Visualizzazione post con etichetta PAPA LUCIANI. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta PAPA LUCIANI. Mostra tutti i post

giovedì 27 aprile 2017

PAPA LUCIANI


L'amico di Papa Luciani: "Potevo salvarlo ma invece non l'ho fatto"

"L'arcivescovo Perantoni voleva che gli portassi in Vaticano una lettera per avvisarlo del pericolo. Mi rifiutai. 'Te ne pentirai', mi rimproverò il presule. Tre giorno dopo Giovanni Paolo I era morto"


Non vuole portarsi il segreto nella tomba: «Avrei potuto salvare la vita a Papa Giovanni Paolo I. Non l'ho fatto. E oggi non riesco a perdonarmelo. A qualcuno devo pur dirlo». Giuseppe Pedullà compirà 83 anni il 20 giugno. A guardarlo, viene da pensare che camperà oltre i 100. Ma lo scrupolo di coscienza è giustificato dal peso che si porta sulle spalle. È un macigno enorme, che lo opprime, che lo schiaccia, che non lo fa dormire da quel martedì 26 settembre 1978, quando si rifiutò di consegnare in Vaticano una lettera che il frate francescano Pacifico Maria Luigi Perantoni, arcivescovo emerito di Lanciano e Ortona, voleva far giungere direttamente nelle mani del comune amico Albino Luciani, da appena un mese salito al soglio di Pietro, per avvisarlo che era in pericolo di vita. «Ignoro come Perantoni fosse giunto al convincimento che qualcuno intendesse uccidere il Papa.
So soltanto che, nel momento in cui gli dissi che non me la sentivo di farmi latore di un messaggio così spaventoso, egli mi rimproverò stizzito: “Te ne pentirai!”. Oh, se me ne sono pentito! Tre giorni dopo il Santo Padre era già morto». La voce gli si smorza in gola, fino a diventare un pianto sommesso.
Pedullà, originario di Marina di Gioiosa Ionica (Reggio Calabria), abita a Piacenza d'Adige, nella Bassa padovana, in un appartamento trasformato in sacrario. Il salotto è dominato da un ritratto di Luciani assiso sul trono papale. Ma già dall'ingresso si percepisce che questo è un luogo speciale. Ai muri sono appesi vari reperti: il dagherrotipo di un austero Giovanni Luciani, padre del futuro pontefice, in posa con il bastone da passeggio, il panciotto, la camicia dal colletto diplomatico, la Lavallière, la lobbia; immagini della sorella del «Papa del sorriso», scattate dal padrone di casa, e del patriarca di Venezia con Paolo VI durante la storica visita in laguna del 1972, quando Giovanni Battista Montini gli pose sulle spalle la stola, quasi a indicarlo come proprio successore; istantanee di Pedullà con padre Pio da Pietrelcina e sulla tomba di Giovanni Paolo I nelle Grotte vaticane; infine 54 foto delle stimmate e delle ferite che piagavano mani, polsi, ginocchia e gambe di Natuzza Evolo («frequentavo la mistica», spiega il conterraneo calabrese), deceduta nel 2009, nelle quali il sangue disegna la croce, il volto di Cristo e la sigla JHS, Jesus Hominum Salvator.
È uno squilibrato, un fanatico, un visionario, Giuseppe Pedullà? Catone Sbardellini, ex sindaco dc di Villabartolomea, 20 chilometri da qui, che conosco da più di 30 anni e che lo ebbe come cliente all'ingrosso della sua Caver (cappelli di paglia), testimonia che no, non è né un pazzo né un mitomane, semmai un uomo semplice e pio, molto perbene, che si è trovato al centro di vicende assai più grandi di lui. E mi assicura che sono vere tutte le conoscenze accumulate dall'anziano in ambito ecclesiastico. E non solo nelle alte sfere curiali, aggiungo io: Pedullà indossa una cravatta recante sul retro l'etichetta «E. Marinella per Silvio Berlusconi» e, fra i molti trofei casalinghi, vanta un astuccio contenente l'orologio, con scudetto tricolore e firma dell'allora presidente del Consiglio, che il Cavaliere fece produrre in tiratura limitata per il vertice Nato-Russia del 28 maggio 2002 a Roma, «ma non l'ho mai indossato perché detesto Vladimir Putin, ha perseguitato i cristiani», chiarisce, facendosi sopraffare da uno dei tanti singulti che scandiranno l'intervista.
Ho rivolto la domanda in modo brutale al diretto interessato: è mai stato in cura per problemi psichiatrici? Avrei voluto anche chiedergli se fosse in grado di esibire un certificato di salute mentale. Non ve n'è stato bisogno. Ha reagito con estrema serenità. È sceso in strada a recuperare dall'auto il referto con cui lo scorso 9 aprile, alle 10.36, è stato accettato al polo ospedaliero di Schiavonia d'Este dell'Ulss 17. «Mi ci hanno portato con l'ambulanza del 118 perché quella mattina mi ero alzato dal letto con forti giramenti di testa». Quattro ore dopo è tornato a casa sulle proprie gambe con un'unica terapia: due compresse di Arlevertan, un farmaco contro le sindromi vertiginose, per 20 giorni. Dopo cinque aveva già smesso di prenderle. «Quadro neurologico normale», ha attestato la dottoressa Annalisa Donà. «Tac cerebrale ed esami bioumorali nella norma», ha concordato il suo collega Filippo Ometto. Nemmeno un valore fuori posto nelle analisi ematochimiche. Sano di mente e di corpo. Tanto che gli hanno rinnovato la patente ed è ancora capace di scendere in Calabria guidando senza soste per 1.120 chilometri.
Volendo sgravarsi almeno un po' del suo insopportabile fardello, Pedullà ebbe tre incontri con Edoardo Luciani, il fratello del pontefice morto in circostanze misteriose dopo appena 33 giorni di regno, e parecchi altri con Antonia, la sorella più giovane, detta Nina, della quale finì per diventare amico. «Se ne sono andati entrambi, lui nel 2008 e lei nel 2009. Antonia abitava a Levico. Approfittavo delle cure termali per passare lunghi periodi nella località del Trentino. Era un pretesto per stare con lei. Mi mettevo ai fornelli e cucinavo a casa sua. Mi donò questi oggetti appartenuti ad Albino», e mostra due cappelli a busta di astrakan, sei paia di occhiali e due vecchi libri di scuola recanti il cognome «Luciani» scritto con la stilografica dal futuro papa sulla carta velina che fodera le copertine. «Sono rimasto in contatto con il figlio Roberto, professore, che vive ancora a Levico. L'altra figlia, Lina, abita a Roma. Infatti fu la prima della famiglia ad accorrere nel Palazzo Apostolico e a vedere il cadavere dello zio pontefice adagiato nel letto. Qualche anno dopo venne assunta presso la Sala stampa della Santa Sede».
Il trait d'union fra Pedullà e il cardinale Luciani fu monsignor Perantoni, nato nel 1895 a Cavalcaselle (Verona) da umili contadini, entrato a 15 anni nell'Ordine dei frati minori (del quale fu ministro generale dal 1945 al 1951), ordinato prete nel 1920 e consacrato vescovo nel 1952, quando gli venne affidata la diocesi di Gerace. Trascorso un decennio, il frate fu nominato arcivescovo di Lanciano e Ortona. Nel 1970, quasi alla fine del mandato, dispose una ricognizione medico-scientifica sulle reliquie del miracolo eucaristico di Lanciano, avvenuto nel secolo VIII sotto gli occhi di un monaco dubbioso, che vide l'ostia consacrata e il vino nel calice da messa trasformarsi in carne e sangue. Il professor Odoardo Linoli, docente di anatomia e istologia patologica, primario degli Ospedali riuniti di Arezzo, concluse che «il sangue è vero sangue e la carne è vera carne, costituita da tessuto muscolare del cuore; che il sangue e la carne appartengono alla specie umana; che il sangue e la carne appartengono allo stesso gruppo sanguigno AB e ciò sta ad indicare la unicità della persona».
Come conobbe Perantoni?
«In Calabria facevo parte di un gruppetto di fedeli che lo seguivano ovunque andasse, fra i quali Guido Laganà, esponente della Dc. Purtroppo l'arcivescovo di Reggio Calabria, Giovanni Ferro, stroncò la carriera di padre Pacifico nella convinzione che egli avesse contatti con la 'ndrangheta».
Si sbagliava?
«Certo! Era accaduto che il nostro pastore si fosse battuto per trasferire la sede episcopale da Gerace a Locri, sul litorale, provocando le ire della 'ndrangheta, che arrivò al punto di erigere uno sbarramento sulla strada Gerace-Locri per impedire al vescovo di scendere a valle. Finché Antonio Macrì, capo della cosca che controllava la Locride, non diede ordine di lasciarlo passare».
E ciò insospettì l'arcivescovo Ferro.
«Esatto. In realtà Perantoni era uno studioso, lontanissimo dai malavitosi. Aveva una cultura sterminata, conosceva parecchie lingue, stare accanto a lui era un arricchimento continuo. Andavo a trovarlo spesso in vescovado, gli facevo da autista, gli portavo le torte».
Sua eccellenza era goloso?
«No, è che io sono pasticciere».
E perché lo seguiva ovunque?
«Sono molto religioso. Un dono della mamma. La sera, dopo aver lavorato tutto il giorno, leggeva le vite dei santi. E di notte si alzava per aggiungere olio alla lucerna che illuminava il suo altarino privato sul comò della camera».
Ecco, mi parli della sua famiglia.
«Mio padre Domenico partecipò come volontario alla guerra in Africa orientale. Tornò invalido al 100 per cento. Mia madre Marianna gestiva il bar-tabaccheria Odeon a Marina di Gioiosa Ionica. Sette figli. Io sono il secondogenito. Vivevamo dentro un magazzino, privo di luce, acqua e gas. Dopo la quinta elementare fui mandato a lavorare nella pasticceria di Silvio Scardò, a Siderno Marina. Fino ai 25 anni affiancai mia madre all'Odeon. In questo modo quattro miei fratelli poterono diplomarsi o laurearsi. Prima di salire al Nord, comprai un terreno, firmando una montagna di cambiali, e costruii un nuovo bar, con due piani soprastanti. Lo lasciai ai miei, pagato. Un patrimonio di almeno 60 milioni di lire, parliamo del 1957, comprendente sala biliardo ed emporio di liquori, profumi e cancelleria».
Che lavori fece al Nord?
«Aiuto gestore in un lido con ristorante, sala da ballo e campeggio a Baveno. Cameriere al bar Motta di corso Italia a Genova. Autista del professor Michele Burnengo, docente all'Università di Parma. Commerciante di pelletteria in fiere e mercati del Veneto. Nel 1968 mi sposai a Canda. Tre anni dopo, il matrimonio, dal quale non erano nati figli, fu dichiarato nullo dalla Rota romana. Ho vissuto a Trecenta e Badia Polesine. Nel 2005 ho portato in Italia un'insegnante, Ecaterina Boghean, che in Moldavia, dove svolgo attività filantropiche, guadagnava 50 euro al mese. Oggi siamo marito e moglie».
Perché scelse proprio il Veneto?
«Per stare vicino a monsignor Perantoni, che nel 1974 diede le dimissioni e si ritirò a Peschiera del Garda, presso il santuario della Madonna del Frassino, dove morì nel 1982. È sepolto lì. Lui e il cardinale Luciani erano devotissimi alla Vergine. Entrambi facevano parte della Pontificia academia mariana internationalis. Mi confidò che il patriarca di Venezia gli aveva raccontato della sua visita a suor Lucia dos Santos. Luciani era uscito sconvolto dal colloquio, avvenuto l'11 luglio 1977 nel carmelo di Coimbra. La veggente di Fatima gli predisse: “Lei sarà papa dopo Paolo VI, ma per pochissimo tempo”». (Piange).
Mi risulta che il contenuto di quel dialogo non fosse stato svelato da Luciani neppure al fratello Edoardo.
«Si vede che Perantoni per lui era più di un fratello: un confessore. Tant'è che io, incontrando un giorno il patriarca lì al Frassino, me ne uscii ingenuamente con questa frase: eminenza, sono sicuro che sarà lei il prossimo papa. Al che Perantoni mi fulminò con lo sguardo. Ma Luciani, bonario, sviò da sé il pronostico con un gesto della mano: “No, no, per carità, preghiamo affinché il Signore ci conservi Paolo VI”».
Ebbe altri incontri con il cardinale?
«Sì, a Peschiera e a Venezia, in patriarcato. Vedendo il rapporto filiale che mi legava all'arcivescovo Perantoni, mi aveva preso a benvolere».
Che tipo era Luciani?
«Catechista, catechista, catechista. Di una fedeltà granitica al magistero e di una bontà angelica. Una volta mi disse: “Dovrai soffrire tanto”. Rimasi turbato: erano le stesse parole che mi aveva rivolto padre Pio».
In che modo conobbe il santo di Pietrelcina?
«Nel 1962 andai a San Giovanni Rotondo perché mia sorella Antonietta, bella ragazza, si era fidanzata con un geometra gelosissimo che le rovinava la vita con urli e scenate. Chiesi al frate di aiutarla. Mi batté una mano sulla spalla: “Sta' tranquillo, non preoccuparti”. L'indomani Antonietta trovò la forza di mollare quell'individuo. Oggi è felicemente sposata con un perito agrario».
Incontrò padre Pio in quell'unica occasione?
«No, andavo a trovarlo ogni due o tre mesi. Mi chiamava Pepè, il medesimo nomignolo usato da Perantoni. Alle 4 di mattina c'era già la fila di postulanti ad aspettarlo. Ai malati che sarebbero guariti diceva la frase con cui accolse me: “Sta' tranquillo”. Gli altri li congedava con una formula diversa: “Sia fatta la volontà di Dio”. Lui già sapeva che sarebbero morti. Una mattina gridò a uno sconosciuto: “Vieni qui, non vergognarti di mostrarti accanto a me”. Si trattava di un caporione del Pci che cadde convertito ai suoi piedi».
Lei, così vicino alle gerarchie, frequentava un religioso malvisto addirittura da Pio XII?
«Nel periodo di maggiore incomprensione con il Vaticano vidi quel sant'uomo costretto a celebrare messa dentro una celletta che misurava sì e no 2 metri per 1,80. Soffrì anche sotto Giovanni XXIII. E la vuol sapere una cosa? Prima di morire, Papa Roncalli consegnò al suo segretario una lettera dicendogli: “Questa è per padre Pio. Non vorrei essermi sbagliato sul suo conto”. Così mi riferì fra' Angelico, cuoco di Perantoni, che l'aveva appreso dallo stesso arcivescovo».
Ne conosceva di segreti, questo Perantoni.
«Al trentesimo giorno del pontificato di Giovanni Paolo I, mi telefonò: “Pepè, vieni subito qui”. Mi trovavo a Trecenta. Presi l'auto e corsi a Peschiera. Passeggiammo per due ore sul piazzale del Frassino. Alla fine cercò di pormi fra le mani una lettera: “Questa la devi portare tu, di persona, ad Albino Luciani in Vaticano. Il Papa è in grave pericolo”. Aveva scritto a mano sulla busta il nome di Sua Santità. Mi rifiutai di compiere quell'ambasciata».
Perché?
«Pensavo che Perantoni esagerasse ed ero terrorizzato».
Non gli chiese su che cosa si fondassero i suoi timori?
«No. Capisco che le sembri strano, ma io sono un povero signor Nessuno. Per me era inimmaginabile che qualcuno potesse attentare alla vita del Papa. E invece... Tre giorni dopo ero di nuovo al santuario del Frassino a piangere, amaramente pentito, esattamente come mi aveva predetto Perantoni».
Neppure in questa circostanza domandò all'arcivescovo notizie sul contenuto della lettera che lei non ebbe il coraggio di recapitare a Papa Luciani?
«No».
Ma è contro ogni logica!
«Sarà contro ogni logica, ma io mi comportai così. Non tutti sono preparati come voi giornalisti, abituati a fare interrogatori tipo quello cui mi sta sottoponendo. Certo, avrei potuto prendere in consegna la lettera e tenermela. Oggi costituirebbe una prova. Ma non commisi questo sacrilegio».
Si sarà almeno fatto un'idea su chi avrebbe avuto interesse a eliminare Giovanni Paolo I.
«Gesù Cristo non venne forse messo in croce per 30 denari?».
Sia più esplicito.
«Con il tempo, mi sono ricordato di una frase che il cardinale Luciani disse a Perantoni: “I soldi che abbiamo appartengono ai poveri, perché sono i poveri, e non i ricchi, a mantenere la Chiesa. E noi che facciamo? Li diamo a Calvi!”. Non gli andava giù che la Banca Cattolica del Veneto fosse finita sotto il controllo del Banco Ambrosiano di Roberto Calvi». (Nel 1972 il patriarca di Venezia ebbe un aspro scontro con l'arcivescovo Paul Marcinkus, presidente dell'Istituto per le opere di religione, circa la gestione del Banco San Marco e la vendita al Banco Ambrosiano del 37 per cento delle azioni della Banca Cattolica, effettuata dallo Ior senza informarne l'episcopato veneto. Secondo molte fonti, Luciani, appena eletto papa, avrebbe manifestato la volontà di rimuovere Marcinkus dalla presidenza, «perché un vescovo non deve dirigere una banca», ndr).
Perantoni le parlò mai di contrasti fra Giovanni Paolo I e monsignor Marcinkus?
«No. L'unico dissidio di cui mi parlò fu quello con il cardinale Sebastiano Baggio, originario di Rosà, prefetto della congregazione che aveva il potere di promuovere o retrocedere i vescovi. Il Papa insisteva con Baggio per nominare patriarca di Venezia un uomo di propria fiducia, in modo che continuasse l'opera da lui lasciata in sospeso. Per due volte il cardinale si rifiutò di uniformarsi alla volontà del Santo Padre. Al terzo tentativo Luciani si spazientì: “Se a Venezia non mandi chi ti dico, ci dovrai andare tu”. Baggio uscì dallo studio papale sbattendo la porta. Il giorno dopo Luciani era morto. Di lì a un mese il cardinale vicentino fu riconfermato prefetto della Congregazione per i vescovi». (Con il titolo di copertina «La grande loggia vaticana», sul settimanale Op diretto da Mino Pecorelli, poi morto assassinato, apparve il 12 settembre 1978, cioè nove giorni dopo l'insediamento di Giovanni Paolo I, un elenco di 113 alti prelati iscritti alla massoneria, nel quale figuravano i nomi di Baggio e Marcinkus, ndr).
Se i presunti nemici di Luciani fossero stati tanto potenti da farlo ammazzare nelle stanze vaticane, non crede che avrebbero potuto agire molto prima, e in modo indolore, «orientando» lo Spirito Santo a scegliere un papa diverso quale successore di Paolo VI?
«Perantoni mi raccontò ciò che il suo amico Albino gli aveva rivelato circa l'andamento del conclave. Il patriarca di Venezia era talmente atterrito dall'idea di essere eletto che una mattina, vedendo quattro cardinali intenti a parlottare nei corridoi, rientrò precipitosamente nella sua stanza per non dare nell'occhio. Uno dei porporati chiese: “Chi è?”. Un altro rispose: “Ma come, non l'hai riconosciuto? È il patriarca di Venezia”. Quei quattro cardinali erano tutti del Sudamerica e, conquistati da tanta ritrosia, votarono compatti per lui insieme ad altri porporati stranieri».
Lei non provò mai a informare qualche autorità religiosa dei sospetti dell'arcivescovo Perantoni?
«Mi stia a sentire. Una sera sono a cena a Bagnolo di Po dai fratelli Fantinati, latifondisti. Il Tg1 annuncia che Papa Wojtyla intende beatificare padre Pino Puglisi, ucciso dalla mafia a Palermo nel 1993. Mi viene spontaneo battere un pugno sul tavolo: e Giovanni Paolo I, allora, non è stato anche lui vittima di un complotto mafioso? Decido di avviare una raccolta di firme perché Luciani sia proclamato beato. Parto per Roma. Entro nella basilica di San Pietro. Vedo una trentina di berretti rossi che, finita una celebrazione, si avviano verso una navata laterale. Li raggiungo nella sacrestia in fondo a sinistra e ne fermo uno, di colore. Scoprirò poi che era il cardinale Bernardin Gantin, originario del Benin, e che Papa Luciani il giorno successivo al proprio insediamento lo aveva nominato presidente del Pontificio consiglio Cor Unum, il dicastero della Curia romana che promuove le iniziative umanitarie della Santa Sede. Chiedo di parlargli. Lui mi accarezza la guancia e risponde: “Aspetti”. Si toglie i paramenti liturgici, congeda i presenti e mi chiede: “Sono qui, che vuole?”. Io gli illustro il mio proposito per una petizione a favore di Giovanni Paolo I beato. Lui replica: “È già santo”. Allora mi viene spontaneo fargli il nome dell'arcivescovo Perantoni. All'udirlo, il porporato ha un soprassalto e smette di guardarmi in faccia. Io lo supplico, gli tiro persino la veste: eminenza, eminenza, perché distoglie lo sguardo?, mi dica come devo comportarmi. Però Gantin taglia corto: “Lei è furbo, lei sa come fare”. Quindi, con aria complice, si lascia andare a un gesto tutto italiano: mi dà leggermente di gomito».
Fatico a decifrare la scena.
«Ma dottore, suvvia! In Vaticano le cose le sanno. Fra di loro se le dicono». (Esibisce un biglietto autografo di auguri per il 2002 scritto dal cardinale Gantin «con grande cordialità» e spedito a Badia Polesine, Riviera Matteotti 177, il precedente indirizzo di Pedullà).
E lei che fece?
«Cominciai la campagna affinché Luciani venisse elevato alla gloria degli altari. Raccolsi oltre 100.000 firme, girando tutti i santuari d'Italia e piazzando il mio banchetto in molte città, persino in Germania, Moldavia, Ucraina». (Mostra fasci di fotocopie con dati anagrafici e firme). «Le portai al vescovo di Belluno, Vincenzo Savio, il quale, prima di morire per un tumore, fece aprire la causa di beatificazione. Anche Savio era un santo. Sua madre visse quasi tutta la sua vita semiparalizzata. Mentre agonizzava, lui le chiese: “Mamma, facciamo il patto di Elia ed Eliseo?”. Il profeta Elia, prima di salire in paradiso, lasciò il mantello al discepolo Eliseo, che divenne a sua volta profeta. Il vescovo Savio ottenne dalla madre il mantello della sofferenza, sopportò il male con grande dignità, fino ad avere il coraggio di annunciare dal pulpito che il cancro lo stava uccidendo e di chiedere ai preti e ai fedeli di pregare per la sua anima».
Ma chi è lei? Un collezionista di futuri santi e beati?
«Ci scherza, eppure ho speso la vita per la Chiesa. Ho portato in giro con la mia auto suor Brigida Maria Postorino, fondatrice delle Figlie di Maria Immacolata. Sono stato amico di padre Bonaventura Maria Raschi, il francescano a cui la Madonna chiese di costruirle un santuario sul monte Fasce di Genova, un esorcista legato a padre Massimiliano Kolbe, il santo polacco martirizzato dai nazisti nel “bunker della fame” di Auschwitz: per più di 70 volte aveva scacciato Satana. Preparavo pranzi e dolci per l'arcivescovo di Trento, Giovanni Maria Sartori. Ho visitato fino all'ultimo suor Gesuina Vago delle Piccole Serve del Sacro Cuore di Gesù, morta a 109 anni nell'istituto di Casatenovo senza che il medico sapesse cosa scrivere sul certificato di morte: non era mai stata malata in vita sua, semplicemente si mise a letto, smise di mangiare e 20 giorni dopo il suo respiro cessò».
Non parlò con nessun altro della lettera di Perantoni?
«Con mia madre: scoppiò in lacrime e mi supplicò di tacere per non danneggiare il clero. E con un vescovo del Centro Italia». (Ne fa il nome però mi prega di non rivelarlo per evitargli imbarazzi). «Nel 2005 chiesi udienza a Benedetto XVI. Dalla Segreteria di Stato vaticana mi rispose monsignor Gabriele Caccia: “Ella potrà comunicare per iscritto quanto intende riferire al Santo Padre”. Non ebbi il coraggio di farlo. Ma ora il tempo stringe e ho deciso di rimediare. Tutti devono sapere che Albino Luciani fu vittima di un complotto».
A me pare più verosimile che sia rimasto vittima delle sue coronarie malandate.
«I fratelli Edoardo e Antonia in privato non erano di questo parere. La sorella mi nominava spesso don Licio Boldrin, parroco di Frassinelle Polesine, molto legato a Luciani, quasi a lasciar intendere che sapesse qualcosa». (Don Boldrin nel 1981 divenne campione di Flash, telequiz condotto in Rai da Mike Bongiorno, ndr). «È mio amico. Andò a trovare il Papa in Vaticano, portandogli una torta. Ancora se lo rimprovera: “Non vorrei che gli avesse fatto male il dolce cucinato da mia madre”».
Perché dopo queste peripezie continua ad avere fiducia nella Chiesa?
«Perché è mia mamma. Vede, noi Pedullà siamo sette figli: tre hanno ucciso moralmente nostra madre per motivi di eredità, ma quattro l'hanno sempre venerata. Se è capitato questo nella mia famiglia, come posso condannare la Chiesa? Io la amavo, la amo e la amerò anche dopo morto». (Piange).
http://cristianesimo.it/luciani.htm
http://w2.vatican.va/content/john-paul-i/it.html

JHS
MARIA!

venerdì 22 maggio 2015

Giovanni Paolo I

Quando Giovanni Paolo I decise di posare gli occhi sullo spericolato
avventurismo finanziario della Banca Vaticana e su certi vip della Chiesa...
LA STRANA MORTE DI PAPA LUCIANI:
UN DECESSO ALL’ITALIANA?
di RENZO PATERNOSTER
Prologo. All’alba del 29 settembre 1978 intorno alle 4.30, come faceva ogni giorno da trentatre giorni, suor Vincenza Taffarel porta il caffé al papa posandolo sulla scrivania dello studio comunicante con la stanza dove Giovanni Paolo dorme. Subito dopo la suora bussa alla porta della camera da letto pronunciando l’abituale Buongiorno, santo Padre! Suor Vincenza lavora per Albino Luciani dal 1959, quando ancora il papa era vescovo a Vittorio Veneto. Ritorna dopo quindici minuti e trova il caffé ancora sul tavolino. Mai in tanti anni di servizio Albino Luciani aveva ritardato il suo risveglio. Così dopo aver bussato insistentemente e non aver ricevuto risposta, la suora decide di entrare nella stanza. Albino Lucani, papa Giovanni Paolo I, è seduto sul suo letto appoggiato a due o tre cuscini, ha il capo leggermente inclinato a destra, la lampada sul comodino è accesa, indossa ancora gli occhiali e ha tra le mani dei fogli. Allarmata la suora tocca il polso del papa e si accorge che è morto.
Finisce così il pontificato di Giovanni Paolo I. Inizia così il mistero sulla morte di Albino Luciani.

Clicca sulla immagine per ingrandire
Il pontefice Giovanni Paolo I
Luciani sacerdote. Albino, figlio di Giovanni Luciani e Bortola Tancon, nasce il 17 ottobre 1912 a Forno di Casale (poi diventato Canale d’Agordo), presso Belluno. Suo padre è un operaio socialista, emigrato in America Latina per lavorare e mantenere la famiglia. Quando Albino ad undici anni decide di entrare in seminario, chiede il consenso a suo padre, scrivendogli una lettera. Papà Giovanni gli risponde che non è contrario alla scelta del suo piccolo, ma gli fa promettere che quando Albino sarebbe diventato sacerdote, avrebbe pregato di più per gli operai. Ad undici anni quindi entra in seminario a Feltre prima, poi, nel 1928, a Belluno. Il 7 luglio 1935, a 23 anni, è ordinato sacerdote. Trasferitosi a Roma, si laurea in teologia all’Università Gregoriana, con una tesi su Rosmini: L’origine dell’anima umana secondo Antonio Rosmini.
Conclusi gli studi, ritorna dalle sue parti e svolge diversi compiti: cappellano, insegnante di religione alle superiori, procancelliere e provicario della sua diocesi. Egli si occupa principalmente alla catechesi, raccogliendo i frutti del suo insegnamento nel libro “Catechesi in briciole”. Nel 1958 papa Giovanni XXIII lo nomina vescovo di Vittorio Veneto. Tra l’8 ottobre e l’8 dicembre del 1962 partecipa alla I sessione del concilio Vaticano II, di cui seguirà tutti i lavori fino alla IV ed ultima sessione, tra il settembre e il dicembre del 1965.

Monsignor Luciani al concilio Vaticano II. In occasione del grande concilio della Chiesa, papa Giovanni XXIII nel 1962 crea una commissione pontificia sui problemi della famiglia e il controllo delle nascite. Papa Paolo allarga questa commissione aggiungendo un comitato composto d’esperti sulla questione. In più istituisce un’altra commissione più ristretta, formata da circa venti tra vescovi e cardinali. Quest’ultima rappresentanza avrebbe dovuto controllare la prima, fungendo da filtro per eventuali dichiarazioni troppo liberali.
La prima rappresentanza di vescovi, quella più larga, stese un rapporto sottoponendolo alla commissionefiltro. Il documento, votato con una palese maggioranza, consigliava un cambiamento nella posizione assunta dalla Chiesa riguardo il controllo delle nascite. Queste raccomandazioni, assieme ai rapporti richiesti dallo stesso pontefice alle varie diocesi d’Italia, sono recapitate a papa Paolo. Tra i rapporti diocesani c’è quello di Albino Luciani, vescovo di Vittorio Veneto.
Durante le sedute del concilio, monsignor Albino Luciani ha avuto una visione in parte differente da quella adottata poi da Paolo VI con l’Humanae vitae. Luciani parla di “maternità responsabile”, appoggiando a determinate condizioni l’uso degli anticoncezionali. Per monsignor Luciani il concilio doveva adattare la Chiesa ai problemi contemporanei, poiché negare ai cattolici il diritto al controllo delle nascite significava riproporre una visione della Chiesa ancora medievale. Luciani appoggia i risultati della maggioranza della commissione pontificia sui problemi della famiglia e del controllo delle nascite: il controllo artificiale della natività ha la stessa moralità di quello naturale, a patto che il procedimento adottato non sia abortivo e non porti pregiudizio alla salute della donna.
La promulgazione della Humanae vitae da parte di papa Montini il 25 luglio 1968, amareggiò monsignor Luciani. Questa tristezza è racchiusa in una lettera che Luciani scrisse ai suoi diocesani: «Confesso che, […], privatamente avevo sperato che le gravissime difficoltà che esistono sarebbero state superate e che la risposta del Maestro, che parla con uno speciale carisma e nel nome del Signore, avesse coinciso, almeno in parte, con le speranze delle molte coppie sposate dopo che era stata costituita un’apposita Commissione pontificia per esaminare la questione». Effettivamente che senso può avere convocare un concilio per poi ribaltare la posizione dei vescovi su un determinato argomento? Nel frattempo l’Istituto Farmacologico Sereno, società controllata dal Vaticano, vendeva un contraccettivo orale chiamato Luteolas.
Il 17 settembre 1969 il patriarca di Venezia, il cardinale Urbani, venne a morte. Paolo VI subito rivolse le sue attenzioni al vescovo di Vittorio Veneto. Monsignor Luciani dapprima rinunciò a ricoprire la sede vacante di Venezia, poi, il 15 dicembre 1969, dovette obbedire alle pressioni che giungevano da Roma. Il 5 marzo 1973, l’arcivescovo Luciani, ricevette il cappello cardinalizio.

Clicca sulla immagine per ingrandire
Il vescovo Luciani a Venezia,
con il papa Giovanni XXIII
Luciani patriarca a Venezia. A Venezia l’arcivescovo Luciani continuò ad avere una vita semplice, riscuotendo disapprovazione dall’alta società veneziana. Qui scrive articoli per Il Messaggero di S. Antonio, sotto forma di lettere indirizzate a personaggi storici e biblici, o addirittura fantastici. Questi articoli furono poi riuniti in un volumetto intitolato “Illustrissimi”.
La sua semplicità e umiltà lo porta a rinunciare alla barca personale, spesso usa la bicicletta per le visite sulla terraferma, visita gli ospedali e le case di cura senza preavviso, si serve della Banca Cattolica del Veneto (meglio conosciuta come la “banca dei preti”) per aiutare i più indigenti.
La Banca Cattolica del Veneto fu fondata con il preciso intento di contribuire al lavoro assistenziale del clero a favore dei più bisognosi. Per questo la banca prestava denaro al clero a tassi d’interesse ridotti. Nel 1972 questi prestiti cessarono e i sacerdoti avrebbero dovuto pagare l’intero tasso d’interesse a prescindere dalla loro destinazione assistenziale. Lo IOR (la Banca Vaticana) possedeva in quell’anno circa il 51% delle azioni di questa banca, le altre erano sparse tra piccoli azionisti e le diocesi del Veneto.
Un fatto clamoroso aveva suscitato disapprovazione e sgomento tra i vescovi e i sacerdoti veneti. Il presidente della Banca Vaticana, Paul Marcinkus, senza informare il patriarca di Venezia e i vescovi veneti, aveva venduto il 37% delle azioni della Banca Cattolica del Veneto. L’acquirente era Roberto Calvi del Banco Ambrosiano di Milano.
Spinto dai vescovi del Veneto, monsignor Luciani si recò direttamente a Roma per esprimere il suo disappunto sull’operazione finanziaria di Marcinkus. L’incontro con il cardinale Giovanni Benelli fu inconcludente, anzi Luciani si ritirò a Venezia convinto dell’immoralità di Paul Marcinkus.
I vescovi veneti per protesta chiusero i lori conti presso la Banca Cattolica del Veneto, Luciani trasferì i conti dell’arcivescovado nel piccolo Banco di San Marco. In seguito tentò di convincere i dirigenti della Banca Cattolica del Veneto ad eliminare la parola “cattolica” dall’intestazione della banca. E’ chiaro che di cattolico questa banca aveva solo il nome.

Il conclave che elesse Luciani. Alla morte Paolo VI sembrava che egli non avesse eredi diretti. I porporati chiamati a decidere il nome del nuovo timoniere della grande barca di Pietro, erano stati per la maggioranza scelti dal pontefice scomparso. L’orientamento generale dei cardinali era verso un papa italiano, anche se qualche dichiarazione, che poi si trasformò in voto nel conclave, spingeva in senso contrario.
Fra il 7 e il 24 agosto i cardinali partecipano a quattordici congregazioni generali. A queste riunioni ufficiali tutti i porporati, anche quelli che non hanno diritto di voto per aver superato gli ottant’anni, hanno diritto d’intervento. Le riunioni vertono sullo stato di salute spirituale e finanziaria della Chiesa.
Per la salute spirituale, ad esempio, alcuni cardinali, tra cui Suenens, vorrebbero alleggerire le decisioni del pontefice, proponendo una specie di “consiglio del pontefice”, formato da un certo numero di cardinali che coadiuvano il papa nell’esercizio delle sue funzioni (insomma è riproposta una riedizione aggiornata e riveduta del vecchio conciliarismo che tanti danni provocò alla Chiesa).
La relazione finanziaria del cardinale Egidio Vagnozzi, presidente della prefettura per gli Affari economici, non è rosea. Sotto il pontificato di Paolo VI è aumentato enormemente il deficit di bilancio. Il cardinale Pietro Palazzini contesta al presidente del dicastero degli affari economici, la reticenza mantenuta in Vaticano sugli immorali affari dello IOR. Al dibattito interviene prontamente il cardinale camerlengo Jean Villot, che assiste il decano del collegio cardinalizio Carlo Gonfalonieri. Villot ricorda ai presenti che lo IOR non dipende dagli uomini della Santa Sede, benché svolga la sua attività in Vaticano. Non solo questo, precisa il cardinale Villot, ma puntualizza a tutti che, non rientrando nelle amministrazioni soggette al controllo della prefettura per gli Affari economici, non può essere oggetto d’esame da parte del collegio cardinalizio. Questo scottante tema viene per il momento messo da parte. Lo riprenderà, come vedremo, il nuovo pontefice.
Clicca sulla immagine per ingrandire
Con papa Paolo VI in visita
pastorale nella capitale veneta
Tra i compiti delle congregazioni preparatorie, vi è quello di pianificare lo svolgimento delle elezioni vere e proprie: nominare gli scrutatori, assegnare le celle ai cardinali, assicurarsi che tutto funzioni per l’inizio del conclave.
Accanto a queste riunioni ufficiali si svolgono altre più ristrette e sicuramente più segrete. Queste fungono da vere e proprie campagne elettorali per presentare un candidato scelto da una fazione o da un’altra. C’è ad esempio la riunione del cosiddetto “partito romano”, con i cardinali Vagnozzi e Palazzini che “portano” Siri come candidato. Poi ci sono i candidati di altri “partiti”, come Poletti, Baggio e Pignedoli, tutti schierati dal “partito montiniano”.
Il cardinale Benelli ha un suo candidato, che potrebbe andar bene sia ai progressisti che ai tradizionalisti: si chiama Albino Luciani. Benelli lavora molto per il suo candidato, tant’è che prima di iniziare il conclave, la stampa internazionale presenta come papabili i nomi di Siri e Luciani. E’ probabile che la stessa CEI (la Conferenza episcopale italiana) è orientata sul cardinale Luciani, suo vicepresidente.
Il pomeriggio di venerdì 25 agosto i cardinali si chiudono in conclave. L’universalità della Chiesa è rappresentata dai 111 elettori di tutti e cinque i continenti. Il più giovane ha 49 anni, Jaime Sin arcivescovo di Manila; il più anziano ha 79 anni, Frantisek Tomasek, arcivescovo di Praga. Dopo la lettura dei principali passaggi della costituzione di Paolo VI, la Romano Pontifici eligendo, tutti i cardinali giurano di osservare le prescrizioni contenute, tra cui la segretezza sulle vicende di quel conclave. Ma ci sono cose che si possono dire. Lo stesso Luciani ha confidato a sua nipote Pia quale cella gli era toccata in sorte, chi erano i suoi vicini. Più volte ha fatto capire che in conclave di fronte a lui sedeva il cardinale Karol Wojtyla, lo straniero.
Il mattino seguente, dopo aver concelebrato la messa nella Sistina e aver fatto colazione, alle 9.30 inizia il primo scrutinio. Allo spoglio Luciani ottiene 23 voti, Siri 25. I restanti voti sono sparsi. Subito segue il secondo scrutinio: Siri scende di un solo voto, Luciani sale a 53. Occorrono 75 voti per conquistare i due terzi più uno dei consensi. Il pomeriggio dello stesso giorno, alle 16.30, i cardinali ritornano al voto. L’esito di questo terzo scrutinio fa registrare un’ulteriore perdita di voti a Siri, che ottiene solo 12 voti, e un sobbalzo a Luciani, che ne ha 70. Probabilmente il “partito romano” ha fatto confluire i voti su Luciani. Al quarto scrutinio Luciani ha ben 101 voti su 111. L’applauso rompe il silenzio, tutti gli sguardi sono sul cardinale Albino Luciani.
Il cardinale decano si avvicina a Luciani e, nel pesante silenzio dell’assemblea, gli chiede ufficialmente se accetta l’elezione: «Acceptasne electionen ad Summum Ponteficem de te canonice factam?». Chissà cosa avrà pensato don Albino, cardinale di Santa Romana Chiesa non per sua volontà, di fronte a quella domanda carica di enorme responsabilità. «Possa Dio perdonarvi per ciò che mi avete fatto», risponde Luciani, quindi aggiunge «Accepto!». Con la sua accettazione spontanea Albino Luciani aderì al disegno divino che forse già conosceva.

Un pontificato profetizzato. La salita al soglio pontificio di Albino Luciani era stata già vaticinata tempo prima da un gesto di papa Paolo VI. Durante la visita a Venezia, fatta 
Clicca sulla immagine per ingrandire
Papa Luciani benedice i fedeli
che affollano piazza san Pietro
in occasione del Congresso Eucaristico Nazionale di Udine, papa Paolo, con un gesto inconsueto, impose la stola pontificale del Vicario di Cristo sulle spalle del cardinale Luciani. Lo stesso Luciani lo ricordò al suo angelus del 27 agosto: «Papa Paolo non solo mi ha fatto Cardinale, ma alcuni mesi prima, sulle passerelle di Piazza San Marco, m'ha fatto diventare tutto rosso davanti a 20.000 persone, perché s'è levata la stola e me l'ha messa sulle spalle, io non son mai diventato così rosso!». Allo stesso angelus il nuovo pontefice da una spiegazione al nome che si è dato: «Papa Giovanni ha voluto consacrarmi con le sue mani, qui nella Basilica di San Pietro, poi, benché indegnamente, a Venezia gli sono succeduto sulla Cattedra di San Marco, […]. Poi Papa Paolo [..] mi ha fatto Cardinale, […]. Per questo ho detto: Mi chiamerò Giovanni Paolo. Io non ho né la sapientia cordis di Papa Giovanni, né la preparazione e la cultura di Papa Paolo, però sono al loro posto, devo cercare di servire la Chiesa. Spero che mi aiuterete con le vostre preghiere».
Il patriarca Albino Luciani forse sapeva di poter essere eletto pontefice di santa romana Chiesa. E’ possibile ne fosse venuto a conoscenza un anno prima dell’elezione, nel luglio 1977, a Fatima, dove incontrò suor Lucia. Con l’ultima sopravvissuta dei tre pastorelli che incontrarono la Madonna, il cardinal Luciani ebbe un lungo colloquio.
Dopo quell’incontro Albino Luciani era cambiato: sempre preoccupato, silenzioso, pensieroso, quasi turbato. Nella primavera del 1978, a marzo, il cardinale Luciani si trovava a Canale D’Agordo per un triduo. Era ospite di suo fratello Edoardo. Una sera, durante una conversazione dopo cena, Albino ricordò che era stato a Fatima, e che suor Lucia lo aveva fatto cercare. Nel raccontare il viaggio a Fatima e l’incontro con suor Lucia do Santos, Albino si rattristì, tanto che i presenti che lo conoscevano bene, gli chiesero se si sentiva bene.
Durante il conclave, il pomeriggio del 26 agosto, mentre i cardinali si recavano nella Cappella Sistina per la terza votazione, il cardinale Luciani incrociò l’arcivescovo di Manila, Jaime Sin, il quale, in considerazione dell’orientamento delle precedenti votazioni, gli disse: “Vostra Eminenza sarà il nuovo papa”. Luciani non rispose. Appena eletto, come da tradizione, i cardinali iniziarono a rendere omaggio al nuovo successore di Pietro. Quando giunse il cardinale Sin, Giovanni Paolo I gli disse sottovoce: “Vostra Eminenza è stato un profeta, ma il mio pontificato non durerà molto”.
In diverse occasioni Luciani disse che il suo pontificato sarebbe stato breve, che conosceva il nome del suo successore, che chiamava “lo straniero”. Sia don Germano Pattaro (il consigliere teologico che Luciani portò con se a Roma) sia il suo segretario padre John Magee, hanno affermato che Luciani gli confidò che c’era già colui che avrebbe preso il suo posto, in conclave era seduto di fronte a lui. Effettivamente il cardinale polacco Karol Wojtyla in conclave sedeva quasi di fronte a Luciani.

Un pontificato lungo trentatrè giorni.
 In quei trentatrè giorni Albino Luciani fece gesti di discontinuità col modo di interpretare il papato. Innanzitutto cominciò ad usare l’io al posto del plurale maiestatico, poi non volle essere incoronato alla cerimonia ufficiale d’insediamento e sopportava mal volentieri la sedia gestatoria. Egli sostituì la tradizionaletriplice tiara con il pallium, una specie di stola di lana.

Il nuovo pontefice accennò ad alcune questioni che se dette in pieno Medioevo avrebbero sicuramente acceso un rogo: parlò di Dio come padre ma anche come madre, si dimostrò disponibile verso una “certa” apertura all’uso della contraccezione a determinate condizioni. Fatto ancora importante, Giovanni Paolo I non amava l’Opus Dei e non l’avrebbe mai elevata a prelatura personale, come non avrebbe mai beatificato il suo fondatore Escrivá de Balaguer (cose che il suo successore, Giovanni Paolo II, ha effettivamente fatto).
Sin dall’inizio del suo pontificato, aveva fatto chiaramente capire al suo segretario di Stato Villot, che non intendeva far vita d’ufficio impiegando il suo tempo ad esaminare i faldoni di documenti che gli recapitavano quotidianamente. Egli avrebbe responsabilizzato i vari dicasteri sulle questioni ordinarie, mentre solo quelle straordinarie sarebbero state visionate dal papa.
Giovanni Paolo si preparava, nello spirito del Vaticano II, ad affrontare e rinnovare il suo ministero pastorale, convalidando sempre di più la collegialità episcopale, da lui intesa come vera impronta della cattolicità.
Significativi sono i titoli dell’encicliche che Giovanni Paolo I avrebbe voluto scrivere: “L’Unità della Chiesa”, “La collegialità dei vescovi con il papa”, “La donna nella società civile e nella vita ecclesiale”, “I poveri e la povertà nel mondo”.
Clicca sulla immagine per ingrandire
Lo stemma di Giovanni Paolo I
L’impressione che la figura del papa fosse troppo incensata, lo mise in guardia dal rischio di far cadere la Chiesa universale nel culto della personalità. Egli stesso definiva il pontefice come “un umile servitore di Cristo, della sua Chiesa e dell’uomo”. Questa sua umiltà divenne addirittura il motto del suo stemma: humilitas. Avrebbe preferito sostituire l’infinità di titoli che ha il pontefice, con due: vescovo di Roma, Servo dei Servi di Dio.
Per il nuovo pontefice, era profonda la convinzione che la Chiesa avesse molto da farsi perdonare. Egli stesso pensò di convocare una rappresentanza di vescovi di tutto il mondo per un atto di penitenza, di riparazione. Tale celebrazione penitenziale doveva ripetersi ogni anno, il venerdì della settimana santa, dal papa a Roma e da tutti i vescovi nelle loro chiese locali. Un gesto che poi il suo successore papa Wojtyla, nonostante l’ostilità della Curia romana, avrebbe compiuto il 12 marzo del 2000.
Con le sue semplici ma pungenti parole, parlò anche dei peccati che gridano vendetta al cospetto di Dio, come quello di non dare “la giusta mercede” ai lavoratori. Nei suoi pensieri i Paesi poveri del mondo, quelli della fame, che interpellano quelli dell’opulenza.
Quelle arie di spontaneità disturbavano non poco i membri più conservatori della Curia romana. Dietro il sorriso, Giovanni Paolo I aveva idee chiare e decisione per realizzarle.

In nome del dio profitto. Il 25 aprile 1973 arriva in Vaticano una visita inconsueta. Due uomini in abito scuro accompagnano William Lynch, capo della Organised Crime and Racheteering section del dipartimento di Giustizia degli Stati Uniti d’America, e William Aronwold, vice capo della Strike Force del distretto Sud di New York. I funzionari statunitensi stavano indagando su una malastoria di riciclaggio e denaro falso che partiva dalla mafia newyorkese e approdava in Vaticano, presso la Banca Vaticana. Fu un incontro informale quello che i quattro americani ebbero con i tre segretari del cardinale Benelli. Il giorno dopo, il 26 aprile, i due agenti della Fbi e i due procuratori statunitensi incontrano, questa volta in maniera formale, Paul Marcinkus, potente presidente della Banca Vaticana, lo IOR.
La Banca Vaticana nasce nel 1942 per volontà di papa Pio XII. Egli trasforma l’Amministrazione speciale delle Opere di Religione in Istituto per le Opere Religiose (IOR, appunto). L’Amministrazione speciale fu voluta da Pio XI all’indomani della firma del protocollo aggiuntivo dei Patti del Laterano, per gestire l’ingente patrimonio ereditato con la firma degli accordi con lo Stato fascista italiano. Lo Stato italiano, infatti, oltre a riconoscere al nuovo Stato “Città del Vaticano” l’esenzione dalle tasse e dai dazi sulle merci importate, programmò un risarcimento per i danni finanziari subito dall’ormai estinto Stato Pontificio, in seguito all’unità d’Italia.
La Città del Vaticano ha tre istituzioni finanziarie: l’Amministrazione del Patrimonio della Sede Apostolica (APSA), che funziona da Banca Centrale del Vaticano, il Ministero dell’Economia e la suddetta Banca Vaticana (IOR).
Lo IOR è una vera e propria banca, senza sportelli ma che amministra i capitali degli ordini religiosi, degli istituti della Chiesa, delle diocesi, delle parrocchie e degli organismi vaticani. Il flusso di capitali è enorme e trascende qualsiasi possibile nostra immaginazione. Lo IOR non è responsabile né verso la Banca Centrale del Vaticano né verso il Ministero dell’Economia. Esso funziona in modo autonomo e svincolato da altri poteri, ed ha tre consigli d’amministrazione con a capo un unico presidente. I tre consigli sono costituiti, il primo da cardinali, il secondo da banchieri internazionali, l’ultimo da un consiglio d’amministrazione che si occupa degli affari giornalieri.
Per quanto immune da qualsiasi giurisdizione, grazie al diritto di extraterritorialità di cui beneficia, lo IOR risultava coinvolta in molte oscure vicende (tra cui anche il riciclaggio del denaro di provenienza mafiosa). Queste vicende hanno dato luogo ad inchieste andatesi poi a spegnersi contro un muro di gomma creato ad hoc. Le inchieste conducono a nomi del calibro di monsignor Paul Marcinkus, Michele Sindona, Roberto Calvi. Questi tre personaggi operavano in concerto al fine di raggiungere un obiettivo preciso: creare un polo finanziario capace di competere con la finanza internazionale, per orientare la politica mondiale, accumulare denaro e potere, sovvenzionare regimi compiacenti.
La prima grande operazione condotta dal trio CalviSindonaMarcinkus fu la spartizione della società Compendium, controllata dal Banco Ambrosiano. La Compendium era il vertice di una piramide di società costituite come scatole cinesi, attraverso le quali avvenivano convulsi passaggi di pacchetti azionari. L’Ambrosiano era invece una districata rete finanziaria. Capogruppo dell’Ambrosiano era Milano, seguivano la Holding del Lussenburgo, l’Overseas di Nassau (nel cui consiglio d’amministrazione sedeva Paul Marcinkus). Il Banco Commercial di Managua e il Banco Andino, attraverso una ventina di società (tra cui la UTC di 
Clicca sulla immagine per ingrandire
Paul Marcinkus
Lussenburgo e la Manic di Panama) maneggiavano conti miliardari e titoli azionari. In questo balletto di società, lo IOR sfruttava la sua posizione di “legalità” per consentire tali passaggi, svolgendo la funzione di importante strumento operativo nell’esecuzione della strategia gestionale decisa ed adottata dal Banco Ambrosiano.
Dalla fine degli anni Settanta, lo IOR iniziò ad essere coinvolto in imbrogli finanziari, evasione fiscale e riciclaggio. Il Banco Ambrosiano e numerose società fantasma dirette dallo IOR di Panama e del Lussenburgo, presero il controllo degli affari bancari italiani, esercitando anche da canale clandestino per il finanziamento delle organizzazioni anticomuniste dell’Est europeo.
Non appena i maneggi vennero a galla, a causa di un errore di calcolo attribuito a Calvi, iniziarono a verificarsi inquietanti morti: Roberto Calvi fu trovato suicidato sotto il ponte di Black Friars a Londra, Michele Sindona fu avvelenato in carcere, Giorgio Ambrosoli fu assassinato, Roberto Rosone (direttore generale dell’Ambrosiano) subì un attentato, la segretaria di Calvi – Gabriella Corrocher – si suicidò. Anche chi iniziò ad indagare subì la stessa sorte.
Un’altra figura molto discussa per una serie di sospette operazioni finanziarie e di equivoche frequentazioni personali, fu quella di monsignor John Cody, potente arcivescovo di Chicago. Monsignor Cody governava una delle più ricche arcidiocesi del mondo, Chicago: tremila sacerdoti, quattrocentocinquanta parrocchie, una rendita annuale di duecentocinquanta milioni di dollari. Nel 1978 governava l’arcidiocesi di Chicago da tredici anni. I suoi metodi erano dispotici, con il dollari comprava tutto e tutti. I sacerdoti della sua arcidiocesi, stanchi di Cody, formarono una specie di sindacato, “L’Associazione dei Preti di Chicago”, per difendersi dalle angherie dell’alto prelato. Paolo VI avrebbe voluto allontanarlo dall’arcidiocesi, o per lo meno ridimensionare il suo potere. L’eterna indecisione e la paura di uno scandalo, permisero a monsignor John Cody di continuare a fare il despota nella sua arcidiocesi. A parte il controverso affarismo, Cody aveva ovviamente un’amica, Helen Dolan Wilson, ufficialmente vedova e sua parente. Ovviamente la signora Dolan Wilson non era sua parente, come non era vedova, bensì divorziata e con un figlio. La donna riceveva denaro e protezione dal potente monsignore e aveva accesso libero all’arcivescovado.

Il fumo di Satana in Vaticano. Il 12 settembre 1978 il settimanale Op, diretto da Mino Pecorelli, poi assassinato, pubblicò un articolo dal titolo “La Grande Loggia Vaticana”. Un elenco di ben centoventuno esponenti vaticani indicati quali affiliati alla massoneria. Nella lista c’erano un certo numero di laici, ma anche vescovi e cardinali. Tra gli altri figuravano il presidente dello IOR Paul Casmir Marcinkus, nome in codice Marpa, il segretario di Paolo VI Pasquale Macchi, in codice Mapa, monsignor Donato de Bonis della Banca Vaticana, il vicario di Roma Ugo Poletti. Il segretario di Stato vaticano, il cardinale Jean Villot, era incluso in quella lista. Il suo nome da massone era Jeanni. Egli s’iscrisse in una loggia di Zurigo il 6 agosto 1966.
Durante questo periodo, la condanna della massoneria e la scomunica per chi ne fa parte, viene codificata dal Codice di Diritto Canonico – al canone 2335 – promulgato da papa Benedetto XV. Anche nelle “Costituzioni sinodali” del Primo Sinodo Romano, indetto da papa Giovanni XXIII nel 1960, all’articolo 247 viene ribadita questa condanna. Il nuovo Codice di Diritto Canonico voluto da papa Giovanni Paolo II, al canone 1374 prevede che sia punito “chi dà il nome ad una associazione che complotta contro la Chiesa”. Il fatto che questo canone non menzioni direttamente la massoneria è stato interpretato come un’abolizione della scomunica. Alt! Provvide il cardinale Ratzinger, prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede a fugare le illusioni. Il 26 novembre 1983, in una dichiarazione controfirmata da papa Wojtyla, il cardinale sentenziò che la condanna della massoneria sarebbe rimasta immutata, ma soprattutto che non erano ammesse deroghe.
Giovanni Paolo I trovò questa lista sulla sua scrivania. E’ chiaro che la pubblicazione di questo elenco di ecclesiastici massoni, doveva servire per influenzare le scelte del nuovo pontefice relative a promozioni e nuovi incarichi.
A questa grave preoccupazione, si aggiunse l’affarismo della Banca Vaticana. Giovanni Paolo si convinse che andava aperta un’indagine per approfondire le connessioni e le collusioni degli uomini di Chiesa con gli 
Clicca sulla immagine per ingrandire
Papa Luciani sul catafalco.
Il suo regno è durato 33 giorni
ambienti “poco cristiani”. In attesa dell’inchiesta, Giovanni Paolo I aveva in animo una vera rivoluzione in termini d’uomini. Papa Luciani avrebbe voluto sostituire sia il cardinale Villot da segretario di Stato, mettendo al suo posto monsignor Benelli, sia il cardinale Colombo da arcivescovo di Milano, mettendo al suo posto monsignor Casaroli, sia monsignor Poletti da vicario di Roma, mettendo al suo posto monsignor Felici. Anche il potente cardinale Cody, arcivescovo di Chicago, sarebbe stato trasferito. Ovviamente monsignor Paul Marcinkus sarebbe stato destituito, perdendo finalmente il suo ruolo di “finanziere di Dio”.
La sera del 28 settembre, in pratica poche ore prima di morire, sembra che papa Luciani abbia esposto il suo programma al cardinale Villot. Ne nacque un’accesa discussione tra il pontefice e il suo segretario di Stato. Quella sera stessa, il pontefice informò telefonicamente anche l’arcivescovo di Milano, monsignor Colombo, che era intenzionato a sostituirlo con monsignor Casaroli.
L’errore di Albino Luciani è stato quello di cercare un repentino riordino dei ruoli chiave della Chiesa e della Santa Sede, di voler fare il papapastore anziché il papare, di rivoluzionare alcuni concetti considerati capisaldi della dottrina cattolica dagli ambienti conservatori: il tema della contraccezione, la riconsiderazione del ruolo della donna nella Chiesa, la collegialità episcopale, la povertà materiale e la ricchezza spirituale della Chiesa di Cristo.

Epilogo. Improvvisamente il colpo di scena: Albino Luciani alle 4.45 del mattino del 29 settembre, è trovato morto nella sua camera. La morte di papa Luciani non solo era assolutamente inattesa, ma divenne subito sospetta. L’odore di bruciato iniziò a spargersiurbi et orbi.
E’ una storia raccontata male, carica di reticenze, smentite e accuse quella della morte di Albino Luciani.
L’annuncio della morte del pontefice è comunicato ufficialmente dopo quasi tre ore dal ritrovamento del cadavere, precisamente alle 7.27 del 29 settembre: “Questa mattina, 29 settembre 1978, verso le cinque e mezza, il segretario personale del Papa, padre John Magee, non avendo trovato il santo Padre nella cappella privata, come d’abitudine, l’ha cercato nella sua stanza e l’ha trovato morto nel letto, con la luce accesa, come se leggesse ancora. Il medico, dottor Renato Buzzonetti, che accorse immediatamente, ha constatato la sua morte, accaduta probabilmente verso le ore 23 del giorno precedente a causa di un infarto acuto al miocardio”. Si parla quindi subito di infarto miocardico acuto. Non c’è autopsia, sembrerebbe troppo irriguardoso per un pontefice! E poi, potrebbe rivelare la presenza di sostanze compromettenti.
Secondo il comunicato ufficiale della Santa Sede, a trovare il pontefice morto nel suo letto è il suo segretario, e non suor Vincenza. Il papa trovato morto nella sua stanza da una suora! Perciò si accredita il ritrovamento ad un maschio, il suo segretario personale.
Nel comunicato quindi ci sono alcune varianti su chi ha materialmente trovato il papa morto, ma soprattutto che cosa stava leggendo prima di morire. Secondo la versione ufficiale Giovanni Paolo I, prima di morire, stava leggendo “L’imitazione di Cristo”. In seguito si scoprirà che in tutto il Vaticano non esisteva una sola copia di quel testo, mentre quella personale di Luciani era rimasta a Venezia, nella residenza del patriarca.
Sospetti nascono anche dal modo in cui papa Luciani è trovato. Ufficialmente è trovato seduto al suo letto con dei cuscini dietro la spalla, gli occhiali inforcati e un libro tra le mani. Il comunicato ufficiale quindi non corrisponde al quadro tipico dell’infarto: non ci furono, infatti, segni di lotta contro la morte. Poi, come poteva un medico che non conosceva professionalmente Luciani affermare, senza autopsia (che ufficialmente non ebbe luogo), che ci fu infarto miocardico acuto? Il medico personale di Luciani, il dottor Giuseppe Da Ros ha sempre affermato che il suo illustre paziente non aveva problemi di diabete, colesterolo o che avesse la pressione alta, anzi l’aveva bassa. Insomma nessun problema di cuore. Se la versione del ritrovamento è quella descritta ufficialmente dal Vaticano, il quadro della morte potrebbe meglio corrispondere alla somministrazione di qualche sostanza velenosa. Quindi il processo che portò alla morte di Albino Luciani potrebbe essere durato tutta la notte: mentre il pontefice leggeva si è assopito, poi è subentrato il coma, poi ancora la morte. Se invece il papa fu trovato in condizioni diverse da quelle descritte, allora potrebbe essersi sentito male e potrebbe aver vomitato qualcosa prima di cadere e morire. Questo spiega la sparizione delle pantofole e degli occhiali dalla stanza del pontefice, che avrebbero potuto essere sporchi, come anche il fatto che alle 6.30 tutte le stanze private del pontefice erano state pulite.
La prima persona estranea agli ambienti vaticani a visitare la salma di Albino Luciani, fu la nipote del pontefice Lina Petri che abitava a Roma. La signora Petri fu avvisata dal padre, fratello del papa, alle 7.20; quindi si recò subito dallo zio. Arrivata in Vaticano, fu condotta nella stanza da letto del papa, 
Secondo il comunicato
ufficiale della Santa
Sede, a trovare
il pontefice morto
nel suo letto è il suo
segretario, e non
suor Vincenza
dove notò che suo zio era ancora nel suo letto, ma vestito con gli abiti ecclesiastici (una veste talare bianca). Ora anche un papa quando va a dormire si mette un pigiama o una sottana da notte. Quindi il pontefice fu probabilmente lavato e rivestito in tutta fretta.
Un’ultima considerazione che potrebbe avvalorare la tesi che Giovanni Paolo I fu ucciso. Il segretario di Stato Jean Villot iniziò ad avvisare i cardinali della morte del pontefice dalle 6.30, ossia circa novanta minuti dopo il ritrovamento del cadavere. Gli imbalsamatori, i fratelli Signoracci, furono subito chiamati e cardinale Villot diede disposizioni affinché l’imbalsamazione del corpo del papa si facesse il più presto possibile, entro la sera del 29 settembre. Una procedura inusuale, come illegale visto che dovrebbero passare almeno ventiquattro ore dal decesso. In più sorprende la forma con cui l’imbalsamazione fu operata: non si estrasse il sangue dal cadavere né furono prelevati organi; gli furono invece iniettati vari prodotti chimici. E’ chiaro che questa procedura doveva servire nel caso di un’eventuale autopsia, che non avrebbe rilevato gran che. Con le moderne tecnologie, oggi l’autopsia potrebbe dare una risposta a tutti i dubbi sulla morte di Albino Luciani.
A distanza di vent’anni, il cardinale Aloisio Lorscheider rilanciò qualche sospetto sulla morte di Giovanni Paolo I. In un’intervista al mensile “30 Giorni”, pubblicata nel numero 7 del 1998, il cardinale affermò: «Non mi interessano le cose che sono state scritte, né tutta la letteratura che è fiorita attorno alla sua morte. Tuttavia, lo dico con dolore, il sospetto rimane nel nostro cuore; è come un’ombra amara, un interrogativo a cui non si è data piena risposta».
A completare quest’angoscioso quadro, potremmo aggiungere il messaggio della Madonna a Fatima. Il terzo mistero di Fatima (ora rivelato da Giovanni Paolo II), parla di un uomo vestito di bianco (il papa) che cade assassinato. La vicenda narrata nel messaggio è stata ricollegata all’attentato del 13 maggio 1981 a papa Wojtyla, portata a compimento dal turco Mehmet Alì Agca (anche quest’attentato non ha avuto ancora una chiara collocazione in termini di mandanti). Che il messaggio di Fatima non parli di Giovanni Paolo II è più che sicuro, perché questi è stato sì colpito, ma non ucciso. Il terzo segreto, se è vero quello che ci hanno rivelato dal Vaticano, si riferisce quindi alla morte di Albino Luciani.
Le morti senza spiegazione o larvate da dubbiose dichiarazioni ufficiali, sono accadute attraverso i secoli in Vaticano. Oltre alla morte di Luciani e all’oscura vicenda della morte del comandante della Guardia Svizzera pontificia Alois Estermann, di sua moglie Gladys Meza Romero e del vicecaporale Cédric Tornay, altre repentine morti accaddero in Vaticano o al Papato. Tra i casi più famosi ricordiamo solo alcuni. Celestino V, che nel 1294 rinunciò al trono di Pietro abdicando, fu rinchiuso dal suo successore Bonifacio VIII nella rocca di Fumone, dove fu ritrovato morto. Alessandro VI, morto improvvisamente, forse avvelenato con l’arsenico nel 1503. Leone X, il papa della Riforma luterana, fu oggetto di una cospirazione da parte di una parte di cardinali, capeggiati da Petrucci. Il progetto era quello di avvelenare il pontefice, grazie alla complicità del suo medico personale. La tresca fu scoperta e papa Leone X certo non perdonò il capo dei cospiratori Petrucci, facendolo giustiziare. Leone morì improvvisamente nel 1521, si dice avvelenato. Caso a parte è la morte di papa Pio XI. Pio fu probabilmente vittima di un complotto preparato da Benito Mussolini nel 1938. Il duce, infatti, temeva che nel discorso che il pontefice avrebbe tenuto il giorno dopo, il papa lo scomunicasse pubblicamente. Per questo obbligò il medico di papa Pio XI, che era il padre di Claretta Petacci (sua amante), a praticargli un’iniezione letale.
La maggior parte di questi pontefici è salita agli onori degli altari. L’8 giugno 2003 la Congregazione per le Cause dei Santi, ha espresso il suo “parere positivo” per dare inizio al processo canonico sulla santità di Giovanni Paolo I, Albino Luciani.
La morte di papa Giovanni Paolo I, il 243° successore di Pietro, è accaduta nel momento opportuno, prima di pericolosi e radicali cambiamenti. Per la Chiesa, quella dei furfanti e dei corrotti, e non quella vera dei missionari, dei santi uomini e delle sante donne, non è stato un problema. Perché … morto un papa se ne fa un altro!
NOTA BIBLIOGRAFICA
La tesi del complotto contro papa Luciani è stata proposta da David Yallop, nel suo In God’s name, (trad. it., In nome di DioPironti Editore, Napoli, 1985 e 1992). Per lo scrittore inglese Giovanni Paolo I fu avvelenato per bloccare l’operazione di “pulizia” degli ambienti vaticani che il nuovo pontefice voleva attuare. Stessa tesi è offerta dal sacerdote Jesus Lopez Saez nel suo Se pedira cuenta. Muerte y figura di Juan Pablo I (Edizioni Origenes, Madrid, 1990), libro pubblicato, a seguito di pressioni, solo in edizione non venale. Secondo il sacerdote spagnolo, Albino Luciani fu assassinato con una fortissima dose di vasodilatatore, che provocò evidentemente un infarto al pontefice. La tesi del complotto è ripresa anche da Luigi Incitti (Papa Luciani: una morte sospettaL’Airone Editrice, Roma, 2001).
Nel suo contro-libro John Cornwell (Un ladro nella notte. La morte di papa Gio-vanni Paolo I,Pironti Editore, Napoli, 1990) smonta la tesi dell’assassinio, ma descrive una Curia vaticana così cinica da far morire di crepacuore il nuovo papa. Anche Lu-cio D’Orazi (In nome di Dio o del diavoloEdizioni Logos, Roma, 1988) con-futa le “assurde” ipotesi sull’assassinio di Giovanni Paolo I.
I giornalisti investigativi Max Morgan-Witts e Thomas Gordon, nel loro Dentro il Vatica-no. Storia segreta del pontificato di Giovanni Montini, Albino Luciani e Karol Wo-jtyla (Pironti Editore, Napoli, 1989 e 1995), ricostruiscono, parlando del pontifica-to di papa Luciani il ritrovamento del cadavere e il comportamento ombroso dei vertici della Chiesa.
Giancarlo Zizola (Il conclave. Storia e segretiCompton Editori, Roma, 1993) racconta anche le vicende accadute nel conclave che elesse Albino Luciani.
L’affarismo della Banca Vaticana a partire dagli anni Cinquanta in, I mercanti del Vati-cano, di Mario Guarino, Kaos edizioni, Roma, 1993. Il giudice Mario Almerighi ri-costruisce la vicenda Calvi in I banchieri di Dio. Il caso CalviEditori Riuniti, Roma, 2002.
La presenza del vescovo Luciani al Concilio Vaticano II è raccontata dallo stesso Luciani in Un vescovo al Concilio – Lettere dal Vaticano IICittà Nuova, Roma, 1983.
Interessante per creare un’immagine più completa di Giovanni Paolo I è anche Illustrissimi(Edizioni Messaggero, Padova, 1996) del patriarca Luciani: una raccolta di lettere scritte e inviate a personaggi della storia e di fantasia popolare (come Pi-nocchio ed altri).
Nel libro Il mio cuore è ancora a Venezia (Tipolitografia Adriatica Musile di Pia-ve, Venezia, 1990), Camillo Bassotto riporta tracce di colloqui che Albino Luciani ebbe con il segretario di Stato, il cardinale Villot, e con don Germano Pattaro, un teologo venezia-no.
Per concludere, in Mio fratello Albino (a cura di S. Falasco, Editoriale 30 Gior-ni, Roma, 2003), la sorella di Giovanni Paolo I, Antonia Luciani, narra in prima persona episodi, molti dei quali inediti, della vita del fratello Albino.