4 marzo 1944.
Il
martirio di S. Petronilla e S. Felicola.
Vedo due giovani donne in preghiera. Una preghiera
ardentissima che deve proprio
penetrare nei cieli. Una è più matura. Pare quasi sui
trent’anni; l’altra deve da poco aver passato i venti. Sembrano in perfetta salute
tutte e due.
Poi si alzano e preparano un piccolo altare su cui dispongono
lini preziosi e fiori.
Entra un uomo vestito come i romani dell’epoca, che le
due giovani salutano con la massima venerazione. Egli si leva dal petto una borsa
dalla quale trae tutto quanto occorre per celebrare una Messa. Poi si riveste
delle vesti sacerdotali e
inizia il Sacrificio.
Non comprendo benissimo il Vangelo, ma mi pare sia quello
di Marco: “E gli presentarono dei bambini... chi non riceverà il regno di
Dio come un fanciullo non c’entrerà” Marco 10, 15; Luca 18, 17.
Le due giovani,
inginocchiate presso l’altare, pregano sempre più fervorosamente.
Il Sacerdote consacra le Specie e poi si volge a
comunicare le due fedeli, cominciando dalla più anziana, il cui volto è serafico di
ardore.
Poi comunica l’altra. Esse, ricevute le Specie, si prostrano al suolo
in profonda preghiera e
sembra restino così per pura devozione.
Ma quando il Sacerdote si volge a benedire e scende dall’altare
collocato su una
pedana di legno - dopo la celebrazione del rito, che è
uguale a quella di Paolo nel Tullianum . Solo qui il celebrante parla più piano,
date le due sole fedeli; ecco perché capisco meno il Vangelo - una soltanto delle giovani si
muove. L’altra rimane prostrata come prima. La compagna
la chiama e la scuote.
Si china anche il Sacerdote. La sollevano. Già il pallore
della morte è su quel viso, l’occhio semispento naufraga sotto le palpebre, la
bocca respira a fatica.
Ma che beatitudine in quel viso!
La adagiano su una specie di lungo sedile che è presso
una finestra aperta su un cortile, in cui canta una fontana. E cercano soccorrerla.
Ma, radunando le forze, ella alza una mano e accenna al cielo e non dice
che due parole:
“Grazia... Gesù” e senza spasimi spira.
Tutto ciò non mi spiega che c’entra la giovane legata
alla colonna che ho visto
questa notte e che, per quanto molto più pallida e
smagrita, spettinata, torturata, mi pare assomigli tanto alla superstite che
ora piange presso la
morta. E resto così, nella mia incertezza, per qualche
ora.
Soltanto ora che è sera ritrovo la giovane piangente
prima, ora ritta presso la
fontana del severo cortile nel quale sono coltivate solo
delle piccole aiuole di gigli e sui muri salgono dei rosai tutti in fiore.
La giovane parla con un giovane romano: “È inutile che tu
insista, o Flacco. Io ti sono grata del tuo rispetto e del ricordo che hai per
la mia amica morta.
Ma non posso consolare il tuo cuore. Se Petronilla è morta, segno era che non
doveva essere tua sposa. Ma io neppure. Tante sono le
fanciulle di Roma che sarebbero felici di diventare le signore della tua casa.
Non io. Non per te. Ma perché ho deciso di non contrarre nozze”.
“Tu pure sei presa dalla frenesia stolta di tante seguaci
di un pugno d’ebrei?”.
“Io ho deciso, e credo non esser folle, di non contrarre
nozze”.
“E se io ti volessi?”.
“Non credo che tu, se è vero che mi ami e rispetti,
vorrai forzare la mia libertà di cittadina romana. Ma mi lascerai seguire il mio desiderio avendo
per me la buona amicizia che io ho per te”.
“Ah, no! Già una m’è sfuggita. Tu non mi sfuggirai”.
“Ella è morta, Flacco. La morte è forza a noi superiore,
non è fuga di uno ad un
destino. Ella non s’è uccisa. È morta...”.
“Per i vostri sortilegi. Lo so che siete cristiane e
avrei dovuto denunciarvi al Tribunale di Roma. Ma ho preferito pensare a voi come a
mie spose. Ora per l’ultima volta ti dico: vuoi esser moglie del nobile
Flacco? Io te lo giuro che è meglio per te entrare signora nella mia casa e lasciare
il culto demoniaco del tuo povero dio, anziché conoscere il rigore di Roma che
non permette siano insultati i suoi dèi. Sii la sposa mia e sarai felice.
Altrimenti...”.
“Non posso esser tua sposa. A Dio sono consacrata. Al mio
Dio. Non posso adorare
gli idoli, io che adoro il vero Dio. Fa’ di me quello che
vuoi. Tutto puoi fare del corpo mio. Ma la mia anima è di Dio ed io non la
vendo per le gioie della tua casa”.
“È la tua ultima parola?”.
“L’ultima”.
“Sai che il mio
amore può mutarsi in odio?”
“Dio te ne perdoni. Per mio conto ti amerò sempre come
fratello e pregherò per il tuo bene”.
“Ed io farò il tuo male. Ti denuncerò. Sarai torturata.
Allora mi invocherai. Allora comprenderai che è meglio la casa di Flacco alle
dottrine stolte di cui ti nutri”.
“Comprenderò che il mondo, per non avere
più dei Flacchi, ha bisogno di queste
dottrine. E farò il tuo bene pregando per
te dal Regno del mio Dio”.
“Maledetta cristiana! Alle carceri! Alla fame! Ti sazi il
tuo Cristo se lo può”.
Ho l’impressione che le carceri siano abbastanza prossime
alla casa della vergine perché la strada è poca, e che il nobile Flacco
sia né più né meno che
un segugio del Questore di Roma perché, quando la
visione, mutando aspetto, mi riporta la sala già vista con la giovane legata alla
colonna, vedo che è un tribunale come quello in cui fu giudicata Agnese. Ben poche sono le differenze e che, anche qui, vi è un brutto ceffo che giudica e
condanna, e che Flacco gli fa da aiutante e aizzatore.
Felicola, estratta dalla muda dove era, viene portata in mezzo
alla sala. Appare
sfinita di forze ma ancor tanto dignitosa. Per quanto la
luce l’abbacini, debole
come è e abituata ormai al buio carcere, si tiene eretta
e sorride. Le solite
domande e le solite offerte seguite dalle solite
risposte: “Sono cristiana. Non sacrifico ad altro Dio che non sia il mio Signore Gesù
Cristo”.
Viene condannata alla colonna.
Le strappano le vesti e nuda, alla presenza del popolo,
la legano con le mani e i piedi dietro ad una delle colonne del Tribunale. Per
fare ciò le slogano le anche e le slogano le braccia. La tortura deve essere
atroce. E non basta, ma
torcono le funi ai polsi e alle caviglie, la percuotono
sul petto e sul ventre
nudo con verghe e flagelli, le torcono le carni con
tenaglie e altri così atroci supplizi che non sto a ridire.
Ogni tanto le chiedono se vuol sacrificare agli dèi. Felicola,
con voce sempre più debole, risponde: “No. Al Cristo. A Lui solo. Or che
lo comincio a vedere, ed ogni tortura me lo rende più vicino, volete che io lo
perda? Compite la vostra opera. Che io abbia il mio amore compiuto. Dolci
nozze di cui Cristo è sposo ed io sposa sua! Sogno di tutta la mia vita!”.
Quando la slegano dalla colonna, ella cade come morta per
terra. Le membra slogate, forse anche spezzate, non la reggono più, non
rispondono a nessun comando della mente. Le povere mani, segate ai polsi
dalla fune che ha fatto due
braccialetti di sangue vivo, pendono come morte. I piedi,
pure lacerati ai malleoli sino a mostrare i nervi e i tendini, appaiono
chiaramente spezzati dal modo come stanno ripiegati in modo innaturale. Ma il
volto è pieno di una felicità d’angelo.
Scendono le lacrime sulle gote esangui, ma l’occhio ride
assorto in una visione
che l’estasia.
I carcerieri, meglio i boia, la colpiscono di calci, e a
calci la spingono, come fosse un sacco tanto immondo da non poter esser toccato,
verso la predella del Questore.
“Ancor viva sei?”.
“Sì, per volontà del mio Signore”.
“Ancora insisti? Vuoi proprio la morte?”
“Voglio la Vita. Oh! mio Gesù, aprimi il Cielo! Vieni,
Amore eterno!”.
“Gettatela nel Tevere! L’acqua calmerà i suoi ardori”.
I boia la sollevano con mal garbo. La tortura delle
membra spezzate deve essere
atroce. Ma ella sorride. La avvolgono nelle sue vesti,
non per pudicizia ma per
impedirle di reggersi in acqua. Inutile cura! Con degli
arti in quello stato, non si nuota. Solo la testa emerge dal viluppo delle
vesti. Il suo povero corpo, gettato sulle spalle di un carnefice, pende come fosse
già morta. Ma ella sorride alla luce delle fiaccole, perché ormai è sera.
Giunti al Tevere, come fosse un animale da sopprimersi,
la prendono e dall’alto del ponte la precipitano nelle acque scure, sulle quali
ella riaffiora due volte e poi si inabissa senza un grido.
Dice Gesù:
«Ti ho voluto far conoscere la mia martire Felicola per
dare a te ed a tutti qualche insegnamento.
Tu hai visto il potere della preghiera nella morte di
Petronilla, compagna e maestra di Felicola di cui era molto più anziana, e il
frutto di una santa
amicizia.
Petronilla, figlia spirituale di Pietro, aveva assorbito dalla viva
parola del
mio Apostolo lo spirito di Fede. Petronilla. La gioia, la perla romana di Pietro. Sua prima conquista romana. Quella che, per la sua
rispettosa e amorosa devozione all’Apostolo, lo consolò di tutti i dolori
della sua evangelizzazione
romana.
Pietro per amore mio aveva lasciato casa e famiglia. Ma
Colui che non mente gli
aveva fatto trovare in questa fanciulla - e in maniera
sovrabbondante, colma,
premuta, secondo le mie promesse Luca 6, 38. - conforto, cure, dolcezze femminili. Come Io
a Betania, egli in casa di Petronilla trovava aiuti,
ospitalità e soprattutto amore. La donna è uguale, nel suo bene e nel suo male,
sotto tutti i cieli e in
tutte le epoche. Petronilla fu la Maria (Maria di Magdala, sorella di Lazzaro
e Marta di Betania) di Pietro, con in
più la sua purezza di fanciulla che il Battesimo, ricevuto mentre ancora l’innocenza
non aveva conosciuto oltraggio, aveva portato a perfezione
angelica.
Maria, ascolta.
Petronilla, volendo amare il Maestro con tutta se stessa
senza che la sua avvenenza e il mondo potessero turbare questo
amore, aveva pregato il
suo Dio di fare di lei una crocifissa. E Dio la esaudì.
La paralisi crocifisse le sue angeliche membra. Nella lunga infermità sul
terreno bagnato dal dolore fiorirono più belle le virtù e specie l’amore per la Madre mia.
Ascolta ancora, Maria. Quando fu necessario, la sua
malattia conobbe una sosta.
Per mostrare che Dio è padrone del miracolo. E poi,
finito il momento, tornò a crocifiggerla.
Non conosci nessun’altra, Maria, alla quale il suo
Maestro, come Pietro a Petronilla, non dica, quando gli occorre: “Sorgi, scrivi,
sii forte” e cessato il bisogno del Maestro non torni una povera inferma in
perpetua agonia?
Morto l’Apostolo e guarita Petronilla, ella trovò che la
sua vita non era più sua. Ma del Cristo. Non era di quelle che, ottenuto il
miracolo, se ne servono per offendere Dio. Ma la salute la usò per l’interesse di
Dio.
La vita vostra è sempre mia. Io ve la do. Ve lo dovreste
ricordare. Ve la do come vita animale facendovi nascere e conservandovi vivi.
Ve la do come vita spirituale con la Grazia e i Sacramenti. Dovreste
ricordarvelo sempre e farne buon uso. Quando poi vi rendo la salute,
vi faccio rinascere quasi dopo malattia mortale, dovreste ancor più ricordarvi che quella vita,
rifiorita quando già la
carne sapeva di tomba, è mia. E per riconoscenza usarla
nel Bene.
Petronilla lo seppe fare. Non si è assorbita inutilmente la mia Dottrina. Essa
è come sale che preserva dal male, dalla
corruzione, è
fiamma che scalda e
illumina, è cibo che nutre e fortifica, è fede che fa
sicuri.
Viene la prova, l’assalto della tentazione, la minaccia del mondo.
Petronilla prega. Chiama Dio.
Vuol essere di Dio. Il mondo la vuole? Dio la difenda dal
mondo.
Il Cristo l’ha detto: “Se avete tanta fede quanto un
granello di senape, potrete dire ad un monte: ‘Levati a va’ più in là’ ” (Matteo 17, 20; Marco 11, 23; Luca 17, 6).
Pietro glie l’ha
detto tante volte. Ella non chiede al monte di muoversi.
Chiede a Dio di levarla dal mondo prima che una prova superiore alle sue forze la schiacci.
E Dio l’ascolta. La fa morire in un’estasi. In un’estasi, Maria, prima che
la prova la schiacci.
Ricordala questa cosa, piccola discepola mia
Felicola era amica, più che amica figlia o sorella, data
la poca differenza d’età di una diecina d’anni circa. Non si convive senza
santificarsi con chi è
santo. Come ci si guasta
convivendo con chi è guasto. Se il mondo se la ricordasse questa verità! Ma il mondo invece trascura i
santi o li sevizia, e
segue i satana divenendo sempre più satana.
La fermezza e la dolcezza di Felicola l’hai vista. Che
è la fame per chi ha Cristo a suo cibo? Che è la tortura per chi ama il
Martire del Calvario? Che è la morte per chi sa che la morte apre la porta alla Vita?
È sconosciuta dai cristiani d’ora la mia martire Felicola. Ma essa è ben conosciuta dagli angeli di Dio che la vedono ilare in
Cielo dietro l’Agnello
divino. Ho voluto renderla nota a te per poterti parlare
anche della sua maestra di spirito e per incuorarti al patire.
Ripeti con lei: “Ora sì che fra questi dolori comincio a
vedere il mio sposo Gesù, nel quale ho posto tutto il mio amore”, e pensa che
anche per te ho suscitato un Nicomede
(È il nome del presbìtero che recuperò il corpo della santa martire Felicola, le cui notizie storiche sembrano corrispondere al racconto sulla martire Felicola, qui presentato. Il “Nicomede” della scrittrice, suscitato per il suo recupero spirituale, è Padre Migliorini),
per salvare dalle acque delle passioni il tuo io che
volevo per Me, e per raccogliere quanto di te merita d’esser
conservato, ciò che è mio, ciò che può operare del bene all’anima dei
fratelli.»
Felicola,
santa, martire di Roma, la passio di Nereo e Achilleo la vuole sorella di latte
di S. Petronilla. Sepolta al VII miglio della via Ardeatina, nel 1112 venne scoperta
dal presbitero Benedetto e traslata a S. Lorenzo in Lucina. Il suo corpo qui
ritrovato nel 1605 è conservato presso l’altare maggiore. Il primo rinvenimento
dei resti avvenne, secondo la lapide del 1112, insieme alle spoglie del martire
Gordiano.
[ Tratto dall'opera
«Reliquie Insigni e
"Corpi Santi" a Roma» di Giovanni Sicari ]
Antico Martirologio
Romano, 13 giugno - A Roma, sulla via
Ardeatina, il natale di santa Felicola, Vergine e Martire. Non volendo
maritarsi a Flacco, ne sacrificare agli idoli, fu data in mano ad un Giudice,
il quale, perseverando essa nella confessione di Cristo, dopo tenebroso carcere
e lunga fame, tanto tempo la fece tormentare nell'eculeo, finchè essa non rese
lo spirito, e così finalmente la fece deporre e gettare in una cloaca. Il suo
corpo, estratto da san Nicomede Prete, fu sepolto sulla medesima via.
Martirologio Romano, 13
giugno: A Roma al settimo miglio della
via Ardeatina, santa Felícola, martire