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giovedì 4 febbraio 2016

La grande sorpresa di Giovanni (Gv 1,13)

La grande sorpresa di Giovanni

di Vittorio Messori
(Il Timone - Settembre 2012)
 
Ignace de la Potterie, biblista


Il padre Ignace de la Potterie  (Waregem24 giugno 1914 – Heverlee11 settembre 2003), gesuita, ebbe a lungo la cattedra di Nuovo Testamento giudicata (a ragione) la più importante nell’Istituto, a sua volta conisiderato (anche qui, a ragione) come il più autorevole della Chiesa per gli studi sulla Scrittura.

Parliamo del Pontificio Istituto Biblico, emanazione di quella Università Gregoriana il cui Rettore – a conferma della sua importanza- è nominato dal Papa stesso. Il “Biblico“, come viene abitualmente chiamato, fu fondato nel 1909 da san Pio X per rispondere, con le stesse armi di rigore scientifico, all’attacco alle basi stesse della fede portato dal cosiddetta “critica indipendente“. Quella, cioè, che sezionava i testi dell’Antico e soprattutto del Nuovo Testamento, concludendo – assai spesso – che non si trattava di storia bensì di miti, simboli, leggende e che il “Gesù della storia“, quello realmente vissuto, era un oscuro personaggio, dalla biografia incerta, che poco o nulla aveva a che fare con il “Cristo della fede“. Insomma, il Credo aveva basi abusive e storicamente insostenibili e il cristianesimo null’altro era che una tardiva costruzione nata tra ellenisti ed elementi marginali di un giudaismo oscuro.

Davanti a un simile assalto, la Chiesa si rese finalmente conto che non bastava indignarsi e lanciare invettive contro i “miscredenti“ ma che occorreva replicare con i medesimi strumenti, con la medesima erudizione. A questo si dedicò dunque il Pontificio Istituto, con buoni risultati che, innanzitutto, tolsero ai cattolici il timore che le fondamenta della loro fede non fossero più difendibili davanti alla Scienza (con la maiuscola, ovviamente, come volevano i professori delle università laiche) e tolsero loro il sospetto, magari inespresso ma tormentoso, che proprio l’incarnazione di Dio nella storia fosse improponibile secondo le rigorose categorie della storia moderna.

Il professor de la Potterie, morto pochi anni fa, fu parte eminente e del tutto degna della schiera degli studiosi che hanno illustrato il Biblico per oltre un secolo, avendo tra l’altro fra i docenti e poi tra i direttori un Carlo Maria Martini. Ovviamente coltissimo, padrone di molte lingue sia moderne che antiche, il padre Ignace mi onorava della sua amicizia e condivideva quanto cercavo di fare (ovviamente al mio livello di non specialista, seppure informato della materia quanto più mi era possibile) per trovare conferme della storicità dei vangeli. E quando, ormai molto anziano, si ritirò nel suo Belgio natale, ogni tanto mi sorprendeva con una telefonata che mi rallegrava e al contempo un poco mi rattristava. In effetti, si sfogava con me, disapprovando un certo “ modernismo” e “razionalismo“ che era entrato anche tra i biblisti cattolici, spesso per imitazione dei troppo venerati docenti delle facoltà teologiche protestanti che, in Germania , esistono ancora nelle università pubbliche.

Non potevo non dargli ragione anche perché l’ottimo padre Ignace era tutt’altro che un chiuso tradizionalista, era anzi a conoscenza di tutti i metodi e di tutte le teorie moderne, di cui accettava ciò che non tendeva a trasformare in mito o in simbolo il realismo storico dei vangeli. Professori per i quali nulla, nella Scrittura, andava preso così come sta scritto e le sole cose indiscutibili erano le loro note e le loro introduzioni “demitizzanti“.

Pur muovendosi con padronanza in tutta la Scrittura e in particolare nel Nuovo Testamento, de la Potterie era conosciuto soprattutto come il miglior conoscitore di Giovanni: il Vangelo, ovviamente, ma anche le tre lettere che gli sono attribuite. E proprio nel quarto evangelista aveva individuato, chiarito e messo in rilievo, con sicurezza sino ad allora mai raggiunta, un aspetto tanto importante quanto pochissimo conosciuto. E cioè, nientemeno che questo: nel celeberrimo Prologo (<< In principo era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio …. >>), Giovanni ci darebbe testimonianza esplicita e precisa della triplice verginità di Maria: prima, durante e dopo il parto. Lo stesso padre de La Potterie mi diceva, e scriveva nei suoi articoli, che tra i biblisti d’oggi (persino, purtroppo, in certe università cattoliche) si preferisce sorvolare su questo aspetto, pur così importante, della storia della redenzione. In alcuni ambienti, chi ancora parli con fede convinta della semper Virgo suscita diffidenza quasi fosse un “integrista“, oppure provoca ironia, come si addice a un vecchio retrogrado. E invece, ecco quel docente illustre di un illustre ateneo pontificio scrutare il “suo“ Giovanni e, proprio all’inizio del vangelo scoprire (o riscoprire, lo vedremo) che il testo era stato manipolato già in tempi antichi, nascondendo così la verità con un semplice passaggio di un verbo dal singolare al plurale.

Il professor de la Potterie aveva esposto la sua documentatissima tesi in due articoli di ben 50 pagine ciascuno su Marianum, la rivista dell’omonima facoltà teologica pontificia, già nel 1978 e aveva ripreso il discorso, arricchito da nuove ricerche, nel 1983. Quelle cento pagine, fitte di note e di citazioni in latino, in greco, in ebraico erano state molto lette dagli specialisti i quali, però, avevano scelto il silenzio.

Succede spesso, nel mondo dei biblisti: ciò che può mettere in discussione gli schemi e i pregiudizi egemoni del momento è rimosso, se non ne è possibile una stroncatura, vista (come in questo caso) la rigorosa serietà critica delle ricerca e l’autorevolezza dell’autore. 
Ricordo come in una delle sue ultime telefonate, il vecchio studioso si rammaricasse del silenzio attorno a un tema così importante. Mi parve che, in lui, vi fosse un inespresso ma esplicito, cortese invito ad aiutarlo a fare conoscere una simile scoperta, tanto rilevante per la fede stessa e tale da appoggiare con l’autorevolezza del quarto evangelista il dogma delle perenne verginità di Maria. 

Ebbene, con queste pagine, cercherò di aderire al desiderio del padre Ignace, dando notizia di quella ricerca di cui è stato l’efficace strumento ma che non riguarda certo lui e la sua carriera scientifica, bensì la fede di noi tutti. 
Qui darò, ovviamente, solo una sintesi divulgativa seppur (così almeno spero) corretta, vista l’attenzione con cui ho esaminato quel centinaio di pagine. Ma sarà bene che chi vuole approfondire vada ai due articoli di de la Potterie, magari facendoseli inviare via mail dalla stessa rivista (marianum@marianum.it): assicuro che ne vale la pena. Non si tratta qui di una sorta di curiosità ma di un modo per rafforzare, basandosi sulla Scrittura stessa, una verità su Maria che la Chiesa ha sempre creduto e proclamato.

Vediamo, dunque, come stiano le cose, riproducendo il breve versetto su cui tutto si basa. E’ il tredicesimo del primo capitolo, quel Prologo giovanneo cui sopra accennavamo e che diamo nell’ultima versione (quella del 2007) della Conferenza Episcopale Italiana. Ma per comprendere, dobbiamo prima riprodurre anche i due versetti precedenti, l’undicesimo e il dodicesimo: <<Venne tra i suoi e i suoi non l’hanno accolto. A quanti però lo hanno accolto ha dato potere di diventare figli di Dio, a quelli che credono nel suo nome>>. Seguono le righe su cui si è appuntata la ricerca del nostro studioso: <<I quali, non da sangue né da volere di carne né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati>>.

Questa, dunque, la versione tradizionale e questa, invece, secondo il docente del Biblico, la versione autentica: <<Non da sangui, né da volere di carne, né da volere di uomo, ma da Dio egli (Gesù) è stato generato>>.

Come si vede, il verbo “generare“ è al singolare e non al plurale come nella versione delle nostre edizioni della Scrittura. In effetti, il soggetto è uno solo: Gesù. Mentre nella versione tradizionale, è al plurale, il soggetto essendo <<quelli che credono nel suo nome>>. Dunque, per ripeterci ma per maggior chiarezza, in questo punto decisivo: messo al singolare, il versetto parla della generazione divina del Cristo; messo al plurale parla della trasformazione dei credenti in lui. 
Da notare subito, anche, che – in tutti i manoscritti antichi che abbiamo – “sangue“, in greco, è al plurale ma, mentre nella Vulgata latina il plurale è stato rispettato (ex sanguinibus), in italiano è stato sempre tradotto al singolare. Eppure (si controlli anche su dizionari classici come quello del Tommaseo), “sangui “ in italiano è raro ma esiste ed è impiegato anche da buoni autori. Se nelle traduzioni italiane non lo si è usato e non lo si usa tuttora, non è (come molti hanno detto) perché “sangui“ non c’è nella nostra lingua, ma perché non si è compreso quale fosse la sua importanza nel pensiero di Giovanni. Come vedremo.

La prima domanda da fare è questa: i documenti antichi che abbiamo del Nuovo Testamento, autorizzano a usare la terza persona singolare del verbo “generare “ (attribuendola a Gesù) invece della terza persona plurale, attribuendola ai cristiani?

Va subito detto: tutti, o quasi, i manoscritti greci hanno il plurale. Ma i più antichi di essi risalgono solo al quarto secolo, se si escludono dei frammenti casuali su papiro. E, invece, abbiamo testi di scrittori cristiani e poi di padri della Chiesa, risalenti al secondo secolo, che citano questo versetto al singolare. Per risalire ai più antichi, Sant’Ireneo di Leone, verso il 190, usa il singolare. Addirittura, il sempre polemico Tertulliano, attorno all’anno 200 , imbastisce una disputa proprio attorno a questo brano e accusa una setta di eretici di avere falsificato le parole di Giovanni, mettendole- appunto- al plurale. Cioè, quello che è entrato nel testo ufficiale del Vangelo e che ancora usano le nostre edizioni attuali. Oltre al latino, abbiamo la testimonianza del singolare nei testi più antichi in siriaco, in copto, in etiope.

Va precisato per coloro che non hanno familiarità con la critica biblica: la ricostruzione del testo originale della Scrittura condotta solo sui documenti superstiti è detta “critica esterna“. Ma questa va completata (tutti gli studiosi moderni concordano) con la “critica interna“, che scende più in profondo e che, in questo nostro caso, porta a preferire un “è stato generato“ piuttosto che un “sono stati generati“.

Insomma, la situazione è tale che padre de la Potterie poteva scrivere, già nel 1978 e poi ribadire nel 1983, nel suo secondo articolo-saggio, che proprio la ricerca non solo sugli antichi manoscritti evangelici ma anche sulle citazioni dei primissimi autori cristiani, sembra rendere necessario tornare al <<da Dio è stato generato >> , avendo per soggetto Gesù. 
Rileggiamoci il versetto in quella che sembra essere davvero la versione originaria finalmente restaurata secondo le intenzioni dell’evangelista e ci renderemo subito conto (come vedremo ancor meglio qui sotto) che qui abbiamo una testimonianza preziosissima sulla triplice verginità di Maria. Eravamo convinti che Giovanni si riferisse a quella che non chiama mai col suo nome, ma con quello di “madre di Gesù”, soltanto per l’episodio di Cana e per la presenza ai piedi della croce: ecco invece riemergere una terza testimonianza mariana, di importanza davvero primaria.

Chiediamoci ora: perché già prima del IV secolo è sparito il riferimento all’origine divina di Gesù e nei testi evangelici si è imposto quel plurale che è giunto sino a noi e che, a ben guardare, inserisce una sorta di corpo estraneo? In effetti, tutto il prologo di Giovanni è un inno solenne alla incarnazione del Verbo ed ecco apparire a sorpresa e in modo che non sembra giustificato <<quelli che credono nel suo nome>>, cioè i membri della Chiesa. E in che modo, poi, questi battezzati, uomini concreti in carne ed ossa e non eterei angeli, sarebbero stati generati <<non da sangue, né da volere di carne, né da volere di uomini >>?

Sembra che sia avvenuto questo: nella Chiesa primitiva infieriva la setta detta dei “doceti“, i quali negavano la natura umana di Gesù e di conseguenza, il suo concepimento da parte di Maria . Questa sarebbe stata non la madre che ha per nove mesi la creatura nel ventre, ma una sorta di tubo dell'acqua attraverso il quale il Cristo – la cui immagine umana era soltanto apparente - sarebbe passato. 

Il docetismo (il cui “spiritualismo” era particolarmente pericoloso, rendendo Gesù non una persona, ma una sorta di superarcangelo) si appoggiava proprio sul versetto 13 del prologo che stiamo esaminando: il Cristo era venuto tra noi non solo in modo verginale, come attestato dal <<né da volere di carne>> e dal <<né da volere di uomo>>. Ma, soprattutto, la tesi doceta sarebbe provata da quel <<nec ex sanguinibus>>. 

Ma che cosa sono quei “sangui“ ? Come dicevo sopra, che questo plurale faccia parte del testo originale non c’è alcuna discussione, tutte le testimonianze lo riportano, sia quelle in cui Gesù è il soggetto, sia quelle in cui soggetto sono i suoi discepoli. Ma se (come Giovanni doveva avere scritto nel suo prologo) soggetto era il Messia, questa espressione poteva essere utilizzata facilmente dal docetismo: se Egli non era stato “generato da sangui“, era perché non aveva un corpo come ogni altra persona umana, non c’era stato un parto, sempre accompagnato da effusione di sangue da parte della donna. 

Dunque, per citare testualmente il nostro padre de la Potterie, <<per risolvere radicalmente la questione e togliere agli eretici un’arma, probabilmente all’inizio del III secolo, gli scrittori ecclesiastici cominciarono a cambiare il verbo al plurale, spostando il tutto sui cristiani ma interrompendo così, tra l’altro, l’unità del Prologo giovanneo, tutto incentrato sul mistero del Logos fattosi carne>>. 
Il “ritocco“ ecclesiale finì per coinvolgere anche l’originale del Vangelo ed è giunto sino a noi.

Ma riflettiamo soprattutto su quel “sangui“, facendoci aiutare dalla sintesi del padre Domenico Marcucci, uno dei pochi studiosi che ha avuto il coraggio di rompere il conformismo dei colleghi, prendendo radicalmente sul serio lo studio del biblista della Gregoriana: <<Nei testi greci, aima, sangue, si trova solo al singolare. Ma Giovanni usa il plurale. Perché? Per capire, de la Potterie si è rivolto all’ebraico, visto che il quarto evangelista è intriso profondamente della sua cultura, quella giudaica.

Nell’Antico Testamento in ebraico, la parola “sangui“ (damim) sta a significare il sangue versato dalla donna durante le mestruazioni e durante il parto. Esso la rendeva impura, per cui doveva recarsi al tempio per la purificazione>>. Dunque: <<Il “non da sangui“ sta a significare che la nascita di Gesù è avvenuta, a differenza di ogni altra, senza l’effusione del sangue, dunque verginalmente >>.

Proviamo a rivedere il versetto 13 nella versione che sarebbe quella originale e vediamone le conseguenze: Gesù <<è stato generato da Dio>> e, dunque, <<non da volere di carne, né da volere di uomo>> (virginitas ante partum). Inoltre, il parto si svolse <<non da sangui>>, dunque senza le consuete lesioni corporali, il che sottintende sia la virginitas in partu che quella post partum, non avendo il passaggio del corpo del figlio provocato sanguinamenti e avendo dunque lasciata intatta la madre. Come si vede, un risultato di straordinaria importanza: e questo, soltanto rimettendo al singolare un verbo, come pare proprio fosse nelle intenzioni di Giovanni. 
Questi, tra l’altro, chiarisce subito che ciò non mette in discussione la materialità corporea, la realtà umana di Gesù. E, in effetti, il prologo prosegue con le parole: <<E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi…>>. Sta di fatto che, come nota giustamente de la Potterie, se i primi Padri della Chiesa trovavano già in Matteo e in Luca elementi per la concezione verginale, è proprio nel primo capitolo di Giovanni che trovavano non solo conferma ad essa, ma anche un riferimento diretto a un dare alla luce verginale, senza perdite che l’ebraismo considerava impure come quelle di tutte le partorienti.

Ora: perché tanta noncuranza, tanto silenzio su questa riscoperta del possibile, preciso fondamento scritturale di una verità come la semper Virgo, già presente nella Tradizione cristiana nel secondo secolo e divenuta poi dogmatica nella Chiesa? 

Un punto di fede considerato così importante che, in Oriente, tra le rigide regole date agli iconografi vi è quella di non rappresentare mai la Theotokos senza tre stelle - una sul capo e due sulle spalle –a segno della triplice verginità. 

Il padre Ignace non aveva torto nel denunciare il conformismo di tanti suoi colleghi, per i quali un simile tema è fonte di imbarazzo, tanto che, come dice padre Marcucci : <<In molti manuali di mariologia usati nei seminari cattolici, la verginità ante, in, post è oggetto di silenzi imbarazzati più che di seria trattazione>>. Ma, attenzione! In uno dei suoi ultimi libri, il padre Stefano De Fiores – forse il nostro (più recente) maggior mariologo, purtroppo scomparso da poco, docente anche alla Gregoriana– citava gli studi di la Potterie e ne accettava con convinzione i risultati, giudicandoli fondati non solo sui documenti ma anche sulla dinamica di Giovanni. Un riconoscimento davvero importante.

Ma l’ultimo studio in proposito del docente della Gregoriana è, come dicevo, del 1983. Perché la traduzione della Bibbia, rivista e aggiornata della CEI e che è di 24 anni dopo, non segnala almeno in nota a Gv 1,13 la possibilità, che sembra avvicinarsi alla certezza, che il testo primitivo avesse Gesù e non il suo popolo come soggetto? 
[In verità P. Marco Sales commentando nel 1914 questo versetto 1,13 di san Giovanni nota: "Alcuni antichi Padri e parecchi critici moderni, leggono questo versetto al singolare e lo applicano interamente alla concezione verginale di Gesù: Che credono nel nome di lui che non per via di sangue, ecc., ma da Dio è nato. V. Durand. L'Enfance de Jésus, p. 106 e Calmes. - Ed anche gli esegeti recenti (1950): Mollat, F.M.Braun, MèlG, Boismard, Martìn Nieto - NDR].

Una cosa, comunque è confermata per l’ennesima volta: la Scrittura è ancora in grado di riservarci sorprese, alcune delle quali –come nel caso di cui parliamo– riguardano quella Madre di Dio il cui mistero è al contempo discreto e inesauribile.



venerdì 25 settembre 2015

"Pluralismo, ma per tutti"



A proposito di latino: nei giorni del nostro colloquio non era ancora conosciuta la decisione
del Papa che (con lettera in data 3 ottobre 1984, a firma del Pro-Prefetto della Congregazione
per il culto divino) concedeva il discusso " indulto " a quei preti che volessero celebrare la
messa usando il messale romano, in latino appunto, del 1962. e, cioè, la possibilità di un
ritorno (seppure ben delimitato) alla liturgia pre-conciliare; purché, si dice nella lettera,
"consti con chiarezza, anche pubblicamente, che questi sacerdoti e i rispettivi fedeli in nessun
modo condividano le posizioni di coloro che mettono in dubbio la legittimità e l'esattezza
dottrinale del Messale Romano promulgato dal Papa Paolo VI nel 1970"; e purché la
celebrazione secondo il vecchio rito "avvenga nelle chiese e negli oratori indicati dal vescovo,
non però nelle chiese parrocchiali, a meno che l'ordinario del luogo lo abbia concesso, in casi
straordinari". Malgrado questi limiti e le severe avvertenze ("in nessun modo la concessione
dell'indulto dovrà essere usata in modo da recare pregiudizio all'osservanza fedele della
riforma liturgica"), la decisione del Papa ha suscitato polemiche.

La perplessità è stata anche nostra, ma dobbiamo riferire quanto il card. Ratzinger ci aveva
detto a Bressanone: pur senza parlarci della misura - che era evidentemente già stata decisa e
della quale di certo era al corrente - ci aveva accennato a una possibilità del genere. Questo "
indulto per lui, non sarebbe stato da vedere in una linea di " restaurazione " ma, al contrario,
nel clima di quel " legittimo pluralismo" sul quale il Vaticano II e i suoi esegeti hanno tanto
insistito.

Infatti, precisando di parlare " a titolo personale ", il cardinale ci aveva detto: "Prima di
Trento, la Chiesa ammetteva nel suo seno una diversità di riti e di liturgie. I Padri tridentini
imposero a tutta la Chiesa la liturgia della città di Roma, salvaguardando, tra le liturgie
occidentali, solo quelle che avessero più di due secoli di vita. È il caso, ad esempio, del rito
ambrosiano della diocesi di Milano. Se potesse servire a nutrire la religiosità di qualche
credente, a rispettare la pietas di certi settori cattolici, sarei personalmente favorevole al
ritorno alla situazione antica, cioè a un certo pluralismo liturgico. Purché, naturalmente,
venisse riconfermato il carattere ordinario dei riti riformati e venisse indicato chiaramente
l'ambito e il modo di qualche caso straordinario di concessione della liturgia preconciliare".
Più che un auspicio il suo, visto che poco più di un mese dopo doveva realizzarsi.

Lui stesso, del resto, nel suo Das Fest des Glaubens aveva ricordato che "anche in campo
liturgico, dire cattolicità non significa dire uniformità", denunciando che, "invece, il
pluralismo postconciliare si è dimostrato stranamente uniformante, quasi coercitivo, non
consentendo più livelli diversi di espressione di fede pur all'interno dello stesso quadro
rituale".

Uno spazio per il Sacro

Per tornare al discorso generale: che rimprovera il Prefetto a certa liturgia d'oggi? (o, forse,
non proprio di oggi visto che, come osserva, "sembra stiano attenuandosi certi abusi degli
anni postconciliari: mi pare che ci sia in giro una nuova presa di coscienza, che alcuni stiano 
accorgendosi di avere corso troppo e troppo in fretta". "Ma - aggiunge - questo nuovo
equilibrio è per ora di élite, riguarda alcune cerchie di specialisti mentre l'ondata messa in
moto proprio da costoro arriva adesso alla base. Così, può succedere che qualche prete,
qualche laico si entusiasmino in ritardo e giudichino d'avanguardia ciò che gli esperti
sostenevano ieri, mentre oggi questi specialisti si attestano su posizioni diverse, magari più
tradizionali").

Comunque sia, ciò che per Ratzinger va ritrovato in pieno è "il carattere predeterminato, non
arbitrario, " imperturbabile -, " impassibile " del culto liturgico". "Ci sono stati anni - ricorda -
in cui i fedeli, preparandosi ad assistere a un rito, alla messa stessa, si chiedevano in che
modo, in quel giorno, si sarebbe scatenata la " creatività " del celebrante...". Il che, ricorda,
contrastava oltretutto con il monito insolitamente severo, solenne del Concilio: "Che nessun
altro, assolutamente (al di fuori della Santa Sede e della gerarchia episcopale, n.d.r.); che
nessuno, anche se sacerdote, osi di sua iniziativa aggiungere, togliere o mutare alcunché in
materia liturgica" (Sacrosanctum Concilium n. 22).

Aggiunge: "La liturgia non è uno show, uno spettacolo che abbisogni di registi geniali e di
attori di talento. La liturgia non vive di sorprese " simpatiche ", di trovate " accattivanti ", ma
di ripetizioni solenni. Non deve esprimere l'attualità e il suo effimero ma il mistero del Sacro.
Molti hanno pensato e detto che la liturgia debba essere "fatta" da tutta la comunità, per essere
davvero sua. È una visione che ha condotto a misurarne il " successo " in termini di efficacia
spettacolare, di intrattenimento. In questo modo è andato però disperso il proprium liturgico
che non deriva da ciò che noi facciamo, ma dal fatto che qui accade Qualcosa che noi tutti
insieme non possiamo proprio fare. Nella liturgia opera una forza, un potere che nemmeno la
Chiesa tutta intera può conferirsi: ciò che vi si manifesta è lo assolutamente Altro che,
attraverso la comunità (che non ne è dunque padrona ma serva, mero strumento) giunge sino a
noi".

Continua: "Per il cattolico, la liturgia è la Patria comune, è la fonte stessa della sua identità:
anche per questo deve essere " predeterminata ", " imperturbabile ", perché attraverso il rito si
manifesta la Santità di Dio. Invece, la rivolta contro quella che è stata chiamata " la vecchia
rigidità rubricistica ", accusata di togliere " creatività ", ha coinvolto anche la liturgia nel
vortice del " fai-da-te ", banalizzandola perché l'ha resa conforme alla nostra mediocre
misura".

C'è poi un altro ordine di problemi sul quale Ratzinger vuole richiamare l'attenzione: "Il
Concilio ci ha giustamente ricordato che liturgia significa anche actio, azione, e ha chiesto che
ai fedeli sia assicurata una actuosa participatio, una partecipazione attiva".
Mi sembra ottima cosa, dico.

"Certo - conferma -. è un concetto sacrosanto che però, nelle interpretazioni postconciliari, ha
subìto una restrizione fatale. Sorse cioè l'impressione che si avesse una " partecipazione attiva
" solo dove ci fosse un'attività esteriore, verificabile: discorsi, parole, canti, omelie, letture,
stringer di mani... Ma si è dimenticato che il Concilio mette nella actuosa participatio anche il
silenzio, che permette una partecipazione davvero profonda, personale, concedendoci l'ascolto
interiore della Parola del Signore. Ora, di questo silenzio non è restata traccia in certi riti". 

AMDG et BVM

giovedì 17 settembre 2015

Una mattina nell'eremo del Papa

Una mattina nell'eremo del Papa emerito
di Vittorio Messori16-09-2015
Papa Benedetto XVi con Vittorio Messori

Il mattino di mercoledì 9 settembre, alla Porta Sant’Anna del Vaticano, sono salito su un’auto condotta da un graduato della Guardia Svizzera che, districandosi tra i viali dei celebri giardini mi ha portato al Monastero detto di Maria Mater Ecclesiae. Come si sa, è questo il luogo scelto dal Papa Emerito per vivere tra preghiera e studio dopo la clamorosa rinuncia. Una delle quattro Memores Domini (la famiglia religiosa ispirata da don Giussani) che accudiscono Benedetto XVI, mi ha accolto e mi ha fatto accomodare in un salotto al primo piano, ma dal quale si vede in modo completo il Cupolone incombente. Pochi minuti dopo, eccomi in ascensore ed ecco un Benedetto XVI, solo, sorridente, sulla soglia del suo studio. 

La mia collaborazione professionale prima e l’amicizia poi con Joseph Ratzinger risale ai primi anni Ottanta quando, insieme, preparammo quel Rapporto sulla fede che mise a rumore la Chiesa intera. Da allora, ci vedemmo piuttosto spesso. Ma, divenuto Papa, rispettai i suoi impegni opprimenti, non chiesi udienze e non lo incontrai che una sola volta quando fu lui stesso che volle rivedermi dopo la pubblicazione di Perché credo, il libro che avevo appena scritto con Andrea Tornielli. Rispettai poi anche il suo ritiro ma, ovviamente, mi ha fatto piacere l’invito, giuntomi attraverso il suo Segretario, ad andarlo a trovare per rivederci e parlare tra noi, in confidenza. Da quando quell’invito mi è giunto, ho subito pensato che fosse mio dovere di non metterlo in imbarazzo con domande da giornalista indiscreto, come i suoi rapporti col suo successore o come i motivi ”veri” della sua rinuncia. Sono dunque pregati di astenersi i soliti complottologi e dietrologi che pensassero che dietro questo nostro incontro ci fosse chi sa che.

Mentre mi inchinavo per baciargli la mano (come vuole una tradizione che rispetto, soprattutto da quando si cerca di declassare il ruolo e la figura del Supremo Pontefice), Sua Santità mi ha messo una mano sulla testa, per una benedizione che ho accolto come un grande dono. Con l’altra mano, si appoggiava a un sostegno a rotelle: ormai, gli sono precluse le passeggiate con il segretario nei giardini. Le sue possibilità di muoversi sono talmente limitate che, per uscire, viene sospinto su una carrozzella, mentre in casa si sposta solo per pochi metri appoggiandosi al ”girello”, come lo chiamano. Sotto la tonaca bianca si indovina la magrezza del corpo, ma il viso non porta affatto i segni dei quasi 90 anni: è quello di sempre, da eterno fanciullo, cui fa contrasto la corona dei capelli tutti bianchi e la vivacità degli occhi chiari. ”Bello”, insomma, come sempre è stato nel volto. E belle anche la sua lucidità intellettuale e la sua attenzione all’interlocutore. Spiritus promptus, caro infirma: la citazione viene spontanea, stando accanto a quello” spirito” prigioniero di una” carne” che ormai fatica a portarlo. 

Seduti sull’orlo di due divani ravvicinati - per ovviare, accostandoci, a un suo calo dell’udito - abbiamo parlato per oltre un’ora. Io, come dicevo, mi sono astenuto dal fare domande ovvie e sin troppo facili. Da lui, invece, le domande sono venute numerose. Mi ha ascoltato con attenzione quando, su sua richiesta, ho cercato di fargli una sintesi della situazione ecclesiale, almeno così come la avverto. Alla fine non ha detto che: «Io  posso solo pregare». 

Gli ho chiesto però di farci un dono: un De Senectute di ciceroniana memoria ma, ovviamente, in prospettiva cristiana, anzi cattolica, raccogliendo egli stesso per iscritto la sua esperienza senile, spesso dolorosa, e l’apertura sull’Aldilà, sulla vita vera che tutti ci attende. Una occasione preziosa per affrontare il tema di quel Novissimi che è stato rimosso da una Chiesa tutta e solo preoccupata non della salvezza eterna ma del benessere, per tutti, in questa vita.

Ha scosso il capo, e mi ha replicato: «Sarebbe una cosa preziosa, più volte ho denunciato questo oblio della morte, questa rimozione dell’aldilà con ciò che ci attende ”dopo”. Ma lei sa che sono abituato a ragionare da teologo, a filtrare la realtà attraverso le categorie filosofiche, dunque non potrei scrivere nulla se non in questo modo. Ma, ormai, per un simile impegno mi mancano le forze per farlo». E poi: «Il mio dovere verso la Chiesa e il mondo cerco di farlo con una orazione che occupa tutta la mia giornata». Preghiera mentale o verbale, Santità? mi è venuto, forse futilmente, di chiedergli. Pronta la sua risposta: «Verbale, soprattutto: il rosario completo, con le sue tre corone, poi i Salmi, le orazioni scritte dai santi e i brani biblici e le invocazioni del breviario». Alla preghiera mentale provvedono le molte letture di testi di spiritualità affiancati a quelli di teologia e di esegesi biblica. 

Me lo si lasci poi dire, sfidando il sospetto di vanità: ha voluto, bontà sua, ringraziarmi per un libro in particolare, quella inchiesta sulla passione di Cristo – Patì sotto Ponzio Pilato – che non solo ha citato ma ha raccomandato nei due primi volumi sulla trilogia dedicata a Gesù e pubblicata quando era già pontefice. Ovviamente, ne sono stato contento per me, come autore; ma non solo per me, bensì anche per quella apologetica, demonizzata dopo il Concilio al punto di cancellarne il nome nei seminari (“Teologia fondamentale” la chiama il clericalmente corretto) ma che è indispensabile a ciò su cui Ratzinger ha sempre insistito, da teologo e poi da papa, cioè da custode supremo della fede. La possibilità e la necessità, cioè, di non porre in contrasto ma in mutua collaborazione la ragione e la fede, l’intelletto e la devozione. 

Ad altri temi abbiamo poi accennato ma, per questi, vale una discrezione doverosa. Devo aggiungere – con un sorriso ironico, ad uso di chi si ostini a pensare all’incontro tenebroso tra congiurati – devo aggiungere, dunque, che nonostante l’ora del pranzo fosse giunta, anzi, abbondantemente superata, non è arrivato alcun invito ad andare a tavola. Benedetto XVI, mi hanno poi detto, mangia pochissimo (“come un passero”) e da solo, dando uno sguardo a un telegiornale: dunque, ha solo raramente commensali.  

Insomma, come si vede, non sono certo clamorose le cose che qui ho da dire. Se ho pensato egualmente di scriverne è per confortare i lettori: proprio accanto alla tomba di Pietro, c’è un vegliardo ammirevole che per otto anni ha guidato la Chiesa e che ora non ha altra preoccupazione che pregare per essa. Con impegno, ma senza alcuna angoscia. E, cioè, non dimenticando mai che i papi passano ma la Chiesa resta e sino alla fine della storia risuonerà l’esortazione del suo vero Capo e Corpo a noi pusillanimi: «Non temere, piccolo gregge, questa barca non affonderà e, malgrado ogni tempesta, starà a galla sino al mio ritorno»


AVE MARIA!

giovedì 15 gennaio 2015

LA TESI DI DON ANTONIO PERSILI



Dicono che è cattolico
Gli errori di Messori sulla Resurrezione di Gesù




 





Ho inserito questo articolo di Andrea Carancini sui metodi di Vittorio Messori nell'ambito della documentazione che questo sito offre sulla questione dei "cristianisti o teocon, sull'Opus Dei, su Alleanza Cattolica, su Comunione e Liberazione e altre associazioni del cattolicesimo liberista. La documentazione è di provenienza molto varia: ho pubblicato un articolo molto "laicista" ma ben documentato su Rino Cammilleri, mentre l'autore di questo articolo si definisce un cattolico tradizionalista.
A puro titolo informativo, e non per prendere le distanze da nessuno, dico che le mie idee sono molto più laiche di quelle discusse in questo contesto. Ma lascio ai complottisti di ogni grado e ordine il compito di ricamare sul fatto che questo sito ospita contributi così vari.







"SOLEVA DIRE: COI LIBRI SI FAN LIBRI; E VERAMENTE I CONCETTI ALTRUI CON BRIOSO STILE FACEVA SUOI, E DIVULGAVA."
Giacinto De Sivo su Voltaire, Storia delle Due Sicilie, Roma, 1863, Vol.I, p.22.

INTRODUZIONE

Vittorio Messori ha dedicato il suo ultimo successo editoriale alla Resurrezione di Gesù (con un titolo alquanto infelice per un autore ostentatamente "cattolico": "Dicono che è risorto") e tuttavia pochi hanno notato che i due capitoli più importanti del libro [1] - quelli che più direttamente entrano in argomento - non fanno che ricalcare le soluzioni storiche e filologiche di un libro uscito 13 anni prima: "Sulle tracce di Cristo Risorto", stampato in proprio nel 1987 da un parroco di Tivoli, don Antonio Persili.
Curioso è che mentre il libro di Messori, come si è detto, è già diventato un successo editoriale, quello di Persili non ha ancora trovato una casa editrice - cattolica o non cattolica - disposta a pubblicarlo.
Viene dunque da domandarsi: è solo una questione di fama - essendo il primo il più famoso scrittore cattolico italiano e il secondo un semisconosciuto parroco di campagna - o c'è qualcosa di più, qualcosa di intrinseco alla concezione dei due libri?
E' quello che mi propongo di verificare nel corso del presente articolo.

CHI E' DON PERSILI

Prima di entrare nel merito della questione mi sembra opportuno riferire un fatto ancora più curioso: Messori nel suo libro qualifica ripetutamente Persili quale "dilettante" eppure, mentre in tutti gli altri capitoli egli si rifà spesso ad autori ben noti, quali Lagrange e Ricciotti, nei due capitoli più importanti non trova di meglio che appoggiarsi sistematicamente all'esegesi del "dilettante" Persili.
Viene dunque da domandarsi: chi è don Persili?
Persili è in effetti un "dilettante", un parroco sprovvisto di titoli accademici ma tutto sta ad intendersi sui termini: un dilettante, certo, se paragonato ad esegeti come Lagrange e Ricciotti (che conoscevano anche l'ebraico) ma un dilettante che ha studiato in seminario quando greco e latino erano ancora tenuti in considerazione.
Un dilettante, soprattutto, che insoddisfatto dell'impostazione esegetica di una certa "accademia", oggi imperante tanto nelle università pontificie quanto in quelle "profane", ha avuto il merito di porre la questione della Resurrezione su un piano non solo teologico e scritturale ma anche fisico e materiale, esaminando il Mistero cristiano per eccellenza come un fatto, un fatto suscettibile di implicazioni fisico-chimiche storicamente ricostruibili: un lavoro quindi di puro revisionismo storico, contro una critica biblica che nel suo pretendersi a scienza rivela una sorprendente ignoranza degli usi funerari dell'antico Israele.
Persili, infine, non è certo un cattolico "conservatore" o "tradizionalista" ma della tradizione ritiene un dato essenziale: il carattere cogente della fede, l'esigenza che la fede non rimanga ingiustificata di fronte alla ragione, come insegna l'apologetica tradizionale ed è qui, come stiamo per vedere, la radice del problema.

IL PROBLEMA GNOSEOLOGICO

Scrive Messori nel suo libro [2]: "Intendiamoci: la diffidenza degli specialisti "accademici" per i "dilettanti" non è sempre ingiustificata, visto che questi ultimi spesso procedono senza le doverose cautele e, in genere, vogliono provare troppo. Anzi, mentre tentazione del professore è il minimizzare, tentazione del dilettante è l'esagerare." Fin qui il discorso di Messori è assolutamente condivisibile e lo è, a mio giudizio, anche per quanto riguarda certe soluzioni proposte da Persili: non sempre infatti il testo biblico si presta a soluzioni univoche.
Ma prosegue Messori: "Don Persili non sembra sfuggire, per alcuni aspetti, a questa regola, credendo di potere, grazie alle sue ricerche, dimostrare in modo inequivocabile la storicità della Risurrezione. Ma se un risultato simile fosse davvero possibile, la fede si dissolverebbe nella ragione umana e, dunque, non avrebbe più all'origine la misteriosa e gratuita iniziativa divina."
Qui Messori confonde artatamente due piani che dovrebbero rimanere assolutamente distinti, passando inavvertitamente ( per il lettore) da un ambito strettamente esegetico a considerazioni di ordine teologico e dottrinali assolutamente non identificabili con la competenza "specialistica", bensì con la mentalità fideista e giansenista di Messori medesimo.
Continua Messori: "Il massimo cui può giungere l'indagatore dei vangeli è mostrare non che i versetti del Nuovo Testamento sono veri (se così fosse, tutti dovrebbero accetarli e la fede non sarebbe più tale, anche perchè le mancherebbe la libertà, l'aspetto di "scommessa"), ma che sono verosimili. Così che accettarli sia ragionevole (anche se non razionale, perchè la ragione, pur importante - anzi, componente essenziale, assieme alla volontà, dell'atto di fede - non può esaurire la fede stessa senza dissolverla, poichè la metterebbe in pieno potere dell'uomo e toglierebbe a Dio la sua iniziativa prioritaria e indispensabile)."
Al termine di questo tortuoso ragionamento acquisiamo dunque una notizia, il "cattolico" Messori è l'autore di una nuova definizione del cattolicesimo: la religione cristiana (di cui i Vangeli sono il fondamento) non sarebbe più vera bensì soltanto verosimile.
Quindi, a rigor di Messori, il primo dilettante dovrebbe essere considerato S.Paolo apostolo, il quale si rivolge ai pagani in questi termini:
"Si rivela infatti l'ira di Dio dal cielo su ogni empietà e ingiustizia degli uomini che detengono avvinta la verità nell'ingiustizia, poichè ciò che d'Iddio è conoscibile è manifesto in essi: Iddio, infatti, lo manifestò ad essi. Poichè le cose invisibili di lui sono scorte dal pensiero fin dalla creazione del mondo attraverso le opere di lui, sia la possanza eterna di lui sia la divinità; di modo che coloro sono inescusabili..." [3]
Parimenti dilettante, venendo ai nostri giorni, dovrebbe essere considerato Pio XII che, nell'enciclica "Humani Generis", ha ribadito la possibilità di "provare con certezza l'origine divina della religione cristiana con la sola luce della ragione". In realtà quello che Messori cerca di liquidare come "dilettantesco", attraverso il bersaglio - quanto mai comodo - costituito da un parroco di campagna, è il fondamento di duemila anni di apologetica cristiana.
E' la posizione, appunto, del fideismo, che esagera la funzione della fede nella conoscenza della verità. Ma il punto è che CONOSCERE IL FATTO STORICO DELLA RESURREZIONE NON SI IDENTIFICA NECESSARIAMENTE CON LA FEDE NELLA MEDESIMA, come sottolinea un autore quale mons.Francesco Spadafora, già professore di greco biblico ed esegesi al Laterano:
"Si può arrivare alla certezza intellettuale della Resurrezione ( e del Cristianesimo) ma rifiutarsi, per motivi di ordine morale, di credere (Lc. 14, 31: "Se anche un morto risuscitasse, non crederebbero")...Che poi, per conoscere la verità della Resurrezione e del Cristianesimo in genere occorrano già "gli occhi della fede" non è dottrina della Chiesa, ma un errore della "nuova teologia", mutuato dal Rousselot (Les yeux de la foi)." [4]
Tra quelli, appunto, condannati da Pio XII nell'"Humani Generis". Allo "storico" Messori bisognerebbe invece far notare che se l'apologetica cristiana non si rivolgesse alla ragione - prima che alla fede - non avremmo avuto una filosofia cristiana distinta dalla teologia (e uno dei più noti specialisti del pensiero cristiano classico come Etienne Gilson non avrebbe intitolato la sua opera più famosa "Storia della filosofia medioevale"). [5]
E' un peccato che la maggior parte dei lettori si accontenti delle divulgazioni messoriane senza mai andare alla fonte degli autori da lui citati (e ampiamente sfruttati): scoprirebbe infatti che, nella fattispecie, il "dilettantismo" che Messori rimprovera a Persili non è altro che la concezione tomista dell' atto di fede. Scrive infatti Persili: "Perciò, se è vero che la fede non si può ridurre ad una semplice conseguenza logica, è anche vero che l'intelligenza esige di sapere "perchè" deve credere. S.Tommaso ripeteva: "Non crederei se non vedessi che devo credere". Ed è con l'intelligenza che si vedono le prove e le garanzie che la fede possiede". [6]
Cosa rimane allora delle intuizioni esegetiche di Persili (alcune delle quali effettivamente di estremo interesse) "filtrate" da Messori e private della loro valenza teologale e conoscitiva?
Rimane un caso di sensazionalismo gionalistico mirato al favore del grosso pubblico, salvaguardando nel contempo la suscettibilità dell'establishment curiale, di cui Messori è parte integrante, sia pure dal versante "conservatore". 

LA TESI DI PERSILI 

La tesi del sacerdote laziale è che la primissima fede nella Resurrezione non nasca, come comunemente si crede, dalle apparizioni di Gesù alle pie donne e agli apostoli ma nasca dal sepolcro, da quello che i testimoni oculari Pietro e Giovanni videro nel sepolcro.
Ed è più che naturale che tale tesi fosse ignota al grande pubblico, considerato che la traduzione ufficiale della CEI del brano cruciale del quarto Vangelo (Gv. 20, 3-8) sarebbe, per usare le parole di Messori, "imprecisa, equivocando a tal punto sulla lettera e lo spirito dell'evangelista da rendere incomprensibile le ragioni di quel "vide e credette" che termina in modo folgorante la prima visita a ciò che diventa da quel momento il Santo Sepolcro". [7]
Invece è proprio lì, nel sepolcro - e nel passo giovanneo che lo descrive - che, secondo Persili, si trova la prova fisica della Resurrezione e Pietro e Giovanni ne sono i testimoni oculari a causa precisamente della disposizione dei lini:

"Pietro, entrato nel sepolcro, non vide il corpo di Gesù perchè era scomparso, sparito. La particolare disposizione delle tele faceva escludere che il corpo di Gesù si fosse in qualche modo "rianimato", come accadde a Lazzaro e che fosse tornato di nuovo a vivere la vita terrena; faceva anche escludere che fosse stato preso o rubato da qualcuno, amico o nemico, perchè le fasce erano rimaste al proprio posto, anche se distese, e non erano state nè svolte nè sciolte nè tagliate." [8]
Questa esegesi è a mio avviso importante e merita di essere presa in considerazione ma per valutarne appieno le implicazioni è necessario inquadrarla in quelli che, in riferimento alla controversia sulla Resurrezione, sono il contesto storico e la prospettiva d'insieme. Il contesto storico è dato da quegli esegeti che, prima di Persili, hanno indagato le tracce presenti nel sepolcro.
La prospettiva d'insieme si osserverà invece considerando il contesto storico alla luce dello stato attuale dell'esegesi cattolica.
Una cosa infatti va detta innanzitutto: nel libro di Messori il contesto storico ed esegetico di Giovanni 20 risulta assolutamente inesistente, facendo sembrare lo studio di Persili come il frutto ingegnoso - ma pur sempre esclusivamente "opinabile" - di un outsider della critica biblica, senza precedenti nella tradizione esegetica (come è stato, a torto, già affermato) [9] e quindi utilizzabile, senza impegno, come "sensazione" giornalistica.
Leggendo Messori sembra si parli di certe cose per la prima volta quando invece è esattamente il contrario:quanto c'è di positivo nell'indagine del sacerdote laziale costituisce casomai la precisazione in dettaglio di temi già delineati da importanti esegeti, sia nel secolo appena trascorso che in epoca patristica. 

IL CONTESTO STORICO 

Per inquadrare storicamente i problemi esegetici relativi a Giovanni 20 partiamo da quella che, da oltre quarant'anni, è la traduzione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana:

"Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi,vide le bende per terra ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l'altro discepolo che era giunto per primo al sepolcro e vide e credette".
Commenta Persili: "se questa è la testimonianza di Giovanni si potrebbe anche ammirare la fede dell'apostolo, ma si dovrebbe dubitare molto della sua capacità di giudizio, perchè in questa relazione non c'è niente che faccia pensare all'evento della Resurrezione. Che significato posson avere le bende per terra e il sudario piegato in un luogo a parte? Possono significare solo l'opera di uno che non sa quello che fa, perchè una cosa la lascia cadere a terra ed un'altra invece la piega e la ripone in un luogo a parte." [10] Inoltre, aggiunge Persili, "i pannilini per terra indicano certamente disordine e forse anche violenza". [11] Penso sia interessante osservare che il dettaglio delle "bende per terra" sia una variante introdotta nelle traduzioni più recenti; traduzioni più antiche recitavano diversamente:
"...Ed essendosi inchinato vidde deposti i panni-lini, ma non entrò. Venne dunque Simon Pietro seguendo lui, ed entrò nel monumento; e vidde posati i pannilini, ed il sudario, che era stato sulla di lui testa, non posato con i panni-lini, ma piegato, e posto in luogo a parte". [12]
Come arrivare, comunque, da una descrizione come questa al "vide e credette" dell'apostolo? La spiegazione, in senso apologetico, più conosciuta - fin dall'età patristica - di questi versetti è che la presenza dei lini nel sepolcro faceva escludere il trafugamento del corpo (perchè un ladro non si sarebbe attardato a svolgere fasce e sudario) attestando quindi l'avvenuta Resurrezione: è la spiegazione, tra gli altri, di S.Giovanni Crisostomo. [13]
S.Agostino però non rimase convinto da questa soluzione e diede al "vide e credette" un oggetto diverso: l'apostolo non credette alla Resurrezione ma alle parole della Maddalena e cioè che davvero il corpo di Gesù era stato tolto dal sepolcro.
La spiegazione di S.Agostino segnò la ricezione di Giovanni 20 nell'occidente latino, come osserva Spadafora: "I Padri e scrittori latini, in genere, non diedero tale importanza alla posizione dei lini, sia perchè non conoscevano il greco, sia per la traduzione errata delle versioni latine." [14]
Tale rimase la situazione fino al novecento ma su questo punto mi permetto di dissentire dal pur illustre studioso: non era solo un problema di traduzione perchè la difficoltà di Giovanni 20 è di ordine concettuale prima che linguistico.
Il problema infatti non nasce dalle traduzioni latine dell'occidente medioevale ma dall'interpretazione del testo greco fatta anche da autori greci - peraltro eccelsi - come S.Giovanni Crisostomo, secondo il quale, come si è detto, un ladro non si sarebbe attardato a ripiegare il sudario in un luogo a parte ma avrebbe trafugato il cadavere con i suoi lini. [15]
Il punto è che l'evangelista non usa il verbo "ripiegare" né in relazione alle fasce né in relazione al sudario.
In particolare, per definire la posizione del sudario usa il participio perfetto entetuligménon, da "entulìsso", corrispondente ai verbi italiani "avvolgo, involgo, ravvolgo", mai a "ripiegare".[16]
Di più, l'uso del perfetto indica una continuità "perfetta" tra il prima e il dopo: "avvolto, come era stato avvolto".
Questo il significato letterale.
Ma che senso può avere "avvolto come era stato avvolto"?
I traduttori e gli esegeti di solito risolvono la difficoltà asserendo che tale vocabolo deve tradursi come - o essere l'equivalente di - "ripiegare", pur riconoscendo che esso non ha tal senso.
In realtà questa costante forzatura è l'effetto di un pregiudizio di ordine naturalistico: il traduttore e l'esegeta piegano allo schema visivo - e concettuale - della resurrezione di Lazzaro le tracce di un evento radicalmente differente. Gesù si alzerebbe dalla tomba ed uscirebbe a piedi dal sepolcro come Lazzaro non senza, a differenza di quest'ultimo, aver ripiegato accuratamente il sudario - quasi fosse una massaia - "in un luogo a parte".
Ma tale spiegazione zoppica per almeno due motivi:
da un lato, nonostante gli sforzi degli esegeti, i lini ripiegati - o, addirittura, per terra - non possono costituire un segno inequivocabile per l'atto di fede dell'evangelista [17]; dall'altro non rendono effettivamente conto del tipo di sepoltura descritto nel Vangelo: liberarsi manualmente dall'intrico di tele sepolcrali, un intrico reso ermetico dalle cento libbre di unguenti versati sulla salma, ammesso che sia possibile, costituirebbe un exploit muscolare più degno delle fatiche di Ercole che di Cristo Risorto.
Come ovviare a questa difficoltà: S.Agostino, come detto, spostò l'oggetto del "vide e credette" dell'apostolo dalla posizione dei lini alla testimonianza della Maddalena ma il suo tentativo svuotava il rilievo dato dal quarto Vangelo alla visita del sepolcro ed è stato scartato da quasi tutti gli esegeti del novecento.
Il problema è stato avviato, gradualmente, a risoluzione da alcuni importanti biblisti cattolici contemporanei ma la causa remota del progresso di questo come di altri problemi esegetici, la causa storica intendo, deve essere a mio avviso rintracciata nella figura di Papa Leone XIII.
Nel corso del suo pontificato Leone XIII diede infatti due grandi linee di indirizzo alle élites cattoliche dell'epoca: il rinnovamento dell'esegesi biblica - con l'impulso dato allo studio delle lingue orientali [18] - per rispondere al protestantesimo liberale sul terreno della critica testuale e, nel contempo, la riscoperta di S.Tommaso e della scolastica contro la fermentazione del primo modernismo.
Grazie a Leone XIII si ebbe quindi per alcuni decenni un'esegesi che, etichettata come "conservatrice" in epoca "conciliare", fu al contrario la più genuinamente innovativa del novecento, non esitando a correggere e superare gli stessi Padri della Chiesa quando la loro interpretazione si faceva divergente e personale, come nel caso della visita di Pietro e Giovanni al sepolcro.
Persili non è stato quindi il primo a rimarcare i limiti dell'interpretazione "naturalistica" di Giovanni 20 ma è stato preceduto da una serie di autori la cui tesi comune è che il "vide e credette" dell'apostolo si spieghi unicamente con una rinascita del corpo di Gesù indipendente dalle leggi fisiche.
Il senso di Giovanni 20 viene quindi a coincidere con un paradosso. Paradossale però non è solo il testo biblico ma anche la sua ricezione in ambito esegetico.
Giovanni Ghiberti, nella sua rassegna "Giov.20 nella esegesi contemporanea", definisce la tesi suddetta come "isolata". [19]
In realtà Persili, che oggi sembra un pioniere, è stato preceduto da autori quali Lagrange, Willam, Balaguè, Lavergne, Auer, McClellan e persino da studiosi "progressisti" quali Feuillet e Rossano nonchè da un esegeta come Francesco Spadafora che, seppur mai nominato da Messori, ha dato risposte approfondite (e in parte definitive) alla questione fin dal 1952, sulla rivista "Divus Thomas" di Piacenza.
Tale tesi non è dunque così isolata: pur essendo finora praticamente ignota al grande pubblico è stata sostenuta da esegeti di chiara fama, alcuni dei quali tra i più illustri del novecento e questo è indubbiamente un dato paradossale.
Ancor più paradossale è però che tale interpretazione, secondo cui Gesù uscì dai lini senza svolgerli, a detta di un esperto quale l'innominato Spadafora sarebbe nuova ma non nuovissima, avendo almeno due precedenti in epoca patristica: S.Cirillo di Gerusalemme e S.Cirillo di Alessandria il quale - sia detto en passant - fu nominato Dottore della Chiesa proprio da Leone XIII. [20]
Un'interpretazione, in ogni caso, che mi sembra la più rispondente -in base al principio ermeneutico dell'analogia della fede [21] - al Gesù che, risorto, appare tra i discepoli anche a porte chiuse, dopo esser nato da Maria sempre Vergine.
A tal proposito vorrei citare un classico brano di S.Agostino, tratto dal capitolo IV del Discorso 215:
"Ossia avvenga la concezione nella vergine senza seme di uomo; nasca da Spirito Santo e da una donna integra colui per il quale integra possa rinascere da Spirito Santo la Chiesa. Il santo che nascerà dalla parte umana della madre senza l'apporto umano del padre si chiami Figlio di Dio; colui che è nato da Dio Padre senza alcuna madre, doveva in modo meraviglioso diventar figlio dell'uomo, e cosi, nato in quella carne, poté uscire piccolo attraverso viscere chiuse, e grande, risuscitato, poté entrare attraverso porte chiuse. Sono cose meravigliose, perché divine; indescrivibili, perché inscrutabili; non è in grado di spiegarlo la bocca dell'uomo, perché non è in grado di esprimerlo il cuore dell'uomo..."
In conclusione di questo inquadramento storico vorrei far rilevare quanto sia diversa dalla traduzione ufficiale della CEI la versione di Spadafora, che a tutt'oggi mi sembra - finora - la meno distante dalla sottigliezza dell'originale:
"vide...i pannilini (fasce e lenzuolo) giacenti (appiattiti)...e il sudario - che era stato sul capo di Gesù - giacente (anch'esso), non con i pannilini, ma a sé stante, avvolto com'era stato avvolto, nella stessa posizione (di prima)". [22]

LA PROSPETTIVA D'INSIEME 

Che il primo atto di fede nasca dal sepolcro quindi lo si sapeva già: Persili è stato però il primo studioso che, dopo una ricostruzione particolarmente accurata della sepoltura di Gesù [23], abbia dato una spiegazione al perchè della differente posizione del sudario rispetto ai lini e l'abbia fatto mettendo in relazione gli unguenti portati da Nicodemo con le tracce nel sepolcro descritte dall'evangelista.
Il sudario è rimasto nella posizione di avvolgimento iniziale, senza appiattirsi - come i lini - seguendo la forza di gravità a causa, secondo Persili, della forza d'inerzia: al momento della Resurrezione gli aromi si sarebbero volatilizzati, lasciando il fazzoletto come inamidato, come se avvolgesse ancora il capo di Gesù.
Considerazioni che un non credente giudicherà senz'altro risibili. Personalmente trovo invece non solo legittimo ma anche affascinante che un esegeta si interroghi non solo sull'evento soprannaturale ma anche sulle possibili conseguenze fisiche di tale evento.
Anche su questo Messori trova il modo di "bacchettare" Persili, dandogli - con i consueti giri di parole - dello sprovveduto, per aver considerato indiscutibile l'autenticità della reliquia (e quindi argomento probante in un'indagine sulla Resurrezione). [24]
Un'opinione, questa di Messori, cui fa eco la presa di posizione di Pierluigi Baima Bollone - un patologo che può essere considerato come il Messori della sindonologia - il quale ha dichiarato alla trasmissione televisiva "La Macchina del Tempo" che "la prova definitiva ancora non c'è", in ossequio a quel relativismo gnoseologico che oggi rappresenta il principio ermeneutico davvero irrinunciabile anche per cattolici considerati "conservatori" come Baima Bollone e Messori.
Ma ha senso parlare - a proposito della Sindone - di singola prova definitiva?
A Baima Bollone - e a Messori - si potrebbe rispondere con le parole dette a suo tempo dal biologo Yves Delage che, seppur agnostico, dopo aver affermato ai colleghi dell'Académie des Sciences che non c'era nemmeno una possibilità su dieci miliardi che la Sindone non fosse il lenzuolo funebre di Gesù - ed essere stato investito dalla reazione furibonda degli anticlericali - così si esprimeva:

"Riconosco di buon grado che nessuno di questi argomenti presenta in sé il carattere di una dimostrazione irrefutabile; bisogna anche riconoscere, però, che la loro somma costituisce un insieme imponente di probabilità, alcune delle quali molto vicine a essere provate. Si è introdotta senza necessità una questione religiosa in un problema che, in sé, è puramente scientifico, con il risultato che le passioni si sono scaldate e la ragione è stata fuorviata. Se si trattasse, anziché di Cristo, di un Sargon, di un Achille o di un faraone, nessuno avrebbe pensato a fare obiezioni. Io riconosco Cristo come personaggio storico e non capisco che possa esserci qualcuno che trovi scandaloso se tuttora esistono tracce materiali della sua vita terrena". [25]
...Un insieme imponente di probabilità, alcune delle quali molto vicine ad essere provate, questo scriveva nel 1902 Delage: da allora la sindonologia è andata talmente avanti nella direzione indicata dal biologo francese che oggi due studiosi come Giulio Fanti ed Emanuela Marinelli hanno potuto, sulla base di 100 prove considerate attendibili, fare dell'argomento probabilistico - con una metodologia che non ha ancora ricevuto obiezioni - una tesi scientifica di carattere reale, ben oltre quella che ai tempi di Delage poteva essere considerata una mera provocazione. Dirò di più, la messe di informazioni raccolte sulla Sindone negli ultimi 25 anni è tale non solo da far apparire le "cautele" di Messori e Baima Bollone per quello che sono (un pedaggio obbligatorio al neomodernismo imperante in alto loco) ma anche da permettere una considerazione che mi sembra sia sfuggita agli stessi sindonologi: oggi è possibile dimostrare l'autenticità del lenzuolo sepolcrale di Gesù prescindendo persino dall'immagine e dal problema della sua formazione.
Basta infatti esaminare le prove relative al telo, alle microparticelle e alle tracce di sangue. [26]
Se poi Messori e Baima Bollone volessero ancora cercare la "prova definitiva" non hanno che da tornare sulle tracce di Giovanni 20: per quanto infatti la Sindone sia stata fatta oggetto di un profluvio di rapporti tecnici - alcuni ottimi altri meno - è ancora a S.Giovanni apostolo che spetta, dopo 2000 anni, l'ultima parola.
Perchè è lì la prova, non solo e non tanto in una testimonianza oculare radicalmente incompatibile con l'immaginazione (e ancora oggi insospettabilmente ostica da "immaginare", anche per scienziati che conoscano il greco...) ma perchè la testimonianza in questione è resa in forma di enigma: fatto non così anomalo nel quarto Vangelo e tuttavia assai poco notato. [27]
Se infatti il resoconto di S.Giovanni fosse falso l'autore avrebbe avuto cura di evidenziare l'oggetto dell'inganno invece di renderlo praticamente impenetrabile, all'esegeta amico non meno che al nemico (in un mondo - è bene ricordarlo - dove i segreti delle profezie erano riservati ad una classe di iniziati) sanzionando così la fine dell'esoterismo ebraico, della funzione sociale dei sinedriti.[28]
Detto questo, vorrei passare ora a formulare due obiezioni al libro di Persili:
1 - Alcune delle soluzioni proposte da Persili nella traduzione di Giovanni 20 risultano - a differenza dell'esegesi - poco convincenti;
2 - Affermare, come fa Persili, che Gesù non uscì dai lini - né dal sepolcro - perchè dall'interno di essi entrò direttamente nell'eternità costituisce un errore teologico.
Per quanto riguarda la traduzione Persili, sulla scorta di un'affemazione apodittica di Delebecque (e del prof.Zerwick) [29], nega recisamente che l'aggettivo numerale "heis" possa aver mai, nel Nuovo Testamento, il valore ordinale "protos", per cui il sudario non si troverebbe "nella stessa posizione (di prima)" bensì "in una posizione unica" (nel senso di "unica per eccellenza").
In realtà voci autorevoli si sono espresse in senso contrario [30] e la traduzione di Persili ha il difetto di sovradimensionare il dettaglio (perchè "unica per eccellenza" è la causa - la Resurrezione - più dell'effetto) riducendo la precisione cronistica del brano evangelico.
Per quanto concerne invece il sostenere che Gesù non uscì dai lini ma entrò "direttamente" nell'eternità, si tratta di una concezione riduttiva dell'integrità del corpo di Cristo che, se è reale, non può mai perdere la localizzazione.
Persili mostra di non capire (e con lui Messori, che lo segue pedissequamente) [31] che quello di Gesù non fu solo "il passaggio misterioso da uno stato all'altro, dal tempo all'eterno" ma anche "lo spostamento da un luogo all'altro" - essendo l'Ascensione un moto-a-luogo - secondo la regola dell'ET-ET tanto cara a Messori, giacchè se il Paradiso non fosse anche un luogo fisico Resurrezione e Ascensione sarebbero solo un mito, come vorrebbero gli esegeti neomodernisti (a confutazione dei quali Persili ha scritto il libro).
A questo punto mi si potrebbe obbiettare: ma che necessità c'è di "dimostrare" la Resurrezione di Gesù? Che significato avrebbe, allora, il detto di Gesù a Tommaso apostolo "beati coloro che non hanno visto, e hanno creduto?" [32]
Penso che la risposta a questo interrogativo sia da intendersi in senso anzitutto scritturale ed è Gesù stesso che la dà ai due discepoli di Emmaus:
"O uomini sì corti d'intelletto e dal cuore così lento a credere tutto quello che i Profeti hanno predetto! [33] Non era necessario forse che il Cristo patisse tutto questo ed entrasse così nella sua gloria?" Poi cominciando da Mosè e da tutti i Profeti spiegò loro quanto lo riguardava in tutte le Scritture. [34]
Credere senza "vedere" non significa quindi che le prove della fede non debbano passare al vaglio della ragione ma che il Messia, in quanto uomo, è il Servo sofferente di Jahweh annunciato dai profeti. Guarda caso invece, coloro che ascrivono la Resurrezione agli "occhi della fede" - la odierna "vulgata" esegetica - sono gli stessi che, per motivi di politica "ecumenica", fanno di Gesù una sorta di alieno all'interno della tradizione ebraica negando ogni implicazione cristologica alle profezie veterotestamentarie - a cominciare da Isaia [35] - supportati in questo egregiamente, a livello di pubblicistica di massa, da personaggi come Vittorio Messori. [36]
Tale scopo viene perseguito in primis con delle edizioni della Bibbia i cui "ritocchi" di traduzione mirano a rendere irriconoscibile il legame tra i Profeti e Gesù, senza tralasciare di insinuare un'interpretazione radicalmente naturalistica della vita di quest'ultimo. [37]
E' "naturale" che sia così: tra gli attuali membri della Pontificia Commissione Biblica non ce n'è più neppure uno che creda ancora alla Resurrezione di Gesù nella carne. [38]
Ma che la natura di questo mutamento derivi più da un modello ideologico che da un reale progresso delle conoscenze scientifiche lo si arguisce proprio dalla confusione che regna nell'esegesi corrente riguardo agli usi funerari ebraici, fino al punto di ignorare - questa una delle impressioni più sconcertanti che si ricavano dalla rassegna critica che Persili dedica ad opere oggi facenti testo - il significato generico e primario di termini quali "sindone" e "sudario". [39]
Ma certi esegeti li consultano, almeno, i dizionari?
In ogni caso, nella confusione si ritiene fermissimo il pregiudizio veteromodernista della distinzione tra il "Gesù della storia" e il "Cristo della fede", come è scritto in un editoriale della Civiltà Cattolica: "la resurrezione non è accessibile se non alla fede". [40]
Tale pregiudizio è fondato sulla convinzione - derivata da un'interpretazione speciosa di I Cor, 15 - che il "corpo" resuscitato di Gesù non sarebbe lo stesso corpo staccato dalla croce. [41]
A chi potrebbe obbiettare "perchè bisogna accantonare la vecchia traduzione di Giovanni 20? Che importanza può avere una traduzione piuttosto di un'altra di fronte a problemi più pressanti per la Chiesa?"
si deve quindi rispondere: perchè la traduzione corrente è diventata un punto di appoggio per una teoria che nega la Resurrezione corporea di Gesù. Perchè la Chiesa non è semplicemente fondata su Cristo ma sulla continuità materiale del corpo di Cristo. 

CONCLUSIONE 

Abbiamo visto come il libro di Persili sia stato rifiutato da tutte le case editrici cui era stato proposto, pur non essendo l'autore certamente non etichettabile come "tradizionalista".
Viceversa Messori è uno di quei giornalisti che fanno "opinione" sulla stampa progressista, anche laica, pur essendo considerato un conservatore e persino un reazionario e, come tale, non solo stimato ma persino idolatrato da esponenti del cattolicesimo tradizionalista, alcuni dei quali hanno addirittura trovato il modo di definirlo, incredibilmente, "nuovo Padre della Chiesa". [42]
E' curioso però che nei libri del tradizionalista Messori non compaiano mai proprio gli autori tradizionali per eccellenza: i Padri e i Dottori della Chiesa.
Ma, a ben vedere, una spiegazione c'è, visto che l'esegesi dei Padri è fondata sulle corrispondenze tra Vecchio e Nuovo Testamento e la loro ermeneutica sul principio della conoscibilità della verità: è infatti di S.Agostino il noto detto "ratio antecedit fidem", la ragione precede la fede.
Ma allora a quale tradizione rimonta un tale "tradizionalismo"?
Sicuramente non a quella del Concilio Vaticano I, che afferma:

"Se qualcuno dirà che Dio uno e vero, Creatore e Signore nostro, per mezzo delle cose create, non possa conoscersi con certezza al lume naturale dell'umana ragione, sia anatema". [43]
In realtà il Messori che - da cattolico - assevera l'indimostrabilità della Resurrezione e giudica la Parola di Dio al massimo verosimile, fino al punto di dare del dilettante a chi la pensa diversamente, ricorda in modo impressionante il tradizionalismo di Bonetti, condannato dalla Chiesa nel 1855. [44] Quando invece il sostenere, come ha fatto Persili, il fondamento razionale dell'atto di fede è - al di là delle singole questioni esegetiche - la cosa più professionale che ci si possa oggi sentir dire da un sacerdote.



NOTE
[1] Cap.XII, "Vide e credette" e Cap.XIII, "Tra sindone, sudario, e fasce", Torino, 2000.
[2] V.Messori, op.cit., p.125.
[3] Rom.I, 19-21.
[4] Francesco Spadafora, "La 'nuova esegesi'", Sion, 1996, p.245.
[5] Scrive Serge Thion in nota al capitolo 2.1 dell'edizione Internet del libro "L'Opération Vicaire" di Paul Rassinier:
"...le besoin de comprendre la foi est aussi ancien dans l'Eglise que l'établissement des textes canoniques, parce que les Pères de l'Eglise étaient avant tout des philosophes formés à l'école grecque. Si un Augustin, après Tertullien, a pu revindiquer hautement l'absurdité de la foi contre le logos, c'était avant tout par défi. Toute la tradition catholique ultérieure tend à penser la foi et Anselme de Cantorbéry (1033-1109) écrivit vers 1075 un traité intitulé Fides quaerens intellectum (la foi qui cherche à comprendre) et cela, avant l'apogée rationnel du tomisme au XIII siècle.
[6] A.Persili, op.cit., p.18.
[7] V.Messori, op.cit., p.124.
[8] A.Persili, op.cit., p.231.
[9] Ad esempio da Silvano Villani nel suo articolo "Il rebus nel Quarto Vangelo, Gv 20, 7", disponibile su Internet.
[10] A.Persili, op.cit., p.135.
[11] A.Persili, op.cit., p.136
[12] Così recita la versione de "Gli Evangelisti uniti tradotti e commentati", di Andrea Mastai Ferretti, Roma, 1863, II volume, p.419.
[13] S.Giovanni Crisostomo, Omelia LXXXV sul Vangelo di Giovanni. Disponibile in traduzione inglese su Internet.
[14] Francesco Spadafora, "La Risurrezione di Gesù", Rovigo, 1978, p.134. Ho tratto buona parte delle mie informazioni da questo volume, che deve considerarsi ancora oggi come l'opera più completa uscita sull'argomento.
[15] Un'esegesi seguita anche da un illustre studioso e apologeta quale mons.Pier Carlo Landucci nel suo "Prima che Abramo fosse Io sono. Il Dio in cui crediamo", Milano, 2001, p.268.
[16] F.Spadafora, op.cit., p.136.
[17] Come sottolinea Spadafora, op.cit., p.131: "Ma bastava osservare che, ad es., volendo fare una beffa ai discepoli creduloni, i Capi del popolo avrebbero potuto portar via il corpo lasciando quell'apparato appunto per ingannarli...".
[18] L'istituzione, tra l'altro, di una cattedra di ebraico per ogni Seminario Maggiore si deve proprio a Leone XIII.
[19] In "Studi Patristici", n°20, 1973, p.322.
[20] F.Spadafora, op.cit., p.133, n.135.
[21] Come ricordato dall'Enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII, citando S.Agostino: "Nei passi ambigui della Scrittura si consulti la regola della fede, che si attinge dai passi più chiari della stessa Scrittura e dall'autorità della Chiesa".
[22] F.Spadafora, op.cit., p.138.
[23] Basandosi sulla letteratura archeologica ma con un approfondimento esegetico non indifferente: Persili mi sembra il primo esegeta che abbia chiarito che i Vangeli descrivono in Lazzaro e Gesù due sepolture completamente differenti. Da una più attenta lettura dei Vangeli infatti - e, aggiungo io, dalla Vulgata - emerge che Lazzaro venne sepolto, more judaico, con i suoi abiti quotidiani, a differenza di come viene raffigurato dalla maggior parte degli esegeti, bardato come una mummia egizia. Inoltre, per quanto attiene Gesù, gli esegeti in genere continuano ad ignorare le particolari prescrizioni che regolavano il seppellimento dei defunti morti con spargimento di sangue, la prima delle quali era il divieto di lavare il corpo.
[24] V.Messori, op.cit., p.126.
[25] Lettera alla "Revue Scientifique" citata in: Emanuela Marinelli, "La Sindone - Un'immagine 'impossibile'", Cinisello Balsamo, 1996, p.61.
[26] Giulio Fanti - Emanuela Marinelli, "Cento prove sulla Sindone", Padova, 2000, pp.105 ss.
[27] Ad esempio anche l'episodio relativo all'avvenire di Pietro e Giovanni - Gv. 21, 18-23 - è un enigma,che ha dato origine alle supposizioni più fantasiose, ma non è questa la sede per occuparsene.
[28] Una delle verità oggi più neglette è che i dogmi della religione cattolica non sono altro che l'insegnamento segreto della cabala mosaica rivelato al mondo dal Redentore: si tratta della tradizione primordiale rivelata da Dio ad Adamo e poi conservata e tramandata dai maggiorenti della sinagoga antica prima della venuta del Messia (e prima che i farisei ne pervertissero gli insegnamenti). Scrive a tal proposito il rabbino convertito Paulus Drach, nel trattato "De l'harmonie entre l'Eglise et la Synagogue", vol. II, p.XXIV-XXV: "Ici nous ferons remarquer le caractère qui distingue essentiellement la loi ancienne de la loi nouvelle. La premiére avait un enseignement secret que l'on cachait au commun du peuple, mais qui devait etre preché ouvertement à la venue du Messie...Sous le régime de la seconde, le dernier des fidèles est initié aux plus sublimes vérités de la religion; et, sous ce rapport, un enfant qui sait son catéchisme n'a rien à envier aux plus profonds théologiens...Moise avait la face voilée, pour ménager la vue faible des Juifs (Ex., XXXIX, 35), mais Jésus-Christ s'est montré à visage découvert".
[29] L'opinione del prof.M.Zerwick avrebbe dovuto suonare come un campanello d'allarme per Persili: perchè fu proprio Zerwick - sospeso sotto Pio XII dall'insegnamento al Pontificio Istituto Biblico (e reintegrato con tutti gli onori da Paolo VI...) - uno dei protagonisti del "nuovo corso" del P.I.B., iniziato in sordina negli anni '50, che tacciava di "scienza del demonio" l'esegesi che attribuisce un reale valore storico ai Vangeli ed in particolare ai racconti sulla Resurrezione. Si veda al riguardo un resoconto dell'esperienza personale di don Persili.
[30] Ricevo conferma che tale asserzione non possa pretendersi a regola anche da una comunicazione personale del prof.Eugenio Corsini, professore dell'Istituto di Filologia Classica dell'Università di Torino, nonchè autore del ben noto studio sull'Apocalisse di Giovanni.
Inoltre va detto che "unico" (nel senso di "uno solo") e "medesimo" hanno spesso significato simile, se non equivalente. Esempio: I, Cor. 12, 11. Mentre Persili non riesce a trovare esempi raffrontabili di unico "per eccellenza".
[31] V.Messori, op.cit., p.137.
[32] Giovanni 20, 29.
[33] Sottolineato mio.
[34] Luca 24, 25 e ss.
[35] Quell'Isaia che già S.Girolamo (Praefatio in Isaiam) chiamava "evangelista".
[36] Emblematici, in tal senso, l'intero "Patì sotto Ponzio Pilato", Torino, 1992, nonchè il cap.VI - "Scandalo per i giudei" - di "Dicono che è risorto". Nel capitolo XXIV - 'Secondo le Scritture' - di "Patì sotto Ponzio Pilato, Messori arriva a scrivere (p.237): "In fondo (e non sembri un paradosso un po' blasfemo, è semmai una necessità logica) Anna, Caifa, tutti quei sinedriti, quegli scribi e farisei e sadducei che rifiutarono come Messia quel povero galileo, dal punto di vista ebraico avevano ragione. Non era nel torto Caifa a parlare di 'bestemmia' perché, scrive Joseph Blinzer, 'un Messia prigioniero, abbandonato dai suoi discepoli stessi, ridotto all'impotenza e consegnato così alla violenza dei suoi avversari, era per loro un'idea inaccettabile. Un israelita che, in una simile situazione, si presentava come il Cristo, come il detentore della massima dignità che Dio potesse conferire a un uomo, agli occhi loro - come di ogni altro ebreo timorato - non poteva essere che uno scellerato, uno che osava schernire le grandi promesse di Dio al popolo della Sua Alleanza'."
Forse bisognerebbe ricordare a Messori quello che sull'argomento, riassumendo il pensiero unanime dei Padri della Chiesa, scrive S.Tommaso:
" Post peccatum autem fuit explicite creditum mysterium Christi non solum quantum ad incarnationem, sed etiam quantum ad passionem et resurrectionem, quibus humanum genus a peccato et morte liberatur. Aliter enim non praefigurassent Christi passionem quibusdam sacrificiis et ante legem et sub lege. Quorum quidem sacrificiorum significatum explicite maiores cognoscebant, minores autem sub velamine illorum sacrificiorum, credentes ea divinitus esse disposita de Christo venturo, quodammodo habebant velatam cognitionem. Et sicut supra dictum est, ea quae ad mysteria Christi pertinent tanto distinctius cognoverunt quanto Christo propinquiores fuerunt. Post tempus autem gratiae revelatae tam maiores quam minores tenentur habere fidem explicitam de mysteriis Christi..." (S.T., 2, 2ae, q.2, a.7 co.)
[37] Su questo problema le pertinenti considerazioni di Daniel Raffard de Brienne disponibili su Internet.
Raffard de Brienne evidenzia anche, tra le altre, le contraddizioni eclatanti in cui incorre la Bibbia Bayard per giustificare, nella versione di Luca 1, 27 la sostituzione di "vierge" con l'appellativo "jeune femme", per tradurre il greco parthenos. Vorrei tuttavia richiamare l'attenzione su un'altra "novità", meno clamorosa ma altrettanto discutibile: si tratta della traduzione CEI del celebre capitolo 53 del profeta Isaia, che la tradizione unanime ha sempre riferito alla Passione di Cristo. Il versetto 9 così recita: "Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca".
Vittorio Messori, in "Patì sotto Ponzio Pilato" (p.160-161), si affida proprio a questa traduzione per rimarcare una presunta discrepanza tra il testo veterotestamentario e il racconto di S.Giovanni relativo alla sepoltura di Gesù, aggiungendo che "la logica consiglia molti studiosi di scegliere come più autorevoli gli antichi codici che hanno un 'malfattori' e non un 'ricchi', che è contraddittorio in questo contesto". Ma se noi andiamo a leggere lo stesso passo nella Bibbia del 1964 pubblicata dalle Edizioni Paoline ci troviamo sotto gli occhi qualcosa di sottilmente - e innegabilmente - diverso: "Gli fu preparata una tomba fra gli empi, lo si unì nella morte con malfattori. Eppure non commise ingiustizia e non vi fu menzogna sulla sua bocca." In questo contesto, l'essere "unito alla morte con malfattori" è chiaramente riferibile alla morte in croce, non ad una presunta fossa comune, come vorrebbe Messori.
Come si può notare quella di Giovanni 20 non è la sola traduzione CEI suscettibile di discussione... [38] Su questo vedasi F.Spadafora, "La 'nuova' esegesi", cap.XVII, "La 'nuova' Pontificia Commissione Biblica".
[39] A.Persili, op.cit., pp.80-81.
[40] "La Civiltà Cattolica", Roma, 1983, quaderno 3188, pp.105-111.
[41] Secondo autori come Guignebert e il gesuita Léon-Dufour sarebbe lo stesso S.Paolo ad affermare la discontinuità tra la carne e il sangue di Cristo e il "corpo spirituale" ricevuto dopo la morte.
[42] Motivazione ufficiale del Premio Letterario Tito Casini, 1998.
[43] Concilio Vaticano I, D.B.1812.
[44] Dal Decreto della Sacra Congregazione dell'Indice in data 11 giugno 1855:
"3. L'uso della ragione precede la fede e a questa conduce l'uomo conl'aiuto della rivelazione e della grazia.
4. Il metodo che hanno usato S.Tommaso, S.Bonaventura e altri scolastici dopo di loro, non conduce al razionalismo...Perciò non è lecito imputare come un delitto a quei dottori e maestri il fatto di aver usato quel metodo."



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