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lunedì 6 maggio 2019

Un episodietto.

MV a 3 anni
MV a 3 anni


AUTOBIOGRAFIA CAPITOLO 4

La mia Pentecoste.

   Le Marcelline avevano allora una piccola succursale del grande Istituto di via Quadronno, se non erro, in via XX settembre. Una graziosa villetta allegra, circondata da un giardino pieno di sole e di fiori e con una chiesina gaia come un'alba di maggio. Tutto all'opposto dell'Istituto delle Orsoline.

   Anche le Suore erano diverse. Più festose, parevano grandi bimbe vogliose di giuoco. Una santa ilarità informava la regola del piccolo Istituto. C'era solo la Superiora che… era il babau. Malatissima di nervi — morì poi pazza — aveva cambiamenti di umore strani. Un giorno ci perdonava tutto, un altro era di una intransigenza spaventosa. Alta, magrissima, bruna, con due occhioni neri, piuttosto spiritati, ci metteva una gran paura. Meno male che spesso era a letto. In quei giorni le allieve, e credo non le sole allieve, erano felici: come liberate da un incubo.

   Io facevo la prima ed ero la prima della classe per l'intelligenza, dono di Dio, e perché a casa mamma coi suoi metodi magistrali e papà col suo amore mi istruivano sempre e perciò ero più erudita che l'età non comportasse.

   Tutti i sabati portavo a casa il mio biglietto di lode. Biglietto che mi attirava i baci e i premi di papà, gli elogi degli amici di casa e l'ammirazione della domestica e del soldato. E siccome, come tutti i figli di Adamo, avevo anche io la mia parte di orgoglio, non restavo indifferente agli elogi e alle ammirazioni come non restavo indifferente ai baci e ai premi. Solo avrei voluto anche quelli di mamma, ma lei mi diceva che «così facendo non facevo che il mio dovere e perciò…». Metodo suo, e col suo metodo è inutile discutere. Credo facesse forza a sé stessa per non dirmi «brava», ma fedele al suo metodo non lasciava la sua condotta severa. Amen!

   Se devo dire il vero, fui e non fui contenta del cambio di Istituto. Prima di tutto mi fu dolore staccarmi dalle Suore che ormai amavo. In secondo luogo non passavo più davanti a quei due mirabili negozi di frutta rare l'uno, di dolciere l'altro, che avevano per me tanta seduzione.

   Ero golosetta, sa? Oh! si accorgerà, leggendo questa mia vita, che tutti i vizi capitali erano in me. Ossia tutti no. Non ho mai conosciuto l'avarizia, la quale può essere di denaro ma può anche essere di tante altre cose più spirituali del denaro. Non fui mai avara di affetti perché molto ho amato Dio e prossimo mio, sebbene da quest'ultimo abbia ricevuto più morsi che baci. Non fui mai avara della mia intelligenza ed ero ben lieta di aiutare le compagne più ottuse, anche a costo di rimanere poi io a corto di argomenti per i miei temi d'italiano o di essere sorpresa dalle insegnanti a fare il lavoro altrui e punita. Anche qui ebbi ingratitudine e non riconoscenza. Ingratitudine che giunse persino ad accusarmi di essere io che «rubavo i componimenti delle altre». Era invece tutto il contrario perché, se ero una vera bestia nelle matematiche e il mio voto massimo in dette materie, dalle elementari alle scuole superiori, non superò mai il 6-, e dato per pietà, fra lunghe tappe di 2, 3, 4 e anche qualche tondo zero, in italiano avevo una vena inesauribile di immaginativa e stile naturalmente buono, per cui fare anche otto volte lo stesso tema in otto svolgimenti diversi era per me un giuoco. Anche nelle altre materie ero veramente brava, e non poteva essere altrimenti se si pensa che po' po' di istitutrice avevo addosso, a casa, nell'ora delle lezioni. Se non sapevo alla perfezione le lezioni, se non facevo i miei compiti ultrabene, erano castighi e molto severi.

   Ma poi l'avrei fatto il mio dovere anche senza quelli, per una ragione… di superbia. Vede? Un altro vizio capitale che spunta. Io non volevo chiedere scusa. Mi pareva di ledere a morte la mia… dignità di scolara o di figlia. Più tardi, fatta donna, chiesi scusa anche di colpe non commesse… Ma allora era un'altra cosa. Lo facevo perché mi pareva che Gesù mi chiedesse l'obolo di quella mia umiliazione e glielo davo, anche sentendomi stritolare sotto la persuasione della altrui ingiustizia, riconoscendo che, dal punto di vista umano, ero una scema, ma che dal punto di vista soprannaturale quell'umiliarmi mi faceva salire di un gradino la scala che porta presso Dio.

   Dunque facevo il mio dovere per non avere da chiedere scusa e poi per dare gioia a papà mio, a mia nonna. Dunque anche l'amo­re era una delle due redini che mi guidavano. E se la superbia era riprovevole, l'amore era commendevole, di modo che penso che il buon Gesù «perché molto amavo» mi avrà scusata anche della superbia e avrà sceverato Lui, dalla mia matassa, i fili della superbia che arruffavano tutto e li avrà distrutti mettendo solo in serbo, per tessermi la veste di pace eterna, i dolci fili dell'amore. Non crede?

   Non ero neppure avara di balocchi e di dolci a quelli che erano più poveri di me. Perché dolci e balocchi ne avevo molti. Mia mamma, l'ho detto, era severa per sbagliato concetto di autorità. Ha fatto tanto male a quelli che più ha amato per questo errato concetto! Ma ripeto: Amen. Mentirei se dicessi che mi fece soffrire fame, freddo, se dicessi che malata non mi curava, se dicessi che mi negava quello che tanto piace ai bimbi: dolci e balocchi. Solo io non dovevo assolutamente chiedere mai nulla. Se chiedevo non avevo più niente, anche se un minuto avanti mamma pensava di darmi proprio quella cosa.

   Voglio narrarle un episodietto.

   Nella piazza di S. Ambrogio, a Milano, nei giorni che vanno dal 1° al 15 dicembre vi è una fiera di giocattoli, dolci e oggetti antichi. Ai banchi di questi ultimi vanno, naturalmente, gli adulti, gli amatori di antichità: lampade, forzieri, quadri, ferri battuti e simili cose. Ma i banchi dei giocattoli e dei dolci sono la calamita dei bimbi che affluiscono da tutta Milano coi papà, le mamme, i nonni, gli zii alla Fiera degli O bei, o bei (legga: che belli, che belli, sottintesi i dolci e i balocchi). Quanti sogni per tutto l'anno e quanti desideri davanti a quei banchi che anticipano di una ventina di giorni la festa «del Bambino», ossia il Natale, giorno in cui i bimbi di Milano ricevono i regali. Io veramente li avevo per S. Lucia, perché nel Veneto e in molta parte della Lombardia è la Santa martire la dispensatrice di doni.

   Ma torniamo alla Fiera. Che sogni, che desideri, che preghiere perché il «Bambino» capisse che è quel giocattolo che si vorrebbe, perché il «Bambino» perdonasse tutti i capriccetti, tutte le marachelle commesse durante l'annata e delle quali ci si pente proprio e si promette proprio di non farli più… Non le pare che per tutta la vita siamo degli eterni bambini che si promette e ci si pente in ore speciali, salvo poi ricominciare come prima?

   I papà, le mamme, i nonni, gli zii scrutano, ascoltano, studiano i sospiri, le esclamazioni, le subite fermate davanti a quel dato balocco che ipnotizza il piccolo desideroso, e se ne servono, di questo studio, per far poi trovare ai piedi del «Bambino» o appeso all'albero di Natale il sognato tesoro. Lì per lì comprano qualche altra cosa salvo poi, due ore dopo, quando scende la sera, tornare a passi di lupo a comperare l'oggetto desiderato e portarlo a casa, e nasconderlo al riparo da quel sesto senso dei bimbi e che dà loro un fiuto, una vista, un udito… pericolosi pei grandi…

   Io ero andata dunque alla Fiera degli O bei, o bei! con mamma, nonna e cameriera. Era il dicembre 1902. Avevo dunque cinque anni e nove mesi. Girammo fra le decine e decine di banchi e io notai su uno delle culline di ottone per le bambole. Vere culline col loro piedestallo che sosteneva la zana in bilico, ondulante, per conciliare il sonno alla pupa, col loro sostegno per il velo messo perché la luce non svegliasse la pupa, col materassino, il capezzale, le lenzuoline… un amore di cuna che mi pareva d'oro perché era gialla e lucente. Misi le radiche davanti a quel banco. Era tanto che desideravo una cuna per la bambola prediletta, che a furia di… lavaggi avevo ridotta bianca come un giglio e la chiamavo «Rosina» col nome della cara creatura che era stata nostra cameriera a Faenza ed era morta tisica, angelo buono che la terra non meritava di avere.

   Io sento che se io fossi stata mia mamma e mia mamma fosse stata me, avrei capito subito cosa desiderava, perché sul banco non c'erano che cune e bambole, e di bambole io ne avevo così tante che non ne potevo desiderare altre, mentre di cune non ne avevo punte. Ma mia mamma non ha assolutamente spirito d'osservazione. Anzi ha un difetto in questo spirito per cui le sfugge sempre il fatto saliente o capisce tutto all'incontrario.

   Io non dovevo chiedere mai nulla perché i bimbi non devono chiedere mai e tanto meno quando sono cose di valore. Ora quella cuna per me era d'oro. Dunque non chiedevo e pregavo il mio angelo che lo dicesse lui a mamma che volevo quella cuna. Ma quel giorno il mio angelo doveva esser volato nell'Empireo a cantare il «Sanctus» all'Agnello. Una nostalgia di cielo; né lo so rimproverare di ciò. L'avrei fatto io pure infinite volte nella vita un volo in cielo per dimenticare la terra!!!

  Mamma stette ferma qualche minuto e poi mi prese per mano e mi tirò via. Girammo, girammo, girammo… e lei non capiva che tutte le volte che tornavamo davanti a quel banco io rimanevo impaniata fra il vischio del desiderio. Mi offerse altri giocattoli ma io, col cuore sempre più grosso e le lacrime nella strozza, risposi sempre: «No, grazie». Avrei potuto dirlo a nonna, alla domestica… Ma sapevo per esperienza che anche se mamma avesse aderito alla loro preghiera in mio favore le avrebbe poi rimproverate perché «mi viziavano», ed io avevo tutti i vizi capitali in me, ma non avevo durezza d'animo e preferivo soffrire che veder soffrire. Perciò non parlai.

   Mamma alla fine decise di tornare a casa… Davanti al mio desiderio che si spezzava come palla di vetro caduta al suolo o dileguava come bolla di sapone nell'aria decembrina, mi posi a piangere. Mamma, già tutta rabbuiata davanti a quello che lei chiamava «capriccio», mi disse, e me lo disse in un modo tale da mozzare la parola in bocca anche a un eroe, figurarsi a me, povero coniglietto: «Decìditi, di' cosa vuoi. Se sarà cosa possibile bene, se no starai senza». Come, come dire che volevo la cuna d'oro, io che ero rintronata da mattina a sera di prediche materne sul bisogno dell'economia e sul dovere di non avere desideri illeciti? Piansi più forte e finii trascinata dentro un portone, presso a quella che ora è l'Università Cattolica e che allora era l'Ospedale Militare, e là dentro ebbi una buona dose di schiaffi. La cuna la aspetto ancora ora…

   Nella mia vita umana fu sempre così. Solo Dio ha risposto al mio desiderare. Gli altri, o perché non potevano o perché non volevano, infransero sempre il mio sogno e mi colpirono poi perché sulle rovine di questo piangevo.

   Ho fatto una lunga digressione. Ma non me ne pento perché in un quadro, oltre al soggetto, occorre lo sfondo, e queste digressioni sono lo sfondo e il contorno del quadro su cui campeggia la mia vita. Ora torno alla narrazione.

   Dicevo dunque che materialmente non mi mancava nulla del necessario e avevo anche del superfluo. Ma le confesso che avrei preferito molto meno ma dato con più amore palese.

   Esser madre non consiste solo nell'imporre la propria volontà ai figli e nel rappresentare il potere. Vuole soprattutto dire essere la prima confidente, la prima amica dei figli, colei che con rettezza, ma anche con pietà, studia le tenere creature, le guida, le consola e fa loro sentire il suo amore in modo che i cuori dei figli si aprono, al bacio di quell'amore, come fiori sotto il bacio del sole.

   Il mio cuore invece si è chiuso sotto il rigore materno come corolla che la brina intirizzisce, e tutte le volte, anche ora, che ho tentato e tento di volgermi al suo amore e di aprire questo mio povero cuore che ha tanto sofferto e che ha tanto amato, cozzo contro la parete intaccabile e gelida del suo rigore, della sua autoritarietà. Amen. Ne ho sofferto disperatamente…Ora ne soffro intensamente, ma so,perché Gesù me lo dice, che ciò non è senza scopo…

   Non ero avara, dicevo, e non lo sono come non fui e non sono mai stata accidiosa. L'ozio ed io siamo sempre stati nemici. L'ozio e la mollezza. Educata un poco alla garibaldina, alla militare, non mi pesò mai l'alzarmi presto, il mangiare quando si poteva, il bere se si poteva. La necessità di lunghi viaggi, e in tempi in cui il viaggiare non era un esemplare di comodità, mi aveva abituata a sopportare senza piagnucolare il freddo, le alzatacce, i letti scomodi degli alberghi, il vitto diverso, il non trovare cibo o bevanda adatti alla mia costituzione e perciò a restare senza bere e senza nutrirmi, così come ero stata abituata a sopportare, senza fare smanie, il sassolino nella scarpetta, il cappellino che pesava sulla testa e altre noie piccole ma esasperanti come una ragnatela sul viso.

   Nelle vacanze papà mi suonava la sveglia all'alba per portarmi lungo le rive del mare o sulle pendici appenniniche per farmi ammirare il bello del creato, il miracolo della luce che torna ogni aurora a parlarci di Dio che la fece, per farmi pregare insieme all'onde che fremono d'ubbidienza sui liti terrestri nei limiti in cui l'Eterno le pose. Ma la gioia dell'uscire con papà e la gioia del bello che aspiravo con tutti i miei sensi umani e sovrumani erano così grandi da farmi guardare come una festa quelle sveglie mattutine, da farmele amare come un premio, da rendermele così familiari da non pesarmi più.

   Ho dormito sempre poche ore, di notte. Ma quei sonni erano pieni, riposanti, vera sosta del corpo. Solo l'anima in essi era vigile. Ma di questo dirò poi. Ora torniamo al primo argomento.
   Mi spiaceva dunque cambiare istituto per un motivo tutto animale: la gola; per uno affettivo: l'abbandono delle Suore alle quali volevo bene. Ma poi mi era gran dolore non vedere più quel Gesù morto. Mi pareva di perderlo e di dargli dolore. Infatti un poco lo persi di vista. Dalle Marcelline c'era molta… come dire? Non trovo il termine esatto. Fatto sta che mi dissipai. Ma mi accorgo di aver omesso di parlare di nonna.
  

   Nel dicembre 1903 morì mia nonna. Nel luglio del 1902, a Montecatini, mentre insieme a me era presso uno zio — mi piaceva tanto quel posto pieno di chioccolìo d'acque e di sospiri di canne, in quell'ora piena del meriggio dove solo le cicale mettono il loro frinire instancabile — venne ferita da un cattivo ragazzaccio. Un colpo di forcina le mise a nudo il malleolo. Io, che m'ero voltata al tonfo del primo sasso, vidi il monello scoccare il secondo, vidi nonna impallidire, poi scalzarsi e mettere il piede nell'acqua fresca che si arrossava del suo sangue, e sul mio piangere scesero i suoi baci. Povera nonna! Non stette più bene.

   Nel novembre volle tornare a Mantova, andare sulla tomba del marito e della sorella, morti a sette giorni di distanza nel 1899. Tornò più malata di prima. Mia mamma la rimproverò per la inutile imprudenza, diceva lei. No, non inutile. Un presagio le diceva che la sua vita era al termine ed aveva voluto vedere per l'ultima volta la tomba del consorte di cui fu sempre compagna perfetta.

   Il 10 dicembre — doveva essere di giovedì perché io non ero a scuola — venne colpita da apoplessia. Avevamo mangiato da poco e mamma, che non si fida di nessuno, era scesa in cantina per sorvegliare il soldato e la donna intenti a travasare del vino. Papà leggeva il giornale in attesa di tornare in caserma. Nonna, sempre buona, era andata in cucina per fare qualche cosa perché la donna, risalendo verso sera, non trovasse ancora tutto il disordine del pasto. Io ero andata con nonna e ciaramellavo intorno a lei. La vidi curvarsi per raccogliere un ciocco e metterlo nella cassa della legna da bruciare nel caminetto del salotto. La vidi illividire, travolgere i tratti, la udii farfugliare parole confuse. Mi impaurii e gridai. Babbo accorse. In tempo per impedire che piombasse al suolo. Non ho mai più potuto guardare uno dormire, o svegliare un dormiente, senza tremare, perché il volto nel sonno prende sovente tratti alterati come quelli di nonna mia e perché mi fa sempre l'effetto che uno debba esser morto nel sonno…

   Agonizzò due giorni e mezzo e spirò all'alba del 13 dicembre, esattamente sei anni dopo il figlio suo. Era il giorno di S. Lucia e fra i doni per me vi era un orologino d'oro appeso ad una spilla d'oro a forma di nodo… Povera nonna! L'ultimo ricordo! E me lo aveva preso, sfidando le prediche di mamma, per lasciarmi un ricordo duraturo.

   Non ho molto attaccamento alle cose, specie ai preziosi, e quando necessità di malattia hanno consigliato a mamma di realizzare del denaro dall'oro che avevamo non ho detto nulla. Ma vedere vendere i bottoni da polso e la catena di papà e l'orologio della nonna mi fu strazio. Avrei preferito fossero venduti altri oggetti. Pazienza!

   Ricordo esattamente tutto di quei tristi giorni e non lo descrivo perché ne soffrirei troppo, cosa che non posso fare se devo conservare lena per scrivere. Soffocai il mio dolore perché papà me lo raccomandava per non turbare di più mia mamma. Il cuore mi si spezzava per il pianto che vi piombava dentro invece di colare dagli occhi… Fu la prima volta che macerai me stessa nel pianto interno, il più amaro e il più incompreso. E infatti non fu compreso. Mamma disse che non avevo sofferto e decretò che ero una superficiale… Dio la perdoni! Ho cominciato a morire in quel freddo pomeriggio del 10 dicembre 1903.

   Papà accompagnò la salma a Mantova. Otto giorni di assenza sua e di desolazione mia. Senza nonna, senza papà, sola con mamma che non ammetteva che il suo dolore… Quanto, quanto dolore!!! Poi mamma ammalata gravemente per mesi e mesi e più che mai intrattabile e nervosa. Che triste primavera!

   Il 18 marzo 1904 feci la prima confessione, nella cappella dove il mio Gesù dormiva il suo sonno di morte. Ho ancora l'immagine ricordo datami da Suor Bianca, la Superiora.

   San Giuseppe, alla vigilia della sua festa — ed era una ben triste festa quell'anno perché nonna Giuseppina non c'era più — mi fece tuffare per la prima volta l'anima nel Sangue di Cristo, in quel Sangue preziosissimo che amo tanto e che vorrei aspirare da tutte le sue piaghe con tutta la mia forza, in quel Sangue al quale 27 anni dopo offersi me stessa, chiedendo di fondere me a Lui in un unico sacrificio onde il mio, tutto il mio sangue, fosse sparso insieme al suo per i fini che Egli sa.
  

   E ora che ho riparato alla mia omissione torniamo all'Istituto delle Marcelline.
   Nella primavera del 1905 io e alcune mie compagne fummo istruite per ricevere la S. Cresima. Stavamo all'Istituto non più dalle 9 alle 16 ma fino alle 18 per l'istruzione catechistica.

   Ma di questo periodo ricordo ben poco. Ero troppo triste e malazzata per morbillo, scarlattina e varicella, fatte l'una dopo l'altra senza quasi intervallo. Ricordo solo, con nessun piacere, l'ora della minestra. È sempre stata una brutta ora per me, anche in famiglia. Figurarsi poi quando dovevo anche solo sentire l'odore del famigerato riso e cavolo che mi ha perseguitata per tredici anni consecutivi!!! Io non mangiavo quel riso stracotto, ma solo l'odore me ne ripugnava. Se ci penso lo sento ancora. È stato il mio fioretto più grosso per ricevere lo Spirito Santo. Avrei preferito rimanere senza mangiare anziché scendere nel refettorio e sentire quell'odore… Ma era ordine così e lo dovetti subire per due mesi.

   Come Lei vede, ero in un periodo di intontimento spirituale assoluto. Facevo tutto con svogliatezza, con opacità. Intendo dire tutto quanto aveva riferimento con lo spirito. Per il resto ero sempre la stessa figlia e scolara di prima. Ossia no. Fui bugiarda, io che non ho mai saputo farmi strada in questa terra di menzogna per la mia fin troppo rude sincerità.

   Ho detto che ero stata molto ammalata. Avevo notato che quando ero malata mamma mi baciava, mi stava vicino, tutta diversa nei modi di come era quando ero sana. Era la Mamma allora, così come io la penso e come la vorrebbe il mio cuore. Allora pensai di… ammalarmi. Approfittando di una fortunata caduta che mi aveva contuso ed escoriato fortemente il gomito destro, tanto da dovere richiedere medicazioni e fasciature, anche dopo che era guarito, io, di notte e di giorno, grattavo, grattavo, irritando la ferita perché non guarisse mai e così mi durasse la gioia d'esser carezzata, vestita da mamma. Ma il giuoco un bel giorno fu scoperto da Suor Erminia, la Superiora semi-pazza. Mamma fu avvisata e io punita.

   Me lo meritavo perché avevo mentito, è vero. Ma due educatrici come la Superiora e specie mia madre, dopo la mia confessione ampia e dolente, non avrebbero dovuto capire il perché buono, pur dietro la quinta malvagia della bugia, della mia menzogna? Io non mi scuso. Riconosco di avere allora mancato. Ma perché neppure allora si volle credermi, allora che dicevo aver sbagliato per sete di baci materni?

   Non fui creduta. Non fui compatita. La porta del mio cuore si abbassò un po' di più ancora fra me e il mondo. Quando sarà stata del tutto ribadita, ossia ora che sono al termine della mia vita, allora capirò che era la bontà di Dio a permettere questo per staccarmi da tutto e unirmi a Lui solo.

   Ma ho molto sofferto e — ecco Teresa la nutrice pazza che rispunta — e odiai profondamente la Superiora che mi aveva denunciata senza prima scrutare le cause della mia messa in scena. E l'odio rimase tenace per i primi tempi, tanto che nell'anno scolastico susseguente, quando seppi che una nuova Superiora aveva preso il posto di Suor Erminia, ricoverata in una Casa di cura per malattie nervosi e mentali, ne fui lieta. Vede che po' po' di arnese ero io?

   Il 30 maggio 1905 ricevetti la S. Cresima dalle mani di S. E. il Cardinale Arcivescovo Andrea Ferrari. Dicono che sia un santo1.

   Io lo credo, perché il tocco delle sue mani mi infuse veramente lo Spirito d'amore, strinse il legame d'amore fra me e il Paraclito, di cui sento costante la presenza e l'assistenza e soavissimi i conforti.
   Quella mattina, alle sette, andammo nel grande Istituto delle Marcelline in Via Quadronno. Mentre già tutte vestite di bianco e velate ci avviavamo processionalmente alla Cappella, una irrequieta e disubbidiente mia compagna cambiò mano al cero acceso ponendolo, anziché all'esterno, nell'interno della fila. I veli leggeri, i nastri dei capelli presero fuoco. Uno spavento e un disastro. Io sola, pure essendo proprio al centro del cerchio di fiamme, non ebbi neppure un riverbero di vampa. Quel velo è ancora, illeso, in casa mia.

   Il fuoco m'ha sempre rispettata. Per tre volte fui fra le fiamme. La prima avevo sei anni. Prese fuoco un secchiello pieno di ragia messo imprudentemente presso il fuoco. La domestica restò ustionata. Io che ero presso a lei non risentii nulla. La seconda il dì della cresima. La terza, quando avevo diciotto anni, per l'esplosione di una stufa a spirito. Le fiamme andarono al soffitto. Io ero in mezzo, colle mani sul volto, ferma. Sentii diminuire piano l'ardore della vampa e quando tutto fu spento si notò che non un capello, non un filo era bruciato del mio capo e della mia veste. Si vede che il fuoco mi vuole bene. Amore non corrisposto perché io del fuoco ho molta paura e non posso pensare al Purgatorio senza tremare. Di fuoco mi piace solo quello dell'amore. Oh! questo sì, e che mi arda e liquefaccia tutta nei suoi ardori!!!

   Ricevetti dunque lo Spirito Santo. Egli scese in me e vi lasciò il suo seme di certo. Ma per allora non sentii. Fu anzi una giornata molto noiosa, iniziata male, trascinata peggio, finita malissimo in un teatro dove… vi era una gara di lotta greco-romana. Mi chiedo ancora perché la zia e madrina mi condusse là… Delle volte gli adulti hanno delle incongruenze più solenni dei piccini e non riflettono che certi ricordi restano per tutta la vita con sapore di cenere e con luce caliginosa. Mah!
   Insomma così avvenne la mia Confermazione in Cristo.



   1 un santo: Andrea Carlo Ferrari (1850-1921), cardinale, arcivescovo di Milano dal 1894 fino alla morte, proclamato beato dal papa Giovanni Paolo II nel 1987.

AMDG et DVM