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sabato 3 agosto 2013

SAN MARCELLO, martire



Atti di Marcello

Tangeri 30 ottobre 298

Passione del santo e beatissimo Marcello, martire di Cristo,
che subì il martirio sotto Agricolano, tre giorni prima delle calende di Novembre


I. Durante il consolato di Fausto e Gallo, cinque giorni prima delle calende di agosto (il 28 luglio), fu introdotto Marcello, centurione astato della prima coorte. 

Il governatore Fortunato disse: “Come mai, contro il regolamento militare, ti sei spogliato del balteo e della spada e hai gettato via l’insegna del tuo grado?”.
Marcello rispose: “Già il 21 luglio, davanti alle insegne di codesta legione, quando avete celebrato il giorno festivo del vostro imperatore, ti ho risposto pubblicamente e distintamente che io sono cristiano, e che non posso prestare questo servizio, ma servire solo Gesù Cristo figlio del Dio onnipotente”.
Il governatore Fortunato disse: “Non posso ignorare la tua avventatezza, e quindi riferirò il fatto ai nostri signori Augusti e Cesari. E tu poi, sta certo, sarai introdotto davanti al tribunale del mio signore Aurelio Agricolano facente funzione di prefetto al pretorio, e ti scorterà Cecilio, ufficiale appartenente alle forze armate del governatore della provincia”.

“Manilio Fortunato saluta il suo Agricolano. Nel giorno felicissimo e in tutto il mondo beatissimo dell’autentico compleanno dei nostri signori Augusti e Cesari a un tempo, mentre celebravamo la solenne festività, o signore Aurelio Agricolano, Marcello, centurione ordinario, preso da un inspiegabile accesso di follia, si è spogliato spontaneamente del balteo e della spada, e ha creduto bene di gettare l’insegna del grado che portava proprio davanti alle insegne dei nostri signori. Ho creduto necessario riferire questo fatto alla tua potestà, e contemporaneamente far tradurre davanti a te lo stesso Marcello”.

Reliquie di San Marcello il Centurione,
South Bend, Indiana (Stati Uniti)
II. Durante il consolato di Fausto e Gallo, tre giorni prima delle calende di novembre (il 30 ottobre), a Tangeri, fu
 introdotto Marcello, centurione astato della prima coorte. Un funzionario disse: “Il governatore Fortunato ha fatto tradurre dinanzi alla tua potestà Marcello. C’è qui per la tua magnificenza anche una lettera sul suo caso; se lo ordini, ne darò lettura”.

Agricolano disse: “Se ne dia lettura”.
Data lettura della lettera, Agricolano disse: “Hai detto le cose di cui viene data lettura nel verbale del governatore?”. Marcello disse: “Sì”.
Agricolano disse: “Prestavi servizio col grado di centurione ordinario?”.
Marcello disse: “Sì”.

Agricolano disse: “Che pazzia ti ha preso, sì da farti gettare la sacra insegna e da farti parlare in questo modo?”.
Marcello disse: “Non c’è pazzia in colui che è timorato di Dio”.
Agricolano disse: “Hai detto tutte le singole cose che sono contenute nei verbali del governatore?”.
Marcello disse: “Si”.
Agricolano disse: “Hai fatto getto delle armi?”.
Marcello disse: “Sì. Infatti un cristiano, timorato di Cristo Signore, non deve prestar servizio nelle milizie di questo mondo”.
Agricolano disse: “Le azioni di Marcello sono tali, che devono essere punite in base al regolamento”. E disse così:

“Marcello, che ha contaminato il centurionato in cui militava facendo getto pubblicamente della sacra insegna del grado, e in più dinanzi al governatore ha fatto mettere a verbale parole piene di follia, è condannato alla decapitazione”.
Mentre era condotto al supplizio, il santo Marcello disse: “Dio ti ricolmi di benefici”.
Decapitato dopo aver pronunciato queste parole, Marcello ottenne la palma del martirio cui aspirava, sotto il regno di nostro Signore Gesù Cristo, che ricevette il suo martire nella pace. A lui sono onore e gloria, virtù e potestà nei secoli dei secoli. Amen.



Cfr. G. Lanata, “Processi contro cristiani negli atti dei martiri”, Torino 1989, pp. 59-63.

giovedì 21 marzo 2013

9. La pazienza di Maria

CORDA JESU ET MARIAE SACRATISSIMA
NOS BENEDICANT ET CUSTODIANT

Poiché questa terra è luogo di merito, giustamente viene chiamata valle di lacrime. Qui siamo tutti destinati a patire e con la pazienza a salvare le nostre anime nella vita eterna, come disse il Signore: «Con la vostra pazienza salverete le vostre anime» (Lc 21,19)

Dio ci diede la Vergine Maria come esempio di tutte le virtù, ma specialmente come esempio di pazienza. 

San Francesco di Sales osserva che alle nozze di Cana Gesù diede alla santa Vergine quella risposta, con cui [sembrava] mostrare di tenere poco conto delle sue preghiere: « Che importa più a me e a te, o donna?», come per dare a noi l'esempio della pazienza della sua santa Madre. 
Ma tutta la vita di Maria fu un esercizio continuo di pazienza. 

L'angelo rivelò a santa Brigida che la beata Vergine visse sempre tra le pene: « Come la rosa cresce tra le spine, così la santa Vergine crebbe fra le tribolazioni in questo mondo ». La compassione delle pene del Redentore bastò a fare di lei una martire della pazienza. Perciò san Bonaventura dice: « Colei che fu crocifissa concepì il crocifisso ». 

Quanto poi Ella soffrì durante il viaggio e la permanenza in Egitto, come in tutto il tempo che visse con il Figlio nella bottega di Nazaret, l'abbiamo già considerato parlando dei suoi dolori. Basta la sua presenza accanto a Gesù moribondo sul Calvario, a far capire quanto costante e sublime fu la sua pazienza: « Vicino alla croce di Gesù stava sua madre » (Gv 19,25)

Proprio per merito di questa sua pazienza, dice Sant' Alberto Magno, Maria divenne nostra madre che ci partorì alla vita della grazia. 
Se desideriamo dunque essere figli di Maria, bisogna che cerchiamo d'imitarla nella pazienza. «Che cosa mai, dice san Cipriano, può arricchirci più di meriti in questa vita e di gloria nell'altra, che il soffrire le pene con pazienza?». 

«Chiuderò la tua via con una siepe di spine», dice il Signore per bocca di Osea (Os 2,6 Volg.). E san Gregorio aggiunge: «Le vie degli eletti sono cosparse di spine». Come la siepe protegge la vigna, così Dio circonda di tribolazioni i suoi servi, affinché non si attacchino alla terra. 

San Cipriano conclude dunque che la pazienza ci libera dal peccato e dall'inferno. La pazienza è quella che fa i santi: « Rende l'opera perfetta» (Gc 1,4), facendoci sopportare in pace le croci che ci vengono direttamente da Dio, cioè l'infermità, la povertà, ecc. e quelle che ci vengono dagli uomini: persecuzioni, ingiurie, ecc. 
San Giovanni vide tutti i santi con le palme - segno del martirio - nelle mani: «Dopo ciò apparve una gran folla... avevano palme nelle loro mani» (Ap 7,9); il che significa che tutti gli adulti che si salvano devono essere martiri di sangue o di pazienza. Rallegriamoci dunque, esclama san Gregorio, «possiamo essere martiri senza strumenti di martirio, se siamo pazienti»; 
se soffriremo le pene di questa vita, come dice san Bernardo
« pazientemente,  volentieri,  gioiosamente »

Quanto ci frutterà in cielo ogni pena sofferta per Dio! Perciò l'Apostolo ci incoraggia: «Il minimo di sofferenza attuale ci procura una quantità smisurata ed eterna di gloria» (2Cor 4,17). Belli sono i pensieri di santa Teresa a tale proposito. Diceva: «Chi abbraccia la croce, non la sente». E altrove: «Quando uno è risoluto a patire, è finita la pena». 
Quando ci sentiamo oppressi dalle croci, ricorriamo a Maria, che la Chiesa chiama «Consolatrice degli afflitti» e san Giovanni Damasceno «Rimedio di tutti i dolori dei cuori». 


Signora mia dolcissima, tu innocente soffristi con tanta pazienza e io che ho meritato l'inferno rifiuterò di soffrire? Madre mia, questa grazia oggi ti chiedo: non di essere liberato dalle croci, ma di sopportarle con pazienza. Per amore di Gesù ti prego di ottenermi da Dio questa grazia. Da te la spero.



MARIA!

venerdì 22 febbraio 2013

Martiri di Otranto: È prevista la loro canonizzazione il 12 maggio 2013.


Martiri di Otranto

Da Wikipedia, l'enciclopedia libera.

Beati Antonio Primaldo e compagni martiri
Beati Antonio Primaldo e compagni martiri

Reliquie dei Martiri di Otranto conservate nella Cattedrale della Città
Martiri
NascitaXV secolo
Morte14 agosto 1480
Venerato daChiesa cattolica
Beatificazione1771
Canonizzazione12 maggio 2013
Santuario principaleCattedrale di Otranto
Ricorrenza14 agosto
AttributiPalma
Patrono diArcidiocesi e città di Otranto
Antonio Primaldo e compagni martiri, conosciuti anche semplicemente come martiri di Otranto, sono gli 800 abitanti della città salentina di Otranto uccisi il 14 agosto 1480 dai Turchi guidati da Gedik Ahmet Pascià, per aver rifiutato la conversione all'Islam dopo la caduta della loro città. Saranno canonizzati il 12 maggio 2013[1].

Storia 

Exquisite-kfind.pngPer approfondire, vedi la voce Battaglia di Otranto.
Il 28 luglio 1480 un'armata turca proveniente da Valona, forte di 90 galee, 40 galeotte e altre navi, per un totale di circa 150 imbarcazioni e 18.000 soldati, si presentò sotto le mura di Otranto.
La città resistette strenuamente agli attacchi, ma la sua popolazione di soli 6.000 abitanti non poté opporsi a lungo ai bombardamenti. Infatti il 29 luglio la guarnigione e tutti gli abitanti abbandonarono il borgo nelle mani dei Turchi, ritirandosi nella cittadella mentre questi ultimi cominciavano le loro razzie anche nei casali vicini.
Quando Gedik Ahmet Pascià chiese la resa ai difensori, questi si rifiutarono ed in risposta le artiglierie turche ripresero il bombardamento. L’11 agosto, dopo 15 giorni d’assedio, Gedik Ahmet Pascià ordinò l’attacco finale durante il quale riuscì a sfondare le difese e a espugnare anche il castello.
Nel massacro che ne seguì, tutti i maschi di oltre quindici anni furono uccisi, mentre le donne e i bambini furono ridotti in schiavitù. Secondo alcune ricostruzioni storiche, i morti furono in totale 12.000 e i ridotti in schiavitù 5.000, comprendendo anche le vittime dei territori della penisola salentina intorno alla città[2].
I superstiti e il clero si erano rifugiati nella cattedrale a pregare con l'arcivescovo Stefano Pendinelli. Gedik Ahmet Pascià ordinò loro di rinnegare la fede cristiana, ma ricevendone un netto rifiuto, irruppe con i suoi uomini nella cattedrale e li catturò. Furono quindi tutti uccisi, mentre la chiesa, in segno di spregio, fu ridotta a stalla per i cavalli.
Particolarmente barbara fu l’uccisione dell'anziano arcivescovo Stefano Pendinelli, il quale incitò i superstiti a rivolgersi a Dio in punto di morte. Fu infatti sciabolato e fatto a pezzi con le scimitarre, mentre il suo capo mozzato fu infilzato su una picca e portato per le vie della città.
Il comandante della guarnigione Francesco Largo venne invece segato vivo.
Castello di Otranto
A capo degli Otrantini - che il 12 agosto si erano opposti alla conversione all'Islam - era anche il vecchio sarto Antonio Pezzulla, detto Il Primaldo.
Il 14 agosto Gedik Ahmet Pascià fece legare i superstiti e li fece trascinare sul vicino colle della Minerva, dove ne fece decapitare almeno 800, costringendo i parenti ad assistere alle esecuzioni. Il primo a essere decapitato fu Antonio Primaldo. La tradizione tramanda che il suo corpo, dopo la decapitazione, restò ritto in piedi, a dispetto degli sforzi dei carnefici per abbatterlo, sin quando l'ultimo degli Otrantini non fu martirizzato.
Durante quel massacro le cronache raccontano che un turco, tal Bersabei, si convertì nel vedere il modo in cui gli otrantini morivano per la loro fede e subì anche lui il martirio, impalato dai suoi stessi compagni d'arme.
Tra gli 800 martiri d'Otranto, si ricorda per l'eroica morte, in testimonianza della fede, la figura di Macario Nachira, colto monaco basiliano, appartenente ad antica e nobile famiglia di Viggiano (oggi Uggiano la Chiesa).
Dopo tredici mesi Otranto venne riconquistata dagli Aragonesi, guidati da Alfonso d'Aragona, figlio del Re di Napoli.

Reliquie 

Il 13 ottobre 1481 i corpi degli Otrantini trucidati furono trovati incorrotti e vennero successivamente traslati nella Cattedrale di Otranto.
A partire dal 1485, una parte dei resti di quei martiri furono trasferiti a Napoli e riposano nella chiesa di Santa Caterina a Formiello, dove furono collocati sotto l'altare della Madonna del Rosario (che ricorda la vittoria definitiva delle truppe cristiane sugli Ottomani nella famosa battaglia di Lepanto); successivamente furono collocati nella cappella delle reliquie, consacrata da papa Orsini, e solo dal 1901 deposte sotto l'altare in cui si trovano oggi. Una recognitio canonica, effettuata tra il 2002 e il 2003, ne ha ribadito l'autenticità.
Nel 1930 monsignor Cornelio Sebastiano Cuccarollo, vescovo di Bovino dal 1923, fu nominato arcivescovo di Otranto e, in segno di affetto e riconoscimento verso la sua ex diocesi, donò parte delle reliquie al Santuario di Santa Maria di Valleverde in Bovino, dove attualmente si trovano nella cripta della nuova basilica.
Reliquie dei beati martiri sono venerate in molti luoghi della Puglia, in particolare nel Salento, e a Napoli, a Venezia e in Spagna.

Culto 

Un processo canonico iniziato nel 1539 terminò il 14 dicembre 1771, allorché papa Clemente XIV dichiarò beati gli 800 trucidati sul colle della Minerva, autorizzandone il culto; da allora essi sono protettori di Otranto.
In vista di una possibile canonizzazione, su richiesta dell'arcidiocesi di Otranto, il processo è stato recentemente riaperto, confermando in pieno le conclusioni del precedente. Papa Benedetto XVI, il 6 luglio 2007, ha emanato un decreto in cui riconosce il martirio di Antonio Primaldo e dei suoi concittadini uccisi "in odio alla fede".
Il 20 dicembre 2012 Benedetto XVI nell'udienza privata con il cardinale Angelo Amato, prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi, ha autorizzato la Congregazione a promulgare il Decreto riguardante il miracolo della guarigione della suora Francesca Levote, attribuito all'intercessione dei beati Antonio Primaldo e compagni martiri.[3]. È prevista la loro canonizzazione il 12 maggio 2013.
Subito dopo l'annuncio, effettuato l'11 febbraio 2013 nel corso di un apposito Concistoro, Benedetto XVI ha comunicato in latino la sua ferma e meditata intenzione di rinunciare alla guida della Chiesa di Roma a partire dalle ore 20 del 28 febbraio, a causa delle sue precarie energie, aggravate dall'età avanzata.

Note 

  1. ^ Il Sole 24 Ore
  2. ^ Paolo Ricciardi, Gli eroi della patria e i martiri della fede: Otranto 1480-1481, Vol. 1, Editrice Salentina, 2009
  3. ^ Promulgazione di decreti della Congregazione delle Cause dei Santi

Bibliografia 

  • Paolo Ricciardi, Gli eroi della patria e i martiri della fede: Otranto 1480-1481, Vol. 1, Editrice Salentina, 2009
  • Grazio Gianfreda, I beati 800 martiri di Otranto, Edizioni del Grifo, 2007

Voci correlate 

Collegamenti esterni 

AVE MARIA VIRGO POTENS!

giovedì 14 febbraio 2013

SAN VALENTINO!




Il Pontefice pronuncia la sua omelia
per l'ordinazione sacerdotale di san Valentino.

«Battezzato nel giorno natale del martire Valente, il nuovo figlio della Chiesa Apostolica e Romana, e fratello nostro, ha voluto assumere il nome del martire beato, ma con quella modifica che l’umiltà attinta dal Vangelo - l’umiltà: una delle radici della santità - gli dettava. 

E non Valente, ma Valentino volle essere detto.
Oh! ma che in vero Valente egli è. Guardate quanto cammino ha fatto il pagano la cui religione era il vizio e la prepotenza. Voi lo conoscete quale è ora, nel seno della Chiesa. Qualcuno fra voi - e specie quelli che padri e madri di vera generazione gli sono stati, per essere quelli che con la parola e l’esempio l’hanno fatto concepire dalla Santa Madre Chiesa e partorire da essa per l’altare e per il Cielo - sanno quello che egli era non come cristiano Valente ma come il pagano di prima, il cui nome egli, e noi con lui, non vogliamo neppur ricordare. 

Morto è il pagano. E dall’acqua lustrale è risorto il cristiano. Ora egli è il vostro prete. Quanto cammino! Quanto! Dalle orgie ai digiuni; dai triclini alla chiesa; dalla durezza, dall’impurità, dall’avarizia, all’amore, alla castità, alla generosità assoluta.

Egli era il giovane ricco, e un giorno ha incontrato, portato a lui dal cuore dei santi, che anche senza parole illustrano Cristo - perché Egli traluce dal loro animo - ha incontrato Gesù, Signor nostro benedetto. 

Gli occhi dolcissimi del Maestro si sono fissati sul volto del pagano. E il pagano ha provato una seduzione che nessun piacere gli aveva ancor data, una emozione nuova, dal nome sconosciuto, dalla non descrivibile sensazione. Un che di soave come carezza di madre, di onesto come odore di pane testé sfornato, di puro come alba di primavera, di sublime come sogno ultraterreno.

Cadete voi larve del mondo e dell’Olimpo pagano quando il Sole Gesù bacia un suo chiamato. Come nebbie vi dissolvete. Come incubi demoniaci fuggite. Che resta di voi? Di voi che sembravate tanto splendida cosa? Un mucchio lurido di detriti inceneriti malamente e ancor fetidi di corruzione. 

“Maestro buono, che devo fare per seguire Te e avere la vita eterna?” ha chiesto. E il dolce, divino Maestro, con poche parole gli ha dato l’insegnamento di Vita: “Osserva questi comandi”. Oh! non gli poteva dire: “Segui la Legge!”. Il pagano non la conosceva. Gli disse allora: “Non uccidere, non rubare, non spergiurare, non essere lussurioso, onora i parenti e ama Dio e prossimo come te stesso”. Parole nuove! Mète mai pensate! Orizzonti infiniti pieni di luce. Della sua luce.

Il pagano non poteva dare la risposta del giovane ricco. Non poteva. Perché nel paganesimo sono tutti i peccati ed egli tutti li aveva nel cuore. 

Ma volle poterla dare. E venne ad un povero vecchio, al Pontefice perseguitato, e disse: “Dàmmi la Luce, dàmmi la Scienza, dàmmi la Vita! Un’anima dàmmi, in questo mio corpo di bruto!”, e piangeva. E il povero vecchio, che io sono, ha preso il Vangelo ed in esso ha trovato la Luce, la Scienza, la Vita per il mendicante piangente. Ho trovato tutto nel Vangelo di Gesù, nostro Signore, per lui. E gli ho potuto dare l’anima. L’anima morta evocarla a vita, e dirgli: “Ecco l’anima tua. Custodiscila per la vita eterna”.

Allora, bianco del bagno battesimale, egli si è dato a ricercare il Maestro buono e lo ha trovato ancora e gli ha detto: “Ora posso dirti che faccio ciò che Tu mi hai detto. Che altro manca per seguire Te?”. E il Maestro buono ha risposto: “Va’, vendi quanto hai e dàllo ai poveri. Allora sarai perfetto e potrai seguire Me”.

Oh! allora Valentino ha superato il giovane di Palestina! Non se ne andò via, incapace di separarsi da tutti i suoi beni. Ma questi beni mi ha portato per i poveri di Cristo e, libero dal giogo delle ricchezze, pesante giogo che impedisce di seguire Gesù, mi ha chiesto il giogo luminoso, alato, paradisiaco del Sacerdozio.

Eccolo. Lo avete visto sotto quel giogo, con le mani legate, prigioniero di Cristo, salire al suo altare. Ora vi frangerà il Pane eterno e vi disseterà col Vino divino. 
Ma lui, come io, per esser perfetti agli occhi del Maestro buono vogliamo ancora una cosa. Farci noi pane e vino: immolarci, frantumarci, spremerci sino all’ultima stilla, ridurci a farina per essere ostie. Vendere l’ultima, l’unica ricchezza che ci resta: la vita. Io la mia cadente vita di vecchio. Egli la fiorente vita di giovane.

Oh! non deluderci, Pontefice eterno. Concedici il beato martirio! Col sangue vogliamo scrivere il tuo Nome: Gesù Salvatore nostro. Un altro battesimo vogliamo, per la nostra stola che l’imperfezione umana sempre corrompe: quello del sangue. Per salire a Te con stole immacolate e seguirti, o Agnello di Dio che levi i peccati del mondo, che li hai levati col tuo Sangue! 

Beato martire Valente, nella cui chiesa siamo, al tuo Pontefice Marcello e per il tuo fratello sacerdote chiedi dal Pontefice eterno la stessa tua palma e corona.»

E non c’è altro.
(Maria Valtorta, da I Vangeli della Fede.)

AVE MARIA!







martedì 22 gennaio 2013

Diomede parla: «Fratelli, comprendo che è giunta l’ora del circo e della vittoria eterna. Per Agapito è già venuta. Per voi sarà domani. Siate forti, fratelli. Il tormento sarà un attimo. La beatitudine non conoscerà sosta. Gesù è con voi. Non vi lascerà neppure quando le Specie saranno consumate in voi. Egli non abbandona i suoi confessori. Ma con essi resta per riceverne senza un indugio l’anima lavata dall’amore e dal sangue. Andate. Pregate nell’ora della morte per i carnefici e per il vostro prete. Il Signore per mia mano vi dà l’ultima assoluzione. Non abbiate timore. Le anime vostre sono più candide di un fiocco di neve che scenda dal cielo.»


Sera dell’11 febbraio, ore 20.

<<Fra i miei spasimi vedo questi altri spasimi.
Una specie di pozzo circolare di una larghezza di pochi metri quadri. Avrà un
diametro di quattro, cinque metri al massimo, alto quasi altrettanto, senza
finestre. Una porta stretta, piccola, di ferro, è incassata nel muraglione di
quasi un metro di spessore. Al centro del soffitto un buco tondo, di un diametro
di un mezzo metro al massimo, serve per l’aerazione di questo pozzo che nel suo
pavimento, di suolo battuto, ha un altro buco dal quale sale fetore e gorgoglìo
d’acque profonde, come se vicino ci fosse un fiume o sotto passasse una cloaca
diretta al fiume.
Il luogo è malsano, umido, fetido. Le muraglie trasudano
acqua, il suolo è impregnato di materie schifose, perché comprendo che il buco
del soffitto fa da scolo ai rifiuti della cella soprastante.

In questo orrido carcere, in cui è una penombra folta che appena permette di
intravvedere l’essenziale, sono due persone. Una è coricata al suolo,
nell’umido, presso la parete, è incatenata per un piede. Ma non fa moto alcuno.
L’altro è seduto lì presso, col capo fra le mani. È vecchio, perché vedo il
sommo della testa calvo affatto.

Al di sopra, nell’altra cella, vi devono essere più persone, perché odo voci e
tramestìo. Voci di uomo e di donna. Voci di bimbi e di vecchi commiste a voci
fresche di giovinette e forti di adulti.
Cantano dentro per dentro (Espressione ricorrente e che signific: ogni tanto, di tanto in tanto) dei mesti inni che pur nella loro mestizia hanno un
che di tanta pace. Le voci risuonano contro le pareti spesse come in una sala
armonica. È molto bello l’inno che dice:

“Conducici alle tue fresche acque.
Portaci negli orti tuoi fioriti.
Dài la tua pace ai martiri
che sperano, che sperano in Te.

Sulla tua promessa santa
abbiam fondato la nostra fede.
Non deluderci, Gesù Salvatore,
perché abbiamo sperato in Te.

Ai martirî noi gioiosi andiamo
per seguirti nel bel Paradiso.
Per quella Patria tutto lasciamo
e non vogliamo, non vogliam che Te”.

Quando quest’ultimo canto si spegne lento, una luce si affaccia al buco e un
braccio si spenzola con una piccola lampadetta. Un volto d’uomo pure si
affaccia. Guarda. Vede che l’uomo coricato non fa moto e l’altro col capo fra le
mani non vede il lume, e chiama: “Diomede! Diomede! È l’ora”.
Il seduto sorge in piedi e trascinando la sua lunga catena viene sotto la
botola. “Pace a te, Alessandro”.
“Pace, Diomede”.
“Hai tutto?”.
“Tutto. Priscilla osò venire, travestita da uomo. Si è rasi i capelli per parere
un fossore. Ci ha portato di che celebrare il Mistero. Agapito che fa?”.
“Non si lamenta più. Non so se dorma o se sia spirato. E vorrei vedere... Per
dire su lui le preci dei martiri”.
“Ti caliamo la lampada. Attendi. Sarà gioia per lui avere il Mistero”.
Con un cordone di cinture annodate calano il fanaletto sino alle mani di Diomede
che, ora lo vedo bene, è un vecchio dal volto affilato e austero. Pallidissimo,
con pochi capelli, ha due occhi ancor splendidi di espressione. Nella sua
miseria di incatenato in quella fetida tana ha dignità di re.
Stacca il fanaletto dal cordone e va verso il compagno. Si china. Lo osserva. Lo
tocca. E apre le braccia, dopo aver posato la lampada al suolo, in un largo
gesto di commiserazione. Poi raccoglie le mani del cadavere, già quasi
irrigidite, e le incrocia sul petto. Povere mani gialle e scheletrite di vecchio
morto di stenti.
Si volge a chi attende presso il foro e dice:
Agapito è morto. Gloria sia al
martire della putrida fossa!”.
“Gloria! Gloria! Gloria al fedele al Cristo” rispondono quelli della cella
superiore.
“Calate per il Mistero. Non manca l’altare. Non più le sue mani, tese a far da
sostegno. Ma l’immoto petto che sino all’ultima ora ebbe palpiti per il Signore
nostro, Gesù”.

Viene calata una borsa di preziosa stoffa a da questa Diomede estrae un piccolo
lino, un pane largo e basso, un’anfora ed un piccolo calice. Prepara tutto sul
petto del morto, celebra e consacra dicendo le orazioni a memoria mentre quelli
di sopra rispondono. Deve essere nei primi tempi della Chiesa, perché la Messa è
su per giù come quella di Paolo nel Tullianum.
Quando la consacrazione è avvenuta, Diomede rimette nell’anfora il vino del
calice che è lievemente a brocca, forse scelto per questa funzione così, ripone
le Specie nella borsa e riporta tutto là dove il cordone attende di riportare di
sopra la borsa. Mentre questa sale, sollevata con precauzione, 
Diomede assolve i compagni. Il canto, quasi tutto di fanciulle, riprende dolcemente mentre i cristiani si comunicano.

Quando cessa, Diomede parla:

«Fratelli, comprendo che è giunta l’ora del circo e della vittoria eterna. Per
Agapito è già venuta. Per voi sarà domani. Siate forti, fratelli. Il tormento
sarà un attimo. La beatitudine non conoscerà sosta. Gesù è con voi. Non vi
lascerà neppure quando le Specie saranno consumate in voi. Egli non abbandona i suoi confessori. Ma con essi resta per riceverne senza un indugio l’anima lavata dall’amore e dal sangue. Andate. Pregate nell’ora della morte per i carnefici e per il vostro prete. Il Signore per mia mano vi dà l’ultima assoluzione. Non abbiate timore. Le anime vostre sono più candide di un fiocco di neve che scenda dal cielo.»

“Addio, Diomede!”, “Assistici, tu, santo, col tuo orare”, “Diremo a Gesù di
venire a prenderti”, “Ti precediamo per prepararti la via”, “Prega per noi”. I
cristiani si affacciano a turno al foro, salutano, sono salutati e scompaiono...
Per ultimo viene fatto risalire il fanaletto, e l’oscurità torna ancor più cupa
nell’antro in cui uno muore lentamente presso il già morto, fra il fetore e il
profondo fruscio delle acque sotterranee. Di sopra riprendono i canti lenti e
soavi.
Di mio non so dove avviene la scena. Direi a Roma, in tempi di persecuzione. Ma
quale sia la carcere non lo so. Come non so chi sia questo prete Diomede, dalla
figura tanto venerabile. Ma la visione per la sua tristezza mi colpisce ancora
di più di quella del Tullianum.>>

Domine Iesu,
Voca me, ut videam Te
Et in æternum fruar Te.
Amen.

martedì 1 gennaio 2013

*** Albulo




20 febbraio.
Albulo, Dacio, Illirico e altri 7.    

Non so come farò a scrivere tanto, perché sento che Gesù si vuole presentare col suo Evangelo vissuto ed io ho sofferto tutta la notte per ricordare la visione seguente, della quale ho scarabocchiato le parole udite, come potevo, per non dimenticarle.

Tempo di persecuzione, una delle più grandi persecuzioni perché i cristiani sono torturati in masse, non presi singolarmente. Il luogo è la cavea di un Circo (si chiamano così?). Insomma è un locale certo sito sotto le gradinate del Circo e adibito a ricovero dei gladiatori, bestiari ecc. ecc., di tutti gli addetti al
Circo, insomma. Premetto che dirò male i nomi perché sono 35 anni che non leggo nulla di storia romana e perciò...

In questo locale ampio, ma scuro - perché ha luce solo da una porta spalancata su un corridoio che certo porta all’interno del Circo, e forse all’esterno del
medesimo, e da una finestrella, direi una feritoia bassa, a livello del suolo del Circo, da cui vengono rumori di folla - sono ammassati molti e molti
cristiani di ogni età. Dai bambini di pochissimi anni, ancora fra le braccia delle madri - e due, per quanto sui due anni, ancora poppano all’esausta mammella materna - ai vecchi cadenti.

E vi sono anche dei gladiatori, già con l’elmo e quella relativa corazza che difende e non difende, perché lascia scoperte ancora parti vitali quale il giugulo e le parti dell’addome all’altezza e posizione del fegato e della milza.
Indossano questa parziale armatura sulla nuda pelle ed hanno in mano la corta elarga daga fatta quasi a foglia di castano. Sono bellissimi uomini, non tanto
per il volto quanto per il corpo robusto e armonico di cui noto ad ogni movimento il guizzare agile dei muscoli. Alcuni hanno cicatrici di vecchie ferite, altri non mostrano nessun segno di ferita. Parlano fra loro e rilevo che devono essere di paesi sottomessi a Roma, prigionieri di guerra certo, perché non usano che un latino molto bastardo e pronunciato con voce dura e gutturale, quando si rivolgono ai cristiani che in attesa della morte cantano i loro dolci e mesti inni.

Un gladiatore, alto quasi due metri - un vero colosso biondo come il miele e dai chiari occhi di un azzurro grigio, miti pur fra tanta ombra di ferro che riflette sul suo volto la visiera dell’elmo - si rivolge ad un vecchio tutto vestito di bianco, dignitoso, austero, più ancora: ascetico, che tutti i cristiani venerano col massimo rispetto.

“Padre bianco, se le bestie ti risparmiano io ti dovrò uccidere. Così è l’ordine. E me ne spiace perché in Pannonia ho lasciato un vecchio padre come te”.
“Non te ne dolere, figlio. Tu mi apri il Cielo. E da nessuno, nella mia lunga vita, avrò mai avuto dono più bello di quello che tu mi dài”.
“Anche nel Cielo, luogo dove certo è il tuo Dio come nel mio vi sono i nostri dèi ed in quello di Roma i loro, ancora è morte e lotta. Vuoi tu ancora soffrire
per odio di dèi come qui soffri?”.
“Il mio Dio non è che solo. Nel suo Cielo Egli regna con amore e giustizia. E chi là perviene non conosce che eterno gaudio”.
“L’ho udito dire da più e più cristiani durante questa persecuzione. E ho detto ad una fanciulla che mi sorrideva mentre calavo su lei la daga... e ho finto
d’ucciderla ma non l’ho uccisa per salvarla, perché era tenera e bionda come un’erica giovanetta dei miei boschi,... ma non m’è servito... Di qui non la potei portare fuori, e il giorno dopo... ai serpenti fu dato quel corpo di latte e rosa...”. L’uomo tace con aspetto mesto.

“Che le hai detto, figlio?” chiede il vecchio.
“Ho detto: ‘Lo vedi? Non sono cattivo. Ma è il mio mestiere. Sono schiavo di guerra. Se è vero che il tuo Dio è giusto digli che si ricordi di Albulo, mi chiamano così a Roma, e si faccia vedere col suo bene’. Mi ha detto: ‘Sì’. Ma è morta da giorni e nessuno è venuto”.
“Finché non sei cristiano, Dio non ti si mostra che nei suoi servi. E quanti di essi ti ha portato! Ogni cristiano è un servo di Dio, ogni martire un amico, tanto amico da vivere fra le braccia di Dio”.

“Oh! molti... e io, non solo io, anche Dacio e Illirico, e anche altri di noi, tristi nella nostra sorte, siamo stati presi dal vostro giubilo... e lo vorremmo. Voi siete in catene... noi no. Ma neppure il soffio ci è libero. Se
Cesare lo vuole, ecco ci incatenano l’alito dandoci morte. Ti fa ribrezzo parlarci di Dio?”.

“È l’unica mia gioia della terra, figlio, ed è ben grande. Ti benedica Gesù, mio Dio e Maestro, per essa. Sono prete, Albulo, ho consumato la vita nel predicarlo
e nel portare a Lui tante creature. E più non speravo di avere questa gioia. Odi...” e il vecchio, a lui e agli altri gladiatori assiepatisi intorno, ripete la vita di Gesù, dalla nascita alla morte di croce, e dice, schematicamente, le necessità essenziali della Fede. 
Parla seduto su un masso che fa da banchina,
pacato, solenne, tutto un candore nei capelli lunghi, nella barba mosaica, nella veste, tutto un ardore nello sguardo e nella parola. Si interrompe solo due volte per benedire due gruppi di cristiani tratti nell’arena per essere gettati, in giuochi nautici, in pasto ai coccodrilli. Poi riprende a parlare fra il cerchio dei robusti gladiatori, quasi tutti biondi e rosei, che l’ascoltano a bocca aperta.

Si chiama Crisostomo quel dottore della Chiesa. Ma che nome dare allora a questo che non si nomina?

Termina dicendo: “Questo l’essenziale da credere per avere il Battesimo e il Cielo”.
Le voci robuste dei gladiatori, una decina, fanno rimbombare la volta bassa:
“Lo crediamo. Dàcci il tuo Dio”.
“Non ho nulla per aspergervi, non una goccia d’acqua o altro liquido, e la mia ora è giunta. Ma troverete il modo... No! Dio me lo dice! Un liquido è pronto
per voi”.
“I cristiani ai leoni!” ordina il sorvegliante. “Tutti”.
Il vecchio prete in testa, dietro gli altri, fra cui le madri sul cui seno si sono addormentati i pargoli, entrano cantando nell’arena.

Che folla! che luce! che rumore! quanti colori! È gremita inverosimilmente di popolo d’ogni ceto. Nella parte che il sole invade vi è popolo più basso e
rumoroso, nella parte all’ombra vi è il patriziato. Toghe e toghe, ventagli di struzzo, gioielli, conversazioni ironiche e a voce più bassa. Al centro della parte all’ombra, il podio imperiale col suo baldacchino purpureo, la sua balaustra infiorata e coperta di drappi e i suoi sedili soffici per il riposo
del Cesare e dei patrizi e cortigiani suoi invitati. Due tripodi in oro fumano ai lati estremi della balconata e spargono essenze rare.

I cristiani vengono spinti verso la parte al sole.

Dimenticavo una cosa. Al centro dell’arena è un... non so come dirlo. È una costruzione in marmo da cui salgono al cielo zampilli sottili, impalpabili di acqua, e sulla piattaforma di questa costruzione, di un ovale allungato, alta un due metri scarsi dal suolo, sono statuette di dèi in oro, e tripodi, in cui ardono incensi, sono davanti ad esse.

I cristiani sono dunque ammassati dalla parte solare. Faccio uno schizzo come so [grafico]. I leoni irrompono dal punto X. II vecchio prete si avanza solo, per
primo, a braccia tese. Parla: 

“Romani, per i miei fratelli e per me pace e
benedizione. Gesù, per la gioia che ci date di confessarlo col sangue, vi dia Luce e Vita eterna. Noi di questo lo preghiamo perché grati vi siamo della porpora eterna di cui ci vestite col...”.
Un leone ha preso il balzo dopo essersi avvicinato strisciando quasi al suolo, e lo atterra e azzanna alla spalla. La veste ed i capelli di neve sono già tutti
rossi.

È il segnale dell’attacco bestiale. La torma delle fiere a balzi si lancia sul gregge dei miti. Una leonessa con un colpo di zampa strappa ad una madre uno dei pargoli dormenti, ed è così feroce la zampata che asporta parte del seno della madre che si rovescia, forse lacerata fino al cuore, sull’arena e muore. La belva, a colpi di coda e di zampa, difende il suo tenero pasto e lo sgranocchia in un baleno. Una piccola macchia rossa resta sulla sabbia, unica traccia del pargolo martire, mentre la belva si alza leccandosi il muso.

Ma i cristiani sono molti e le belve poche in confronto. E forse già sazie. Più che divorare uccidono per uccidere. Atterrano, sgozzano, sventrano, leccano un
poco e poi passano altrove, ad altra preda.

Il popolo si inquieta perché manca la reazione nei cristiani e perché le bestie non sono feroci a sufficienza. Urla: “A morte! A morte! Anche l’intendente a morte! Non sono leoni questi, ma cani ben pasciuti! Morte ai traditori di Roma e di Cesare!”.

L’imperatore dà un ordine e le belve vengono ricacciate nei loro antri. Vengono fatti entrare i gladiatori per il colpo di grazia. La folla urla i nomi dei
preferiti: “Albulo, Illirico, Dacio, Ercole, Polifemo, Tracio” e altri ancora.
Non sono solo i soli gladiatori ai quali ha parlato il vecchio martire, che agonizza nell’arena con un polmone quasi scoperto da un colpo di zampa. Ma anche altri che entrano da altre parti.


Albulo corre al vecchio prete. La gente dice: “Fàllo soffrire! Alzalo, che si veda il colpo! Forza Albulo!”. Ma Albulo si china invece a chiedere al vecchio qualcosa e, avuto un cenno di assenso, chiama i compagni che hanno prima udito parlare il vecchio prete.
Non riesco a capire ciò che fanno, se si fanno benedire o che avviene, perché i loro robusti corpi fanno come un tetto sul vecchio prostrato. Ma lo capisco quando vedo che una mano senile già vacillante si alza sul gruppo di teste strette l’una all’altra e le asperge del sangue di cui si è fatta piena come una coppa. Poi ricade.
I gladiatori, spruzzati di quel sangue, scattano in piedi e alzano la daga che brilla nella luce. Urlano forte: “Ave, Cesare, imperatore. I trionfatori ti salutano” e poi, ratti come un fulmine, corrono a quella costruzione che è in mezzo al circo, balzano su essa, rovesciano idoli e tripodi, li calpestano.

La folla urla come impazzita. Chi vorrebbe difendere il gladiatore preferito, chi invoca morte atroce ai novelli cristiani. Che, per loro conto, tornati sull’arena, stanno allineati, sereni, magnifici come statue di giganti, con un sorriso nuovo sul volto fiero.

Cesare, un brutto, obeso, cinico uomo incoronato di fiori e vestito di porpora, si alza fra la corona dei suoi patrizi tutti in vesti bianche. Solo alcuni hanno
una balza rossa. La folla fa silenzio in attesa della sua parola. Cesare - chi sia non so questo viso rincagnato e vizioso - tiene tutti in sospeso per qualche minuto, poi rovescia il pollice in basso e dice: “Vadano a morte per i compagni”.

I gladiatori non convertiti, che intanto hanno sgozzato i malvivi cristiani con la metodicità con cui un beccaio sgozza gli agnelli, si rivoltano, e con la stessa automatica freddezza e precisione aprono ai compagni la gola, al giugolo.

Come manipolo di spighe che la roncola taglia stelo a stelo, i dieci neocristiani, aspersi del sangue del prete martire, si fanno veste di porpora eterna col loro sangue e cadono con un sorriso, riversi, guardando il cielo in cui si inalba il loro giorno beato.

Non so che Circo sia. Non so che età del cristianesimo. Non ho dati. Vedo e dico ciò che vedo. Io non ho mai messo piede in nessuna Arena o Circo o Colosseo; perciò non posso dare il menomo indizio. Per la folla e la presenza del Cesare direi essere a Roma. Ma non so. 

Mi rimane nel cuore la visione del vecchio prete martire e dei suoi ultimi battezzati, e basta.


REGINA MARTYRUM ORA PRO NOBIS!