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mercoledì 1 agosto 2012

CAPITOLO XVI: Caritas omnia sperat. Chi ama Gesù Cristo spera tutto da Gesù Cristo.



CAPITOLO XVI
Caritas omnia sperat.
Chi ama Gesù Cristo
spera tutto da Gesù Cristo.


1. La speranza fa crescere la carità, e la carità fa crescere la speranza. Certamente la speranza nella divina bontà fa crescere l'amore verso Gesù Cristo. Scrive S. Tommaso che nello stesso tempo che noi speriamo qualche bene da alcuno, cominciamo ancora ad amarlo: Ex hoc enim quod per aliquem speravimus nobis posse provenire bona, movemur in ipsum sicut bonum nostrum et sic incipimus ipsum amare (S. Thom. 2. 2. q. 40. a. 7). Perciò il Signore non vuole che mettiamo confidenza nelle creature: Nolite confidere in principibus (Ps. CXLV, 2); e maledice chi confida nell'uomo: Maledictus homo qui confidit in homine (Ier. XVII, 5). Non vuole Dio che confidiamo nelle creature, perchè non vuole che noi mettiamo in esse il nostro amore. Quindi S. Vincenzo de' Paoli dicea: «Avvertiamo di non molto fondarci sulla protezione degli uomini, perchè il Signore quando ci vede appoggiati ad essi si ritira da noi. All'incontro quanto più noi confidiamo in Dio, tanto più ci avanziamo in amarlo». Viam mandatorum tuorum cucurri cum dilatasti cor meum (Ps. CXVIII, 32).
Oh come corre nella via della perfezione colui che ha il cuor dilatato dalla confidenza in Dio! Non solo corre, ma vola, perchè, avendo riposta tutta la sua speranza nel Signore, lascierà di esser debole qual era e diventerà forte colla fortezza di Dio che vien comunicata a tutti coloro che in Dio confidano. Qui confidunt in Domino mutabunt fortitudinem, assument pennas ut aquilae, current et non laborabunt, ambulabunt et non deficient (Is. XL, 31). L'aquila volando in alto più si avvicina al sole; e così l'anima, confortata dalla confidenza, si stacca dalla terra e più si unisce a Dio coll'amore.

2. Or siccome la speranza giova ad aumentar l'amore verso Dio, così l'amore aumenta la speranza; poichè la carità ci rende figli di Dio adottivi. Nell'ordine naturale noi siamo fatture delle sue mani, ma nell'ordine sovrannaturale, per li meriti di Gesù Cristo, noi siam fatti figliuoli di Dio e partecipi della natura divina, come scrive S. Pietro: Ut... efficiamini divinae consortes naturae (II Pet. I, 4). E se la carità ci rende figliuoli di Dio, per conseguenza ci rende ancora eredi del paradiso, come parla S. Paolo: Si autem filii, et heredes (Rom. VIII, 17). Or a' figliuoli tocca l'abitare in casa del padre, agli eredi tocca l'eredità, e perciò la carità fa crescere la speranza del paradiso; onde l'anime amanti non lasciano di continuamente esclamare a Dio: Adveniat, adveniat regnum tuum.


3. In oltre Dio ama chi l'ama: Ego diligentes me diligo (Prov. VIII, 17); e colma di grazie chi con amore lo cerca: Bonus est Dominus... animae quaerenti illum (Theren. III, 25). Onde per conseguenza chi più ama Dio, più spera nella sua bontà. E da tal confidenza nasce ne' santi quella inalterabile tranquillità che gli fa stare sempre lieti ed in pace anche in mezzo alle avversità; perchè, amando essi Gesù Cristo e sapendo quanto egli è liberale de' suoi doni con chi l'ama, in lui solo confidano e trovano riposo. Questa è la ragione per cui la sagra sposa abbondava di delizie, perchè, non amando ella altri che il suo diletto, solo a lui si appoggiava; e sapendo quanto egli è grato con chi l'ama, stava tutta contenta: onde di lei fu scritto: Quae est ista quae ascendit de deserto deliciis affluens, innixa super dilectum suum? (Cant. VIII, 5). Troppo è vero quel che diceva il Savio: Venerunt autem mihi omnia bona pariter cum illa (Sap. VII, 11): insieme colla carità viene all'anima ogni bene.


4. L'oggetto primario della speranza cristiana è Dio che dall'anime si gode nel regno beato. Ma non crediamo che la speranza di godere Dio nel paradiso sia di ostacolo alla carità; poichè la speranza del paradiso è inseparabilmente annessa alla carità, la quale nel paradiso si perfeziona e trova il suo pieno compimento. La carità è quel tesoro infinito, come dice il Savio, che ci rende amici di Dio: Infinitus enim thesaurus est hominibus quo qui usi sunt participes facti sunt amicitiae Dei (Sap. VII, 14). — Scrive S. Tommaso l'Angelico (2. 2. q. 65, a. 5) che l'amicizia ha per fondamento la comunicazione de' beni, perchè non essendo altro l'amicizia che un amor reciproco tra gli amici, è necessario ch'essi reciprocamente si faccian del bene quanto a ciascuno conviene. Onde dice il santo: Si nulla esset communicatio, nulla esset amicitia. Che perciò disse Gesù Cristo a' suoi discepoli: Vos autem dixi amicos, quia omnia quaecumque audivi a Patre meo nota feci vobis (Io. XV, 15). Perchè gli avea fatti suoi amici, avea lor comunicati tutti i suoi segreti.


5. Dice S. Francesco di Sales: «Che se per impossibile vi fosse una bontà infinita, cioè un Dio, a cui non appartenessimo in alcun modo e con cui non potessimo avere alcuna unione e comunicazione, noi certamente la stimeremmo più di noi stessi; onde potremmo aver desideri di poterla amare, ma non l'ameremmo, perchè l'amore riguarda l'unione; mentre la carità è un'amicizia, e l'amicizia ha per fondamento la comunicazione e per fine l'unione». Per tanto insegna S. Tommaso che la carità non esclude il desiderio della mercede che Iddio ci prepara nel cielo, ma anzi ce la fa riguardare come principale oggetto del nostro amore, quale è Dio che da' beati si fa godere; poichè l'amicizia importa che l'amico goda scambievolmente dell'altro: Amicorum est, quod quaerant invicem perfrui; sed nihil aliud est merces nostra quam perfrui Deo videndo ipsum: ergo caritas non solum non excludit, sed etiam facit habere oculum ad mercedem (S. Thom. in III Sen. Dist. 29. q. 1. a. 4).


6. E questa è quella scambievol comunicazione di doni della quale parlava la sposa de' Cantici: Dilectus meus mihi et ego illi (Cant. II, 16). L'anima in cielo si dà tutta a Dio, e Dio si dà tutto all'anima per quanto ella n'è capace, secondo la misura dei suoi meriti. Ma conoscendo l'anima il suo niente a rispetto dell'infinita amabilità di Dio, e per conseguenza vedendo che Iddio ha un merito infinitamente maggiore di essere amato che non è il merito suo di essere amata da Dio, desidera ella più il gusto di Dio che il suo godimento; e perciò più gioisce in darsi ella tutta a Dio per compiacerlo, che in darsi Dio tutto a lei; ed in tanto si compiace che Dio tutto a lei si dona, in quanto ciò l'infiamma a darsi tutta a Dio con amore più intenso. Gode già della gloria che Dio le comunica, ma ne gode per riferirla allo stesso Dio e così accrescergli gloria per quanto ella può. In cielo l'anima, in veder Dio, non può non amarlo con tutte le forze: all'incontro Iddio non può odiare chi l'ama; ma se per impossibile potesse Dio odiare un'anima che l'ama, e l'anima beata potesse vivere senza amare Dio, più presto ella si contenterebbe di patire tutte le pene dell'inferno, purchè le fosse concesso di amare Dio quantunque Dio l'odiasse, che vivere senza amare Dio, ancorchè potesse godere tutte le altre delizie del paradiso. Sì, perchè l'anima, conoscendo che Dio merita d'essere amato infinitamente più di lei, desidera molto più di amare Dio che di essere amata da Dio.


7. Caritas omnia sperat. La speranza cristiana, come insegna S. Tommaso col Maestro delle sentenze, si definisce un'aspettazione certa della felicità eterna: Spes est expectatio certa beatitudinis. E la certezza nasce dall'infallibil promessa di Dio di dar la vita eterna a' servi fedeli. Or la carità, siccome toglie il peccato, così toglie insieme l'impedimento a conseguir la beatitudine; e perciò la carità quanto è più grande, ella rende più grande e ferma la nostra speranza; la quale all'incontro certamente non può esser di ostacolo alla purità dell'amore, perchè l'amore, come dice S. Dionigi l'Areopagita, naturalmente tende all'unione dell'oggetto amato. Anzi, come dice S. Agostino, lo stesso amore è come un laccio d'oro che unisce insieme i cuori dell'amante e dell'amato: Amor est quasi iunctura quaedam duo copulans. E perchè quest'unione non può farsi da lontano, perciò chi ama desidera sempre la presenza dell'amato. La sagra sposa stando lontana dal suo diletto languiva, e pregava le sue compagne che gli facessero intendere la sua pena, acciocch'egli venisse a consolarla colla sua presenza: Adiuro vos, filiae Ierusalem, si inveneritis dilectum meum, ut nuncietis ei quia amore langueo (Cant. V, 8). Un'anima che ama assai Gesù Cristo non può, vivendo in questa terra, non desiderare e sperare di presto andar al cielo ad unirsi col suo amato Signore.


8. Sicchè il desiderare di andare a veder Dio nel cielo, non tanto per lo contento nostro che ivi proveremo in amare Dio, quanto per lo contento che daremo a Dio in amarlo, è puro e perfetto amore. Nè il gaudio che si prova da' beati in cielo in amare Dio osta alla purità del loro amore; un tal gaudio è inseparabile dall'amore; ma i beati si compiacciono principalmente assai più dell'amore ch'essi portano a Dio, che del gaudio che provano in amarlo. — Dirà taluno: Ma il desiderar la mercede è amor di concupiscenza, non già d'amicizia. Ma bisogna distinguere le mercedi temporali promesse dagli uomini, dalla mercede del paradiso promessa da Dio a chi l'ama. Le mercedi che danno gli uomini son distinte dalle loro persone, poichè gli uomini, nel rimunerare gli altri, non danno già se stessi, ma solamente i loro beni; la principal mercede all'incontro che Dio dà a' beati è il dar loro se stesso: Ego... merces tua magna nimis (Gen. XV, 1); onde è lo stesso desiderar il paradiso che desiderar Dio, il quale è l'ultimo nostro fine.


9. Voglio qui proponere un dubbio che facilmente può venire in mente di un'anima che ama Dio e che cerca di uniformarsi in tutto a' suoi santi voleri. Se mai a costei fosse rivelata la sua dannazione eterna, è obbligata ella ad accettarla per uniformarsi alla volontà di Dio? No, insegna S. Tommaso: anzi dice che pecca se vi acconsente, perchè acconsentirebbe a vivere in uno stato che va unito col peccato ed è contrario al suo ultimo fine datogli da Dio, il quale non crea l'anime per l'inferno, ove l'odiano, ma per lo paradiso ove l'amano: e perciò egli non vuole la morte neppure del peccatore, ma vuol che tutti si convertano e si salvino. Dice il S. Dottore che il Signore non vuole alcuno dannato se non per lo peccato; e per tanto se uno acconsentisse alla sua dannazione, non già si uniformerebbe alla volontà di Dio, ma alla volontà del peccato. Unde velle suam damnationem absolute non esset conformare suam voluntatem voluntati divinae, sed voluntati peccati (S. Thom., De verit. q. 3. a. 8). — Ma se Dio, prevedendo già il peccato di alcuno, avesse fatto il decreto della sua dannazione, ed un tal decreto fosse a lui rivelato, è tenuto egli ad acconsentirvi? Neppure, dice l'Angelico nel luogo citato; poichè dovrebbe intender quella rivelazione non come decreto irrevocabile, ma fatto per modum comminationis, come minaccia se egli persiste nel peccato.



10. Ma ognuno procuri di scacciar dalla mente pensieri così funesti che non servono ad altro che a raffreddare la confidenza e l'amore. Amiamo Gesù Cristo quanto possiamo quaggiù, sospiriamo ogni momento di andarlo a vedere in paradiso per amarlo ivi perfettamente; e questo sia il principale oggetto di tutte le nostre speranze, l'andare ivi ad amarlo con tutte le nostre forze. Abbiamo sì bene anche in questa vita il precetto di amare Dio con tutte le forze: Diliges Dominum Deum tuum ex toto corde tuo, et ex tota anima tua, et ex omnibus viribus tuis etc. (Luc. X, 27), ma dice l'Angelico che questo precetto non può dagli uomini perfettamente adempirsi in questa terra. Solamente Gesù Cristo che fu uomo e Dio, e Maria SS. che fu piena di grazia e libera dalla colpa originale, perfettamente l'adempirono; ma noi, miseri figli di Adamo infetti dalla colpa, non possiamo amar Dio senza qualche imperfezione, e solo in cielo, allorchè vedremo Dio da faccia a faccia, l'ameremo, anzi saremo necessitati ad amarlo con tutte le forze.



11. Ecco dunque lo scopo ove han da tendere i nostri desideri, tutti i sospiri, tutti i pensieri e tutte le nostre speranze, di andare a goder Dio in paradiso per amarlo con tutte le forze e godere del godimento di Dio. Godono sì i beati della loro felicità in quel regno di delizie, ma il lor godimento principale, che assorbisce tutti gli altri diletti, sarà quello di conoscere la felicità infinita che gode il loro amato Signore, mentre essi amano Dio immensamente più che se stessi. Ogni beato, per l'amore che porta a Dio, si contenterebbe di perdere tutti i suoi godimenti e di patire ogni pena, purchè non mancasse a Dio, se mai potesse mancare, una minima particella della felicità che gode. Onde, vedendo che Dio è infinitamente felice nè mai la sua felicità può mancare in eterno, questo è tutto il suo paradiso. Così s'intende quel che dice il Signore ad ogni anima nel possesso che le dà della gloria: Intra in gaudium Domini tui (Matth. XXV, 21). Non già il gaudio entra nel beato, ma il beato entra nel gaudio di Dio, mentre il gaudio di Dio è l'oggetto del gaudio del beato. Sicchè il bene di Dio sarà il bene del beato, la ricchezza di Dio sarà la ricchezza del beato, e la felicità di Dio sarà la felicità del beato.



12. Subito che un'anima entra in cielo e vede alla scoperta col lume della gloria l'infinita bellezza di Dio, si troverà tutta presa e consumata dall'amore. Allora avviene che il beato resta felicemente perduto e sommerso in quel mare infinito della divina bontà. Allora si dimentica di se stesso, ed inebriato dell'amore di Dio, non pensa ad altro che ad amare il suo Dio: Inebriabuntur ab ubertate domus tuae (Ps. XXXV, 9). Gli ubbriachi non pensano più a sè, e così l'anima beata non pensa che ad amare ed a compiacere l'amato: desidera di possederlo tutto, e già tutto lo possiede senza timore di poterlo più perdere; desidera di darsegli tutta per amore ogni momento, e già l'ottiene poichè in ogni momento si dà tutta a Dio senza riserba: e Dio con amore l'abbraccia, e così abbracciata la tiene e la terrà per tutta l'eternità.


13. Sicchè in cielo l'anima sta unita tutta a Dio e l'ama con tutte le sue forze, con un amor consumato e compito, il quale sebbene è finito, perchè la creatura non è capace di amore infinito, nondimeno è tale che la rende appieno contenta e sazia, sì ch'ella niente più desidera. Iddio all'incontro si comunica e si unisce tutto all'anima, riempiendola di se stesso, per quanto ella n'è capace secondo i suoi meriti; e si unisce a lei, non già per mezzo de' soli suoi doni, lumi ed attratti amorosi, come fa con noi in questa vita, ma colla sua medesima essenza. Siccome il fuoco penetra un ferro e par che tutto in sè lo converta, così Dio penetra l'anima e di sè la riempie; ond'ella benchè non perda il suo essere, non però viene ad essere talmente ripiena ed assorbita in quel mare immenso della sostanza divina, che resta come annientata e più non fosse. Questa era la sorte felice che implorava l'Apostolo a' suoi discepoli: Ut impleamini in omnem plenitudinem Dei (Eph. III, 19).


14. E questo è l'ultimo fine che il Signore per sua bontà ci ha dato a conseguire nell'altra vita. Onde finchè l'anima non giunge ad unirsi con Dio in cielo ove si fa l'unione perfetta, non può avere qui in terra il suo pieno riposo. È vero che gli amanti di Gesù Cristo nell'uniformarsi alla divina volontà trovano la loro pace; ma non possono trovare in questa vita il lor pieno riposo, perchè questo si ottiene coll'ottenere l'ultimo fine, qual è di vedere Dio da faccia a faccia ed esser consumati dall'amor divino; e fintanto che l'anima non conseguisce tal fine, sta inquieta e geme, e sospirando dice: Ecce in pace amaritudo mea amarissima (Is. XXXVIII, 17).


15. Sì, mio Dio, io vivo in pace in questa valle di lagrime, perchè questa è la vostra volontà, ma non posso non provare un'inesplicabile amarezza vedendomi da voi lontano e non ancor perfettamente unito con voi che siete il mio centro, il mio tutto e 'l pieno mio riposo.
E perciò i santi benchè ardessero d'amore verso Dio in questa terra pure non faceano che sospirare il paradiso. Davide esclamava: Heu mihi, quia incolatus meus prolongatus est! (Ps. CXIX, 5). Satiabor cum apparuerit gloria tua (Ps. XVI, 15). S. Paolo dicea di sè: Desiderium habens... esse cum Christo (Phil. I, 23). S. Francesco d'Assisi dicea: «Tanto è grande il ben che aspetto, che ogni pena mi è diletto». Questi erano tutti atti di carità perfetta. — Insegna l'Angelico che il grado più alto di carità a cui può ascendere un'anima in questa vita è il desiderare intensamente di andare ad unirsi con Dio ed a goderlo in cielo: Tertium autem studium est, ut homo ad hoc principaliter intendat, ut Deo inhaereat et eo fruatur, et hoc pertinet ad perfectos qui cupiunt dissolvi et esse cum Christo (S. Thom. 2. 2. q. 24. a. 9). Ma questo godere di Dio in cielo, come abbiam detto, non tanto consiste nel ricevere l'anima il godimento che ivi Iddio le dona, quanto nel godere del godimento di Dio, amato dall'anima assai più che se stessa.


16. La maggior pena delle anime sante del purgatorio è il desiderio che hanno di possedere Dio che non ancora possedono. E questa pena specialmente affliggerà quelle anime che poco in vita han desiderato il paradiso. Anzi dice il cardinal Bellarmino (Lib. II. De Purgat. c. 7) che nel purgatorio vi è un certo carcere detto carcer honoratus, ove alcune anime non patiscono alcuna pena di senso, ma solamente la privazione della vista di Dio. Di ciò ne riferiscono più esempi S. Gregorio, il Ven. Beda, S. Vincenzo Ferrerio e S. Brigida. E questa pena si dà non per li peccati commessi, ma per la freddezza nel desiderare il paradiso. Molte anime aspirano alla perfezione, e poi sono troppo indifferenti all'andare a veder Dio o al seguire a vivere in questa terra. Ma la vita eterna è un bene troppo grande che Gesù Cristo ci ha meritato colla sua morte, ond'egli castiga poi quelle anime che poco l'han desiderato nella lor vita.


Affetti e preghiere.

O Dio, mio Creatore e mio Redentore, voi mi avete creato per lo paradiso, mi avete redento dall'inferno per condurmi in paradiso, ed io tante volte con offendervi vi ho rinunziato in faccia il paradiso, e mi son contentato di vedermi condannato all'inferno! Ma sia sempre benedetta la vostra misericordia infinita che perdonandomi, come spero, tante volte mi ha cacciato dall'inferno. Ah, Gesù mio, non vi avessi mai offeso! oh vi avessi sempre amato! Mi consolo che ancora mi resta tempo di farlo.
V'amo, o amore dell'anima mia, v'amo con tutto il mio cuore, v'amo più di me stesso.
Vedo che voi mi volete salvo, acciocch'io v'ami per tutta l'eternità in quel regno di amore. Vi ringrazio, e vi prego ad assistermi nella vita che mi resta, nella quale voglio amarvi assai per amarvi assai poi in eterno.
Ah Gesù mio, quando sarà quel giorno ch'io mi vedrò libero dal pericolo di potervi più perdere, e consumato dall'amore verso di voi in vedere alla scoverta la vostra infinita bellezza, sì ch'io sarò necessitato ad amarvi? Oh dolce necessità! oh felice, oh amata, oh desiderata necessità, che mi esimerà da ogni timore di darvi disgusto e mi costringerà ad amarvi con tutte le mie forze!
La mia coscienza mi spaventa, e mi dice: Come tu puoi pretendere il paradiso? Ma i meriti vostri, caro mio Redentore, sono la speranza mia.
O regina del paradiso Maria, la vostra intercessione è onnipotente appresso Dio, in voi confido.

venerdì 10 giugno 2011

PERCHE' "MARIA, GIGLIO DELLA TRINITA'"

MARIA  GIGLIO DELLA TRINITA’


         “Il principale significato del termine “giglio” è quello metaforico di anima pura, vergine”, dice il Padre G. Roschini.
 In questo senso Maria SS., la Vergine per antonomasia, è salutata Regina delle Vergini  e quindi Regina dei Gigli. Cerco di sintetizzare quel che scrive il grande mariologo servita.

Egli dice che sono molteplici le analogie tra il giglio e l’anima pura. E parla del bulbo, dello stelo, del calice con i suoi petali, del terreno e della fragranza.

Il bulbo del giglio è profondamente nascosto nelle viscere della terra. Anche l’anima pura è nascosta in una profonda umiltà. Non c’è purezza vera senza umiltà. L’umiltà è il fondamento dell’edificio. Quanto più alto è l’edificio, tanto più profondo deve essere il fondamento dell’umiltà. “La via per andare in su è l’andare in giù!” diceva il Beato Padre Egidio d’Assisi. E se l’umiltà da consistenza a tutte le virtù, dà consistenza in modo particolare alla fede che è “l’umiltà dell’intelletto”. Riccardo da S. Lorenzo ha scritto: “il giglio ha la radice nascosta sotto terra, e ciò simboleggia la fede, la quale versa su cose occulte” (Lib XII, sul giglio). E’ logico che l’umiltà porta con sé la mortificazione, perché “il frutto della verginità è una vita crocifissa” (S. Giov. Crisostomo, De virginitate, 80). Occorre domare la carnalità, con preghiera e vigilanza.

         Nessuna creatura può competere con l’umiltà del Giglio di Nazaret, con la Vergine Maria, Regina del Cielo e della Terra. Visse nascondendosi, sentendosi sempre umile serva del Signore.
Esteriormente simile ad ogni altra donna, interiormente le trascendeva tutte. Da un bulbo così nascosto sbocciò il giglio più bello e fragrante della terra e del cielo, e per questo è chiamata dallo Spirito Santo e dalla Chiesa alma Mater: madre nascosta e segreta (cfr. San Girolamo, In Isaiam, III,8,14; S. Luigi M. da Montfort, Trattato, 2).


Lo stelo del giglio è magnificamente alto, dritto e slanciato. Ugualmente l’anima pura ha una maestà innata piena di fascino spirituale; non ha storture morali; ed è slanciata decisamente verso il Cielo che non passa, verso Dio infinita bellezza e bontà. Il mezzo più efficace per slanciarsi in alto E’ la preghiera amorosa, umile e devota, fiduciosa e costante.

         Maria SS. è “umile e alta più che creatura” (Dante, Paradiso, 23,2). Raggiunge e tocca l’Altissimo, l’Infinito… Al di sopra di Lei vi è uno solo: Dio.
         La sua rettitudine morale trascende quella di tutti i Santi, per cui “la sua vita, da sola, è ammaestramento di tutte le vite” (S. Ambrogio) e Lei “è specchio limpidissimo in cui risplende ogni forma di virtù” (S. Girolamo, Epist. ad Paulam, PL 30, 144).
         Nessuna vita fu slanciata verso il cielo come quella di Maria. La sua vita terrena si aprì, continuò e si chiuse in un’estasi d’amore. “Dalla sua origine fu elevata allo stato di unione con Dio” insegna S. Giovanni della Croce (Salita, III,2,10). “L’Assunzione della Vergine Madre di Dio non fu altro che uno dei tre ineffabili baci di amore che Ella ricevette da Dio: all’inizio, nel corso e al termine della sua vita terrena” ha scritto il P. Roschini (cfr. La Regina dei gigli, pag 62). Soltanto durante la Passione nessuna estasi rese sopportabile l’atroce suo soffrire  (cfr anche ‘L’Evangelo così come mi è stato rivelato’, M. Valtorta, 651.7).    
        
Il calice del giglio ha sei candidissime foglie. Queste nell’anima pura portano i santissimi nomi della Trinità: Padre, Figlio, Spirito Santo e fede, speranza e carità, che sono le virtù teologali e quindi fondamentali della struttura dell’anima in cui affondano le loro radici tutte le altre virtù.
         Candore di luce eterna (Sap. 7, 26), pura come la luce, nel candore vince i gigli, più pura dei raggi del sole, giglio più candido della neve: sono solo alcune definizioni che i Padri danno di Maria SS.

        * Le prime tre foglie portano i nomi di Figlia primogenita e prediletta del Padre, 
Madre amorosissima del Figlio, e 
Sposa dello Spirito Santo.

Lascio la sintesi e cito il P. Roschini:
        * Maria “… fin dall’eternità, è stata – a nostro modo di vedere – la prima nella mente e nel cuore del Padre, principio senza principio di ogni cosa: la prima ad essere da Lui veduta, fra tante; la prima ad essere da Lui amata; la prima desinata ad essere da Lui chiamata all’esistenza, in vista di Colui che doveva essere il fine e il centro di tutte le cose create: Cristo, il Verbo incarnato, di cui la Vergine doveva essere Madre. (…) Dio Padre ha adunato in Lei – come in un microcosmo – tutte le perfezioni da Lui sparse nell’universo – nel macrocosmo - . La associò a Sé nella generazione del suo unico Figlio: quella stessa persona divina generata dal Padre fin dall’eternità secondo la natura divina, è stata generata nel tempo, dalla Madre, secondo la natura umana.


         *Madre amatissima del Figlio , Verbo incarnato, e perciò unita al Figlio di Dio prima con una strettissima unione fisica (nei nove mesi che vanno dal concepimento alla nascita) e poi da una strettissima unione morale (…), la Madre visse spiritualmente tutta la vita del Figlio, vivamente riflessa nella sua vita”.

         *Sposa dilettissima dello Spirito santo. Tra essi vi fu piena donazione  e affetto reciproco senza pari, perfetta comunanza di vita e di beni.

          Per queste singolarissime relazioni con le auguste persone divine la Vergine  è interamente avvolta dal sole divino della SS. Trinità. E’ “la Donna vestita di sole” (Apoc. 12, 1) che glorifica la Trinità ricevendone il contraccambio ineffabile.

         *Nelle altre tre foglie o petali si vedono incisi i nomi delle virtù teologali che “costituiscono – si può dire – la vita di tutta la vita di quel giglio che si chiama Maria: una vita di fede, di speranza e d’amore”.

Anche Maria “visse di fede (Ebr, 10, 8) divenendone eccellentissimo modello. “Beata Colei che ha creduto…” (Lc 1, 45) sia nell’Annunciazione, sia ad Hain-Karin, come a Betlemme, in Egitto, a Gerusalemme, sul Golgota, nel Cenacolo, sul Monte degli ulivi. Sempre la sua fede rimase integra. “La Madonna è e rimarrà la capolista di ‘quanti han creduto prima di aver veduto’ (Gv 20, 29)”.

E con la fede ebbe perfettissima la speranza della Bellezza e del Bontà infinite e dei beni futuri eternamente posseduti.

Il suo Cuore poi è “il roveto ardente” (Ex. 3,1-2) luminoso di traboccante amore per Dio e i suoi figli, per Cristo e i Cristiani. Davvero ogni suo pensiero , parola e azione sono un raggio luminosissimo e profumato del suo Cuore verginale e materno.


Il terreno. Il giglio non fiorisce solo nei giardini, bensì anche nei campi, tra le spine. Le anime pure non vivono solo nei chiostri che sono i giardini della Chiesa, ma le troviamo anche nel mondo “tutto posto nel maligno”. E’ chiaro però che bisogna fortificarsi sempre con la grazia tutti i giorni, reagendo agli attacchi del nemico con prontezza e costanza durante tutta la vita.


          *Come la Sposa della Cantica, Maria è “giglio tra le spine” (Cant. , 1-2). “Ella è il giglio che è spuntato tra le spine”, dice san Giovanni Damasceno, nell’immenso spineto del nostro mondo, ma è l’unico Giglio che non conosce le spine del peccato, sia originale che attuale. Ne segue che Maria  di Nazaret è la grande gloria dell’umanità, “gloria di Gerusalemme, letizia di Israele, decoro del popolo nostro” (Tota pulchra es, Maria).

La fragranza. Come il giglio, anche l’anima pura diffonde una fragranza liliale deliziosissima e penetrante che fa dimenticare la terra e invita a pensieri di cielo.

“La camera di san Giuseppe da Copertino era impregnata del profumo del suo corpo, percepito da tutti … tale odore si attaccava ai mobili e penetrava nei corridoi del convento, di modo che era facile arrivare alla cella del Santo seguendo la scia di quell’odore. Ed era così penetrante che si comunicava per lungo tempo a coloro che toccavano il Santo e anche a coloro che gli facevano visita… La cella del Santo conservò quel profumo per dodici o tredici anni, benché in tutto quel tempo non vi avesse abitato…”(cfr. Dott. H. Mon, Medicina e Religione, VI, 17).
   Spettacolare la fragranza del giglio di Copertino. Ci sarebbero molti altri esempi, ma quello di Copertino li trascende tutti. 



Con san Giuseppe da Copertino moltissime anime verginali lungo i secoli han seguito le inebrianti fragranze di Colei ch’è il <<Giglio>> per antonomasia: il suo sposo San Giuseppe , detto “il Giglio d’Israele” (Card. A.M.Lepicier), San Giovanni Battista ‘angelo’ sin dal seno materno, gli Apostoli “gigli al cui odor si prese il buon cammino(Dante, Par 23, 74); anche nel II secolo  e in seguito abbiamo molteplici testimonianze di quanti “corsero dietro la fragranza degli inebrianti profumi” della Regina dei gigli.
          Come prova – di questa imitazione mariana e del fascino inebriante ed elevante di Maria – il P. G. Roschini, in cinque pagine, cita le testimonianze di San Giustino Martire e S. Atenagora (II sec), S. Cipriano di Cartagine (III sec), S. Atanasio, S. Ambrogio e S. Giovanni Crisostomo (IV sec), S. Agostino di Ippona  e Teodoreto di Cipro (V sec); nel VI° secolo poi con S. Benedetto sorgono innumerevoli schiere di monaci e monache, cui nel secolo XIII si aggiungono le schiere di frati e suore degli Ordini religiosi: Francescano, Domenicano, Carmelitano, Servitano, Mercedario ecc… senza contare la schiera ammirevole dei santi Sacerdoti diocesani di tutti i secoli, e le più recenti Congregazioni, Istituti e Società di vita consacrata, vere “fragranti aiuole di gigli, ossia, di anime pure e generose, pronte ad accorrere come angeli al letto di malati e di moribondi, pronte ad insegnare nelle scuole, ad evangelizzare i pagani nei paesi di missione, a darsi a  tutte le opere buone”.


         Concludo. “Il pensiero stesso di Maria, l’affetto verso di Lei, l’abituale unione con Lei… verginizza. Maria SS. è un Giglio che fa sbocciare, con la sua stessa presenza e, più ancora, con la sua azione materna, altri gigli, i quali la circondano e la proclamano, in perpetuo, Regina, <<Regina dei gigli>>. Perché… la Vergine è  “Giglio bianco della Trinità Santissima”.

AVE GIGLIO BIANCO DELLA TRINITA'! ROSA SPLENDENTE 
CHE ABBELLISCI IL CIELO! AVE! DA TE HA VOLUTO NASCERE DA TE HA VOLUTO PRENDERE IL LATTE COLUI CHE GOVERNA IL CIELO E LA TERRA! DEH! NUTRI LE NOSTRE ANIME CON I TUOI DIVINI INFLUSSI! O MARIA!
AMDG et BVM 

mercoledì 6 aprile 2011

Sotto le ali di Gesù

Viva la Speranza!


Beata Maria di Gesù Crocifisso, prega per noi.


 " ECCO ciò che Gesù vuole che dica: Non credi tu forse che una gallina, vedendo l'aquila arrivare, non nasconda sotto le ali i suoi pulcini?
    Credi tu forse che Gesù farà meno della gallina? Che non possa nascondere i suoi piccoli sotto il suo mantello e proteggerli dal nemico?
     Perché allora temi così tanto?"


AMDG et B.V.M.