figli quindi sono come virgulti di olivo”.
Osserva che nel virgulto è indicata la delicatezza della prima infanzia, e nell’oliva, dalla quale si spreme l’olio, lo spargimento del sangue. O crudeltà di Erode! Lascia almeno che l’oliva maturi per poterne estrarre completamen­te l’olio. Tu spargi prima il latte che il sangue, perché la pianticella che sradichi sta appena germogliando, tenera la creatura cui tagli la gola.
O strazio, o pietà! Il bimbo sorrideva alla spada dell’uccisore e giocava, il pargoletto! Gli agnellini, come afferrati per i piedi, vengono condotti al macello per essere uccisi per Cristo. Le olive nuove vengono portate al torchio per estrarne l’olio. Ecco la passione dei pargoli!

10. E quale il loro premio? Ecco: “Sono intorno alla tua mensa” (Sal 127,3), dove cantano un canto nuovo (cf. Ap 14,3). Leggiamo infatti nell’Apocalisse: “E nessuno poteva cantare quel cantico, se non quei centoquarantaquattromila che sono stati riscattati dalla terra. Essi sono coloro che non si sono contaminati con donne: sono infatti vergini e seguono l’Agnello ovunque vada. Essi sono stati riscattati tra tutti, come primizie per Dio e per l’Agnello. E nella loro bocca non fu trovata menzogna: sono senza macchia dinanzi al trono di Dio” (Ap 14,3-5). Nota che in questa citazione sono poste in evidenza cinque grandi “glorie” dei santi Innocenti. Primo, la grazia della verginità, quando dice: “Sono infatti vergini”. Secondo, la gloria dell’eternità, con le parole: “Seguono l’Agnello”. Terzo, la precoce offerta del loro sangue, dove è detto: “come primizie per Dio” Padre, “e per l’Agnello”, cioè il Figlio. Quarto, l’innocenza dell’infanzia, con le parole: “Nella loro bocca non fu trovata menzogna”. Quinto, la contemplazione della maestà divina: “Sono dinanzi al trono di Dio”.
Osserva che abbiamo usato tre parole: trono, mensa, letto. Tutte e tre indicano una stessa cosa: la vita eterna. Stanno dinanzi al trono cantando le lodi di Dio e contem­plando il suo volto. Dice infatti Isaia: “Voce delle tue sentinelle: alzeranno la voce e insieme canteranno lodi, perché vedranno con i loro occhi” (Is 52,8). Sederanno alla tua mensa mangiando e bevendo; infatti dice Luca: “Io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno” (Lc 22,29-30). È detto anche che questa mensa è rotonda (“attorno alla tua mensa”), perché l’eterna sazietà sarà senza principio e senza fine.
Parimenti, riposando dormono nel letto; infatti dice Isaia: “Va’, popolo mio, entra nelle tue stanze, chiudi le porte dietro a te” (Is 26,20); e ancora: “Mese seguirà mese, e sabato seguirà sabato” (Is 66,23); vale a dire che alla perfezione della vita seguirà la perfezione della gloria, e al riposo del corpo il riposo dell’eternità.
Per le preghiere dei santi Innocenti si degni di concedere tutto questo anche a noi colui che è benedetto nei secoli. Amen.

IV. sermone morale

11. “I tuoi figli”, o buon Gesù, sono questi cristiani che hai generato con le sofferenze della tua passione. Dice Isaia: “Forse non partorirò, io che faccio partorire gli altri? – dice il Signore. Io che do agli altri la facoltà di generare, sarò sterile? – dice il Signore Dio” (Is 66,9). Chi ci ha partorito nel dolore della passione? “La donna”, cioè la Sapienza del Padre, “quando partorisce è nella tristezza” (Gv 16,21). E Gesù dice: “La mia anima è triste fino alla morte” (Mt 26,38). Egli stesso con la grazia fa partorire agli altri lo spirito della salvezza.
Nota che figlio deriva dal verbo greco filèo, che significa amare. Dice Osea: “Li amerò di vero cuore” (Os 14,5). L’amore è chiamato in lat. dilectio, quasi duosligans, che lega cioè due persone tra loro. L’amore lo ha talmente legato a noi, da attirarlo verso la nostra miseria, quasi che non potesse più vivere in cielo senza di noi. Fu come un’aquila che vola in cerca di cibo, di cui dice Giobbe: “Dov’è un cadavere, là essa si trova” (Gb 39,30). Cadavere deriva da cadere, oppure dal verbo latino careo, sono privo: infatti cade dalla vita, o è privo della vita. Il cadavere è figura della natura umana che, quando “cadde” dalla grazia divina, fu privata della vita.
O amore incomparabile! O pietà smisurata! Dal più alto cielo dei serafini volare a un cadavere putrido, prendere un corpo umano, portare il patibolo della croce, versare il proprio sangue, per risuscitare il figlio morto. Per questo si paragona al pellicano, dicendo: “Mi sono fatto simile al pellicano del deserto” (Sal 101,7).

12. Osserva che il pellicano è un piccolo (sic) uccello, al quale piace stare in solitudine. Si racconta che uccida a forza di colpi i suoi piccoli, che li pianga, ma che dopo tre giorni si ferisca, e che essi, bagnati del suo sangue, ritornino in vita (Glossa).
Cristo, fattosi piccolo per umiltà, amante della solitudine per la preghiera – dicono gli evangelisti che passava le notti in preghiera (cf. Lc 6,12) e che dimorava in luoghi deserti (cf. Lc 1,80) –, uccise per così dire a forza di colpi i suoi figli Adamo ed Eva e la loro discendenza, quando disse: “Sia maledetta la terra per ciò che hai fatto” (Gn 3,17), e “Sei polvere, e in polvere ritornerai” (Gn 3,19). Ma poi li pianse, come dice il salmo: “Quasi triste e in pianto, così mi umiliavo” (Sal 34,14).
Nel secondo libro dei Re si racconta che Davide, affran­to dal dolore, salì in pianto alla sue stanze sospirando: “Figlio mio Assalonne, Assalonne figlio mio! Chi mi conce­derà di morire per te?” (2Re 18,33). Così Cristo, rattristato per la morte del genere umano, salì sul patibolo della croce e ivi pianse, poiché dice l’Apostolo: Offrì se stesso con forti grida e lacrime (cf. Eb 5,7); e poté dire: Figlio mio, Adamo! Adamo, figlio mio! Chi mi concederà di morire per te? Chi farà che la mia morte ti sia di giovamento?
E dopo tre giorni, cioè dopo i tre tempi, della natura, della legge e della grazia (cioè da Adamo a Mosè, da Mosè a Gesù e da Gesù in poi), ferì se stesso, cioè permise che altri lo ferissero, e con il suo sangue asperse i suoi figli morti e li fece ritornare in vita. E tutto questo provenne dall’immenso amore con il quale ci amò. Dice infatti Giovanni: “Avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (Gv 13,1), cioè fino alla morte. “Tuoi figli”, dunque. Veramente tuoi, perché redenti con il tuo sangue; e voglia il cielo che siano “tuoi”, e non “suoi”, cioè schiavi della loro carne, perché “i suoi non l’hanno ricevuto” (Gv 1,11). E per essere tuoi è necessario che siano “come virgulti di olivo”.

13. Osserva che l’ulivo ha la radice amara, il legno durissimo e quasi indistruttibile, la foglia verde, il frutto gradevole. Anche il cristiano dev’essere amaro per la contrizione, fermo nel proposito, fedele alla parola, gradito nelle opere di misericordia. L’olio infatti simbo­leggia l’opera di misericordia.
E considera attentamente che è detto in lat. novellae, germogli, e questo per indicare che i figli di Cristo devono camminare nella novità dello spirito (cf. Rm 6,4): di giorno in giorno devono rinnovare, per mezzo della confessione, il loro spirito (cf. 2Cor 4,16), che altrimenti si corrompe dietro le passioni ingannatrici (cf. Ef 4,22).
“Dovete rinnovarvi nello spirito della vostra mente” (Ef 4,23). E Geremia: “Questo dice il Signore agli uomini di Giuda e agli abitanti di Gerusalemme” – cioè ai laici e ai chierici –: “Rimettete a coltura il campo arato per la prima volta e non seminate tra le spine” (Ger 4,3). Il campo arato per la prima volta è figura del cuore dell’uomo, che dev’essere solcato dall’aratro della contrizione, ripulito dalle erbe nocive con il sarchio della confessione: questo vuol dire rimettere a coltura un campo arato di fresco. Invece semina tra le spine colui che compie qualche opera buona mentre si trova in peccato mortale. Quindi “i tuoi figli siano come virgulti (nuovi germogli) di olivo”.

14. E dov’è la loro abitazione? Dove deve svolgersi la loro vita? Sicuramente “intorno alla tua mensa”. Osserva che ci sono tre tipi di mensa, e in ognuna c’è una propria refezione. La prima è la mensa della dottri­na: “Davanti a me tu prepari una mensa, di fronte a quelli che mi perseguitano (Sal 22,5), cioè contro gli eretici. La seconda è la mensa della penitenza: “Tranquillità alla tua mensa, piena di grasse vivande” (Gb 36,16). Felice quella penitenza che produce la quiete della coscienza e abbondanza di bene, cioè opere di carità verso i fratelli. La terza è la mensa dell’Eucaristia, di cui dice l’Apostolo: Non potete partecipare alla mensa di Cristo e alla mensa dei demoni (cf. 1Cor 10,21). Nella prima mensa la refezione è la Parola di vita, nella seconda i gemiti e le lacrime, nella terza la carne e il sangue di Cristo. E anche qui fa’ attenzione che non è detto “alla mensa”, ma “intorno alla mensa”. Intorno a queste mense deve stare ogni cristiano, a somiglianza di coloro che girano avidamente intorno a ciò che desiderano vedere e trovare, ma dove non riescono ad entrare.
Così costoro devono girare intorno alla mensa della dottrina, per imparare a distinguere il bene dal male, e tra bene e bene; devono girare intorno alla mensa della penitenza per suscitare in sé il dispiace­re dei peccati commessi e anche dei peccati di omissione, per confessare le loro colpe, precisando le circostanze, per riparare il danno arrecato, per restituire ciò che hanno illecitamente tolto, per elargire le cose proprie a chi è nel bisogno; devono girare intorno alla mensa eucaristica per credere con fermezza, per accostarsi ad essa con devozione, e ricevere il corpo di Cristo dopo profonda riflessione, reputandosi indegni di tanta grazia.
Preghiamo dunque il Figlio di Dio che ci conceda di ristorarci a questa triplice mensa per essere degni di saziarci alla mensa celeste insieme ai beati Innocenti. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

FESTA DI SAN GIOVANNI EVANGELISTA

FESTA DI SAN GIOVANNI
EVANGELISTA

1. In quel tempo: Gesù disse a Pietro: “Séguimi!”, ecc. (Gv 21,19). In questo vangelo vengono proposti due argomenti:
- l’imitazione di Cristo,
- l’amore di Cristo verso il suo fedele discepolo.

I. l’imitazione di cristo

2. “Séguimi!”, dice Gesù a Pietro, e lo ripete ad ogni fedele cristiano. Séguimi, anche tu nudo come io sono nudo, anche tu libero da impedimenti come lo sono io.
Dice Geremia: “Tu mi chiamerai padre e non cesserai di seguirmi” (Ger 3,19). Séguimi dunque, deponi il tuo bagaglio: così carico non puoi tener dietro a me che corro. “Io ho corso, arso dalla sete” (Sal 61,5), la sete della salvezza dell’uomo. Dove corse? Alla croce. Corri anche tu dietro a lui, e come lui ha portato la sua croce per te, così anche tu porta per te la tua. E dice Luca: “Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinne­ghi se stesso”, rinunciando alla propria volontà, “prenda la sua croce”, mortificando la carne, “ogni giorno”, cioè in continuazione, “e così mi segua” (Lc 9,23). Così dunque “séguimi!”.
In altro senso: se vuoi venire a me e se desideri trovarmi, “segui me”, cioè vieni con me in disparte. Disse infatti ai discepoli: “Venite in disparte, in un luogo solitario, e riposatevi un po’. Erano infatti molti quelli che andavano e venivano, e non avevano neanche più il tempo di mangiare” (Mc 6,31).
Ahimè, quanti stimoli carnali, quanta confusione di pensieri che vanno e vengono per il nostro cuore, così che non troviamo più il tempo di mangiare il cibo dell’eterna dolcezza, di provare il sapore della contemplazione interiore. E quindi il Maestro pietoso dice: “Venite in disparte”, lontano dalla folla tumultuosa, “in un luogo solitario”, cioè nella solitudine della mente e del corpo, “e riposatevi un po’”. Veramente un po’, perché è scritto nell’Apocalisse: “Si fece silenzio in cielo per circa mezz’ora” (Ap 8,1). “Chi mi darà ali come di colomba, per volare e trovare riposo?” (Sal 54,7).
E anche Osea: “Ecco, io la allatterò, la condurrò nel deserto e parlerò al suo cuore” (Os 2,14). In queste tre espressioni è indicato il triplice stato degli incipienti, dei proficienti e dei perfetti.
Allatta gli incipienti quando li illumina con la grazia perché crescano, e quindi progrediscano [proficienti] di virtù in virtù; poi li allontana dal tumulto dei vizi e dalla confusione dei cattivi pensieri e li conduce nel deserto, cioè nella quiete della mente, e lì, divenuti ormai perfetti, parla al loro cuore. E questo si avvera quando provano la dolcezza dell’ispirazione divina e si elevano totalmente nel gaudio dello spirito. Oh, quanto grande è allora nel loro cuore la devozione, la lode e l’esultanza. Con l’intensità della loro devozione si elevano al di sopra di se stessi, con la grandezza della lode vengono condotti al di sopra di se stessi, e con la grandezza dell’esul­tanza sono come portati al di fuori di sé. Dunque “séguimi!”
Il Signore parla come una madre amorosa che, quando vuole abituare il figlioletto a camminare, gli mostra un pane o una mela: Vieni, gli dice, e te lo do! E quando il bambino si avvicina che quasi lo prende, la madre a poco a poco allunga il passo, e sempre mostrando ciò che ha in mano continua a dirgli: Vieni, se vuoi prenderlo! Anche alcuni uccelli tirano fuori dal nido i loro piccoli e con il loro volo insegnano loro a volare e a seguirli nell’aria (cf. Dt 32,11) .
La stessa cosa fa Cristo: per indurci a seguirlo, propone se stesso come esempio e ci promette il premio nel suo Regno.

3. “Séguimi”, dunque, perché io conosco la strada giusta per la quale condurti. Leggiamo nei Proverbi: “Ti mostrerò la via della sapienza; ti condurrò per i sentieri della rettitudine; quando vi sarai entrato non saranno intralciati i tuoi passi, e se corri non inciamperai” (Pro 4,11­12). La via della sapienza è la via dell’umiltà: ogni altra è via del­la stoltezza e della superbia. Le vie giuste ci ha mostrato quando ha detto: “Imparate da me” (Mt 11,29).
Il sentiero è largo solo due piedi (circa mezzo metro), di modo che una persona non può affiancarsi all’altra; ed è chiamato in lat. semita, quasi a dire semis iter, mezza strada, da semis, metà, e iter, strada.
I sentieri della rettitudine sono la povertà e l’obbedienza, e per essi Cristo, povero e obbediente, ti guida con il suo esempio. In essi non c’è alcuna tortuosità, ma tutto è diritto e chiaro. Ma – cosa meravigliosa! –, pur essendo così stretti, si afferma che in essi il cammino non è intralciato. Invece la via del mondo è larga e spaziosa; ma per i secolari, che vi camminano come ubriachi, essa non è mai abbastanza larga: per l’ubriaco la via è sempre stretta, per quanto larga sia. La malizia, la perfidia trovano tutto stretto; invece la povertà e l’obbedienza, proprio per il fatto che sono strette danno la libertà: perché la povertà rende ricchi e l’obbedienza rende liberi. E colui che corre dietro a Gesù in questi sentieri non trova l’in­ciampo della ricchezza e della propria volontà.
“Séguimi”, dunque, e ti mostrerò “ciò che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrò in cuore di uomo” (1Cor 2,9). “Séguimi, e ti darò” – come è detto in Isaia – “tesori nascosti e ricchezze ben celate” (Is 45,3); e ancora: “Allora vedrai e sarai raggiante, si meraviglierà e si dilaterà il tuo cuore” (Is 60,5). Vedrai Dio faccia a faccia, com’egli è (cf. 1Cor 13,12; 1Gv 3,2); sarai ricco di delizie e delle ricchezze della duplice stola dell’anima e del corpo; il tuo cuore sarà estasiato di fronte ai cori degli angeli, ai troni dei beati, e così si gonfierà di gioia e proromperà nel canto dell’esultanza e della lode. Dunque “séguimi!”.

II. l’amore di cristo verso il suo fedele discepolo

4. “Pietro, voltatosi...” ecc. (Gv 21,20). Chi veramente segue Cristo, desidera che tutti lo seguano, e perciò si rivolge al prossimo con lo zelo dello spirito, con la preghiera devota e con la predicazione della Parola. Questo è il significato del “volgersi” di Pietro. E con questo concordano le parole dell’Apocalisse: “Lo sposo e la sposa”, cioè Cristo e la chiesa, “dicono: Vieni! E chi ascolta ripeta: Vieni!” (Ap 22,17). Cristo con le ispira­zioni e la chiesa con la predicazione dicono all’uomo: Vieni! E chi sente, da Cristo e dalla chiesa, questo richiamo, lo ripeta al suo prossimo: Vieni, cioè: segui Gesù.
“Pietro, dunque, voltatosi, vide che il discepolo che Gesù amava li seguiva” (Gv 21,20). Gesù ama chi lo segue; infatti dice: “Il mio servo Caleb, che mi ha seguito, lo introdurrò in questa terra che ha percorso: la sua stirpe la possederà” (Nm 14,24).
“Il discepolo che Gesù amava”. Dice la Glossa: Pur non nominandolo, con queste parole viene come distinto dagli altri, non perché Gesù amasse solo lui, ma perché lo preferiva agli altri. Amava anche gli altri, ma questo più intimamente. Lo gratificò di una maggiore tenerezza del suo amore perché l’aveva chiamato quando era ancora vergine, e perché vergine era rimasto: anche per questo gli affidò la Madre. E questo discepolo, durante l’ultima cena, posò il capo sul petto del Signore. Fu un grande segno di amore che lui solo posasse il capo sul petto del Signore, “nel quale sono racchiusi tutti i tesori della sapienza e della scienza” (Col 2,3). E questo fatto era come il presagio di quanto avrebbe scritto sugli “arcani” della divinità, molto meglio degli altri.

5. Osserva che Giacobbe riposò su di una pietra, e Giovanni sul petto di Gesù: quello mentre era in cammino, questi durante la cena. In Giacobbe quindi sono indicati i “pelle­grini" (viatori), in Giovanni i beati comprensori: quelli sono in cammino, questi sono già arrivati alla patria. Leggiamo nella Genesi che Giacobbe, uscito da Bersabea, si dirigeva verso Aram. Volendo riposarsi, si mise sotto la testa una pietra e si addormentò. In sogno vide una scala drizzata e gli angeli che salivano e scendevano su di essa, e il Signore stava alla sommità (cf. Gn 28,10-13).
Giacobbe è figura del giusto ancora pellegrino e alle prese con molteplici conflitti; egli esce da Bersabea, che s’interpreta “settimo pozzo”, e raffigura la cupidigia del mondo, che è come un pozzo senza fondo, come il “settimo giorno” di cui si legge che non ha fine; e si dirige verso Aram, che s’interpreta “eccelso”, cioè verso la Gerusalemme celeste. Dice infatti Abacuc: “Salirò e mi unirò al nostro popolo ormai in pace” (Ab 3,16), che ha trionfato sulla nequizia del secolo.
E poiché desidera alleviare la fatica della sua peregrinazione, il giusto si mette sotto il capo una pietra e si addormenta. Il capo è la mente, la pietra è la costanza nella fede, la scala drizzata è la duplice carità verso Dio e verso il prossimo, gli angeli sono i giusti che salgono a Dio con l’elevazione della mente e scendono verso il prossimo con la compassione dell’animo. Quindi il pellegrino, per riposare, ferma la mente sulla saldezza della fede. Si legge nei Proverbi: “Il leprotto, razza paurosa, ha la sua tana nella roccia” (Pro 30,26). Il leprotto, animale timido, è figura del povero nello spirito, che per la sua timidezza è esposto a tutte le ingiustizie, e quindi colloca il letto della sua speranza nella roccia della fede, dove può riposare e dormire e vedere in se stesso, eretta, la scala della carità.
E osserva che il Signore sta alla sommità della scala per due scopi: per reggerla, e per accogliere coloro che salgono su di essa. Infatti egli sostiene il peso della nostra fragilità, affinché possiamo salire con le opere della carità; e accoglie coloro che salgono, affinché con lui che è eterno e beato, siamo eterni e beati anche noi. E allora in quella cena dell’eterna sazietà, riposeremo anche noi, con Giovanni, sul petto di Gesù. Il cuore nel petto è l’amore nel cuore. Riposeremo perciò nel suo amore, perché lo ameremo con tutto il cuore e con tutta l’anima, e in lui troveremo ogni tesoro di sapienza e di scienza.
O amore di Gesù! O tesoro nascosto nell’amore, o sapienza di ineguagliabile sapore e scienza che tutto conosce! “Mi sazierò quando apparirà la tua gloria” (Sal 16,15). E “Questa è la vita eterna: che conoscano te, unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo (Gv 17,3). A lui la lode e la gloria per i secoli eterni. Amen.

III. sermone allegorico

6. “Un’aquila grande dalle grandi ali e di grande apertura alare, piena di piume variopinte, venne sul Libano e portò il midollo del cedro” (Ez 17,3). L’aquila, così chiamata per l’acutezza della sua vista (lat. aquilaacumen), è figura del beato Giovanni, che elevato al di sopra di sé con l’acutissima intuizione della sua mente, poté contemplare e raccontarci l’Unigenito Figlio che sta nel seno del Padre, il Verbo che era fin dal principio (cf. Gv 1,18.1). “E noi sappiamo che la sua testimonianza è verace” (Gv 21,24).
Dice Ezechiele: “Ognuno dei quattro animali aveva fattezze di uomo; poi fattezze di leone a destra e fattezze di toro a sinistra, e fattezze d’aquila al di sopra dei quattro” (Ez 1,10). Nella destra è indicata la prosperità, nella sinistra l’avversità. Matteo e Marco, che sono raffigurati nell’uomo e nel leone, furono a destra: scrissero infatti dell’incar­nazione e della predicazione di Cristo, fatti nei quali ci fu della prosperità. Luca poi è raffigurato nel toro, che veniva offerto nei sacrifici; infatti incomincia dal sacerdozio e quindi accompagna Cristo fino all’immolazione nel tempio e sull’altare della croce, dove c’è l’avversità della passione. Giovanni in fine è raffigurato nell’aquila, che vola più in alto di tutti gli uccelli: e proprio lui svelò e penetrò più profondamente degli altri nel mistero; per questo è detto di lui: “al di sopra dei quattro”.
Fa però meraviglia che dica: “al di sopra dei quattro”, perché anche lui è uno dei quattro. Egli era dunque al di sopra di sé stesso. Veramente al di sopra di se stesso perché parlò al di sopra di quanto possa parlare un uomo, e quindi è chiamato: “grande aquila dalle grandi ali”.
Quanto grandi fossero le ali di quest’aquila lo dice la lettura della messa di oggi, presa dal libro dell’Ecclesiastico: “In mezzo alla chiesa aprì la sua bocca” (Eccli 15,5). Ed è ciò che dice anche l’Apocalisse: “Vidi poi e udii la voce di un’aquila che volava nell’alto del cielo” (Ap 8,13), nel quale è simboleggiata la chiesa, nel cui centro, e cioè per tutti comunitariamente, “aprì la sua bocca”. “E il Signore lo riempì dello spirito della sapienza e dell’intelligenza” (Eccli 15,5). Ecco le due grandi ali con le quali volò fino al mistero della divinità: “In principio era il Verbo”, ecc. (Gv 1,1).

7. L’aquila era “di grande apertura alare”. Le virtù sono come le ali dell’anima che si estendono grandemente quando si aprono alla opere di carità. E questo concorda con ciò che è detto nella lettura della messa di oggi: “Chi teme Dio fa il bene, e chi pratica la giustizia otterrà anche la sapienza: essa gli andrà incontro come una madre onorata, e lo accoglierà come una vergine sposa” (Eccli 15,1-2). Il beato Giovanni, poiché onorava Dio con filiale e casto timore, fece il bene, cioè si profuse in opere di carità. E questo ti balzerà agli occhi più chiaro della luce se leggi la sua epistola, nella quale scrisse sulla carità in modo straordinario, in quanto l’aveva in sé. “Incominciò infatti a fare e poi ad insegnare” (At 1,1). E praticò anche la giustizia perché, come è detto nell’Ecclesiastico: “Era come un vaso di oro massiccio, ornato di ogni pietra preziosa” (Eccli 50,10). E poiché aveva in sé la giustizia, cioè la verità del vangelo, la praticò, cioè ne raccolse i frutti.
Dice il Signore nel vangelo: Chi lascia il padre, la madre, la moglie, riceverà il centuplo, ecc. (cf. Mt 19,29). Il beato Giovanni lasciò, per il Signore, sia la madre che la sposa; e il Signore gli diede un’altra madre, non una madre qualsiasi, ma la sua stessa Madre. Infatti dice: “Gli andrà incontro come una madre onorata”. La beata Maria, Madre del Figlio di Dio, onorata di doni di virtù e di privilegi di grazie, andò incontro al beato Giovanni ai piedi della croce: stavano lei a destra e lui a sinistra; e lì, come vergine sposa, lo accolse, vergine lei e vergine lui.
Narra Giovanni: “Gesù, vedendo la Madre e lì accanto a lei il discepolo che egli amava, disse alla Madre: Donna, ecco il tuo figlio. Poi disse al discepolo: Ecco tua madre. E da quel momento il discepolo la prese con sé” (Gv 19,26-27), come sua madre, o in custodia. O perla splendente di verginità, beato Giovanni, che meritò di essere accolto come figlio dalla Madre del Figlio di Dio e di avere per madre la Madre di Dio!

8. Della sua intemerata verginità è detto quindi: “Aquila piena di piume variopinte”. E in Giobbe troviamo: “Morirò nel mio piccolo nido, e moltiplicherò i miei giorni come la palma” (Gb 29,18).
L’uccello costruisce il suo nido imbottendolo all’inter­no di piume e rendendolo soffice tutt’all’intorno, e ciò per due ragioni: perché le uova non si rompano a contatto con i ramoscelli, e i piccoli, ancora implumi, trovino riposo e calore tra il soffice delle piume. Il piccolo nido del beato Giovanni fu il suo umile sentire. E osserva che non è detto nido, ma piccolo nido. La verginità infatti si conserva con l’umiltà. La vergine superba non è vergine, ma corrotta. Nel diminutivo nìdulus, piccolo nido, è indicata appunto l’umiltà. Il suo nido fu costruito di soffici piume, ornato cioè della soavità della purezza verginale: in esso le uova dei suoi pensieri restarono intatti e i frutti delle opere trovarono impulso e silenzio.
Quest’aquila dunque fu “piena di piume variopinte”, perché dalla purezza della mente pervenne alla stupenda varietà delle opere. Stupenda varietà: gigli mescolati alle rose! Di questi due fiori dice la lettura della messa: “Lo rivestirà di una stola di gloria”, per quanto riguarda la purezza verginale, “accumulerà su di lui un tesoro di gioia e di esultanza” (Eccli 15,5-6), per le sue opere meravi­gliose. E anche se non concluse la sua vita con il martirio, fu martire ugualmente perché fu gettato in una vasca di olio bollente, fu relegato in esilio a Patmos, a Efeso gli fu dato da bere veleno: tuttavia, per grazia di Dio, uscì illeso da tutti questi tormenti, e “moltiplicò come palma i suoi giorni”. La palma non perde il suo verde né con il gelo né con la siccità e il caldo; così il beato Giovanni non perdette la forza d’animo e la verginità del corpo né tra le persecu­zioni né tra le tentazioni.
E così morì nel suo piccolo nido, perché perseverò nella verginità fino alla morte. Oppure, il suo piccolo nido io lo chiamo sepolcro: in esso, celebrati i divini misteri, come oggi discese vivo e si coricò, come volesse dormire2.

9. “Venne sul Libano e portò il midollo del cedro”. Il monte Libano, che s’interpreta “candore”, raffigura la patria celeste, i cui abitanti (Nazarei) sono più candidi della neve (cf. Lam 4,7). E nell’Apocalisse: “Essi cammineranno con me in bianche vesti, perché ne sono degni” (Ap 3,4).
Il cedro, pianta altissima (cf. 4Re 19,23; Is 2,13), simboleggia l’altezza della divinità. Volò dunque l’aquila dalle grandi ali fino alla patria celeste e portò il midollo del cedro, quando disse: “In principio era il Verbo”, ecc. Oppure: il cedro, albero che non marcisce, raffigura l’umanità di Cristo, che non conobbe corruzione, e il cui midollo è la divinità. Prese quindi il midollo del cedro e lo portò a noi quando disse: “Il Verbo si fece carne, ed abitò tra noi” (Gv 1,14). E questo concorda con ciò che dice la lettura della messa: “Lo nutrì con il pane di vita e di intelligenza e lo dissetò con l’acqua della sapienza e della salvezza” (Eccli 15,3). Essere nutriti con il pane di vita ed essere dissetati con l’acqua della sapienza, altro non è che prendere il midollo del cedro.
Preghiamo quindi il beato Giovanni affinché, per le sue preghiere, il Signore ci conceda di disprezzare le cose terrene e innalzarci alle celesti per essere nutriti con il midollo del cedro. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

IV. sermone morale

10. “Una grande aquila”. In senso morale si possono considerare tre cose: La salda fede del giusto o del penitente, la sua speranza sicura, la sua carità perfetta.
La fede salda: “Grande aquila dalle grandi ali, e di grande apertura alare”. L’aquila deve il suo nome all’acutezza della sua vista o anche del becco; e quando il becco s’ingrossa e l’aquila non è più in grado di prendere il cibo, lo arrota, per così dire, sfregandolo contro una pietra, e così si dice che si rinnova: “Si rinnoverà come quella dell’aquila la tua giovinezza” (Sal 102,5).
L’aquila ha una vista così acuta, che quando è nell’aria scorge i pesciolini nella profondità dell’acqua. Così il penitente, così il cristiano, con l’occhio del cuore, illuminato dalla fede, giacché tanto vedi quanto credi, scorge i segreti di Dio e li proclama apertamente con la bocca. Dice infatti l’Apostolo in merito all’acutezza dello sguardo e del becco: “Con il cuore si crede per ottenere la giustizia, e con la bocca si fa la professione di fede per avere la salvezza (Rm 10,10).
Questa in verità è la “grande aquila” – grande infatti e acuto è l’occhio della fede –, che vede il Figlio di Dio mentre scende nel grembo della Vergine, lo vede nato in una stalla, adagiato in una mangiatoia, avvolto in fasce, offerto nel tempio e riscattato con l’of­ferta dei poveri; lo vede mentre fugge in Egitto, pellegrino per il mondo, seduto sopra un asinello, insultato dalla folla, battuto con i flagelli, coperto di sputi, abbeverato di fiele e aceto, sospeso nudo sul patibolo, deposto nel sepolcro, mentre conduce schiava dall’inferno la schiavitù, quando risorge dal sepolcro, mentre sale al cielo, mentre riempie gli apostoli di Spirito Santo, e in fine nel giudizio, quando ricompenserà ciascuno secondo le sue opere.
Ecco l’aquila, grande perché acuta di vista e di rostro (cioè franca di parola). Dice infatti l’Apostolo: “La nostra bocca si è aperta a voi, o Corinzi!” (2Cor 6,11). Ciò che credeva con certezza nel cuore, lo predicava a chiare parole, libero da ogni condizionamento.
“Dalle grandi ali”. Su questo abbiamo la concordanza dell’Apocalisse: “Furono date alla donna due ali della grande aquila, perché volasse nel deserto verso il suo rifugio” (Ap 12,14). La donna è l’anima del penitente, della quale Isaia dice: “Come una donna abbandonata e con l’animo afflitto, il Signore ti ha richiamata” (Is 54,6). Le sue due ali sono la contrizione e la confessione, con le quali vola nel deserto della penitenza, in cui trova il rifugio di pace e di tranquillità.
E osserva che queste ali sono dette grandi. Infatti le ali della vera contrizione hanno quattro grandi penne. La prima è l’amarezza dei peccati passati, la seconda è il fermo proposito di non ricadervi, la terza è il perdono di ogni offesa dal profondo del cuore, la quarta è la ripara­zione verso tutti coloro che sono stati offesi.
E anche nell’ala della confessione ci sono quattro grandi penne. La prima è umiliarsi con la mente e con il corpo davanti al sacerdote. Maria [Maddalena], dice il vangelo, sedeva ai piedi del Signore (cf. Lc 10,39); e Isaia: “Scendi, siedi nella polvere, o vergine figlia di Babilonia; siedi in terra” (Is 47,1). Scendi con l’umiltà della mente, siedi nella polvere o nella terra con l’umiliazione del corpo. La seconda è l’accusa completa e particolareggiata dei propri peccati: “Accuserò me stesso” (Sal 31,5); e di nuovo: “Sono io che ho peccato, io che ho agito iniquamente” (2Re 24,17). La terza è la precisazione delle circostanze del peccato, che consiste nella risposta a queste domande: Che cosa? Chi? Dove? Per mezzo di chi? Quante volte? Perché? In che modo? Quando? La quarta è l’accettazione rispettosa e pronta della penitenza ordinata dal sacerdote, in modo da poter dire con Samuele: “Parla, Signore, che il tuo servo ti ascolta!” (1Re 3,9).
E per ciò che riguarda la soddisfazione, cioè l’esecuzione della penitenza, aggiunge: “e di grande apertura alare”. Infatti la mano, che prima era come rattrappita nel dare l’elemosina, ora si apre e si distende. Marco racconta che c’era nella sinagoga un uomo che aveva una mano inaridita. E il Signore gli disse: Stendi la tua mano! E quello la distese e riebbe l’uso della mano (cf. Mc 3,1-5). Le ginocchia erano deboli e quasi contratte; i piedi non erano più in grado di svolgere la loro funzione, perché ne erano stati privati dalla pigrizia, come è detto nei Proverbi: “Dice il pigro: C’è una leonessa sul sentiero, c’è un leone sulla strada; e come la porta gira sui cardi­ni, così il pigro si rigira nel suo letto” (Pro 26,13-14). Ma ora corre e piega le ginocchia alla preghiera. Ecco “la grande aquila, dalla grande apertura alare”.

11. La speranza sicura. “Piena di piume variopinte”. Su questo c’è un riferi­mento in Giobbe: “Forse che al tuo comando si alzerà in alto l’aquila e porrà il suo nido in luoghi ardui?” (Gb 39,27). Infatti il penitente, o anche il religioso, si solleva dalle cose terrene con le ali suddette, al comando del Signore che dice: “Venite dietro a me” (Mt 4,19), ecc., e anche: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti” (Mt 8,22); “e mette il suo nido in luoghi ardui”, pone cioè la sua speranza nel premio della vita eterna. Fabbrica questo nido con le piume della pazienza e della bontà. Con queste piume aveva fabbricato il suo nido anche Giobbe, quando diceva: “Anche se mi ucciderà, io spererò in lui” (Gb 13,15). Si può render facile il patire, se non viene meno la pazienza (Ovidio).
“Piena di piume variopinte”. Quando si moltiplicano le tentazioni e le persecuzioni, il giusto fabbrica il suo nido con le piume della pazienza, con esse copre se stesso e le sue opere e così con la sua pazienza salva la sua anima (cf. Lc 21,19).



12. La carità perfetta. “Venne sul Libano e portò il midollo del cedro”. Il cedro, che con il suo aroma mette in fuga i serpenti, è figura della carità che scaccia dal cuore del giusto i serpenti dell’invidia, dell’ira, del rancore e dell’odio.
Nella prima lettera ai Corinzi (1Cor 13,4-5), l’Apostolo dice: “La carità non è invidiosa” perché, nulla bramando in questo mondo, ignora l’invidia dei successi altrui; “non agisce ingiustamente” perché, operando solo per amore di Dio e del prossimo, rifugge da tutto ciò che non è retto; “non pensa male” perché, con la mente ferma all’amore della purezza, mentre estirpa dalle radici qualsiasi odio, si guarda bene dal rimuginare nella mente ciò che contamina; per questo è detto che sta sul monte Libano, che s’inter­preta “candore”, al quale va il giusto a prendere il midollo del cedro. Il midollo simboleggia la dolcezza della contemplazione o anche la compassione verso il prossimo; infatti innalzan­dosi all’amore di Dio, è impregnato della sua dolcezza; quando poi si volge all’amore del prossimo, allora usa il midollo della compassione.
Preghiamo dunque il Signore Gesù Cristo che ci conceda di volarcene lontano dai peccati con le ali della contri­zione e della confessione e di mettere il nido della speranza nelle cose celesti e di prendere così il midollo della duplice carità: carità verso Dio e carità verso il prossimo. Ce lo conceda colui che è benedetto nei secoli. Amen.
AMDG et BVM


giovedì 25 dicembre 2014

Santo STEFANO PROTOMARTIRE


FESTA DI Santo STEFANO PROTOMARTIRE

1. In quel tempo: “Gesù diceva alla folla dei Giudei: Ecco, io vi mando i profeti”, ecc. (Mt 23,1.34). In questo brano del vangelo si devono considerare due fatti:
- la persecuzione dei giusti,
- Cristo che si paragona alla chioccia.

I. la persecuzione dei giusti


2. “Ecco, io vi mando i profeti...” In questa prima parte si fa osservare, in senso morale, in che maniera i mondani e i carnali distruggono i se stessi o respingono da sé la molteplice ispirazione della grazia divina.
“Diceva dunque alla folla dei Giudei”. I Giudei, che amavano i beni passeggeri e solo ad essi si dedicavano, raffigurano i mondani, dediti al corpo, i quali, come è detto nel libro dei Giudici, non sono capaci di dire Scibbolet, che significa spiga o grano, ma dicono Sibbolet, che vuol dire paglia (cf. Gdc 12,6). Vanno infatti dietro alla paglia e così diventano essi stessi paglia, destinata ad essere bruciata nel fuoco eterno1.
A costoro dunque il Signore dice: “Ecco, io mando a voi profeti, sapienti e scribi” (Mt 23,1.34). In queste tre categorie di inviati è simboleggiata la triplice ispirazione della grazia divina. I profeti raffigurano il timore del giudizio e l’orrore dell’inferno, che il Signore manda all’anima peccatrice affinché le preannuncino il giudice tremendo e la geenna vendicatrice. Dice Nahum: “Davanti al suo sdegno chi può resistere? Chi affronterà il furore della sua ira? La sua collera si diffonde come il fuoco e perfino le pietre si dissolvono davanti a lui” (Na 1,6). E Gioele: “Davanti a lui c’è il fuoco che divora, e dietro a lui c’è la fiamma che consuma” (Gl 2,3).
Il Signore, per bocca di Geremia, dice di questi profe­ti: “Io vi ho mandato i miei servi, i profeti, alzandomi di notte; li ho mandati perché vi dicessero: Non fate questa cosa abominevole! Ma essi non hanno ascoltato e non hanno prestato orecchio in modo da abbandonare la loro iniquità” (Ger 44,4-5). È detto che il Signore si alza di notte a mandare i profeti, in quanto all’anima che vive nella notte del peccato, egli, nella sua misericordia, incute il salutare timore del giudizio e il terrore dell’inferno. Ma l’anima sventurata non accoglie l’ispirazione, né presta l’orecchio dell’obbedienza per allontanarsi dal male e volgersi alla penitenza.
Ugualmente, i sapienti raffigurano quelle divine ispirazioni che mettono ordine nei pensieri, fanno riflettere prima di parlare, impreziosiscono le opere, regolano la vita e dispongono rettamente ogni cosa. Chi cammina con questi sapienti, diventa egli stesso sapiente. Di essi dice l’Ecclesiastico: Non disprezzare i discorsi dei sapienti, ma abbi familiarità con le loro massime: impara da loro il sapere e il discernimento (cf. Eccli 8,9-10). Preziosa è la loro scuola, gradito il loro insegnamento, lodevoli le loro direttive: riformano i costumi e distruggono i vizi.
Infine gli scribi raffigurano gli affetti, i sentimenti della nostra mente, che nel libro della memoria scrivono l’impurità del nostro concepimento, la materialità della nostra nascita, la malvagità di chi compie il male, la miseria del nostro peregrinare, la brevità del tempo e il pensiero della morte. Leggi in questo scritto così veritiero, studia in questo libro nel quale, come dice Ezechiele, sono scritti lamen­ti, pianti e guai (cf. Ez 2,9). Lamenti per l’impurità del concepimento e la materialità della nascita; pianti per la malvagità di chi compie il male, e la miseria del nostro peregrinare; guai per la brevità del tempo e il pensiero della morte.
Ecco in qual modo il Signore pietoso e pieno di misericordia vi manda i profeti per infondervi il dolore, i sapienti per riformare i costumi, e gli scribi per ricorda­rvi sempre la condizione della vostra vita.

3. Ma sentiamo come i Giudei ingrati, cioè gli adoratori dei beni terreni, abbiano corrisposto con tante scelle­ratezze a sì grandi benefici.
“Di questi alcuni ne ucciderete e crocifiggerete, altri ne flagellerete nelle vostre sinagoghe” (Mt 23,34). Uniamo tra loro i termini corrispondenti: uccidono i profeti, crocifiggono i sapienti e flagellano gli scribi. I superbi e i vanaglorio­si uccidono i profeti; i golosi e i lussuriosi crocifiggono i sapienti; gli avari e gli usurai flagellano gli scribi.
La superbia e la vanagloria uccidono nell’uomo il terrore del giudizio e l’orrore dell’inferno. Perciò oggi Stefa­no dice ai giudei: “O gente di dura cervice”, ecco la superbia; “incirconcisi nel cuore e negli orecchi”, ecco la vanagloria: infatti non vogliono capire né sentire se non quello che piace a loro; “voi opponete sempre resistenza allo Spirito Santo, come facevano anche i vostri padri. Quale dei profeti i vostri padri non hanno perseguitato? Essi uccise­ro quelli che preannunciavano la venuta del Giusto” (At 7,51-52). Quindi li uccidono in se stessi, perché essi preannunciano l’arrivo del giudizio.
I golosi e i lussuriosi crocifiggono e tormentano i sapienti: essi infatti sono corrotti nei pensieri, lascivi nelle parole, dissoluti nella loro condotta, disordinati nei costumi. Dicono perciò: “Riempiamoci di vino squisito e di profumi; non lasciamoci sfuggire il fiore della primave­ra. Coroniamoci di rose prima che avvizziscano; nessun prato sfugga alle scorribande della nostra lussuria (Sap 2,7-8).
Gli avari e gli usurai flagellano gli scribi nelle sinagoghe, cioè nella loro coscienza, dov’è la sede e la sinagoga di satana (cf. Ap 2,9.13). Gli sventurati non considerano la condizione della loro vita, la loro nascita e la loro morte. Sono nati senza borsa e senza un soldo, moriranno con poca stoppa e sacco; sono nati nudi, moriranno coperti di poca stoffa. E da dove allora hanno avuto tutto ciò che possiedono? Dalla rapina e dall’usura. Dice Abacuc: “Guai a colui che accumula ciò che non è suo! Fino a quando continuerà ad ammassare su di sé tanto fango?” (Ab 2,6). Fa come lo scarabeo che accumula una quantità di sterco e con grande fatica ne fa una palla rotonda; ma alla fine passa un asino e mette la zampa sullo scarabeo e sulla palla, e in un istante distrugge lo scarabeo e la palla, per la quale ha tanto faticato. Così l’avaro, o l’usuraio, accumula a lungo lo sterco del denaro, a lungo fatica, ma quando meno se l’aspetta il diavolo lo strangola. E così l’anima va ai demoni, la carne ai vermi e il denaro ai parenti.

4. “Sarete perseguitati di città in città” (Mt 23,34). Ahimè, non si accontentano quegli sventurati di rifiutare l’ispirazione della grazia divina e di spegnerla in se stessi, ma vogliono scacciarla anche dai loro congiunti, come dai figli e dalle mogli, quasi perseguitandoli di città in città. Un esempio: se il figlio di un usuraio, scosso dalla paura del giudizio e della pena dell’inferno, fa il proposito di vivere onestamente e di piangere sulla miseria della sua vita, e il padre suo ha sentore di ciò, questi, con tutte le sue forze, osteggia in lui questa grazia e lo stesso fa con la figlia, con la moglie e con tutta la famiglia.
“Perché ricada su di voi tutto il sangue innocente”, cioè la giusta vendetta per il sangue versato, “dal sangue del giusto Abele”, nome che significa “lutto”, “fino al sangue di Zaccaria”, che s’interpreta “ricordo del Signo­re", “figlio di Barachia”, che significa “benedizione del Signore” (Mt 23,35). Ecco quante scelleratezze hanno perpetrato quegli omicidi! Uccidono in se stessi e nei loro parenti il pianto della penitenza e il ricordo della passione del Signore, che è stata data da Dio Padre in benedizione per tutto il mondo.
“Che avete ucciso tra il tempio e l’altare” (Mt 23,35), cioè nell’atrio del tempio. Dice l’Apocalisse: “L’atrio, che è fuori del tempio, lascialo da parte e non misurarlo, perché è stato dato in balìa dei pagani (Ap 11,2), cioè di coloro che vivono da pagani. Il tempio è figura della chiesa trionfante; l’altare, della chiesa militante; l’atrio invece simboleggia la vanità del mondo, nella quale si sopprime il ricordo della passione del Signore.

II. cristo si paragona alla chioccia
 
5. “Gerusalemme, Gerusalemme!” (Mt 23,37). Con sentimento di pietà Gesù piange sugli uomini, non sulle pietre [della città]. “Che uccidi i profeti”, i quali annunciano il Signore dei profeti, “e li làpidi” (Mt 23,37). Proprio a motivo di queste parole, si legge questo brano del vangelo in questo giorno, nel quale il beato Stefano fu lapidato dai Giudei: mentre li rimproverava per la loro durezza – “gente di dura cervice” (At 7,51) , aveva loro detto –, affrontò la durezza delle pietre. Ma “gode chi è paziente nelle durezze” (Luca­no). Ieri è nato il Signore, oggi viene lapidato il servo; ieri il Re è stato avvolto in fasce, oggi il soldato è stato spogliato della veste corruttibile; ieri il Salvatore è stato adagiato nel presepio, oggi Stefano viene portato in cielo.
Stefano s’interpreta “regola”, o “coronato”, oppure anche “che fissa lo sguardo”. Regola dev’essere per noi il suo esempio: “Piegate le ginocchia” pregò per quelli che lo lapidavano: “Signore, non imputar loro questo peccato” (At 7,60). Fu coronato con il suo stesso sangue, e fissò lo sguardo nel Figlio di Dio: “Vedo i cieli aperti e Gesù che sta alla destra di Dio” (At 7,56.60).
“Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali, e tu non hai voluto” (Mt 23,37). Come dicesse: Io volevo ma tu non hai voluto, e ogni volta che li ho raccolti, con la mia volontà sempre efficace, l’ho fatto contro la tua volontà, perché sei sempre stata ingrata!

6. In altro senso. Il Signore rivolge il suo rimprovero all’anima ingrata: “Gerusalemme, Gerusalemme!”. Questo nome s’interpreta “timore perfetto”, ossia completo, o anche “temerà totalmente” (Girolamo). È detta casa imperfetta quella non ancora finita, non ancora completata. Osserva che dice due volte “Gerusalemme”, perché l’anima sventurata che, come si è detto sopra, uccide in se stessa i profeti, deve temere due cose: di vedere sopra di sé il giudice adirato, e sotto di sé la geenna aperta e ardente; e allora il suo timore sarà perfetto, completo. Adesso non teme perché in questo suo giorno [non vuole conoscere] ciò che serve alla sua pace(cf. Lc 19,42).
“E lapidi quelli che ti sono inviati” (Mt 23,37), respingi cioè con la durezza del cuore le ispirazioni della grazia divina e le sue manifestazioni. Dice Isaia: “So che tu sei ostinato, che la tua cervice è una sbarra (nervus) di ferro e la tua fronte è di bronzo” (Is 48,4). Nella sbarra di ferro è simboleggiata la superbia ostinata. Agostino dice: “Drizzare la testa è segno di superbia”. Nella fronte di bronzo è indicata l’irriverenza; dice Ezechiele: “Tutta la casa d’Israele è di fronte impudente e di cuore indurito” (Ez 3,7).
“Quante volte ho voluto raccogliere i tuoi figli, e non hai voluto”. Osserva che la giustificazione dell’uomo si effettua in due modi: e cioè con la propria decisione e con l’ispira­zione divina: il Creatore coopera all’azione della sua creatura. Perciò il Creatore, nell’opera della nostra giustificazione, esige il nostro volontario assenso; infatti dice: “Se vorrete e mi ascolterete, mangerete i frutti della terra” (Is 1,19).
Quanto si mettono impedimenti a quest’azione, ciò viene imputato al libero arbitrio, perché è detto: “Se il mio popolo mi avesse ascoltato” (Sal 80,14), ecc. Se noi infatti in questa opera non facciamo proprio niente, inutilmente imploriamo l’aiuto del Creatore, e falsamente lo chiamiamo adiutore. Una cosa infatti è fare e un’altra è aiutare. Che cosa vuol dire aiutare se non cooperare con chi opera? Ha inteso di aver in lui un aiuto e un cooperatore nel bene, colui che disse: “Tu sei mio aiuto e mio liberatore, o Signore, non tardare!” (Sal 69,6). Ogni giorno cerchiamo il suo aiuto, quando nelle nostre preghiere quotidiane gridiamo: “Aiutaci, o Dio, nostro Salvatore!” (Sal 78,9). È chiaro dunque che “da due” viene compiuta quest’opera, nella quale il creatore opera insieme con la sua creatura.
In quest’opera perciò sono necessari il nostro impegno e la grazia divina. Invano uno si appoggia al libero arbitrio se non si sostiene con l’aiuto divino. La nostra giustificazione si compie per mezzo della nostra decisione e con l’ispirazione divina. Il volere solo cose giuste significa essere già giusto. Infatti soltanto dalla nostra volontà dipende l’es­sere detti, a ragione, giusti o ingiusti, sebbene in ambedue i casi siamo anche aiutati dalle opere. Fa’ dunque ciò che tocca a te offrendo la tua volontà, e Dio farà quello che a lui compete infondendoti la sua grazia.
E sia chiaro che né angelo, né uomo, né diavolo può costringere il libero arbitrio, e neppure Dio vuole fargli violenza. Ma Dio vuole amorevolmente raccogliere intorno a te, o anima, i figli, cioè i tuoi affetti e sentimenti, che sono dispersi in vari interessi temporali e vizi, perché tu abiti nella sua casa in perfetto accordo (cf. Sal 67,7): per questo tu devi offrire volentieri te stessa e volere proprio questo.

7. “Come la chioccia raccoglie i suoi pulcini sotto le ali”. Osserva che la chioccia si ammala quando i pulcini sono ammalati; li chiama a mangiare fino a tanto che diventa rauca; li protegge sotto le ali e resiste allo sparviero con le penne irte per difenderli. Così Cristo, Sapienza di Dio, per noi infermi si è fatto infermo. Dice infatti Isaia: “Lo abbiamo osservato: è disprezzato e l’ultimo degli uomini”, cioè il più reietto; “uomo dei dolori che ben conosce il patire” (Is 53,2-3). Chi vuole consolare un ammalato deve investirsi dei sentimenti dell’ammalato: infatti nel quarto libro dei Re è si narra che Eliseo “si curvò sopra il fanciullo, e il corpo del fanciullo riprese calore” (4Re 4,34). Il curvarsi di Eliseo simboleggia l’incarnazione di Cristo, dalla quale abbiamo ricevuto il calore della fede e abbiamo ricuperato la vita. Ci chiamò al banchetto della sua dottrina, e ci ha chiamati così a lungo che riarse sono le sue fauci (cf. Sal 68,4).
Osserva che il rauco non ha una voce melodiosa, ma manda suoni bassi e aspri, e quindi non si ascolta volentieri. Così oggi la dottrina di Cristo non ha la voce melodiosa dell’adulazione, perché non blandisce i peccatori e non promette vantaggi temporali; ma risuona aspramente perché insegna a castigare la carne e a disprezzare il mondo; e quindi non è ascoltata volentieri. Per questo si lamenta Giobbe: “Ho chiamato il mio servo, ma non ha risposto; devo scongiurarlo con la mia bocca. Il mio alito è ripugnante anche per la mia sposa e devo pregare anche i miei figli” (Gb 19,16-17). Sposa di Cristo sono i chierici, impinguati con il suo patrimonio: essi più di tutti hanno orrore del suo alito, cioè della sua predi­cazione che proviene dal suo profondo; poiché, come dice Giobbe, nascosto e profondo è il luogo dal quale si trae la sapienza (cf. Gb 28,18).
Allo stesso modo, per proteggerci ha aperto come ali le sue braccia sulla croce, e irto di spine si è opposto al diavolo che tramava di rapirci. La corona di spine sul capo come un elmo, la croce nelle braccia come uno scudo, i chiodi nelle mani come una clava: così armato ha sconfitto il nostro nemico.
A lui dunque lode e gloria per i secoli eterni. Amen.

 III. sermone allegorico

8. “Farai un candelabro di purissimo oro battuto (dutti­le): i bracci, le coppe, le sferule e i gigli si dirame­ranno da esso. Sei bracci si dirameranno dai due lati, tre da un lato e tre dall’altro” (Es 25, 31-32).
“Farai un candelabro…”. Leggiamo in Matteo: “Non accendono una lucerna per metterla sotto il moggio, ma sopra il candelabro perché faccia luce per tutti quelli che sono in casa” (Mt 5,15). Infatti la grazia dello Spirito Santo, “lampada che arde e risplende” (Gv 5,35), fu posta sopra il candelabro, cioè sul beato Stefano, come dice Zaccaria: “Vedo un candelabro tutto d’oro, e una lampada è sulla sua sommità” (Zc 4,2). Questa lampada, o lucerna, non fu posta sotto il moggio, non fu cioè usata per un guadagno materiale, ma faceva luce per tutti coloro che erano nella casa, cioè nella chiesa. E infatti Luca, nella lettura di oggi, dice: “Stefano, pieno di grazia e di potenza, faceva grandi prodigi e miracoli tra il popolo” (At 6,8).
Questo candelabro fu di oro purissimo: in esso è simbo­leggiata la sua aurea povertà. Allora infatti, come dice la Genesi, l’oro della terra di Avila – nome che s’interpreta “partoriente” e indica la chiesa primitiva –, era finissimo. (cf. Gn 2,12). Ma ahimè, ora si è mutato in scoria. Fu anche “duttile” (battuto), perché è stato lavorato battendolo. Anche il beato Stefano fu, per così dire, lavorato e battuto a colpi di pietra, e le sue braccia allargate ad abbracciare i nemici. Infatti: “Lapidavano Stefano mentre pregava e diceva: Signore, non imputar loro questo peccato” (At 7,59.60).
E concordano con questo le parole del terzo libro dei Re: “Condussero Nabot di Izreel fuori della città e lo uccisero, lapidandolo” (3Re 21,13). Nabot non aveva voluto che la sua vigna, ereditata dai suoi padri, fosse trasformata in un orto per coltivare legumi (cf. 3Re 21,2-3). Anche il beato Stefa­no fu lapidato così: “Lo trascinarono fuori della città e lo lapidarono” (At 7,58), perché si opponeva ai Giudei, i quali volevano trasformare la chiesa primitiva in un orto di legumi, volevano cioè imporle l’osservanza dei loro riti e delle loro tradizioni.

9. “Sei bracci si dirameranno dai due lati, tre da un lato e tre dall’altro”. I sei bracci simboleggiano le sei virtù che erano nel beato Stefano, sei virtù ricordate nella lettura della messa di oggi.
La fede. È detto infatti: “Elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo” (At 6,5), e queste parole fanno capire che la sua fede fu viva e operante. La graziae la fortezza: “Era pieno di grazia e di fortezza” (At 6,8). La sapienza e il coraggio nella predicazione: “Non riuscivano a resistere alla sapienza e allo spirito che parlava” (At 6,10), e ancora: “Gente di dura cervice e incirconcisi di cuore, opponete resistenza allo Spirito Santo” (At 7,51). La preghiera per quelli che lo lapidavano: “Signore, non imputar loro questo peccato” (At 7,60).
Di fede viveva, con la grazia comunicava, con la fortezza resisteva, con la sapienza istruiva, con il coraggio confutava e con la preghiera aiutava. In questi bracci c’erano cop­pe, sferette e gigli. Nella concavità della coppa è indicata l’umiltà del cuore; nella rotondità della sferetta la cura dei fratelli in necessità; nei gigli la purezza del corpo. Ecco dunque il candelabro d’oro nella tenda del Signore, che illumina la mensa delle offerte, cioè la chiesa e l’anima fedele: il protomartire Stefano, adorno di virtù, bagnato del suo sangue, trionfante nei cieli.
Per le sue preghiere, ci faccia giungere agli eterni gaudi colui che è benedetto nei secoli dei secoli. Amen.

IV. sermone morale

10. “Farai un candelabro di oro purissimo, lavorato a martello”. Nel candelabro è raffigurata l’anima dei fedeli. Di questo candelabro il Signore dice ad Aronne: “Quando avrai sistemato le sette lampade, erigerai il candelabro nella parte meridionale, affinché le lampade facciano luce verso settentrione e siano rivolte verso la mensa delle offerte” (Nm 8,2). Le sette lucerne simboleggiano la grazia dello Spirito Santo, la fede nel Verbo incarnato, l’amore verso il prossimo, l’insegnamento della parola di Dio, la luce del buon esempio, la retta intenzione dell’animo e la costanza nei propositi.
Della grazia dello Spirito Santo dice Giobbe: “La sua lampada brillava sopra il mio capo, e alla sua luce io camminavo anche in mezzo alle tenebre” (Gb 29,3). La lampada brilla sopra il capo quando la grazia illumina la mente, e allora tra le tenebre del presente esilio vede chiaramente dove mettere il piede delle opere.
Sulla fede nel Verbo incarnato leggiamo in Luca: “Quale donna, se ha dieci dracme e ne perde una, non accende la lucerna e spazza la casa finché non la ritrova? “(Lc 15,8). Le nove dracme raffigurano i nove ordini di angeli; la decima raffigura Adamo e la sua discendenza, la quale è stata perduta quando fu scacciata dal paradiso terrestre. Ma “la donna”, cioè la Sapienza di Dio Padre, “accese la lampada” quando nella fragile creta della nostra umanità pose la luce della sua divinità. E così “spazzò la casa”, cioè il mondo e l’inferno, “finché la ritrovò.
Sull’amore verso il prossimo è scritto nei Proverbi: “Il precetto è lampada, la legge è luce, le correzioni della disciplina sono sentiero di vita” (Pro 6,23). “Vi do un comandamento nuovo, che vi amiate a vicenda” (Gv 13,34): questo comandamento “è la lampada”; “chi ama il suo fratello dimora nella luce, chi lo odia dimora nelle tenebre” (1Gv 2,10-11). E la stessa “legge” dell’amore, dalla quale dipendono la Legge e i profeti (cf. Mt 22,40), “è luce”. E “le correzioni della disciplina” sono “sentiero di vita”, sentiero cioè che conduce alla vita. Dice infatti l’Apostolo: “Ogni correzione non sembra, sul momento, causa di gioia, ma di tristezza”: ecco la correzione; “dopo però arreca un frutto di pace e di giustizia a quelli che per mezzo suo sono stati addestrati” (Eb 12,11): ecco la via della vita.
Sull’insegnamento della parola di Dio dice il salmo: “La tua Parola è lampada ai miei passi” (Sal 118,105); e Pietro: “Abbiamo conferma migliore della parola dei profe­ti, alla quale fate bene a volgere l’attenzione, come a lampada che brilla in un luogo oscuro, finché non spunti il giorno e la stella del mattino si levi nei vostri cuori (2Pt 1,19).
Sulla luce del buon esempio parla Luca: “Siate pronti con i fianchi cinti e in mano le lampade accese” (Lc 12,35). E Gregorio: “Abbiamo in mano le lampade accese, quando con le buone opere mostriamo al nostro prossimo esempi luminosi”.
Sulla retta intenzione dell’animo leggiamo in Matteo: “La lampada del tuo corpo è l’oc­chio. Se il tuo occhio sarà chiaro, tutto il corpo sarà nella luce” (Mt 6,22). L’occhio simboleggia l’intenzione, il corpo l’opera. Se l’intenzio­ne sarà chiara, vale a dire senza pieghe oscure, tutta l’opera sarà nella luce, perché illuminata dalla lampada della retta intenzione.
E infine sulla costanza nei propositi, leggiamo nei Proverbi, dove si parla della donna forte: “La sua lampada non si spegne neppure durante la notte” (Pro 31,18). È come dicesse: la notte della tentazione diabolica non spegne la luce dell’anima costante.
Queste sette lampade devono essere poste nell’anima, in modo da essere rivolte a settentrione, contro l’Aquilo­ne, cioè contro il diavolo, affinché l’anima, da esse illumi­nata, sia in grado di scoprire le astuzie di satana e di difendersene; e le lampade illuminino anche “la mensa dei pani dell’offerta”, nella quale è simboleggiata la condot­ta dei i fedeli. Se l’anima si nutre di cose celesti, viene offerto a tutti da questa mensa, nelle tenebre della cecità presente, ciò che viene illuminato dalle suddette lampade.
Osserva infine che il Signore ha comandato che questo candelabro “sia eretto nella parte meridionale”, e non in quella occidentale. La parte meridionale raffigura la vita eterna: “Dio – dice Abacuc – verrà da meridione” (Ab 3,3). L’anima del fedele, quando si alza per compiere un’opera buona, si alzi dalla parte di mezzogiorno, in modo che tutto ciò che fa, sia fatto non per la vacua gloria del mondo ma per la gloria celeste. “Farai dunque un candelabro”.

11. “Duttile, battuto con il martello”. L’anima viene lavorata e, per così dire, spianata e allargata verso l’amore del Redentore dal martello della contrizione; con le battiture l’anima matura, si dilata, perché “gode chi è paziente nelle durezze”. Un riscontro a tutto questo lo troviamo nell’Ecclesiastico: “Il sapiente si rivela nelle sue parole” (Eccli 20,29). Quand’egli infatti si colpisce con la parola della propria accusa, ossia della confessione, guida se stesso all’amore di Dio.
E poiché con le battiture della contrizione si giunge alla purezza del cuore, dice appunto: “di oro purissimo”. E l’Apocalisse: “La città stessa è di oro puro, simile a terso cristallo (Ap 21,18). L’anima del giusto, sede o città della sapienza, è detta oro puro, perché risplende per la purezza dei pensieri; e se talvolta, per la fragilità della condizione umana, si copre di qualche macchia, immediatamente la rivela, come un terso cristallo, nella confessione, e così progredisce nell’amore di Dio e del prossimo.
“Sei bracci si dirameranno dai due lati”, ecc. I sei bracci del candelabro sono nel giusto come delle braccia amorose con le quali l’anima abbraccia Dio e il prossimo. Di queste braccia con i quali abbraccia Dio, è detto nel Deuteronomio e in Luca: “Amerai il Signore, Dio tuo, con tutto il tuo cuore e con tutta la tua anima e con tutte le tue forze” (Dt 6,5; Lc 10,27). Agostino così parla e spiega: “Con tutto il cuore”, cioè con l’in­telletto senza errore; “con tutta la mente”, cioè con la memoria senza dimenticanze; “con tutta l’anima”, cioè con la volontà, senza aver mai nulla in contrario.
Allo stesso modo, le braccia con le quali l’anima abbraccia il prossimo, sono queste: perdonare chi pecca, correggere chi sbaglia, nutrire chi ha fame. Su queste braccia ci sono le coppe, le sferette e i gigli. Le coppe raffigurano la grazia della dottrina celeste, dalla quale bevono gli amici e si inebriano i più cari, i parenti. Questa è la coppa d’argento di Giuseppe, nascosta nel sacco di Beniamino (cf. Gn 44,2.12), cioè nel cuore del giusto. Nelle sferette (che ruotano) è simboleggiato il rotolare del peccato verso la confessione. Dice Isaia: “Prendi la cetra”, cioè la confessione, “percorri la città”, cioè la tua memoria o la tua vita, per rivoltare tutto e nulla resti nascosto, “canta in modo giusto” accusando te stesso, “ripeti il tuo canto” dando la colpa a te stesso e piangen­do “affinché tu sia ricordato” (Is 23,16) al cospetto di Dio. Canta infatti l’istrione alla porta del ricco per averne qualche beneficio.
Nei gigli è simboleggiata la luminosa e soave compagnia delle beate schiere angeliche. Il diletto si pasce tra i gigli, (cf. Ct 2,16), e dice: “Il vincitore indosserà vesti bianche” (Ap 3,5). Anche l’angelo della risurrezione apparve rivestito di una veste candida (cf. Mc 16,5).
Colui che è benedetto nei secoli eterni conduca anche noi a ricevere questa candida veste. Amen.