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sabato 24 dicembre 2022

Caro Dickens

 SIAMO AGLI SGOCCIOLI...

A Charles Dickens

Caro Dickens,

sono un vescovo, che ha preso lo strano impegno di scrivere

ogni mese per il «Messaggero di s. Antonio» una lettera a qualche

illustre personaggio.

A corto di tempo, sotto Natale, non sapevo proprio chi

scegliere. Quand’ecco, trovo su un giornale la réclame dei vostri

cinque famosi Libri natalizi. Mi sono subito detto: li ho letti da

ragazzo, mi sono immensamente piaciuti perché tutti pervasi da

un senso di amore ai poveri e di rigenerazione sociale, tutti caldi

di fantasia e umanità; scriverò a lui. E son qui a disturbarvi.

* * *

Ho ricordato dianzi il vostro amore ai poveri. L’avete sentito

ed espresso magnificamente, perché tra i poveri eravate vissuto

bambino.

A dieci anni, col papà in prigione per debiti, al fine di aiutare

la mamma e i fratellini, andaste a lavorare in una fabbrica

di vernici. Dalla mattina alla sera le vostre piccole mani imballavano

scatole di lucido da scarpe sotto gli occhi di un padrone

impietoso; la notte dormivate in una soffitta; la domenica, per

far compagnia al padre, la trascorrevate con tutta la famiglia in

prigione, dove i vostri occhi di fanciullo s’aprivano sbalorditi,

commossi e attentissimi, su decine e decine di casi pietosi.

Per questo tutti i vostri romanzi sono popolati da povera

gente, che vive in una miseria impressionante: donne e bambini

arruolati in fabbrica o in bottega indiscriminatamente anche sotto

i sei anni; nessun sindacato che li difenda; nessuna protezione

contro malattie e infortuni; salari da fame; lavoro prolungato

fino a quindici ore giornaliere, che, con desolante monotonia,

lega fragilissime creature alla macchina potente e fragorosa,

all’ambiente fisicamente e moralmente malsano e spesso spinge

a cercare oblio nell’alcool o a tentare un’evasione mediante la

prostituzione.

Sono gli oppressi: su di essi si riversa tutta la vostra simpatia.


Di fronte, stanno gli oppressori, che Voi stigmatizzate con penna

maneggiata dal genio della collera e dell’ironia capace di scolpire

quasi su bronzo figure da maschera.

* * *

Una di queste figure è l’usuraio Scrooge, protagonista del

vostro Canto di Natale in prosa.

Due signori – capitati nel suo studio, notes e penna alla mano

– lo interpellano: «È Natale, migliaia di persone mancano

del necessario, signore!». Risposta di Scrooge: «E non ci sono le

prigioni? E gli ospizi di mendicità non funzionano ancora?». «Ci

sono, funzionano, ma ben poco possono fare per rallegrare spiriti

e corpi in occasione del Natale. Abbiamo pensato di raccogliere

fondi per offrire ai poveri cibi, bevande e combustibili. Per che

cifra posso iscrivervi?». «Per nessuna. Desidero essere lasciato in

pace. Io non festeggio il Natale e non mi permetto il lusso di

farlo festeggiare a dei fannulloni. Pagando la tassa sui poveri,

do il mio aiuto alle carceri, agli istituti di mendicità; chi è nella

miseria può rivolgersi là». «Molti non possono andarci, e molti

preferirebbero piuttosto morire». «Se preferiscono morire, meglio

lo facciano in fretta per diminuire la sovrabbondanza della

popolazione. E poi, scusatemi, queste cose non mi riguardano».

Così avete descritto l’usuraio Scrooge: preoccupato solo dei

soldi e di affari. Ma quando di affari parla allo spettro del suo

«spirito gemello», il defunto socio usuraio Marley, questi lamenta

dolorosamente: «Gli affari! Avere umanità avrebbe dovuto essere

il mio affare. Il benessere generale avrebbe dovuto essere il

mio affare: carità, clemenza e benevolenza, tutto questo avrebbe

dovuto essere il mio affare. Perché ho camminato tra la folla dei

miei simili cogli occhi rivolti a terra, senza mai alzarli su quella

stella benedetta che condusse i magi ad una capanna? Non c’erano

forse altre povere case verso cui la sua luce avrebbe potuto

guidarmi?».

* * *

Da quando scriveste queste parole (1843) sono passati più

di centotrent’anni. Sarete curioso di sapere se e come è stato portato

un rimedio alle situazioni di miseria e di ingiustizia che voi

denunciaste.

Ve lo dico subito. Nella vostra Inghilterra e nell’Europa industrializzata,

i lavoratori hanno migliorato di molto la loro posizione.

Avevano a loro disposizione come unica forza il numero.

L’hanno valorizzato.

Dissero i vecchi oratori socialisti: «Il cammello passava attraverso

il deserto; le sue zampe calpestavano i granellini di sabbia

ed egli, superbo e trionfante, diceva: “Vi schiaccio, vi schiaccio!”.

I granellini si lasciavano schiacciare, ma si alzò il vento, il terribile

simoun. “Su, granellini – disse – unitevi, fate corpo insieme

a me, flagelleremo insieme il bestione e lo seppelliremo sotto

montagne di sabbia!”».

I lavoratori da granellini divisi e sparsi sono diventati nube

unita nei sindacati e nei vari socialismi, che hanno il merito

innegabile di essere stati quasi dappertutto la causa principale

dell’avvenuta promozione dei lavoratori.

Questi, dai vostri tempi in qua, hanno realizzato avanzamenti

e conquiste sul piano dell’economia, della sicurezza sociale,

della cultura. Oggi poi, attraverso i sindacati, riescono spesso

a farsi sentire anche lassù, nelle alte sfere dello stato, dove in

realtà si decidono le loro sorti. Tutto ciò, a prezzo di gravissimi

sacrifici, superando opposizioni e ostacoli.

L’unione dei lavoratori per la difesa dei propri diritti, infatti,

fu dapprima dichiarata illegale, poi tollerata, poi riconosciuta

giuridicamente. Lo Stato dapprima fu «stato carabiniere», dichiarò

il contratto di lavoro affare del tutto privato, proibì i contratti

collettivi; il padrone teneva il coltello per il manico; imperava

senza freni la «libera concorrenza». «Due padroni corrono dietro

a un operaio? Il salario dell’operaio crescerà. Due operai tirano

per la giacca un padrone? Il salario calerà». Questa è la legge, si

diceva, tale che porta automaticamente all’equilibrio delle forze!

Invece portava agli abusi di un capitalismo, che fu, e in certi casi

ancora è, «sistema nefasto».

E adesso? Ahimè! Ai vostri tempi le ingiustizie sociali erano

a senso unico: di operai, che dovevano puntare il dito contro i

padroni. Oggi, a puntare il dito è uno sterminio di gente: i lavoratori

dei campi, che lamentano di trovarsi molto peggio dei

lavoratori dell’industria; qui in Italia, il Sud contro il Nord; in

Africa, in Asia, in America Latina le nazioni del «Terzo mondo»

contro le nazioni del benessere.

Ma pure in queste ultime nazioni ci sono numerose sacche


di miseria e di insicurezza. Molti lavoratori sono disoccupati o

insicuri del posto, non dappertutto sono protetti a sufficienza

contro gli incidenti, spesso si sentono trattati solo da strumenti

di produzione e non da protagonisti.

Per di più la corsa frenetica al benessere, l’uso esagerato e

pazzo di cose non necessarie ha compromesso i beni indispensabili:

l’aria e l’acqua pura, il silenzio, la pace interiore, il riposo.

Si credeva che i pozzi di petrolio fossero come il pozzo di san

Patrizio, senza fondo; improvvisamente ci si accorge che siamo

quasi agli sgoccioli. Si confidava che, esaurito in tempi lontani il

petrolio, si potesse contare sull’energia nucleare, ma ci vengono

a dire che nella produzione di questa esiste il pericolo di scorie

radioattive dannose all’uomo e al suo ambiente.

Il timore e la preoccupazione sono grandi. Per molti il bestione

del deserto da aggredire e seppellire non è più soltanto

il capitalismo, ma anche il «sistema» attuale, da abbattere con

rivoluzione capovolgitrice. Per altri il capovolgimento sta già cominciando.

Il povero Terzo mondo di oggi – dicono – sarà presto ricco,

grazie ai pozzi di petrolio, che sfrutterà solo per sé; il mondo del

benessere consumistico, avendo il petrolio solo col contagocce,

dovrà limitare le sue industrie, i suoi consumi e sottomettersi a

una recessione.

Tra questo infittirsi di problemi, di preoccupazioni e di tensioni,

valgono ancora – allargati e adattati – i princìpi da Voi, caro

Dickens, caldeggiati sia pure un po’ sentimentalmente. Amore

al povero, e non tanto al povero singolo, quanto ai poveri, che

respinti, sia come individui sia come popoli, si sono sentiti classe

e solidarizzano tra loro. Ad essi, senza titubanza, sull’esempio di

Cristo, va data la preferenza sincera e aperta dei cristiani.

Solidarietà: siamo un’unica barca piena di popoli ormai ravvicinati

nello spazio e nel costume, ma in un mare molto mosso.

Se non vogliamo andare incontro a gravi dissesti, la regola è questa:

tutti per uno e uno per tutti; insistere su quello che unisce,

lasciar perdere quello che divide.

Fiducia in Dio: per bocca del vostro Marley Voi auspicavate

che la stella dei Magi illuminasse le case povere. Oggi casa povera

è il mondo intero, che ha tanto bisogno di Dio!

ILLUSTRISSIMI

Lettere del Patriarca

Febbraio 1974

AVE MARIA!