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giovedì 25 aprile 2019

Don, din don, din don, din don….

Risultati immagini per la resurrezione


Don Antonio e i primi indizi della resurrezione



di Gianni Valente

Ognuno ha la sua postazione da cui sbirciare il mondo. A lui, don Antonio Persili da Tivoli, è toccata la parrocchietta di San Giorgio, incastonata nella parte vecchia della sua cittadina. Piazzette, vicoli e archetti abbarbicati sui precipizi che si affacciano sull’Aniene. E laggiù, spalmata di foschia, c’è Roma, che la notte diventa un mare di luci. 

A settantasette anni, arriva su una vecchia Ritmo scarburata color carta da zucchero, come la giacca a vento che porta stiracchiata sulla tonaca a proteggere da un improvviso contropiede dell’inverno. Si carica le due buste della spesa (pane, latte, uova, qualche yogurt), apre il portoncino verde e sale col solito passo le scale della canonica. Fa così da tanto tempo. Da quando è arrivato qui nel ’55 come parroco, e, cosa rara in questa Chiesa di preti e vescovi volanti, non l’hanno più spostato. 

Ora, in quest’angolo di mondo a cui si è avvicinata troppo la città dove risiede il successore di Pietro, don Antonio non aveva il problema di sentirsi investito di chissà quale missione. La vita andava da sé, senza neanche troppo trasporto per la propria condizione. "Figurarsi… sono diventato prete perché mio padre mi aveva spedito al seminario quasi per punizione, per farmi studiare, un giorno che avevo marinato la scuola insieme a un compagno. Allora, si usava così…". E infatti, non è che all’inizio (e anche dopo l’inizio) fosse molto contento. "Quello che m’insegnavano, lo accoglievo senza obiezioni, ma non mi toccava il cuore. C’era un modo di esporre le verità della fede cristiana che dava tutto per scontato. Sentivo che mancava qualcosa. Comunque, si tirava avanti…". 

Ma poi successe qualcosa. Dal suo appartato punto d’avvistamento il prete di provincia si accorse anche lui di quella che oggi descrive come una silenziosa ma radicale metamorfosi nella Chiesa. Un particolare, in questo epocale smottamento, fissò la sua attenzione: il modo nuovo in cui si cominciò a parlare della resurrezione di Nostro Signore. "Al seminario di Tivoli mi avevano insegnato che la resurrezione di Gesù Cristo nella carne era la prova della sua divinità, e per questo era il fondamento della nostra fede. Poi, qualcuno cominciò a dire che bisognava considerarla innanzitutto come un "mistero di salvezza". Altri aggiunsero che non era tanto importante riconoscere la resurrezione come un fatto accaduto, ma credere nella sua forza salvifica per noi. Infine, qualcun altro ci fece sapere che per accogliere questo mistero di salvezza apportato dalla resurrezione non bisognava inseguire indizi concreti, storici, ma occorreva avere la fede". Insomma, un rovesciamento totale. "Se prima la resurrezione era il fondamento della fede, adesso serviva la fede per cogliere il mistero di salvezza della resurrezione…". Don Antonio snocciola a casaccio mille esempi di questa deriva idealistica, 
partita dai teologi e dai maestri e poi a poco a poco penetrata fin nei capillari della predicazione ordinaria della Chiesa. Da Karl Rahner – per il quale anche i dettagli storici dei racconti evangelici sulla resurrezione di Gesù "vanno interpretati come rivestimenti plastici e drammatizzanti (di tipo secondario) dell’esperienza originaria "Cristo vive" e non come descrizione di questa stessa nella sua autentica essenza originaria", né, tantomeno, "come esperienza quasi grossolanamente sensibile" – giù giù fino al Dizionario Biblicodi J.-L. McKenzie, pubblicato in italiano da Cittadella nell’81, dove si legge che "Gesù risorto (come le apparizioni di Gesù) è una realtà sovrannaturale che non appartiene a questo mondo e non può essere oggetto di ricerca storica in quanto tale: essa è soltanto oggetto di fede. […] Riconoscere l’avvenimento come un fatto, non è nulla: accettarlo come un fatto salvifico è credere in esso ed ottenere la salvezza che in esso si compie. Nel Vangelo di Giovanni (20, 29) Gesù elogia la fede nella resurrezione, non l’osservazione del fatto. L’importanza della resurrezione nella predicazione e nella catechesi del Nuovo Testamento si fonda sul suo significato teologico".

A quel punto, don Antonio non ci capiva più niente. "Da tutte le parti sentivo discorsi che mettevano in opposizione la grazia della fede alla storia. Dietro tanti paroloni, alla fine la fede cristiana diventava una specie di partito preso. Una autoconvinzione che poggia su se stessa". Un dogmatismo idealista che, a suo vedere, poco c’entrava con quanto era successo tra i primi testimoni: "A sentire i Vangeli, le donne, i discepoli e gli apostoli non avevano alcuna fede "preventiva" nella resurrezione. Per raggiungere questa fede, non sarebbe bastato loro nessuno sforzo di immaginazione mistica, magari tirando in ballo a sproposito la grazia. Tutti, invece, per diventare testimoni della resurrezione, avevano avuto le prove storiche del suo reale accadimento. Tommaso, in particolare, aveva voluto personalmente sincerarsi che il Gesù risorto fosse lo stesso Gesù che era morto in croce". 

Il povero prete tiburtino, per non rimanere confuso, scese a Roma. Andò a chiedere lumi agli illustri professori del Pontificio Istituto Biblico. Fece anche un salto dagli scrittori della Civiltà Cattolica. "Ci fu chi mi disse che ogni tentativo di cercare riscontri storici ai racconti della resurrezione non apparteneva alla teologia cristiana, ma alla "scienza del demonio", perché che Cristo sia risorto non è un problema storico, ma è solo oggetto di fede". Finì che don Antonio si scrollò i calzari, provò ad andare avanti senza l’aiuto degli "esperti". E senza chiedere permesso. 

Ripartì dall’inizio, dalla prima volta che, a quanto scrivono i Vangeli, un uomo aveva iniziato a credere nella resurrezione di Gesù. Ossia da quella scena davanti al sepolcro in cui era stato sepolto il corpo di Gesù, dove erano arrivati trafelati Giovanni e Pietro, quella domenica mattina. "È lì che, come racconta nel suo Vangelo, davanti a ciò che era rimasto nel sepolcro spalancato, ormai senza il corpo di Gesù, Giovanni "vide e credette". A differenza di Pietro, che era rimasto solo confuso e quasi turbato dalla mancanza del corpo di Gesù". Come prima cosa, don Antonio registrò con stupore che la gran parte degli esperti neanche si soffermavano su questo episodio che aveva causato la prima, embrionale presa d’atto della resurrezione di Gesù da parte del discepolo prediletto. "Ad esempio, il teologo Bruno Forte, in un libro del 1982, sosteneva l’ipotesi che si trattasse solo di una leggenda eziologica "tendente a motivare il culto che a Gerusalemme si teneva presso il luogo della sepoltura di Gesù". E il catechismo per i giovani della Cei, nella sua versione del 1976, liquidava la faccenda annotando che Pietro e Giovanni si erano soltanto "stupiti di trovare il sepolcro aperto e vuoto"". 

Poi, leggendo e rileggendo la pericope evangelica dei due apostoli davanti al sepolcro, concordò che in effetti le versioni di uso corrente non facevano capire perché Giovanni aveva iniziato a credere nella resurrezione di Gesù proprio da quel momento. "Ad esempio, nel Nuovo Testamento pubblicato dalla Cei è scritto che i due discepoli, scrutando all’interno del sepolcro, videro "i teli ancora là, e il sudario, che era stato posto sul suo capo, non là con i teli, ma in disparte, ripiegato in un luogo". Ora, non si capisce proprio per quale motivo Giovanni, per aver visto una simile scena, ossia delle bende funerarie e un sudario ripiegato, avrebbe dovuto intuire che Nostro Signore era risorto. Anzi, un simile salto logico a me farebbe sorgere dubbi sulla sanità mentale di Giovanni…". 

E in effetti, in tanti hanno sparlato di Giovanni come del primo idealista visionario, l’anti-Tommaso, il modello del cristiano che per credere non-ha-bisogno- di-vedere. Ma tutto questo a don Antonio non quadrava. Decise di andare più a fondo. Riprese in mano l’originale greco dei Vangeli e i manuali di greco biblico. Raccolse gli studi e gli articoli più aggiornati sugli usi funerari dell’antico mondo ebraico. Tra un battesimo, un’estrema unzione e una benedizione delle case, si avventurò in una vera e propria indagine storico-linguistica. Alla fine scoprì la magagna, che poi era un po’ un uovo di Colombo. 

Scoprì che le traduzioni ufficiali del brano evangelico in questione erano infelici. Finivano per occultare dei particolari che invece erano indispensabili per cogliere cosa era accaduto quel giorno a Giovanni. E qui, la conversazione col parroco tiburtino prende la piega di una lezione di esegesi e di tradizioni funebri ebraiche. Bisogna seguire bene tutti i passaggi. "Secondo l’uso del tempo, i morti con effusione di sangue venivano sepolti senza essere lavati né unti. Il sangue era considerato la sede del principio vitale, e quindi andava sepolto insieme al cadavere. I Vangeli ci avvertono che Giuseppe d’Arimatea, il ricco sinedrita padrone del sepolcro in cui fu posto Gesù, aveva portato per l’inumazione un rotolo di tela, mentre Nicodemo aveva portato una "mistura di mirra ed aloe di circa cento libbre", più o meno trentacinque chili. Dal rotolo di tela erano stati tagliati tutti i pezzi necessari a ricoprire e fasciare il corpo di Gesù: il telo più grande, con cui fu avvolto tutto il corpo insanguinato, anche per evitare che chi si occupava dell’inumazione lo toccasse con le mani nude; le fasce, abbastanza larghe (nell’originale greco: tà ¶yónia, tà othónia), che vennero fatte girare intorno al lenzuolo, per tenerlo stretto intorno al corpo; e il sudario, un fazzoletto quadrato che fu posto sul capo di Gesù, come testimonia lo stesso Giovanni. I profumi, a cui si ricorreva per coprire il cattivo odore, erano stati versati all’interno delle fasciature e anche sulla superficie in cui era stato posto il corpo di Gesù". Ora, proprio nella pericope che descrive la scena dei due apostoli davanti al sepolcro, errori grammaticali e di traduzione creano malintesi sulla posizione in cui Giovanni e Pietro trovarono tutti questi panni. Spiega Persili: "Nell’originale greco è scritto che Pietro, entrando nel sepolcro, vide tà ¶yónia keímena (tà othónia keímena). Ho già detto che la versione della Cei traduce questa espressione con "i teli ancora là". Altre versioni la traducono con "i teli per terra". In realtà il verbo keîmai (keîmai), da cui viene il participio keímena (keímena), non significa genericamente "essere lì" né tantomeno "stare per terra". Esso indica una posizione precisa, significa giacere, essere disteso, in una posizione orizzontale. Ciò vuol dire che i due videro non le fasce a terra, ma le fasce distese, afflosciate, senza essere state sciolte o manomesse. Erano rimaste immobili al loro posto. 

Probabilmente in una nicchia scavata nella parete, tipica dell’architettura funeraria di tipo signorile, in cui era stato posto il corpo di Gesù. Semplicemente, ora quel corpo non c’era più, e le tele si erano afflosciate su se stesse". Gli errori di interpretazione si ripetono, secondo Persili, anche riguardo alla posizione del sudario. L’originale greco usa ben venti parole per descriverla. Le versioni correnti introducono tutte l’idea che il sudario si trovi spostato rispetto al punto in cui si trovava quando il corpo di Gesù era stato sepolto. La versione Cei, ad esempio, traduce: "e [videro] il sudario, non là con i teli, ma in disparte, piegato in un luogo". Don Antonio, davanti a tali traduzioni, freme. E dice la sua: "keímenon (keímenon), come già keímena (keímena), è participio di keîmai (keîmai), giacere. O° metà tÓn ¶yonívn keímenon (Ou metà tôn othoníon keímenon) significa che il sudario non era disteso come le altre bende. Ma, al contrario (così va tradotto l’avverbio xvr짠 khorìs –, in senso modale), appariva arrotolato (•ntetuligménon  entetyligménon –, dal verbo •ntulíssv – entylísso –, che significa avvolgere, arrotolare) in una posizione unica, singolare. Così si può tradurre eɧ ²na tópon (eis héna tópon), che le versioni correnti traducono banalmente come "in un luogo". Significa che il sudario, a differenza delle fasce distese, appariva sollevato, in maniera quasi innaturale, forse perché su di esso i profumi avevano avuto un effetto inamidante". 

Se questo fu lo spettacolo che si presentò ai due apostoli, si può comprendere perché a quella vista il discepolo che Gesù amava poté intuire ciò che era accaduto. Non lo avevano portato via. Era risorto nel suo vero corpo, come aveva promesso, con parole che nemmeno i suoi avevano capito. Spiega don Antonio: "Era impossibile che il corpo di Gesù fosse uscito dalle fasce per una improvvisa rianimazione, o che fosse stato portato via, da amici o da nemici, senza slegare le fasce o manometterle in qualche maniera. Se le fasce erano rimaste al loro posto, afflosciate su se stesse ma ancora avvolte, era il segno che Gesù era uscito vivo dal sepolcro sottraendosi in maniera misteriosa ai panni che lo avvolgevano, fuori dalle leggi dello spostamento dei corpi. Un intervento sovrannaturale aveva sottratto quel corpo dalla nicchia nel sepolcro, lasciando tutte le cose intatte, senza manomettere i teli funerari. Giovanni, davanti al sepolcro, non fece nessun salto mistico. Nel suo Vangelo, soffermandosi così minuziosamente sulla posizione delle fasce, voleva solo descrivere la prima traccia storica della resurrezione". 

Se ripensa ai tanti esperti che hanno passato la vita su queste cose, senza riuscire a tradurre degnamente quattro versetti dal greco, gli viene quasi da ridere. Intanto, gli spunti delle sue ricerche non autorizzate li ha raccolti in un libro. Ne aveva proposto la pubblicazione ad alcune case editrici cattoliche. Respinsero al mittente il manoscritto, bocciandolo per il tono "eccessivamente apologetico". Alla fine se lo pubblicò da solo, nel 1988 (Sulle tracce del Cristo Risorto. Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, Edizioni C. P. R.). A distanza di una dozzina d’anni, il volumetto sta uscendo dalla clandestinità. Lo si trova perfino in qualche libreria cattolica. E anche padre Jean Galot, illustre professore della Gregoriana, in un recente saggio su La Civiltà Cattolica ha citato ricerche aggiornate che confermano le "scoperte" di don Persili (cfr. 30Giorni, n.7/8, 2000). Lo hanno anche chiamato in televisione. 
Dice don Persili: "Adesso, mi hanno invitato a parlare, su a Pordenone. Mi hanno anche chiesto il mio curriculum. Gli ho scritto un foglietto con la data di nascita, quella di battesimo, e quella di quando sono diventato prete. Non è che avessi altro, da raccontare…". Poi questo don Nessuno si alza dalla sedia. Sono quasi le quattro. Deve andare a suonare la campana: "La suono tutti i giorni, a quest’ora. Sa, è per ricordare il momento in cui i primi due, Giovanni e Andrea, hanno incontrato Gesù: "Erano le quattro del pomeriggio", dice il Vangelo…". 

Sulla via del ritorno, attraverso i vicoli di Tivoli, tornano in mente le parole di Péguy, quando avvertiva che il nostro è un tempo in cui la realtà viene difesa solo da gente così, "individualità senza mandato". 
Don, din don, din don, din don…. 


AMDG et DVM

giovedì 15 gennaio 2015

LA TESI DI DON ANTONIO PERSILI



Dicono che è cattolico
Gli errori di Messori sulla Resurrezione di Gesù




 





Ho inserito questo articolo di Andrea Carancini sui metodi di Vittorio Messori nell'ambito della documentazione che questo sito offre sulla questione dei "cristianisti o teocon, sull'Opus Dei, su Alleanza Cattolica, su Comunione e Liberazione e altre associazioni del cattolicesimo liberista. La documentazione è di provenienza molto varia: ho pubblicato un articolo molto "laicista" ma ben documentato su Rino Cammilleri, mentre l'autore di questo articolo si definisce un cattolico tradizionalista.
A puro titolo informativo, e non per prendere le distanze da nessuno, dico che le mie idee sono molto più laiche di quelle discusse in questo contesto. Ma lascio ai complottisti di ogni grado e ordine il compito di ricamare sul fatto che questo sito ospita contributi così vari.







"SOLEVA DIRE: COI LIBRI SI FAN LIBRI; E VERAMENTE I CONCETTI ALTRUI CON BRIOSO STILE FACEVA SUOI, E DIVULGAVA."
Giacinto De Sivo su Voltaire, Storia delle Due Sicilie, Roma, 1863, Vol.I, p.22.

INTRODUZIONE

Vittorio Messori ha dedicato il suo ultimo successo editoriale alla Resurrezione di Gesù (con un titolo alquanto infelice per un autore ostentatamente "cattolico": "Dicono che è risorto") e tuttavia pochi hanno notato che i due capitoli più importanti del libro [1] - quelli che più direttamente entrano in argomento - non fanno che ricalcare le soluzioni storiche e filologiche di un libro uscito 13 anni prima: "Sulle tracce di Cristo Risorto", stampato in proprio nel 1987 da un parroco di Tivoli, don Antonio Persili.
Curioso è che mentre il libro di Messori, come si è detto, è già diventato un successo editoriale, quello di Persili non ha ancora trovato una casa editrice - cattolica o non cattolica - disposta a pubblicarlo.
Viene dunque da domandarsi: è solo una questione di fama - essendo il primo il più famoso scrittore cattolico italiano e il secondo un semisconosciuto parroco di campagna - o c'è qualcosa di più, qualcosa di intrinseco alla concezione dei due libri?
E' quello che mi propongo di verificare nel corso del presente articolo.

CHI E' DON PERSILI

Prima di entrare nel merito della questione mi sembra opportuno riferire un fatto ancora più curioso: Messori nel suo libro qualifica ripetutamente Persili quale "dilettante" eppure, mentre in tutti gli altri capitoli egli si rifà spesso ad autori ben noti, quali Lagrange e Ricciotti, nei due capitoli più importanti non trova di meglio che appoggiarsi sistematicamente all'esegesi del "dilettante" Persili.
Viene dunque da domandarsi: chi è don Persili?
Persili è in effetti un "dilettante", un parroco sprovvisto di titoli accademici ma tutto sta ad intendersi sui termini: un dilettante, certo, se paragonato ad esegeti come Lagrange e Ricciotti (che conoscevano anche l'ebraico) ma un dilettante che ha studiato in seminario quando greco e latino erano ancora tenuti in considerazione.
Un dilettante, soprattutto, che insoddisfatto dell'impostazione esegetica di una certa "accademia", oggi imperante tanto nelle università pontificie quanto in quelle "profane", ha avuto il merito di porre la questione della Resurrezione su un piano non solo teologico e scritturale ma anche fisico e materiale, esaminando il Mistero cristiano per eccellenza come un fatto, un fatto suscettibile di implicazioni fisico-chimiche storicamente ricostruibili: un lavoro quindi di puro revisionismo storico, contro una critica biblica che nel suo pretendersi a scienza rivela una sorprendente ignoranza degli usi funerari dell'antico Israele.
Persili, infine, non è certo un cattolico "conservatore" o "tradizionalista" ma della tradizione ritiene un dato essenziale: il carattere cogente della fede, l'esigenza che la fede non rimanga ingiustificata di fronte alla ragione, come insegna l'apologetica tradizionale ed è qui, come stiamo per vedere, la radice del problema.

IL PROBLEMA GNOSEOLOGICO

Scrive Messori nel suo libro [2]: "Intendiamoci: la diffidenza degli specialisti "accademici" per i "dilettanti" non è sempre ingiustificata, visto che questi ultimi spesso procedono senza le doverose cautele e, in genere, vogliono provare troppo. Anzi, mentre tentazione del professore è il minimizzare, tentazione del dilettante è l'esagerare." Fin qui il discorso di Messori è assolutamente condivisibile e lo è, a mio giudizio, anche per quanto riguarda certe soluzioni proposte da Persili: non sempre infatti il testo biblico si presta a soluzioni univoche.
Ma prosegue Messori: "Don Persili non sembra sfuggire, per alcuni aspetti, a questa regola, credendo di potere, grazie alle sue ricerche, dimostrare in modo inequivocabile la storicità della Risurrezione. Ma se un risultato simile fosse davvero possibile, la fede si dissolverebbe nella ragione umana e, dunque, non avrebbe più all'origine la misteriosa e gratuita iniziativa divina."
Qui Messori confonde artatamente due piani che dovrebbero rimanere assolutamente distinti, passando inavvertitamente ( per il lettore) da un ambito strettamente esegetico a considerazioni di ordine teologico e dottrinali assolutamente non identificabili con la competenza "specialistica", bensì con la mentalità fideista e giansenista di Messori medesimo.
Continua Messori: "Il massimo cui può giungere l'indagatore dei vangeli è mostrare non che i versetti del Nuovo Testamento sono veri (se così fosse, tutti dovrebbero accetarli e la fede non sarebbe più tale, anche perchè le mancherebbe la libertà, l'aspetto di "scommessa"), ma che sono verosimili. Così che accettarli sia ragionevole (anche se non razionale, perchè la ragione, pur importante - anzi, componente essenziale, assieme alla volontà, dell'atto di fede - non può esaurire la fede stessa senza dissolverla, poichè la metterebbe in pieno potere dell'uomo e toglierebbe a Dio la sua iniziativa prioritaria e indispensabile)."
Al termine di questo tortuoso ragionamento acquisiamo dunque una notizia, il "cattolico" Messori è l'autore di una nuova definizione del cattolicesimo: la religione cristiana (di cui i Vangeli sono il fondamento) non sarebbe più vera bensì soltanto verosimile.
Quindi, a rigor di Messori, il primo dilettante dovrebbe essere considerato S.Paolo apostolo, il quale si rivolge ai pagani in questi termini:
"Si rivela infatti l'ira di Dio dal cielo su ogni empietà e ingiustizia degli uomini che detengono avvinta la verità nell'ingiustizia, poichè ciò che d'Iddio è conoscibile è manifesto in essi: Iddio, infatti, lo manifestò ad essi. Poichè le cose invisibili di lui sono scorte dal pensiero fin dalla creazione del mondo attraverso le opere di lui, sia la possanza eterna di lui sia la divinità; di modo che coloro sono inescusabili..." [3]
Parimenti dilettante, venendo ai nostri giorni, dovrebbe essere considerato Pio XII che, nell'enciclica "Humani Generis", ha ribadito la possibilità di "provare con certezza l'origine divina della religione cristiana con la sola luce della ragione". In realtà quello che Messori cerca di liquidare come "dilettantesco", attraverso il bersaglio - quanto mai comodo - costituito da un parroco di campagna, è il fondamento di duemila anni di apologetica cristiana.
E' la posizione, appunto, del fideismo, che esagera la funzione della fede nella conoscenza della verità. Ma il punto è che CONOSCERE IL FATTO STORICO DELLA RESURREZIONE NON SI IDENTIFICA NECESSARIAMENTE CON LA FEDE NELLA MEDESIMA, come sottolinea un autore quale mons.Francesco Spadafora, già professore di greco biblico ed esegesi al Laterano:
"Si può arrivare alla certezza intellettuale della Resurrezione ( e del Cristianesimo) ma rifiutarsi, per motivi di ordine morale, di credere (Lc. 14, 31: "Se anche un morto risuscitasse, non crederebbero")...Che poi, per conoscere la verità della Resurrezione e del Cristianesimo in genere occorrano già "gli occhi della fede" non è dottrina della Chiesa, ma un errore della "nuova teologia", mutuato dal Rousselot (Les yeux de la foi)." [4]
Tra quelli, appunto, condannati da Pio XII nell'"Humani Generis". Allo "storico" Messori bisognerebbe invece far notare che se l'apologetica cristiana non si rivolgesse alla ragione - prima che alla fede - non avremmo avuto una filosofia cristiana distinta dalla teologia (e uno dei più noti specialisti del pensiero cristiano classico come Etienne Gilson non avrebbe intitolato la sua opera più famosa "Storia della filosofia medioevale"). [5]
E' un peccato che la maggior parte dei lettori si accontenti delle divulgazioni messoriane senza mai andare alla fonte degli autori da lui citati (e ampiamente sfruttati): scoprirebbe infatti che, nella fattispecie, il "dilettantismo" che Messori rimprovera a Persili non è altro che la concezione tomista dell' atto di fede. Scrive infatti Persili: "Perciò, se è vero che la fede non si può ridurre ad una semplice conseguenza logica, è anche vero che l'intelligenza esige di sapere "perchè" deve credere. S.Tommaso ripeteva: "Non crederei se non vedessi che devo credere". Ed è con l'intelligenza che si vedono le prove e le garanzie che la fede possiede". [6]
Cosa rimane allora delle intuizioni esegetiche di Persili (alcune delle quali effettivamente di estremo interesse) "filtrate" da Messori e private della loro valenza teologale e conoscitiva?
Rimane un caso di sensazionalismo gionalistico mirato al favore del grosso pubblico, salvaguardando nel contempo la suscettibilità dell'establishment curiale, di cui Messori è parte integrante, sia pure dal versante "conservatore". 

LA TESI DI PERSILI 

La tesi del sacerdote laziale è che la primissima fede nella Resurrezione non nasca, come comunemente si crede, dalle apparizioni di Gesù alle pie donne e agli apostoli ma nasca dal sepolcro, da quello che i testimoni oculari Pietro e Giovanni videro nel sepolcro.
Ed è più che naturale che tale tesi fosse ignota al grande pubblico, considerato che la traduzione ufficiale della CEI del brano cruciale del quarto Vangelo (Gv. 20, 3-8) sarebbe, per usare le parole di Messori, "imprecisa, equivocando a tal punto sulla lettera e lo spirito dell'evangelista da rendere incomprensibile le ragioni di quel "vide e credette" che termina in modo folgorante la prima visita a ciò che diventa da quel momento il Santo Sepolcro". [7]
Invece è proprio lì, nel sepolcro - e nel passo giovanneo che lo descrive - che, secondo Persili, si trova la prova fisica della Resurrezione e Pietro e Giovanni ne sono i testimoni oculari a causa precisamente della disposizione dei lini:

"Pietro, entrato nel sepolcro, non vide il corpo di Gesù perchè era scomparso, sparito. La particolare disposizione delle tele faceva escludere che il corpo di Gesù si fosse in qualche modo "rianimato", come accadde a Lazzaro e che fosse tornato di nuovo a vivere la vita terrena; faceva anche escludere che fosse stato preso o rubato da qualcuno, amico o nemico, perchè le fasce erano rimaste al proprio posto, anche se distese, e non erano state nè svolte nè sciolte nè tagliate." [8]
Questa esegesi è a mio avviso importante e merita di essere presa in considerazione ma per valutarne appieno le implicazioni è necessario inquadrarla in quelli che, in riferimento alla controversia sulla Resurrezione, sono il contesto storico e la prospettiva d'insieme. Il contesto storico è dato da quegli esegeti che, prima di Persili, hanno indagato le tracce presenti nel sepolcro.
La prospettiva d'insieme si osserverà invece considerando il contesto storico alla luce dello stato attuale dell'esegesi cattolica.
Una cosa infatti va detta innanzitutto: nel libro di Messori il contesto storico ed esegetico di Giovanni 20 risulta assolutamente inesistente, facendo sembrare lo studio di Persili come il frutto ingegnoso - ma pur sempre esclusivamente "opinabile" - di un outsider della critica biblica, senza precedenti nella tradizione esegetica (come è stato, a torto, già affermato) [9] e quindi utilizzabile, senza impegno, come "sensazione" giornalistica.
Leggendo Messori sembra si parli di certe cose per la prima volta quando invece è esattamente il contrario:quanto c'è di positivo nell'indagine del sacerdote laziale costituisce casomai la precisazione in dettaglio di temi già delineati da importanti esegeti, sia nel secolo appena trascorso che in epoca patristica. 

IL CONTESTO STORICO 

Per inquadrare storicamente i problemi esegetici relativi a Giovanni 20 partiamo da quella che, da oltre quarant'anni, è la traduzione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana:

"Uscì allora Simon Pietro insieme all'altro discepolo e si recarono al sepolcro. Correvano insieme tutti e due, ma l'altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. Chinatosi,vide le bende per terra ma non entrò. Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte. Allora entrò anche l'altro discepolo che era giunto per primo al sepolcro e vide e credette".
Commenta Persili: "se questa è la testimonianza di Giovanni si potrebbe anche ammirare la fede dell'apostolo, ma si dovrebbe dubitare molto della sua capacità di giudizio, perchè in questa relazione non c'è niente che faccia pensare all'evento della Resurrezione. Che significato posson avere le bende per terra e il sudario piegato in un luogo a parte? Possono significare solo l'opera di uno che non sa quello che fa, perchè una cosa la lascia cadere a terra ed un'altra invece la piega e la ripone in un luogo a parte." [10] Inoltre, aggiunge Persili, "i pannilini per terra indicano certamente disordine e forse anche violenza". [11] Penso sia interessante osservare che il dettaglio delle "bende per terra" sia una variante introdotta nelle traduzioni più recenti; traduzioni più antiche recitavano diversamente:
"...Ed essendosi inchinato vidde deposti i panni-lini, ma non entrò. Venne dunque Simon Pietro seguendo lui, ed entrò nel monumento; e vidde posati i pannilini, ed il sudario, che era stato sulla di lui testa, non posato con i panni-lini, ma piegato, e posto in luogo a parte". [12]
Come arrivare, comunque, da una descrizione come questa al "vide e credette" dell'apostolo? La spiegazione, in senso apologetico, più conosciuta - fin dall'età patristica - di questi versetti è che la presenza dei lini nel sepolcro faceva escludere il trafugamento del corpo (perchè un ladro non si sarebbe attardato a svolgere fasce e sudario) attestando quindi l'avvenuta Resurrezione: è la spiegazione, tra gli altri, di S.Giovanni Crisostomo. [13]
S.Agostino però non rimase convinto da questa soluzione e diede al "vide e credette" un oggetto diverso: l'apostolo non credette alla Resurrezione ma alle parole della Maddalena e cioè che davvero il corpo di Gesù era stato tolto dal sepolcro.
La spiegazione di S.Agostino segnò la ricezione di Giovanni 20 nell'occidente latino, come osserva Spadafora: "I Padri e scrittori latini, in genere, non diedero tale importanza alla posizione dei lini, sia perchè non conoscevano il greco, sia per la traduzione errata delle versioni latine." [14]
Tale rimase la situazione fino al novecento ma su questo punto mi permetto di dissentire dal pur illustre studioso: non era solo un problema di traduzione perchè la difficoltà di Giovanni 20 è di ordine concettuale prima che linguistico.
Il problema infatti non nasce dalle traduzioni latine dell'occidente medioevale ma dall'interpretazione del testo greco fatta anche da autori greci - peraltro eccelsi - come S.Giovanni Crisostomo, secondo il quale, come si è detto, un ladro non si sarebbe attardato a ripiegare il sudario in un luogo a parte ma avrebbe trafugato il cadavere con i suoi lini. [15]
Il punto è che l'evangelista non usa il verbo "ripiegare" né in relazione alle fasce né in relazione al sudario.
In particolare, per definire la posizione del sudario usa il participio perfetto entetuligménon, da "entulìsso", corrispondente ai verbi italiani "avvolgo, involgo, ravvolgo", mai a "ripiegare".[16]
Di più, l'uso del perfetto indica una continuità "perfetta" tra il prima e il dopo: "avvolto, come era stato avvolto".
Questo il significato letterale.
Ma che senso può avere "avvolto come era stato avvolto"?
I traduttori e gli esegeti di solito risolvono la difficoltà asserendo che tale vocabolo deve tradursi come - o essere l'equivalente di - "ripiegare", pur riconoscendo che esso non ha tal senso.
In realtà questa costante forzatura è l'effetto di un pregiudizio di ordine naturalistico: il traduttore e l'esegeta piegano allo schema visivo - e concettuale - della resurrezione di Lazzaro le tracce di un evento radicalmente differente. Gesù si alzerebbe dalla tomba ed uscirebbe a piedi dal sepolcro come Lazzaro non senza, a differenza di quest'ultimo, aver ripiegato accuratamente il sudario - quasi fosse una massaia - "in un luogo a parte".
Ma tale spiegazione zoppica per almeno due motivi:
da un lato, nonostante gli sforzi degli esegeti, i lini ripiegati - o, addirittura, per terra - non possono costituire un segno inequivocabile per l'atto di fede dell'evangelista [17]; dall'altro non rendono effettivamente conto del tipo di sepoltura descritto nel Vangelo: liberarsi manualmente dall'intrico di tele sepolcrali, un intrico reso ermetico dalle cento libbre di unguenti versati sulla salma, ammesso che sia possibile, costituirebbe un exploit muscolare più degno delle fatiche di Ercole che di Cristo Risorto.
Come ovviare a questa difficoltà: S.Agostino, come detto, spostò l'oggetto del "vide e credette" dell'apostolo dalla posizione dei lini alla testimonianza della Maddalena ma il suo tentativo svuotava il rilievo dato dal quarto Vangelo alla visita del sepolcro ed è stato scartato da quasi tutti gli esegeti del novecento.
Il problema è stato avviato, gradualmente, a risoluzione da alcuni importanti biblisti cattolici contemporanei ma la causa remota del progresso di questo come di altri problemi esegetici, la causa storica intendo, deve essere a mio avviso rintracciata nella figura di Papa Leone XIII.
Nel corso del suo pontificato Leone XIII diede infatti due grandi linee di indirizzo alle élites cattoliche dell'epoca: il rinnovamento dell'esegesi biblica - con l'impulso dato allo studio delle lingue orientali [18] - per rispondere al protestantesimo liberale sul terreno della critica testuale e, nel contempo, la riscoperta di S.Tommaso e della scolastica contro la fermentazione del primo modernismo.
Grazie a Leone XIII si ebbe quindi per alcuni decenni un'esegesi che, etichettata come "conservatrice" in epoca "conciliare", fu al contrario la più genuinamente innovativa del novecento, non esitando a correggere e superare gli stessi Padri della Chiesa quando la loro interpretazione si faceva divergente e personale, come nel caso della visita di Pietro e Giovanni al sepolcro.
Persili non è stato quindi il primo a rimarcare i limiti dell'interpretazione "naturalistica" di Giovanni 20 ma è stato preceduto da una serie di autori la cui tesi comune è che il "vide e credette" dell'apostolo si spieghi unicamente con una rinascita del corpo di Gesù indipendente dalle leggi fisiche.
Il senso di Giovanni 20 viene quindi a coincidere con un paradosso. Paradossale però non è solo il testo biblico ma anche la sua ricezione in ambito esegetico.
Giovanni Ghiberti, nella sua rassegna "Giov.20 nella esegesi contemporanea", definisce la tesi suddetta come "isolata". [19]
In realtà Persili, che oggi sembra un pioniere, è stato preceduto da autori quali Lagrange, Willam, Balaguè, Lavergne, Auer, McClellan e persino da studiosi "progressisti" quali Feuillet e Rossano nonchè da un esegeta come Francesco Spadafora che, seppur mai nominato da Messori, ha dato risposte approfondite (e in parte definitive) alla questione fin dal 1952, sulla rivista "Divus Thomas" di Piacenza.
Tale tesi non è dunque così isolata: pur essendo finora praticamente ignota al grande pubblico è stata sostenuta da esegeti di chiara fama, alcuni dei quali tra i più illustri del novecento e questo è indubbiamente un dato paradossale.
Ancor più paradossale è però che tale interpretazione, secondo cui Gesù uscì dai lini senza svolgerli, a detta di un esperto quale l'innominato Spadafora sarebbe nuova ma non nuovissima, avendo almeno due precedenti in epoca patristica: S.Cirillo di Gerusalemme e S.Cirillo di Alessandria il quale - sia detto en passant - fu nominato Dottore della Chiesa proprio da Leone XIII. [20]
Un'interpretazione, in ogni caso, che mi sembra la più rispondente -in base al principio ermeneutico dell'analogia della fede [21] - al Gesù che, risorto, appare tra i discepoli anche a porte chiuse, dopo esser nato da Maria sempre Vergine.
A tal proposito vorrei citare un classico brano di S.Agostino, tratto dal capitolo IV del Discorso 215:
"Ossia avvenga la concezione nella vergine senza seme di uomo; nasca da Spirito Santo e da una donna integra colui per il quale integra possa rinascere da Spirito Santo la Chiesa. Il santo che nascerà dalla parte umana della madre senza l'apporto umano del padre si chiami Figlio di Dio; colui che è nato da Dio Padre senza alcuna madre, doveva in modo meraviglioso diventar figlio dell'uomo, e cosi, nato in quella carne, poté uscire piccolo attraverso viscere chiuse, e grande, risuscitato, poté entrare attraverso porte chiuse. Sono cose meravigliose, perché divine; indescrivibili, perché inscrutabili; non è in grado di spiegarlo la bocca dell'uomo, perché non è in grado di esprimerlo il cuore dell'uomo..."
In conclusione di questo inquadramento storico vorrei far rilevare quanto sia diversa dalla traduzione ufficiale della CEI la versione di Spadafora, che a tutt'oggi mi sembra - finora - la meno distante dalla sottigliezza dell'originale:
"vide...i pannilini (fasce e lenzuolo) giacenti (appiattiti)...e il sudario - che era stato sul capo di Gesù - giacente (anch'esso), non con i pannilini, ma a sé stante, avvolto com'era stato avvolto, nella stessa posizione (di prima)". [22]

LA PROSPETTIVA D'INSIEME 

Che il primo atto di fede nasca dal sepolcro quindi lo si sapeva già: Persili è stato però il primo studioso che, dopo una ricostruzione particolarmente accurata della sepoltura di Gesù [23], abbia dato una spiegazione al perchè della differente posizione del sudario rispetto ai lini e l'abbia fatto mettendo in relazione gli unguenti portati da Nicodemo con le tracce nel sepolcro descritte dall'evangelista.
Il sudario è rimasto nella posizione di avvolgimento iniziale, senza appiattirsi - come i lini - seguendo la forza di gravità a causa, secondo Persili, della forza d'inerzia: al momento della Resurrezione gli aromi si sarebbero volatilizzati, lasciando il fazzoletto come inamidato, come se avvolgesse ancora il capo di Gesù.
Considerazioni che un non credente giudicherà senz'altro risibili. Personalmente trovo invece non solo legittimo ma anche affascinante che un esegeta si interroghi non solo sull'evento soprannaturale ma anche sulle possibili conseguenze fisiche di tale evento.
Anche su questo Messori trova il modo di "bacchettare" Persili, dandogli - con i consueti giri di parole - dello sprovveduto, per aver considerato indiscutibile l'autenticità della reliquia (e quindi argomento probante in un'indagine sulla Resurrezione). [24]
Un'opinione, questa di Messori, cui fa eco la presa di posizione di Pierluigi Baima Bollone - un patologo che può essere considerato come il Messori della sindonologia - il quale ha dichiarato alla trasmissione televisiva "La Macchina del Tempo" che "la prova definitiva ancora non c'è", in ossequio a quel relativismo gnoseologico che oggi rappresenta il principio ermeneutico davvero irrinunciabile anche per cattolici considerati "conservatori" come Baima Bollone e Messori.
Ma ha senso parlare - a proposito della Sindone - di singola prova definitiva?
A Baima Bollone - e a Messori - si potrebbe rispondere con le parole dette a suo tempo dal biologo Yves Delage che, seppur agnostico, dopo aver affermato ai colleghi dell'Académie des Sciences che non c'era nemmeno una possibilità su dieci miliardi che la Sindone non fosse il lenzuolo funebre di Gesù - ed essere stato investito dalla reazione furibonda degli anticlericali - così si esprimeva:

"Riconosco di buon grado che nessuno di questi argomenti presenta in sé il carattere di una dimostrazione irrefutabile; bisogna anche riconoscere, però, che la loro somma costituisce un insieme imponente di probabilità, alcune delle quali molto vicine a essere provate. Si è introdotta senza necessità una questione religiosa in un problema che, in sé, è puramente scientifico, con il risultato che le passioni si sono scaldate e la ragione è stata fuorviata. Se si trattasse, anziché di Cristo, di un Sargon, di un Achille o di un faraone, nessuno avrebbe pensato a fare obiezioni. Io riconosco Cristo come personaggio storico e non capisco che possa esserci qualcuno che trovi scandaloso se tuttora esistono tracce materiali della sua vita terrena". [25]
...Un insieme imponente di probabilità, alcune delle quali molto vicine ad essere provate, questo scriveva nel 1902 Delage: da allora la sindonologia è andata talmente avanti nella direzione indicata dal biologo francese che oggi due studiosi come Giulio Fanti ed Emanuela Marinelli hanno potuto, sulla base di 100 prove considerate attendibili, fare dell'argomento probabilistico - con una metodologia che non ha ancora ricevuto obiezioni - una tesi scientifica di carattere reale, ben oltre quella che ai tempi di Delage poteva essere considerata una mera provocazione. Dirò di più, la messe di informazioni raccolte sulla Sindone negli ultimi 25 anni è tale non solo da far apparire le "cautele" di Messori e Baima Bollone per quello che sono (un pedaggio obbligatorio al neomodernismo imperante in alto loco) ma anche da permettere una considerazione che mi sembra sia sfuggita agli stessi sindonologi: oggi è possibile dimostrare l'autenticità del lenzuolo sepolcrale di Gesù prescindendo persino dall'immagine e dal problema della sua formazione.
Basta infatti esaminare le prove relative al telo, alle microparticelle e alle tracce di sangue. [26]
Se poi Messori e Baima Bollone volessero ancora cercare la "prova definitiva" non hanno che da tornare sulle tracce di Giovanni 20: per quanto infatti la Sindone sia stata fatta oggetto di un profluvio di rapporti tecnici - alcuni ottimi altri meno - è ancora a S.Giovanni apostolo che spetta, dopo 2000 anni, l'ultima parola.
Perchè è lì la prova, non solo e non tanto in una testimonianza oculare radicalmente incompatibile con l'immaginazione (e ancora oggi insospettabilmente ostica da "immaginare", anche per scienziati che conoscano il greco...) ma perchè la testimonianza in questione è resa in forma di enigma: fatto non così anomalo nel quarto Vangelo e tuttavia assai poco notato. [27]
Se infatti il resoconto di S.Giovanni fosse falso l'autore avrebbe avuto cura di evidenziare l'oggetto dell'inganno invece di renderlo praticamente impenetrabile, all'esegeta amico non meno che al nemico (in un mondo - è bene ricordarlo - dove i segreti delle profezie erano riservati ad una classe di iniziati) sanzionando così la fine dell'esoterismo ebraico, della funzione sociale dei sinedriti.[28]
Detto questo, vorrei passare ora a formulare due obiezioni al libro di Persili:
1 - Alcune delle soluzioni proposte da Persili nella traduzione di Giovanni 20 risultano - a differenza dell'esegesi - poco convincenti;
2 - Affermare, come fa Persili, che Gesù non uscì dai lini - né dal sepolcro - perchè dall'interno di essi entrò direttamente nell'eternità costituisce un errore teologico.
Per quanto riguarda la traduzione Persili, sulla scorta di un'affemazione apodittica di Delebecque (e del prof.Zerwick) [29], nega recisamente che l'aggettivo numerale "heis" possa aver mai, nel Nuovo Testamento, il valore ordinale "protos", per cui il sudario non si troverebbe "nella stessa posizione (di prima)" bensì "in una posizione unica" (nel senso di "unica per eccellenza").
In realtà voci autorevoli si sono espresse in senso contrario [30] e la traduzione di Persili ha il difetto di sovradimensionare il dettaglio (perchè "unica per eccellenza" è la causa - la Resurrezione - più dell'effetto) riducendo la precisione cronistica del brano evangelico.
Per quanto concerne invece il sostenere che Gesù non uscì dai lini ma entrò "direttamente" nell'eternità, si tratta di una concezione riduttiva dell'integrità del corpo di Cristo che, se è reale, non può mai perdere la localizzazione.
Persili mostra di non capire (e con lui Messori, che lo segue pedissequamente) [31] che quello di Gesù non fu solo "il passaggio misterioso da uno stato all'altro, dal tempo all'eterno" ma anche "lo spostamento da un luogo all'altro" - essendo l'Ascensione un moto-a-luogo - secondo la regola dell'ET-ET tanto cara a Messori, giacchè se il Paradiso non fosse anche un luogo fisico Resurrezione e Ascensione sarebbero solo un mito, come vorrebbero gli esegeti neomodernisti (a confutazione dei quali Persili ha scritto il libro).
A questo punto mi si potrebbe obbiettare: ma che necessità c'è di "dimostrare" la Resurrezione di Gesù? Che significato avrebbe, allora, il detto di Gesù a Tommaso apostolo "beati coloro che non hanno visto, e hanno creduto?" [32]
Penso che la risposta a questo interrogativo sia da intendersi in senso anzitutto scritturale ed è Gesù stesso che la dà ai due discepoli di Emmaus:
"O uomini sì corti d'intelletto e dal cuore così lento a credere tutto quello che i Profeti hanno predetto! [33] Non era necessario forse che il Cristo patisse tutto questo ed entrasse così nella sua gloria?" Poi cominciando da Mosè e da tutti i Profeti spiegò loro quanto lo riguardava in tutte le Scritture. [34]
Credere senza "vedere" non significa quindi che le prove della fede non debbano passare al vaglio della ragione ma che il Messia, in quanto uomo, è il Servo sofferente di Jahweh annunciato dai profeti. Guarda caso invece, coloro che ascrivono la Resurrezione agli "occhi della fede" - la odierna "vulgata" esegetica - sono gli stessi che, per motivi di politica "ecumenica", fanno di Gesù una sorta di alieno all'interno della tradizione ebraica negando ogni implicazione cristologica alle profezie veterotestamentarie - a cominciare da Isaia [35] - supportati in questo egregiamente, a livello di pubblicistica di massa, da personaggi come Vittorio Messori. [36]
Tale scopo viene perseguito in primis con delle edizioni della Bibbia i cui "ritocchi" di traduzione mirano a rendere irriconoscibile il legame tra i Profeti e Gesù, senza tralasciare di insinuare un'interpretazione radicalmente naturalistica della vita di quest'ultimo. [37]
E' "naturale" che sia così: tra gli attuali membri della Pontificia Commissione Biblica non ce n'è più neppure uno che creda ancora alla Resurrezione di Gesù nella carne. [38]
Ma che la natura di questo mutamento derivi più da un modello ideologico che da un reale progresso delle conoscenze scientifiche lo si arguisce proprio dalla confusione che regna nell'esegesi corrente riguardo agli usi funerari ebraici, fino al punto di ignorare - questa una delle impressioni più sconcertanti che si ricavano dalla rassegna critica che Persili dedica ad opere oggi facenti testo - il significato generico e primario di termini quali "sindone" e "sudario". [39]
Ma certi esegeti li consultano, almeno, i dizionari?
In ogni caso, nella confusione si ritiene fermissimo il pregiudizio veteromodernista della distinzione tra il "Gesù della storia" e il "Cristo della fede", come è scritto in un editoriale della Civiltà Cattolica: "la resurrezione non è accessibile se non alla fede". [40]
Tale pregiudizio è fondato sulla convinzione - derivata da un'interpretazione speciosa di I Cor, 15 - che il "corpo" resuscitato di Gesù non sarebbe lo stesso corpo staccato dalla croce. [41]
A chi potrebbe obbiettare "perchè bisogna accantonare la vecchia traduzione di Giovanni 20? Che importanza può avere una traduzione piuttosto di un'altra di fronte a problemi più pressanti per la Chiesa?"
si deve quindi rispondere: perchè la traduzione corrente è diventata un punto di appoggio per una teoria che nega la Resurrezione corporea di Gesù. Perchè la Chiesa non è semplicemente fondata su Cristo ma sulla continuità materiale del corpo di Cristo. 

CONCLUSIONE 

Abbiamo visto come il libro di Persili sia stato rifiutato da tutte le case editrici cui era stato proposto, pur non essendo l'autore certamente non etichettabile come "tradizionalista".
Viceversa Messori è uno di quei giornalisti che fanno "opinione" sulla stampa progressista, anche laica, pur essendo considerato un conservatore e persino un reazionario e, come tale, non solo stimato ma persino idolatrato da esponenti del cattolicesimo tradizionalista, alcuni dei quali hanno addirittura trovato il modo di definirlo, incredibilmente, "nuovo Padre della Chiesa". [42]
E' curioso però che nei libri del tradizionalista Messori non compaiano mai proprio gli autori tradizionali per eccellenza: i Padri e i Dottori della Chiesa.
Ma, a ben vedere, una spiegazione c'è, visto che l'esegesi dei Padri è fondata sulle corrispondenze tra Vecchio e Nuovo Testamento e la loro ermeneutica sul principio della conoscibilità della verità: è infatti di S.Agostino il noto detto "ratio antecedit fidem", la ragione precede la fede.
Ma allora a quale tradizione rimonta un tale "tradizionalismo"?
Sicuramente non a quella del Concilio Vaticano I, che afferma:

"Se qualcuno dirà che Dio uno e vero, Creatore e Signore nostro, per mezzo delle cose create, non possa conoscersi con certezza al lume naturale dell'umana ragione, sia anatema". [43]
In realtà il Messori che - da cattolico - assevera l'indimostrabilità della Resurrezione e giudica la Parola di Dio al massimo verosimile, fino al punto di dare del dilettante a chi la pensa diversamente, ricorda in modo impressionante il tradizionalismo di Bonetti, condannato dalla Chiesa nel 1855. [44] Quando invece il sostenere, come ha fatto Persili, il fondamento razionale dell'atto di fede è - al di là delle singole questioni esegetiche - la cosa più professionale che ci si possa oggi sentir dire da un sacerdote.



NOTE
[1] Cap.XII, "Vide e credette" e Cap.XIII, "Tra sindone, sudario, e fasce", Torino, 2000.
[2] V.Messori, op.cit., p.125.
[3] Rom.I, 19-21.
[4] Francesco Spadafora, "La 'nuova esegesi'", Sion, 1996, p.245.
[5] Scrive Serge Thion in nota al capitolo 2.1 dell'edizione Internet del libro "L'Opération Vicaire" di Paul Rassinier:
"...le besoin de comprendre la foi est aussi ancien dans l'Eglise que l'établissement des textes canoniques, parce que les Pères de l'Eglise étaient avant tout des philosophes formés à l'école grecque. Si un Augustin, après Tertullien, a pu revindiquer hautement l'absurdité de la foi contre le logos, c'était avant tout par défi. Toute la tradition catholique ultérieure tend à penser la foi et Anselme de Cantorbéry (1033-1109) écrivit vers 1075 un traité intitulé Fides quaerens intellectum (la foi qui cherche à comprendre) et cela, avant l'apogée rationnel du tomisme au XIII siècle.
[6] A.Persili, op.cit., p.18.
[7] V.Messori, op.cit., p.124.
[8] A.Persili, op.cit., p.231.
[9] Ad esempio da Silvano Villani nel suo articolo "Il rebus nel Quarto Vangelo, Gv 20, 7", disponibile su Internet.
[10] A.Persili, op.cit., p.135.
[11] A.Persili, op.cit., p.136
[12] Così recita la versione de "Gli Evangelisti uniti tradotti e commentati", di Andrea Mastai Ferretti, Roma, 1863, II volume, p.419.
[13] S.Giovanni Crisostomo, Omelia LXXXV sul Vangelo di Giovanni. Disponibile in traduzione inglese su Internet.
[14] Francesco Spadafora, "La Risurrezione di Gesù", Rovigo, 1978, p.134. Ho tratto buona parte delle mie informazioni da questo volume, che deve considerarsi ancora oggi come l'opera più completa uscita sull'argomento.
[15] Un'esegesi seguita anche da un illustre studioso e apologeta quale mons.Pier Carlo Landucci nel suo "Prima che Abramo fosse Io sono. Il Dio in cui crediamo", Milano, 2001, p.268.
[16] F.Spadafora, op.cit., p.136.
[17] Come sottolinea Spadafora, op.cit., p.131: "Ma bastava osservare che, ad es., volendo fare una beffa ai discepoli creduloni, i Capi del popolo avrebbero potuto portar via il corpo lasciando quell'apparato appunto per ingannarli...".
[18] L'istituzione, tra l'altro, di una cattedra di ebraico per ogni Seminario Maggiore si deve proprio a Leone XIII.
[19] In "Studi Patristici", n°20, 1973, p.322.
[20] F.Spadafora, op.cit., p.133, n.135.
[21] Come ricordato dall'Enciclica Providentissimus Deus di Leone XIII, citando S.Agostino: "Nei passi ambigui della Scrittura si consulti la regola della fede, che si attinge dai passi più chiari della stessa Scrittura e dall'autorità della Chiesa".
[22] F.Spadafora, op.cit., p.138.
[23] Basandosi sulla letteratura archeologica ma con un approfondimento esegetico non indifferente: Persili mi sembra il primo esegeta che abbia chiarito che i Vangeli descrivono in Lazzaro e Gesù due sepolture completamente differenti. Da una più attenta lettura dei Vangeli infatti - e, aggiungo io, dalla Vulgata - emerge che Lazzaro venne sepolto, more judaico, con i suoi abiti quotidiani, a differenza di come viene raffigurato dalla maggior parte degli esegeti, bardato come una mummia egizia. Inoltre, per quanto attiene Gesù, gli esegeti in genere continuano ad ignorare le particolari prescrizioni che regolavano il seppellimento dei defunti morti con spargimento di sangue, la prima delle quali era il divieto di lavare il corpo.
[24] V.Messori, op.cit., p.126.
[25] Lettera alla "Revue Scientifique" citata in: Emanuela Marinelli, "La Sindone - Un'immagine 'impossibile'", Cinisello Balsamo, 1996, p.61.
[26] Giulio Fanti - Emanuela Marinelli, "Cento prove sulla Sindone", Padova, 2000, pp.105 ss.
[27] Ad esempio anche l'episodio relativo all'avvenire di Pietro e Giovanni - Gv. 21, 18-23 - è un enigma,che ha dato origine alle supposizioni più fantasiose, ma non è questa la sede per occuparsene.
[28] Una delle verità oggi più neglette è che i dogmi della religione cattolica non sono altro che l'insegnamento segreto della cabala mosaica rivelato al mondo dal Redentore: si tratta della tradizione primordiale rivelata da Dio ad Adamo e poi conservata e tramandata dai maggiorenti della sinagoga antica prima della venuta del Messia (e prima che i farisei ne pervertissero gli insegnamenti). Scrive a tal proposito il rabbino convertito Paulus Drach, nel trattato "De l'harmonie entre l'Eglise et la Synagogue", vol. II, p.XXIV-XXV: "Ici nous ferons remarquer le caractère qui distingue essentiellement la loi ancienne de la loi nouvelle. La premiére avait un enseignement secret que l'on cachait au commun du peuple, mais qui devait etre preché ouvertement à la venue du Messie...Sous le régime de la seconde, le dernier des fidèles est initié aux plus sublimes vérités de la religion; et, sous ce rapport, un enfant qui sait son catéchisme n'a rien à envier aux plus profonds théologiens...Moise avait la face voilée, pour ménager la vue faible des Juifs (Ex., XXXIX, 35), mais Jésus-Christ s'est montré à visage découvert".
[29] L'opinione del prof.M.Zerwick avrebbe dovuto suonare come un campanello d'allarme per Persili: perchè fu proprio Zerwick - sospeso sotto Pio XII dall'insegnamento al Pontificio Istituto Biblico (e reintegrato con tutti gli onori da Paolo VI...) - uno dei protagonisti del "nuovo corso" del P.I.B., iniziato in sordina negli anni '50, che tacciava di "scienza del demonio" l'esegesi che attribuisce un reale valore storico ai Vangeli ed in particolare ai racconti sulla Resurrezione. Si veda al riguardo un resoconto dell'esperienza personale di don Persili.
[30] Ricevo conferma che tale asserzione non possa pretendersi a regola anche da una comunicazione personale del prof.Eugenio Corsini, professore dell'Istituto di Filologia Classica dell'Università di Torino, nonchè autore del ben noto studio sull'Apocalisse di Giovanni.
Inoltre va detto che "unico" (nel senso di "uno solo") e "medesimo" hanno spesso significato simile, se non equivalente. Esempio: I, Cor. 12, 11. Mentre Persili non riesce a trovare esempi raffrontabili di unico "per eccellenza".
[31] V.Messori, op.cit., p.137.
[32] Giovanni 20, 29.
[33] Sottolineato mio.
[34] Luca 24, 25 e ss.
[35] Quell'Isaia che già S.Girolamo (Praefatio in Isaiam) chiamava "evangelista".
[36] Emblematici, in tal senso, l'intero "Patì sotto Ponzio Pilato", Torino, 1992, nonchè il cap.VI - "Scandalo per i giudei" - di "Dicono che è risorto". Nel capitolo XXIV - 'Secondo le Scritture' - di "Patì sotto Ponzio Pilato, Messori arriva a scrivere (p.237): "In fondo (e non sembri un paradosso un po' blasfemo, è semmai una necessità logica) Anna, Caifa, tutti quei sinedriti, quegli scribi e farisei e sadducei che rifiutarono come Messia quel povero galileo, dal punto di vista ebraico avevano ragione. Non era nel torto Caifa a parlare di 'bestemmia' perché, scrive Joseph Blinzer, 'un Messia prigioniero, abbandonato dai suoi discepoli stessi, ridotto all'impotenza e consegnato così alla violenza dei suoi avversari, era per loro un'idea inaccettabile. Un israelita che, in una simile situazione, si presentava come il Cristo, come il detentore della massima dignità che Dio potesse conferire a un uomo, agli occhi loro - come di ogni altro ebreo timorato - non poteva essere che uno scellerato, uno che osava schernire le grandi promesse di Dio al popolo della Sua Alleanza'."
Forse bisognerebbe ricordare a Messori quello che sull'argomento, riassumendo il pensiero unanime dei Padri della Chiesa, scrive S.Tommaso:
" Post peccatum autem fuit explicite creditum mysterium Christi non solum quantum ad incarnationem, sed etiam quantum ad passionem et resurrectionem, quibus humanum genus a peccato et morte liberatur. Aliter enim non praefigurassent Christi passionem quibusdam sacrificiis et ante legem et sub lege. Quorum quidem sacrificiorum significatum explicite maiores cognoscebant, minores autem sub velamine illorum sacrificiorum, credentes ea divinitus esse disposita de Christo venturo, quodammodo habebant velatam cognitionem. Et sicut supra dictum est, ea quae ad mysteria Christi pertinent tanto distinctius cognoverunt quanto Christo propinquiores fuerunt. Post tempus autem gratiae revelatae tam maiores quam minores tenentur habere fidem explicitam de mysteriis Christi..." (S.T., 2, 2ae, q.2, a.7 co.)
[37] Su questo problema le pertinenti considerazioni di Daniel Raffard de Brienne disponibili su Internet.
Raffard de Brienne evidenzia anche, tra le altre, le contraddizioni eclatanti in cui incorre la Bibbia Bayard per giustificare, nella versione di Luca 1, 27 la sostituzione di "vierge" con l'appellativo "jeune femme", per tradurre il greco parthenos. Vorrei tuttavia richiamare l'attenzione su un'altra "novità", meno clamorosa ma altrettanto discutibile: si tratta della traduzione CEI del celebre capitolo 53 del profeta Isaia, che la tradizione unanime ha sempre riferito alla Passione di Cristo. Il versetto 9 così recita: "Gli si diede sepoltura con gli empi, con il ricco fu il suo tumulo, sebbene non avesse commesso violenza né vi fosse inganno nella sua bocca".
Vittorio Messori, in "Patì sotto Ponzio Pilato" (p.160-161), si affida proprio a questa traduzione per rimarcare una presunta discrepanza tra il testo veterotestamentario e il racconto di S.Giovanni relativo alla sepoltura di Gesù, aggiungendo che "la logica consiglia molti studiosi di scegliere come più autorevoli gli antichi codici che hanno un 'malfattori' e non un 'ricchi', che è contraddittorio in questo contesto". Ma se noi andiamo a leggere lo stesso passo nella Bibbia del 1964 pubblicata dalle Edizioni Paoline ci troviamo sotto gli occhi qualcosa di sottilmente - e innegabilmente - diverso: "Gli fu preparata una tomba fra gli empi, lo si unì nella morte con malfattori. Eppure non commise ingiustizia e non vi fu menzogna sulla sua bocca." In questo contesto, l'essere "unito alla morte con malfattori" è chiaramente riferibile alla morte in croce, non ad una presunta fossa comune, come vorrebbe Messori.
Come si può notare quella di Giovanni 20 non è la sola traduzione CEI suscettibile di discussione... [38] Su questo vedasi F.Spadafora, "La 'nuova' esegesi", cap.XVII, "La 'nuova' Pontificia Commissione Biblica".
[39] A.Persili, op.cit., pp.80-81.
[40] "La Civiltà Cattolica", Roma, 1983, quaderno 3188, pp.105-111.
[41] Secondo autori come Guignebert e il gesuita Léon-Dufour sarebbe lo stesso S.Paolo ad affermare la discontinuità tra la carne e il sangue di Cristo e il "corpo spirituale" ricevuto dopo la morte.
[42] Motivazione ufficiale del Premio Letterario Tito Casini, 1998.
[43] Concilio Vaticano I, D.B.1812.
[44] Dal Decreto della Sacra Congregazione dell'Indice in data 11 giugno 1855:
"3. L'uso della ragione precede la fede e a questa conduce l'uomo conl'aiuto della rivelazione e della grazia.
4. Il metodo che hanno usato S.Tommaso, S.Bonaventura e altri scolastici dopo di loro, non conduce al razionalismo...Perciò non è lecito imputare come un delitto a quei dottori e maestri il fatto di aver usato quel metodo."



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sabato 6 aprile 2013

Cosa vide Giovanni nel sepolcro di Cristo?


E' un post molto molto interessante.

"Vide e credette"

- Cosa vide Giovanni nel sepolcro di Cristo?

In memoria di don Antonio Persili,
ardente ricercatore della verità,
salito al Padre il 30 settembre 2011
Agli inizi del 1990 fui presentato da un comune amico a don Antonio Persili, parroco dell’antica chiesa di S. Giorgio situata nel centro storico di Tivoli. Avevo chiesto di incontrarlo dopo aver saputo del suo interesse per gli studi esegetici e, in particolare, di una sua interpretazione del capitolo 20, versetti1-9, del Vangelo di Giovanni, che da sempre è sembrato di significato oscuro. Di seguito i versetti in questione nella versione approvata nel 1974 dalla Conferenza Episcopale Italiana (CEI):

” 1 Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro. 2Corse allora e andò da Simon Pietro e dall’altro discepolo, quello che Gesù amava, e disse loro: «Hanno portato via il Signore dal sepolcro e non sappiamo dove l’hanno posto!». 3Uscì allora Simon Pietro insieme all’altro discepolo, e si recarono al sepolcro. 4Correvano insieme tutti e due, ma l’altro discepolo corse più veloce di Pietro e giunse per primo al sepolcro. 5Chinatosi, vide le bende per terra, ma non entrò. 6Giunse intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entrò nel sepolcro e vide le bende per terra, 7e il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte8Allora entrò anche l’altro discepolo, che era giunto per primo al sepolcro, e vide e credette. 9Non avevano infatti ancora compreso la Scrittura, che egli cioè doveva risuscitare dai morti”.
Effettivamente leggendo il passo così tradotto non è per niente chiaro cosa possa aver visto Giovanni (il discepolo che Gesù amava) tanto da fargli credere che Gesù fosse risuscitato; consideriamo che Maria di Magdala aveva già detto che il corpo del Signore era stato sottratto dal sepolcro: se quello che aveva visto, dopo essersi chinato, erano delle “bende per terra” e “il sudario … piegato in un luogo a parte”, l’unica stranezza che poteva averlo colpito era la sottrazione del solo corpo “nudo” (non dell’insieme bende e corpo, cosa che avrebbe reso più rapida e più “pulita” la sottrazione).
Cosa aveva visto effettivamente Giovanni? Don Persili partì da questa domanda nella sua ricerca. Iniziò a riconsiderare l’orginale testo greco del passo in questione per vedere se potesse darsi una traduzione che avesse senso ragionevole.
Un primo aiuto gli venne dal confronto tra il testo greco e la sua traduzione in latino, che si riportano di seguito (per il testo latino si è scelto quello della Neo Volgata voluta da Paolo VI, anche se promulgata da Giovanni Paolo II nel 1979):
“1 Τῇ δὲ μιᾷ τῶν σαββάτων Μαρία ἡ Μαγδαληνὴ ἔρχεται πρωῒ σκοτίας ἔτι οὔσης εἰς τὸ μνημεῖον καὶ βλέπει τὸν λίθον ἠρμένον ἐκ τοῦ μνημείου. 2 τρέχει οὖν καὶ ἔρχεται πρὸς Σίμωνα Πέτρον καὶ πρὸς τὸν ἄλλον μαθητὴν ὃν ἐφίλει ὁ Ἰησοῦς καὶ λέγει αὐτοῖς· ἦραν τὸν κύριον ἐκ τοῦ μνημείου καὶ οὐκ οἴδαμεν ποῦ ἔθηκαν αὐτόν. 3 Ἐξῆλθεν οὖν ὁ Πέτρος καὶ ὁ ἄλλος μαθητὴς καὶ ἤρχοντο εἰς τὸ μνημεῖον. 4 ἔτρεχον δὲ οἱ δύο ὁμοῦ· καὶ ὁ ἄλλος μαθητὴς προέδραμεν τάχιον τοῦ Πέτρου καὶ ἦλθεν πρῶτος εἰς τὸ μνημεῖον, 5 καὶ παρακύψας βλέπει κείμενα τὰ ὀθόνια, οὐ μέντοι εἰσῆλθεν. 6 ἔρχεται οὖν καὶ Σίμων Πέτρος ἀκολουθῶν αὐτῷ καὶ εἰσῆλθεν εἰς τὸ μνημεῖον, καὶ θεωρεῖ τὰ ὀθόνια κείμενα, 7 καὶ τὸ σουδάριον, ὃ ἦν ἐπὶ τῆς κεφαλῆς αὐτοῦ, οὐ μετὰ τῶν ὀθονίων κείμενον ἀλλὰ χωρὶς ἐντετυλιγμένον εἰς ἕνα τόπον. 8 τότε οὖν εἰσῆλθεν καὶ ὁ ἄλλος μαθητὴς ὁ ἐλθὼν πρῶτος εἰς τὸ μνημεῖον καὶ εἶδεν καὶ ἐπίστευσεν· 9 οὐδέπω γὰρ ᾔδεισαν τὴν γραφὴν ὅτι δεῖ αὐτὸν ἐκ νεκρῶν ἀναστῆναι.
“1 Prima autem sabbatorum Maria Magdalene venit mane, cum adhuc tenebrae essent ad monumentum et videt lapidem sublatum a monumento. 2 Currit ergo et venit ad Simonem Petrum et ad alium discipulum, quem amabat Iesus et dicit eis:«Tulerunt Dominum de monumento et nescimus ubi posuerunt eum!». 3 Exiit ergo Petrus et ille alius discipulus et veniebant ad monumentum. 4 Currebant autem duo simul, et ille alius discipulus praecucurrit citius Petro et venit primus ad monumentum; 5 et cum se inclinasset, videt posita linteamina non tamen introivit: 6 Venit ergo et Simon Petrus sequens eum et introivit in monumentum; et videt linteamina posita 7 et sudarium, quod fuerat super caput eius, non cum linteaminibus positum, sed separatim involutum in unum locum. 8 Tunc ergo introivit et alter discipulus, qui venerat primus ad monumentum, et vidit et credidit.
9 Nondum enim sciebant Scripturam quia oportet eum a mortuis resurgere.
Risultava evidente a don Persili che la traduzione in italiano delle parole greche τὰ ὀθόνια κείμενα con “le bende per terra” non era corretta: il verbo greco κείμαι, di cui κείμενα è il participio, non indica qualcosa che è stato “gettato per terra”, quanto piuttosto qualcosa che è disteso, giacente, afflosciato, appiattito; questa interpretazione risultava confortata dalla Neo Volgatache riportava “linteamina posita” (posita, dal verbo poneo, che significa messa giù, ma anche appiattita). Don Persili capì quello che aveva visto Giovanni: le bende1 “afflosciate” su se stesse, facevano comprendere come il cadavere le avesse attraversate, si fosse sfilato da esse senza scomporle, come si affloscia un materassino di gomma quando l’aria fuorisce da un foro; ben altro chegettate per terra, come sembrerebbe indicare la traduzione in italiano del 1974 approvata dalla CEI.
Per don Persili c’era da risolvere un altro problema: sempre nella traduzione CEI si leggeva che il discepolo che Gesù amava vide “il sudario, che gli era stato posto sul capo, non per terra con le bende, ma piegato in un luogo a parte”. E questo poteva confermare l’ipotesi del furto del cadavere. Stavolta il latino della Volgata non poteva aiutare perché sembrava dare la stessa interpretazione: “et sudarium, quod fuerat super caput eius, non cum linteaminibus positum, sed separatim involutum in unum locum”. Don Persili cercò allora di interpretare una per una le parole greche dell’ultima parte della frase in esame (χωρὶς ἐντετυλιγμένον εἰς ἕνα τόπον) cercando una traduzione che avesse un senso connesso al proseguio del passo del Vangelo di Giovanni2. Pensò di aver trovato la soluzione dando rispettivamente all’ avverbio χωρὶς non il significato di “a parte”, ma quello di “differentemente” o “al contrario”; al participio ἐντετυλιγμένον non quello di piegato, ma quello, appropriato, di arrotolato; alle tre parole εἰς ἕνα τόπον, non quella di “in un luogo” (per di più “a parte” come dice la CEI), ma quella di “in una posizione unica” (unica nel senso di “eccezionale”). Nella traduzione di don Persili, lessicalmente lecita, i versetti in questione dicono, quindi, dal versetto 5 all’8:
“[il discepolo che Gesù amava] chinatosi, scorse le fasce distese, ma non entrò. Giunge intanto anche Simon Pietro che lo seguiva ed entra nel sepolcro e contempla le fasce distese e il sudario che era sul capo di lui, non disteso con le fasce, ma al contrario avvolto in una posizione unica”.
Questa traduzione in effetti poteva dare un senso al “vide e credette”: come spiegava don Persili, il sudario doveva essere rimasto come inamidato nella posizione che aveva quando avvolgeva il capo di Gesù: ciò poteva essere avvenuto a causa degli aromi (aloe e mirra) che asciugandosi avevano irrigidito la stoffa. Per di più mi confidò che credeva fosse possibile comprendere εἰς ἕνα τόπον come “nella stessa posizione”, “nello medesimo posto”, ma che ciò non sarebbe stato corretto dal punto di vista lessicale. Come vedremo nel seguito di questo scritto la sua intuizione era giusta.
Don Persili mi raccontò, sempre durante questo primo incontro, che si era recato all’Istituto Biblico di Roma per presentare questa sua traduzione, avere conferme o suggerimenti, ma che fu deriso dai Gesuiti, professori in quell’Istituto: gli dissero, infatti, che la cosa non era importante, che quello che contava era la fede nella risurrezione di Cristo e che questa derivava dall’elaborazione della primitiva comunità cristiana della predicazione di Cristo. Come ha ricordato il Vescovo di Tivoli, Mauro Parmeggiani, in occasione dell’omelia proclamata durante il funerale di don Persili, “gli studi di don Persili erano troppo in contrasto con molta della esegesi post conciliare avversa alla storicità della risurrezione”, perché succuba dell’esegesi del protestantesimo liberale e del coseguente modernismo condannato dalla enciclica Pascendi3.
Don Persili si risolse, quindi, di pubblicare a sue spese nel 1987 un libro dal titolo Sulle tracce di Cristo risorto – Con Pietro e Giovanni testimoni oculari, che riportava la sua ricerca. Data la contraria teologia imperante, il libro ebbe una divulgazione limitata.
Durante un ulteriore incontro che ebbi con don Persili gli riferii che avevo scoperto come gli estensori della Bibbia di Navarra4, pur lavorando sul testo CEI del 1974, avevano scritto un ampio commento al passo 20, 1-9 del Vangelo di Giovanni, nel quale esprimevano tesi identiche a quelle di don Persili, pur senza darne alcuna spiegazione filologica. Non so se don Persili abbia preso contatto con i suddetti estensori e, ad ogni modo, sulle sue ricerche per molto tempo calò il più assoluto silenzio.
Don Persili aveva mandato, però, una copia del suo libro a Vittorio Messori, capace e fortunato divulgatore delle dottrine cristiane ortodosse. Come quest’ultimo confessò, il libro rimase a dormire, non letto, nella sua libreria per qualche anno, finché lo riscoprì. Lo scritto fece una forte impressione a Messori che nel 2000 pubblicò un suo libro, Dicono che è risorto – un’indagine su un sepolcro vuoto, nelle edizioni SEI, nel quale riprendeva ampiamente le tesi di don Persili: il libro ebbe un successo di vendite strepitoso. Ovviamente tutto ciò fece scalpore5, tanto che (si disse) il Papa raccomandò che se ne tenesse conto anche nella nuova edizione della Bibbia programmata dalla Cei e che fu pubblicata nel 2008.
Malgrado il clamore suscitato da Messori, la nuova edizione CEI tradusse ancora senza senso i versetti del Vangelo di Giovanni di nostro interesse:
5Si chinò, vide i teli posati là, ma non entrò. 6Giunse intanto anche Simon Pietro, che lo seguiva, ed entrò nel sepolcro e osservò i teli posati là, 7e il sudario – che era stato sul suo capo – non posato là con i teli, ma avvolto in un luogo a parte”.
Sembra solo peggiorato l’italiano (“posati là”, viene da chiedersi “dove?”).
Il “sasso gettato nello stagno” da don Persili ha avuto, però, degli effetti: ha fatto emergere studi, tacitati, che erano stati fatti in precedenza sul passo di Giovanni 20,1-96 e ha spinto a che si arrivasse alla spiegazione definitiva della questione.
Questa spiegazione è stata trovata da studiosi che conoscono la lingua aramaica, che sta “dietro” al testo greco del Vangelo di Giovanni: la madre lingua di questi era, infatti, l’aramaico ed è probabile che continuasse a pensare nella lingua nativa e, scrivendo in greco, trasferisse semplicemente i termini dall’aramaico al greco (come facciamo noi italiani quando parliamo in inglese e spesso usiamo modi di dire non corretti: ci limitiamo, infatti, una traduzione ad litteram dalla nostra lingua, arrivando frasi che per un inglese sono di significato oscuro)7.
E’ quello che è successo nel testo greco di Giovanni 20,1-9; cercherò di spiegarlo riportando in sintesi di studi effettuati da esperti conoscitori dell’aramaico8. Se si esamina questo testo, vediamo che il versetto 1 recita:
Τῇ δὲ μιᾷ τῶν σαββάτων Μαρία ἡ Μαγδαληνὴ ἔρχεται πρωῒ σκοτίας ἔτι οὔσης εἰς τὸ μνημεῖον καὶ βλέπει τὸν λίθον ἠρμένον ἐκ τοῦ μνημείου.
Se osserviamo come viene tradotto in diverse versioni italiane e latine, puntando l’attenzione al vocabolo μιᾷ (alla lettera in italiano “una” femminile di “uno”; in greco “uno” è εἰς; “una” è μιᾷ; il neutro è έν), troviamo:
  • testo CEI 1974: Nel giorno dopo il sabato, Maria di Màgdala si recò al sepolcro di buon mattino, quand’era ancora buio, e vide che la pietra era stata ribaltata dal sepolcro (si tratta di una traduzione “a senso”, dove il termine μιᾷ ,”una”, è scomparso);
  • testo Neo Volgata: Prima autem sabbatorum Maria Magdalene venit mane, cum adhuc tenebrae essent ad monumentum et videt lapidem sublatum a monumento (il termine μιᾷ, “una”, viene tradotto con “prima” (anche se più vicina all’originale, è ancora una traduzione “a senso”);
  • Volgata di San Girolamo: Una autem sabbati Maria Magdalene venit mane cum adhuc tenebrae essent ad monumentum et videt lapidem sublatum a monumento (come si vede μιᾷ è stato tradotto alla lettera e solo la traduzione “a senso” della CEI fa capire che stiamo parlando del primo giorno dopo il sabato ebraico, quel giorno che in seguito noi cristiani abbiami chiamato “domenica”).
Per comprendere questa diversità di traduzione ci si deve ricordare che in ebraico e in aramaico uno, due, tre, ecc. valgono anche per primo, secondo, terzo, ecc; e che i giorni della settimana sono: giorno uno (della settimana), giorno due, giorno tre … sabato (il giorno sette, che noi giustamente diciamo il settimo giorno). Così il μιᾷ del versetto in questione è stato reso da San Girolamo, alla lettera, come una [dies] e dal testo della Neo Volgata, alla lettera, ma già parzialmente “a senso” come prima [dies].
Ugualmente, sempre secondo i conoscitori dell’aramaico, εἰς ἕνα τόπον del testo greco di Giovanni versetto, tradotto nelle dueVolgate che abbiamo esaminato con “in unum locum”, andrebbe reso in italiano con “nel primo luogo”, intendendo “primo” per “medesimo” o “stesso”, come aveva intuito don Persili.
In ultimo mi appoggio in tale questione all’autorità del prof. don Renato De Zan, biblista, grecista, conoscitore dell’ebraico e dell’aramaico: nel corso di una delle sue lezioni di Liturgia, cui partecipai, disse che l’esatta traduzione del passo di Giovanni 20, 6-7 è il seguente: “vide le bende afflosciate e il sudario che gli era stato posto attorno al capo, non afflosciato come le bende, ma ripiegato su se stesso nel medesimo luogo”. Aggiunse il prof. De Zan che per arrivare a una tale traduzione bisogna saper intuire il testo aramaico che sta dietro quello greco. Questa traduzione il prof. De Zan l’ha riportata alla pagina 91 del volume La Parola per la Chiesa – Commento alle letture delle domeniche e delle feste – Anno B, composto assieme al prof. Roberto Lauria (EDB 2005).
Mi sembra interessante trascrivere quello che il prof. De Zan aggiunge nel libro dopo questa traduzione: “le bende non sono un testimone muto: se vengono guardate con l’occhio della fede sanno parlare di risurrezione; come il Cristo risorto entrerà a porte chiuse nella stanza (Gv 20, 19-26), allo stesso modo uscirà dall’involucro della sindone. Il discepolo che si sente amato da Diovede e crede. Queste tele avevano avvolto Gesù e ora giacciono afflosciate come un bozzolo, intatto e vuoto, tranne che dalla parte del capo. Ed il sudario teneva ancora leggermente alte le bende. Il corpo del Maestro aveva trapassato le bende senza romperle o scomporle. Egli vide e credette. Maria Maddalena e Pietro, invece, dovevano ancora compiere un itinerario di ascolto. Non compresero: la Parola doveva ancora illuminarli”.
E’ vero infatti che la risurrezione è un mistero, in quanto noi non sappiamo come essa è avvenuta, in quanto siamo a diversi livelli di esistenza: quella terrena, la nostra, e quella gloriosa di Gesù. Ma mistero non vuol dire che abbiamo a che fare con qualcosa che non si può per nulla conoscere, ma piuttosto con qualcosa di cui bisogna fare esperienza, entrarvi dentro. Noi siamo già su questa strada perché siamo stati battezzati, morendo con Cristo (all’entrata nell’acqua) e risorgendo con Lui (all’uscita dall’acqua): siamo quindi già penetrati parzialmente nel mistero, anche se per “vedere” Gesù abbiamo ancora bisogno dei segni che Lui ha voluto lasciarci: il sepolcro vuoto, ma anche i Sacramenti e, tra questi, soprattutto, l’Eucaristia; sempre più lo potremo vedere se ci faremo guidare da questi segni ed illuminare dalla sua Parola.
E’ quello che ha sempre fatto don Persili, come, del resto, altri perseveranti ricercatori prima e dopo di lui.
Pasqua 2012
Salvatore Scuro
Segretario della Fraternitas Aurigarum Urbis
1In effetti si trattava della sindone e di alcune bende, messe come fasciature, che assicuravano la stessa al cadavere (si veda in proposito il capitolo del Vangelo di Giovanni, che parla della preparazione del corpo di Gesù per la sepoltura). Secondo gli studiosi della Scuola esegetica di Madrid (vedi successiva nota 6), sindone e othonia nel greco dei LXX sono sinonimi e traducono l’ebraico “grande pezza di tela”.
2Anche se don Persili ha svolto il suo servizio di parroco con grande umiltà e nella povertà evangelica, non si deve pensare che fosse uno sprovveduto; intanto aveva una perfetta padronanza del latino e del greco ed inoltre aveva una comprovata scienza ecclesiastica, come dimostrano alcuni degli incarichi assunti nel tempo: professore nel Seminario diocesano, direttore dell’Ufficio catechistico, Cancelliere vescovile.
3Per sapere come sia nata e si sia sviluppata una tale esegesi si legga La vita di Gesù dall’abate Ricciotti, libro pubblicato nel 1941, ma continuamante ristampato: in una lunghissima introduzione l’abate spiega come negli ambienti degli illuministi, alla fine del XVIII secolo, siano sorte innumerevoli pubblicazioni con lo scopo di demolire ogni validità dei racconti evangelici, a partire dai miracoli, che certo per quegli “intelligenti” erano fatti che non potevano essere avvenuti. Per conoscere come questa propaganda continui ancora adesso si legga il recente libro della prof.ssa Marie-Cristine Ceruti-Cendier, I Vangeli sono dei reportages, anche se a qualcuno non va, pubblicato in edizione italiana da Mimep-Docete nel 2088: la studiosa spiega che si tratta di una propaganda subdola, perché coloro che la portano avanti spesso non si presentano come atei o come persone ormai lontane dalla Chiesa, ma come cristiani particolarmente “intelligenti”, magari anche come “teologi”, e questo allo scopo di essere letti più facilmente dai fedeli, che altrimenti sarebbero in guardia: così il dubbio può essere meglio seminato
4La Bibbia di Navarra – I quattro Vangeli, ed. italiana ARES 1988. E’ stata redatta dall’Università di Navarra con il testo latino della Neo Volgata e un ricchissimo apparato di note, molto basate sugli scritti dei Padri della Chiesa.
5L’argomento fu ripreso nello stesso anno da Civiltà Cattolica e da 30 Giorni.
6Tra gli studi più accurati in proposito si devono citare quelli di Francesco Spadafora, sviluppati a partire dal 1952 e ora riproposti nel suo volume La risurrezione di Gesù, Cantagalli, 2010. In questo libro molti dei seminatori di dubbi sono nominati e si sottolinea che il “marcio” spesso si trova ai più alti livelli della gerarchia ecclesiastica. La traduzione del passo di Giovanni 20,1-9 che riporta è soddisfacente.
7A tale proposito sono importanti gli studi di Jean Carmignac, profondo conoscitore delle lingue ebraica e aramaica, che ha dimostrato l’esistenza del sostrato semitico dei Vangeli (vds. La sua pubblicazione La nascita dei Vangeli sinottici, San Paolo 1986), e quelli della Scuola esegetica di Madrid, che cerca di spiegare le difficoltà linguistiche dei testi evangelici sempre ricercando questo sostrato semitico: a tale proposito si ricorda il libro di José Miguel Garcia La vita di Gesù nel testo aramaico dei Vangeli, ed. BUR 2005. Si veda anche il libro di Claude Tresmontant Le Christ Hèbreu. La Langue et l’age des Evangiles, ed. Albin Michel 1992.
8L’indicazione l’ho trovata soprattutto nel già citato libro della prof.ssa Marie-Cristine Ceruti-Cendier, I Vangeli sono dei reportages, anche se a qualcuno non va: alle pagine 173 e 174 viene riportato un passo che sembra determinante alla risoluzione della questione: «Ecco cosa scrive su questo punto Hervé-Maria Catta in “Cahiers du Renouveau” n. 22: Il est vivant!, dicembre 1978 pag. 22: “Che cosa vede, dunque, questo discepolo, perché subito il suo cuore sia illuminato dalla fede? … Egli vede i panni afflosciati, e il sudario, che era stato sul suo capo, non afflosciato come i panni, ma, al contrario, arrotolato come si trovava in origine”». E aggiunge la prof.ssa Catta: «A questo punto si trova la seguente annotazione: Letteralmente “nel primo luogo”, e non “in un altro luogo”, come a volte si traduce: ἕνα è lo stesso aggettivo utilizzato per dire “il primo giorno della settimana” al versetto 1 dello stesso capitolo 20.
Di uguale tenore è quanto ha detto, nel febbraio 1997, il prof. Don Claudio Deaglio in un corso di Teologia per laici in cui era relatore: «Giovanni usava un greco molto ebraico: “εἰς ἕνα τόπον” o “in unum locum” non sono rispettivamente espressioni greca o latina, ma tipicamente semitica, dove l’aggettivo “stesso” è sostituito dal numerale “uno”; “in un luogo” per dire “in un unico, nello stesso, nel medesimo posto” (la lezione si trova al seguente indirizzo elettronico :

http://www.symbolon.net/Temi%20biblici/Ges%C3%B9%20Cristo/11-Il_fatto_della_risurrezione.pdf )

SURREXIT CHRISTUS SPES MEA!