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sabato 28 settembre 2013

“Maria Giglio della Trinità”: *** Albulo

“Maria Giglio della Trinità”:



 *** Albulo

20 febbraio . Albulo, Dacio, Illirico e altri 7.   
UNA PAGINA STUPENDA DELLA NOSTRA FEDE. NON CI SONO LETTURE PIU' AFFASCINANTI DELLE STORIE DEI MARTIRI. BUONA LETTURA.
AVE MARIA!  

mercoledì 31 luglio 2013

“Non posso disprezzare i comandamenti divini e comportarmi da infedele verso il mio Dio.


MARTIRIO DI GIULIO IL SOLDATO


La decapitazione di questo soldato romano avvenne in una regione della Mesia, l’odierna Bulgaria, territorio di confine dov’erano concentrate alcune legioni. È morto verso il 303 sotto l’imperatore Diocleziano.



1. Al tempo della persecuzione, quando i fedeli aspettavano di ricevere le ricompense eterne, promesse ai vincitori dei gloriosi combattimenti per la fede, Giulio fu arrestato da agenti del tribunale e portato davanti al preside Massimo.

Questi chiese: “Chi è costui?”

Gli risposero: “È un cristiano e come tale non vuole ubbidire ai decreti”.

Il giudice chiese: “Come ti chiami?”

“Giulio”.

Il giudice: “Che ne dici, Giulio? È vero quello che si racconta di te?”

Giulio: “È vero. Sono cristiano e non nego di essere quello che sono”.

Massimo: “Forse non conosci i decreti imperiali che ordinano di sacrificare agli dèi?”

Giulio: “Li conosco, ma sono cristiano e non posso ubbidirti. Non debbo infatti venir meno ai doveri verso il mio Dio vivo e vero”.

2. Massimo: “Ma che c’è di male ad offrire un po’ d’incenso e poi ad andarsene?”

Giulio:
“Non posso disprezzare i comandamenti divini e comportarmi da infedele verso il mio Dio. Per tutto il tempo che servii nella inutile milizia terrena, per ventisette anni, non fui mai trascinato davanti al giudice per qualche colpa o lite. Partecipai a sette campagne senza mai restare indietro a nessuno, senza mai combattere meno valorosamente degli altri, senza che nessun comandante potesse mai accusarmi di qualche mancanza. Ed ora tu credi che io, fedele come sono stato ai miei doveri precedenti, voglia comportarmi da uomo infedele nelle cose che mi stanno più a cuore?”.

Massimo: “In che corpo hai militato?”.

Giulio: “Nei reparti da combattimento, dai quali a tempo debito uscii perché veterano. Adorai sempre con molta devozione quel Dio che creò il cielo e la terra. Quel Dio che ancor oggi continuo a servire fedelmente”.

Massimo: “Giulio, mi sembra che tu sia un uomo onesto e saggio. Lasciati convincere da me e sacrifica agli dèi: ne riceverai un’ottima ricompensa”.

Giulio: “Non posso accontentarti perché incorrerei nella pena eterna”.

Massimo: “Mi accollo io la tua colpa, se pensi che sia così grave. Sono io che ti faccio violenza perché non sembri che tu acconsenta spontaneamente. Poi te ne puoi andare sicuro a casa tua dove riceverai il premio dei decennali; dopo di che nessuno verrà più a molestarti”.

Giulio: “Né il denaro né i tuoi tentativi di persuasione possono indurmi a rinunciare alla luce eterna. Non posso rinnegare Dio. Pronuncia pure la sentenza di morte contro di me come contro un cristiano”.

3. Massimo: “Se non ti assoggetterai ai decreti imperiali e non sacrificherai agli dèi, ti farò decapitare”.

Giulio: “La tua decisione è giusta. Ti supplico, irreprensibile giudice, per l’onore che devi ai tuoi sovrani, manda ad effetto la tua decisione e pronuncia la sentenza di morte contro di me; in tal modo saranno esauditi i miei desideri”.

Massimo: “Se non ti penti e non sacrificherai agli dèi, sarai ben presto accontentato”.

Giulio: “Se mi sarà concesso di soffrire così, conquisterò la gloria eterna”.

Massimo: “Convinciti che, se soffrirai per le leggi della patria, avrai lode imperitura”.

Giulio: “Certo che voglio soffrire per le leggi, ma per quelle di Dio”.

Massimo: “Quelle leggi che vi trasmise un morto in croce? Ma pensa come sei sciocco a temere di più un morto che i re viventi”.

Giulio: “Ma
egli è morto per riscattare i nostri peccati, per donarci la vita eterna. Cristo, che è Dio, vivrà nei secoli: chi crede in lui avrà la vita eterna, chi lo nega, avrà il castigo eterno”.

Massimo: “Mi fai così pena che ancora una volta ti consiglio di sacrificare perché tu possa continuare a vivere insieme a noi”.

Giulio: “Se vivrò insieme a voi, avrò per me la morte eterna; se morirò per il mio Dio, vivrò in eterno”.

Massimo: “Dammi retta, sacrifica, così non dovrò ucciderti come ti ho già detto”.

Giulio: “Ho scelto di morire nel tempo per vivere in eterno con i santi”.

Il preside Massimo allora pronunciò la sentenza di morte con queste parole:

“Non volendo Giulio sottostare ai decreti imperiali, viene condannato alla pena capitale”.

4. Una volta giunto sul luogo dell’esecuzione, tutti si avvicinarono a baciarlo; il beato Giulio disse loro:

“Ognuno di voi pensi al significato di questo bacio”.

Un certo Isichio, un soldato anch’egli cristiano e anch’egli arrestato, diceva al santo martire:

“In nome del cielo, Giulio, completa in letizia la tua offerta e accetta la corona che Dio promise a quelli che avrebbero dato pubblica testimonianza della loro fede. Ricordati di me perché anch’io ti seguirò. Inoltre, ti prego, saluta il nostro fratello Valenzione, servo di Dio, che ci ha preceduti presso il Signore con la sua coraggiosa testimonianza”.

Giulio baciò Isichio e gli disse:

“Vieni presto, fratello; colui che mi mandasti a salutare ascolterà le tue parole”.

Preso poi il fazzoletto, se lo legò davanti agli occhi e tese il collo al carnefice dicendo:

“O Signore Gesù Cristo, nel cui nome sopporto questa pena, ti scongiuro di accogliere il mio spirito fra quelli dei tuoi santi martiri”.

Poi il ministro del diavolo lo colpì con la spada, troncando la vita del beatissimo martire, per Gesù Cristo, Signore nostro, a cui va onore e gloria nei secoli. Amen.
 
da: COSTANTE BERSELLI, Violenza di Stato nell’era dei Martiri, Roma 1982.

Ave Maria Purissima!



San Cipriano e santa Giustina

VITA E PASSIONE
DEL MARTIRE CIPRIANO E DELLA MARTIRE GIUSTINA

 
        Durante il regno dell’imperatore romano Decio viveva ad Antiochia un filosofo e mago famoso di nome Cipriano. Essendo discendente da genitori pagani, già dall’infanzia era stato consacrato al servizio del dio pagano Apollo.
        A sette anni d’età cominciò ad essere istruito nella stregoneria sotto l’insegnamento di maghi e streghe. Con il tempo Cipriano imparò tutte le arti diaboliche, a cambiare la direzione dei venti, a procurare cicloni, tempeste, tuoni e piogge, a fare agitare il mare, a danneggiare boschi e orti, a danneggiare i giardini e a procurare malattie agli uomini, e imparò le furberie dei diavoli e progredì nella malvagità. Per molti anni egli si dedicò ad imparare la magia e la stregoneria e a 30 anni ritornò ad Antiochia già completo in ogni opera malvagia.
        «Credete a me
disse dopo il suo rientro –, perché io ho visto lo stesso re delle tenebre, anzi me lo sono reso favorevole con i miei sacrifici. Io l’ho visitato ed ho parlato con lui e lui mi ha amato e lodato. Lui mi ha promesso di mettermi come capo, dopo la mia separazione dal corpo, e durante la vita terrena di aiutarmi in ogni opera mia. Esso mi ha dato perfino una legione di diavoli per servirmi e aiutarmi».

        Vedendo la sua competenza nella stregoneria e nella magia, tutti i pagani lo stimavano come un grande mago e stregone ed ecco che un giorno si presentò a lui un giovane dal nome Aglaide, figlio di genitori ricchi e famosi e domandò a Cipriano aiuto promettendogli di dargli molto oro e argento. Ed ecco cosa voleva: viveva ad Antiochia una fanciulla cristiana di nome Giustina, essa si dedicava con fervore a tutte le opere buone cristiane, poiché con tutto il suo cuore, amava Cristo come suo sposo, lo serviva con le preghiere, con il digiuno, con tutte le sue opere e con grande sapienza spirituale. Aveva deciso di dedicare tutta la vita al Signore, ma il nemico dei cristiani, il diavolo, cominciò a tormentarla usando diverse sofferenze e tormenti.


        Un giorno Aglaide passando presso la casa di Giustina fu colpito dalla sua straordinaria bellezza e desiderò di impadronirsi di questa ragazza. Però Giustina gli replicò: «Io ho come sposo Cristo, io servo Lui e per Lui voglio mantenere la mia purezza. Lui è il protettore della mia anima e del mio corpo da qualsiasi impurità». Infiammato dal desiderio carnale, Aglaide con ogni mezzo cercò di impadronirsi di Giustina e di dominarla. Non disdegnò nemmeno l’inganno e persino la violenza, ma il Signore proteggeva la sua serva fedele. Ed ecco che ora Aglaide chiedeva all’indovino e mago Cipriano che usasse le sue arti demoniache e che influenzasse Giustina al fine di farla cadere sotto il suo dominio.


        Cipriano gli rispose: «Io farò in modo che la stessa ragazza senta per te una passione molto più forte di quella che hai tu e lei stessa cercherà il tuo amore».
        Il giovane speranzoso lasciò Cipriano e questi evocò il demonio e gli comandò di infiammare di passione il cuore di Giustina. Il demonio gli promise di soddisfare questa opera anche perché molte volte prima egli aveva percorso la città, aveva scosso le mura delle case, aveva provocato risse sanguinose e uccisioni, aveva seminato inimicizia e odio tra le persone, aveva portato molti al peccato, ingannando persino monaci e abitanti del deserto, la sua azione si era spinta fino a città, boschi e deserti lontani.

        «Prendi questa pozione e dalla ad Aglaide, affinché con essa asperga la casa di Giustina e vedrai cosa succede!». Aglaide compì quello che gli era stato ordinato.
        Di notte Giustina, mentre stava pregando il Signore sentì l’opera delle forze maligne che l’attiravano verso la caduta nel peccato, allora essa ricorse all’arma del segno della croce e pronunziò una fervida preghiera al Signore: «Signore Dio mio Gesù Cristo! Ecco i miei nemici si sono levati contro di me, hanno teso una rete per prendermi e soffocare la mia anima, ma io ho ricordato nella notte il tuo nome e mi sono in esso rallegrata ed ecco che adesso che m’incalzano io ricorro a te e credo fermamente che il mio nemico non prevarrà su di me. Tu sai Signore Dio mio che io sono la tua serva, che per te ho conservato la mia purezza e che ho dedicato a te il mio corpo e la mia anima. O buon pastore, proteggi la tua pecorella, non darmi in preda alla bestia feroce che cerca di sbranarmi, dammi la vittoria sulle tendenze cattive del mio corpo».
        Il Signore ascoltò la preghiera della sua serva ed esaudì quello che gli domandava. Essa vinse con la forza della preghiera e del segno e della croce e il demonio che l’aveva assalita se ne scappò con timore. Cipriano, molto meravigliato mandò di nuovo il demonio, ora più incattivito di prima, per impadronirsi di Giustina. Questo demonio si scagliò sulla fanciulla con ancora maggior veemenza, ma essa ricorrendo ad una preghiera molto intensa intraprese un'ascesi maggiore e sottomise il suo corpo alla mortificazione, rafforzandolo con il digiuno, mangiando solo pane e acqua, e così di nuovo scacciò la forza del maligno.



        Quando Cipriano lo seppe ricorse ad uno dei principi dei demoni affinché con la sua potenza vincesse la fanciulla. Prese la forma di una donna e il principe dei demoni apparse a Giustina e cominciò a tentarla con i suoi discorsi, ma essa capì presto chi c’era davanti a lei e ricorse alla protezione della Croce del Signore e pose il suo segno glorioso su di sé. Il principe dei demoni di nuovo fuggì con timore e tremore.

        «Anche tu il principe delle forze, e il più grande tentatore, non sei riuscito a vincere con la tua forza questa stupida fanciulla?», domandò Cipriano, trovandosi questo diavolo fortemente rattristato.
        Vinto dalla forza Divina il diavolo dovette a malincuore riconoscere che i servi del demonio tremano e fuggono di fronte alla potenza della croce del Signore e hanno paura dell’ardente sua potenza.
        «Allora la vostra potenza è tale – obiettò Cipriano – che vi fate vincere perfino da una ragazzina così debole». Allora il diavolo desiderando di calmare Cipriano prese lo stesso le sembianze di Giustina e andò da Aglaide per soddisfare i suoi desideri peccaminosi.
        «Sono contento che sei venuto da me, o bella Giustina», quando Aglaide vide le sue sembianze, ma il diavolo non poteva nemmeno sopportare di sentir pronunciare il nome di Giustina e in quel momento sparì.
        Il giovane si adirò e corse a raccontare tutto a Cipriano. Questi con i suoi incantesimi diede ad Aglaide le sembianze di un uccello con la possibilità di volare nell’aria e di visitare la casa di Giustina entrando nella sua camera attraverso la finestra. Portato dal diavolo nell’aria Aglaide volò fino alla casa di Giustina e voleva sedersi sul tetto. Guardò dalla finestra della sua stanza e vedendola il diavolo lasciò Aglaide e se ne fuggì con timore. Il povero giovane perse l’apparenza di uccello e si aggrappò all’orlo del tetto, cadde vicino a lei e per poco non si sfracellò in terra. Non avendo ottenuto niente di buono tornò da Cipriano.


        Non potendo vincere Giustina lo stesso Cipriano domandò di presentarsi a lei sotto varie forme e cominciò anche a tormentare la fanciulla scagliando forze contro di lei e la sua casa e i suoi parenti con tutte le pene e malattie possibili, ma la fanciulla non perse il suo spirito e ricorse sempre alla potenza divina. Cipriano adirato cominciò a diffondere miseria in tutta la città, tormentò gli abitanti con diverse disgrazie e sofferenze, suscitò delitti, fece accadere degli incendi, lotte intestine e altre simili miserie.

        Questa opera del demonio fece diffondere nella città la diceria che il grande indovino Cipriano castiga la città per l’opposizione di Giustina. Gli anziani e i capi del popolo andarono da Giustina per chiederle di accontentare i desideri di Aglaide. Essa li pregò di pazientare dicendo che presto tutte le pene che erano procurate da Cipriano sarebbero scomparse. Così infatti accadde. Per le preghiere della santa Giustina il Signore protesse la città e i suoi abitanti da ogni male.


        Meravigliato dall’impotenza del diavolo contro le forze del Signore Cipriano disse a Satana: «Adesso io ho visto la tua impotenza, adesso ho capito la tua debolezza, per averti ascoltato me infelice, mi sono prestato ed ho creduto alla tua malizia. Vattene da me, o ingannatore, o trasgressore nemico della verità, oppositore, tu che non sopporti nessun bene». Il diavolo si arrabbiò e si scagliò contro Cipriano per ucciderlo. Oppresso dalla forza satanica egli si ricordò della potenza del segno della croce e pregò: «O Dio di Giustina, aiutami», e dicendo questo alzò la mano facendo su di sé il segno della croce e il diavolo fuggì da lui. Cipriano mezzo morto, cominciò ad invocare il nome di Dio. Il demonio tuonò a Cipriano: «Cristo non ti aiuterà!» ma dopo essersi scagliato con veemenza e a lungo si allontanò impotente. Allora Cipriano prese tutti i suoi libri di magia e andò dal vescovo cristiano Antimo, chiedendo a lui il battesimo. Conoscendolo come un indovino potente il vescovo lo rifiutò. Allora lui con pianti raccontò tutto quello che era avvenuto al vescovo e gli diede tutti i suoi libri perché fossero bruciati. Vedendo una tale umiltà il vescovo insegnò a lui la fede cristiana e lo preparò al battesimo.

        Cipriano pianse per i suoi peccati e si pentì, pregò Dio di perdonare le sue colpe. Cosicché una volta egli andò in Chiesa per la Divina Liturgia, ma al momento del rinvio dei catecumeni, quando già alcuni se ne stavano uscendo, Cipriano si rifiutò di uscire e chiese il battesimo. Vedendo la sua fermezza il diacono chiamò il vescovo e questi subito battezzò l’antico stregone, nel nome del Padre, del Figlio e del Santo Spirito.

        Da quel momento Cipriano cambiò completamente la sua vita, tanto che dopo un anno il vescovo lo ordinò presbitero. In seguito egli divenne anche vescovo e condusse una vita così santa e penitente che lo rese simile a molti grandi santi. Egli collocò Giustina in un monastero come Madre, affidando a lei la salvezza delle sue pie monache. Ma il demonio non dimenticò la vergogna subita e risvegliò tra i pagani una opposizione contro Cipriano ed essi lo condussero presso l’autorità del paese.
        Il capo Eutolmio, con molti inganni cercò di fare deviare Cipriano e Giustina, scongiurandoli di ritornare agli dei e di ubbidire alle autorità della terra. I pagani chiesero invano al capo di condannare a morte Cipriano e Giustina. Arrestati e tradotti nel buio della prigione, Cipriano e Giustina soffrirono molte offese e sofferenze, furono picchiati, feriti, ma essi confessavano con riconoscenza Cristo e sopportarono ogni cosa. Non raggiunto lo scopo con la furbizia, le minacce e le percosse, i tormentatori tagliarono la testa dei santi con la spada. Alla vista di questa morte d’innocenti un certo Teoctisto confessò Cristo e fu decapitato insieme ai santi martiri. Tutti e tre si presentarono al trono del Signore e i loro corpi rimasero per sei giorni insepolti.
        Alcuni dei passanti li raccolsero di nascosto e li trasportarono fino a Roma dove una donna si occupò della loro sepoltura e sulle tombe di questi protettori avvennero molte guarigioni e miracoli.
        Per le loro preghiere che il Signore guarisca anche le nostre infermità spirituali e corporali! Amìn!
Da Archimandrita Cipriano, I santi martiri Cipriano e Giustina, Phyli Attikis



lunedì 29 luglio 2013

I SANTI MARTIRI GRECI

I SANTI MARTIRI GRECI

Nota introduttiva
Nel coemeterium di san Callisto a Roma, sulla via Appia nell’Arenario, presso la cripta dei papi, una grande lapide fatta apporre da san Damaso ricorda ai pellegrini i martiri più insigni che ivi riposavano. Tra di essi menziona “i Santi Confessori inviati dalla Grecia”: Hic confessores sancti quos Graecia misit, ricordati nel Martirologio Romano il 2 dicembre: a Roma i santi Martiri Eusebio prete, Marcello Diacono, Ippolito, Massimo, Adria, Paolina, Neone, Maria, Martana ed Aurelia[1], i quali tutti compirono il martirio nella persecuzione di Valeriano, sotto il giudice Secondiano.
Denominati Martiri Greci, furono in grande venerazione nell’antica Roma cristiana. Sulle loro tombe, erano posti due elogi metrici[2], attribuiti a papa Damaso[3], nel secondo epitaffio è menzionata una passio che i cristiani leggevano nel dies natalis dei santi; di essa purtroppo ci resta solo la parte relativa al processo e al martirio, riportata da Cesare Baronio nei suoi “Annales Ecclesiastici”, tratta, come egli stesso annota, “da un antico manoscritto quasi distrutto per l’antichità, salvato dall’usura del tempo e corretto per quanto possibile da parecchie mende…”.
Nell’ottavo secolo, a causa delle scorrerie dei Barbari, i corpi dei santi Ippolito e della sorella Paolina, del marito di lei Adria e dei loro piccoli figli Maria e Neone, furono traslati nell’Urbe presso la Chiesa di Sant’Agata dei Goti, dove sono ancora oggi molto venerati.
Il padre Luigi Malamocco nel “romanzo storico”[4] Martyrion, partendo dalle poche fonti rimaste, ha tentato di ricostruire quella parte della passio che è andata perduta.

Testo dei due epitaffi attribuiti a papa Damaso:

Il gruppo sacrilego inviato una volta dalla Grecia,
risplende ora con la palma del martirio.
Esso nel mezzo del mare offrì a Giove portatore di morte,
come voto spregevole, doni nefandi.
Ma la fede di Ippolito, per prima, respinse con armi celesti
l’insano e pestifero contagio (del paganesimo):
egli andò a nascondersi, come un monaco, in una spelonca
che divenne dolce ricovero alle folle cristiane.
Dopo di lui Adria, purificato nel sacro fiume,
e Paolina, sua sposa 
XIII kal nov

Svb D V Id nov
con la figlia Maria ed il caro fratello Neone
raggiunsero gioiosi la fede: seguendo i precetti di Cristo,
distribuirono ai poveri generosamente le proprie ricchezze,
facendo avvicinare al sommo Iddio la santa comunità
con le loro energie, esortazioni e le loro instancabili fatiche.
Poi non temettero di morire per guadagnare la vita
donando le loro anime a Cristo
con l’effusione del sangue
Chi dalla lettura di questa passio verrà istruito nelle loro virtù,
imparerà che Dio assiste giustamente i suoi servi.

 
Passione dei Santi Martiri Greci
(dal manoscritto acefalo scoperto dal Baronio)

Anno 256 dopo Cristo, mese di Ottobre



L’altare dove riposano i corpi santi dei martiri Greci,
chiesa di S. Agata dei Goti, Roma


Valeriano mandò settanta soldati per arrestare Eusebio, Adria, Ippolito, Paolina, i loro figli e condurli incatenati al Foro Traiano. Il diacono Marcello accorrendo, rimproverò Valeriano di tener prigionieri gli amici della verità. Allora Secondiano (il giudice) disse: “Anche costui è cristiano come gli altri”. Introdotto per primo il presbitero Eusebio, il giudice lo interrogò: “Sei tu quello che reca disturbo alla città? Di’ intanto il tuo nome”. E quello: “Mi chiamo Eusebio e sono presbitero”.
Allora il giudice lo fece mettere da parte e fece introdurre Adria. Entrato, richiesto del suo nome, disse: “Adria. Quello che cerchi è piuttosto tardi perché lo possa avere!”. Allora il giudice: “Donde ti deriva questa abbondanza di beni e di ricchezze con cui seduci il popolo?”. Adria disse: “Nel nome del Signore mio Gesù Cristo, dal lavoro dei miei genitori”. Il giudice disse: “Dunque se ti è stata lasciata un’eredità dai tuoi genitori, usala per te e non per subornare gli altri!”. Adria disse: “La spendo integralmente ed onestamente per l’utilità mia e dei miei figli”. Il giudice chiese: “Hai moglie e figli?”. Rispose: “Sono con me in catene”. Il giudice disse: “Siano introdotti”. 

Allora fu introdotta Paolina con i figli Neone e Maria. Li seguivano il diacono Marcello ed Ippolito. Disse il giudice: “È questa tua moglie e questi i tuoi figli?”. Disse: “Sì, lo sono”. Aggiunse il giudice: “E questi altri due chi sono?”. “Questo è il beato diacono Marcello e quest’altro mio cognato Ippolito, particolare servo di Cristo”. Allora il giudice rivolto a loro disse: “Dite voi stessi come vi chiamate”. Risponde Marcello: “Mi chiamo Marcello diacono”. Il giudice disse ad Ippolito: “Di’ il tuo nome”. Ippolito disse: “Ippolito, servo dei servi di Cristo”.

Allora il giudice ordinò di segregare Paolina ed i suoi figli e disse ad Adria: “Tira fuori i tesori, e con costoro con i quali sei stato arrestato sacrificate ed avrete salva la vita, altrimenti morirete presto e perderete la vita”. Risponde Ippolito: “Noi abbiamo lasciato i vuoti pensieri ed abbiamo trovato la verità”. Disse il giudice: “Che hai guadagnato nella permuta?”. Risponde Ippolito: “Abbiamo buttato via i vani idoli ed abbiamo trovato il Signore del cielo, della terra e dell’abisso del mare, Cristo Gesù Figlio di Dio in cui noi crediamo”. Allora il giudice ordinò che fossero rinchiusi nella pubblica prigione e non venissero separati e furono condotti al Carcere Mamertino[5].

Tre giorni dopo, chiamati a consiglio, i giudici Secondiano e Probo fecero allestire il tribunale ed apprestare gli strumenti di tortura. Ed introdotto Adria si trattò di nuovo della questione dei beni. Risultato senza esito l’interrogatorio, il giudice ordinò di accendere il fuoco davanti a Pallade ed ordinò loro di offrire l’incenso. Ed essi si rifiutarono e si prendevano gioco del giudice. Allora ordinò che fossero spogliati e, nudi, sottoposti a stiramento e flagellati. La beata Paolina, percossa con più furore rese lo spirito a Dio.

Vedendo ciò, il giudice condannò Eusebio e Marcello alla decapitazione. Furono condotti alla Pietra Scellerata[6], presso l’anfiteatro del Lago del Pastore ed ivi furono decapitati il beato presbitero Eusebio e il diacono Marcello, il 20 ottobre. I loro corpi furono abbandonati ai cani ed il corpo di Paolina buttato fuori in aperta campagna. Ma un altro Ippolito, diacono anche lui, li raccolse e li seppellì sulla via Appia, all’Arenario, al primo miglio dell’Urbe, dove frequentemente si radunavano i cristiani.


Poi Secondiano prese Adria con i figli ed Ippolito in casa sua, volendo indagare sui beni. Risposero: “Ciò che avevamo l’abbiamo dato ai poveri; i nostri unici tesori sono le anime nostre che non vogliamo assolutamente perdere. Fa’ quello che ti è stato comandato”. Allora Secondiano fece torturare i figli. A loro il padre diceva: “Siate forti, figli miei!”. Ed essi, mentre venivano percossi, dicevano soltanto: “Cristo aiutaci!”. Dopo fece sottoporre a tortura Adria ed Ippolito ed ordinò che fossero bruciati ai fianchi con le fiaccole. Ippolito diceva: “Fa’ quello che vuoi”. Secondiano diceva: “Sacrificate, acconsentite, dite: Sacrifichiamo!”. E Ippolito diceva: “Ecco la mensa senza corruzione”. Dopo molti tormenti, disse Secondiano: “Toglieteli da terra e siano condotti alla Pietra Scellerata il figlio Neone e sua sorella Maria e siano uccisi alla presenza del padre”. Condotti là, furono uccisi di spada ed i loro corpi gettati alla campagna, ma furono raccolti dai cristiani e sepolti poi all’Arenario, al primo miglio dell’Urbe, ove i cristiani erano soliti riunirsi, il 27 ottobre.

Avendo Secondiano riferito tutto a Valeriano, otto giorni dopo ordinò che fosse apprestato il tribunale nel circo Flaminio[7] e che vi fossero portati incatenati Ippolito ed Adria, mentre un banditore gridava: “Sono sacrileghi, sono sacrileghi che sconvolgono la città”. Introdotti, il giudice di nuovo affrontò la questione dei beni dicendo: “Date i soldi con i quali inducevate il popolo in errore”. Rispose Adria: “Noi predichiamo Cristo che si è degnato liberarci dall’errore non perché uccidiamo gli uomini, ma perché li facciamo vivere”. Vedendo che non concludeva niente, Secondiano ordinò che fossero colpiti alle mascelle con flagelli piombati, mentre un banditore gridava: “Sacrificate agli déi, bruciate l’incenso!”. Ippolito, sanguinante, gridava: “Continua pure, o miserabile, e non smettere”. Allora Secondiano ordinò ai carnefici di smettere e disse: “Orsù, provvedete a voi stessi; ecco, ho pietà della vostra stoltezza”. Risposero: “Noi siamo pronti a sostenere tutti i tormenti, ma quello che tu o il Principe ci chiedete non lo faremo!”. Riferì Secondiano a Valeriano e questi ordinò che fossero finiti, alla presenza del popolo.

Allora Secondiano ordinò di portarli al ponte di Antonino e di percuoterli con flagelli piombati fino alla morte e, lungamente percossi, finalmente morirono. I loro corpi furono abbandonati in quel luogo presso l’isola Lycaonia[8]. Venne di notte Ippolito, diacono della Chiesa di Roma, e presi i corpi, li seppellì sulla via Appia, al primo miglio dall’Urbe, nell’Arenario, presso i corpi dei santi, il 9 dicembre.


Nove mesi dopo questi fatti, venne a Roma una donna di nome Martana, greca, con la figlia Valeria. Entrambe erano cristiane e parenti di Adria e Paolina. Dopo averli cercati inutilmente, vennero a sapere che erano stati coronati col martirio e si rallegravano assai. Dopo parecchie ricerche, trovarono i corpi e giorno e notte perseverarono nella preghiera in quel luogo per tredici anni, fino a quando resero l’anima a Dio. Ed anch’esse vennero sepolte nello stesso luogo il 2 dicembre.
Fin qui gli Atti di questi martiri dei quali si celebra la memoria nel calendario della Chiesa il 2 dicembre, anche se subirono il martirio in giorni diversi.
Ad onore di Nostro Signore Gesù Cristo che vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.



[1] Nella passio il nome è Valeria.
[2] Le due lapidi sono conservate presso i Musei Vaticani.
[3] Oggi le lapidi marmoree vengono datate tra il V e il VI secolo e le iscrizioni sono state da qualcuno attribuite a papa Simmaco.
[4] P. L. Malamocco, MARTYRION. Romanzo storico sulla vita e il martirio dei Santi Greci venerati in S. Agata dei Goti a Roma, Tavagnacco (UD) 2001, ed. Segno.
[5] Nome col quale in età cristiana fu chiamato il Tullianum (oggi conosciuto come chiesa di San Pietro al Mamertino), storica prigione dell’antica Roma, situato sul lato nord del Foro Romano; esso è costituito da due vani sovrapposti, il superiore riservato al corpo di guardia, l’inferiore un sotterraneo quasi circolare, buio e privo d’aria. Vi transitarono, rinchiusi insieme a criminali comuni, molti cristiani in attesa del martirio, i più illustri furono i santi Pietro e Paolo. Il Mamertino rende bene l’idea del carcere “tenebroso e ripugnante”, descrizione ricorrente negli Acta martyrum, dove i prigionieri ammassati e soffocanti, privi di ogni cosa, ricevevano acqua una sola volta al giorno, mentre cibo o vesti potevano essere loro portati solo da parenti o amici. In simili condizioni i detenuti morivano di frequente prima ancora di essere giudicati.
[6] Vicolo dove vennero uccisi molti cristiani (tra i quali i santi Vito, Modesto e Crescenza), il cippo su cui avveniva la decapitazione, chiamato anch’esso “Pietra Scellerata”, è conservato nella chiesa di san Vito all’Esquilino.
[7] Sorgeva nell’area del Ghetto tra piazza Cairoli, il Teatro di Marcello, il Portico di Ottavia e l’Isola Tiberina. Era diffuso nel mondo Romano l’uso di far celebrare i processi presso il circo, rendendoli parte degli spettacoli con le immancabili crudeli torture e culminanti nella pena capitale.
[8] Piccola isoletta sul fiume Tevere, anticamente chiamata dai Romani semplicemente Insula o Insula inter duos pontes, nel medioevo fu detta anche Lycaonia, oggi conosciuta come Isola Tiberina, vi sorgono la chiesa di san Bartolomeo, dove sono custodite le reliquie del santo apostolo, e quella di san Giovanni Calibita.

AVE REGINA MARTYRUM

mercoledì 24 luglio 2013

Santa Felicita: «Mirate al cielo, o figli, e levate in alto lo sguardo; là vi attende Cristo con i suoi santi. Combattete per le vostre anime e mostratevi fedeli nell’amore di Cristo!»


MARTIRIO DI SANTA FELICITA
E DEI SUOI SETTE CRISTIANISSIMI FIGLI

Disegno ottocentesco di G. Mariani dell’affresco perduto dell’oratorio cristiano del Colle Oppio
 
La prima accusa alla cristiana Felicita, vedova e madre di sette figli (come Sinforosa di Tivoli), è mossa dalle autorità sacerdotali pagane. Può sembrare strano che l’abbia accolta un imperatore come Marco Aurelio, che aderiva alla filosofia stoica, non senza una venatura di scetticismo per tutte le fedi religiose, ma l’accusa dei pontefici toccava un tasto molto delicato: «Contro la vostra salute questa vedova con i suoi figli insulta i nostri dèi!»[1]. Sul culto dell’imperatore si scontravano Roma e il cristianesimo e, fin dai tempi di Plinio e Traiano, l’atto di adorazione al sovrano era la condizione indispensabile perché un cristiano venisse prosciolto da un’accusa. Inoltre l’impero di Marco Aurelio fu turbato da guerre, pestilenze e altre calamità che, per i sacerdoti e la folla pagana, erano causati dalla collera degli dèi: l’ostilità dei cristiani al culto tradizionale doveva quindi essere punita. Felicita e i figli erano di famiglia nobile, tanto che a uno dei giovani il prefetto Publio, il quale dirige il processo, promette di farlo diventare «amico degli Augusti»[2]. La condanna imperiale a morire sotto diversi giudici (e quindi con diversi supplizi) mirava forse a dare un esempio agli abitanti dei vari quartieri di Roma.
Alcuni studiosi hanno messo in dubbio l’autenticità degli atti, considerando il racconto un’imitazione di quello dei sette fratelli Maccabei (II libro dei Maccabei 1,1-41)[3], ma un documento scritto del IV secolo relativo alla loro sepoltura e alcuni ritrovamenti archeologici sembrano confermarne l’autenticità. In una omelia, pronunciata nella basilica di santa Felicita, San Gregorio il Dialogo, papa di Roma, fa riferimento ad un antico documento, le “Gesta emendatoria”, contenente la storia dei nostri martiri, e li ricorda in un suo commento all’Evangelo di Matteo (12, 47).
La Chiesa Ortodossa li onora il 25 gennaio. Nella Chiesa di Roma Antica, nel IV secolo, la loro festa veniva celebrata, con molta solennità e grande partecipazione dei fedeli, il 10 luglio[4], chiamato dalla gente “dies martyrum”. La loro memoria liturgica ora è il 23 novembre per Felicita e il 10 luglio per Felice, Filippo, Vitale, Marziale, Alessandro, Silano e Gennaro.

 
I - Ai tempi dell’imperatore Antonino scoppiò una rivolta dei pontefici e fu arrestata e trattenuta in carcere la nobildonna Felicita con i suoi sette cristianissimi figli[5]. Permanendo nello stato di vedovanza, aveva consacrato a Dio la sua castità e, dedicandosi giorno e notte alla preghiera, offriva alle anime caste uno spettacolo altamente edificante. I pontefici allora, vedendo che, per opera sua, progrediva la divulgazione del nome cristiano, la calunniarono all’imperatore dicendo: «Contro la vostra salute questa vedova con i suoi figli insulta i nostri dèi! Se non venererà gli dèi, sappia la pietà vostra che i nostri dèi si adireranno talmente da non poter essere placati con nessun mezzo».
Allora l’imperatore Antonino ingiunse a Publio[6], prefetto della città, di costringerla, insieme con i suoi figli, a mitigare con i sacrifici le ire dei loro dèi. Pertanto Publio, prefetto della città, fece venire al suo cospetto la donna in udienza privata e, pur invitandola al sacrificio con blande parole, le minacciava la morte tra i supplizi. Felicita gli rispose: «Non potrò né cedere alle tue blandizie né piegarmi alle tue minacce. Ho infatti lo Spirito santo che non permette che io sia vinta dal demonio; pertanto sono sicura che ti vincerò da viva e, se sarò uccisa, meglio ancora ti vincerò da morta».
Replicò Publio: «Disgraziata, se per te è dolce morire, fa vivere almeno i tuoi figli!».
Rispose Felicita: «I miei figli vivranno, se non sacrificheranno agli idoli; se invece commetteranno un delitto così grande, andranno incontro alla morte eterna».



II - Il giorno dopo Publio sedette nel foro di Marte, mandò a chiamare Felicita con i figli e le disse: «Abbi pietà dei tuoi figli, giovani retti e nel fiore dell’età!».
Rispose Felicita: «La tua misericordia è empietà e la tua esortazione crudeltà» e, rivolta ai figli, disse loro: «Mirate al cielo, o figli, e levate in alto lo sguardo; là vi attende Cristo con i suoi santi. Combattete per le vostre anime e mostratevi fedeli nell’amore di Cristo!».
Udendo queste parole, Publio la fece schiaffeggiare, dicendo: «Hai osato, in presenza mia, dare codeste esortazioni, affinché disprezzino i comandi dei nostri sovrani?».

III - Quindi chiamò il primo dei figli di lei, di nome Gennaro, e, promettendogli abbondanza di beni terreni,, parimenti gli minacciava le frustate, se si fosse rifiutato di sacrificare agli idoli. Gennaro rispose: «Cerchi d’indurmi alla stoltezza, ma la sapienza di Dio mi protegge e mi farà superare tutte queste prove».
Subito il giudice lo fece percuotere con le verghe e rinchiudere in carcere. Quindi si fece condurre il secondo figlio, di nome Felice. Mentre Publio lo esortava a immolare agli idoli, il giovane dichiarò con fermezza: «Uno solo è il Dio che adoriamo, a cui offriamo il sacrificio della pia devozione. Guardati dal credere che io o qualcuno dei miei fratelli deviamo dalla strada dell’amore di Cristo. Ci si preparino pure le frustate, pendano sul nostro capo decisioni di sangue. La nostra fede non può essere né vinta né cambiata! ».
Mandato via anche questo, Publio si fece condurre il terzo figlio, di nome Filippo. Quando gli disse: «L’imperatore (Marco Aurelio) Antonino, signore nostro, vi ha comandato d’immolare agli dèi onnipotenti», Filippo rispose: «Codesti non sono né dèi né onnipotenti, ma simulacri vani, miseri e insensibili e quelli che vorranno sacrificare loro correranno eterno pericolo».
Fatto allontanare Filippo, Publio si fece condurre il quarto figlio, di nome Silvano, a cui disse così: «Come vedo, d’accordo con la vostra pessima madre, avete preso la decisione d’incorrere tutti nella condanna, disprezzando gli ordini dei sovrani».
Rispose Silvano: «Se temeremo la morte temporale, incorreremo nel supplizio eterno. Ma poiché sappiamo bene quali premi siano riservati ai giusti e quale pena sia stabilita per i peccatori, tranquillamente disprezziamo la legge umana per rispettare i precetti del Signore. Chi sprezza gli idoli, infatti, e obbedisce al Dio onnipotente, troverà la vita eterna, ma chi adora i demoni andrà con essi alla perdizione e al fuoco eterno».
Fatto allontanare Silvano, si fece venire vicino Alessandro, al quale disse: «Se non sarai ribelle e farai ciò che più desidera il nostro sovrano, si avrà riguardo per la tua età e per la tua esistenza che non è ancora uscita dall’infanzia. Quindi, sacrifica agli dèi, per poter diventare amico degli Augusti e conservare la vita e il loro favore».
Rispose Alessandro: «Io sono servo di Cristo. Lo confesso con le labbra, lo conservo nel cuore, lo adoro incessantemente. L’età tenera che tu vedi in me ha la saggezza degli anziani, quando venera il Dio unico. Invece i tuoi dèi con i loro adoratori saranno condannati alla morte eterna».
Fatto allontanare Alessandro, fece venire a sé il sesto, Vitale, a cui disse: «Forse, almeno tu desideri vivere e non andare incontro alla morte». Rispose Vitale: «Chi desidera vivere meglio? Chi adora il vero Dio o chi desidera avere propizio il demonio?».
Disse Publio: «E chi è il demonio?». Rispose Vitale: «Tutti gli dèi dei gentili sono demoni e tutti coloro che li adorano»[7].
Fatto andar via anche questo, fece entrare il settimo, Marziale, e gli disse: «Crudeli contro voi stessi per vostra volontà, disprezzate le leggi degli Augusti e vi ostinate a rimanere nel vostro danno».
Rispose Marziale: «O se sapessi quali pene sono destinate ai cultori degli dèi! Ma Iddio attende ancora a mostrare la sua collera contro di voi e contro i vostri idoli. Infatti, tutti coloro che non riconoscono Cristo come vero Dio saranno mandati al fuoco eterno».
Allora Publio fece allontanare anche il settimo dei fratelli e spedì all’imperatore una relazione scritta del processo[8].



IV - L’imperatore li inviò a giudici diversi, per farli morire sotto diversi supplizi. Uno dei giudici fece morire il primo dei fratelli con fruste di piombo. Un altro uccise a furia di bastonate il secondo e il terzo, un altro ancora scaraventò il quarto da un precipizio. Un altro dei giudici fece eseguire la pena capitale contro il quinto, il sesto e il settimo, un altro infine fece decapitare la loro madre. Così, morti per diversi supplizi, furono tutti vincitori e martiri di Cristo e, trionfando con la madre, volarono in cielo a ricevere i premi che avevano meritato. Essi che, per amore di Dio, avevano disprezzato le minacce degli uomini, le pene e i tormenti, divennero nel regno dei cieli amici di Cristo, che, con il Padre e lo Spirito santo, vive e regna nei secoli dei secoli. Amen.


 
[1] Martirio di santa Felicita, c. I.
[2] Martirio di santa Felicita, c. III.
[3] Oltre al contegno eroico dei giovani e della loro madre, un importante elemento di affinità tra il presente racconto e quello biblico è il frequente accenno alla vita che attende l’anima dopo la morte. 
[4] Così la Depositio Martyrum. Il martirologio geronimiano ricorda Felicita il 23 novembre e i figli in date diverse.
[5] Un affresco (V-VI sec) scoperto dal De Rossi al Colle Oppio alla fine del 1800, presso un antico oratorio ritenuto la casa o il carcere dei martiri, riproduceva la santa (Felicitas Cultrix Romanarum) circondata dai figli, mentre il Salvatore le regge la corona sul capo dall’alto; non si sa però se esso derivi dagli atti del martirio o da un documento posteriore.
[6] Publio Salvio Giuliano, successo a Urbico nel 162, giureconsulto che resse la prefettura di Roma a cavallo tra l’impero di Antonino Pio (138-161) nel 161 e quello di M. Aurelio e L. Vero nel 161-162.
[7] Per i cristiani antichi gli dèi pagani sono veri spiriti del male e non immagini imperfette di una verità intravista, sia pure confusamente. Tale motivo viene spesso ripreso negli atti dei martiri.
[8] Esempio di scrupolo professionale non raro tra i funzionari dell’impero, che solo una tradizione edificante, ma superficiale, immagina tutti accaniti nel tormentare i cristiani.

Benedicta Tu super omnes mulieres

martedì 22 gennaio 2013

Diomede parla: «Fratelli, comprendo che è giunta l’ora del circo e della vittoria eterna. Per Agapito è già venuta. Per voi sarà domani. Siate forti, fratelli. Il tormento sarà un attimo. La beatitudine non conoscerà sosta. Gesù è con voi. Non vi lascerà neppure quando le Specie saranno consumate in voi. Egli non abbandona i suoi confessori. Ma con essi resta per riceverne senza un indugio l’anima lavata dall’amore e dal sangue. Andate. Pregate nell’ora della morte per i carnefici e per il vostro prete. Il Signore per mia mano vi dà l’ultima assoluzione. Non abbiate timore. Le anime vostre sono più candide di un fiocco di neve che scenda dal cielo.»


Sera dell’11 febbraio, ore 20.

<<Fra i miei spasimi vedo questi altri spasimi.
Una specie di pozzo circolare di una larghezza di pochi metri quadri. Avrà un
diametro di quattro, cinque metri al massimo, alto quasi altrettanto, senza
finestre. Una porta stretta, piccola, di ferro, è incassata nel muraglione di
quasi un metro di spessore. Al centro del soffitto un buco tondo, di un diametro
di un mezzo metro al massimo, serve per l’aerazione di questo pozzo che nel suo
pavimento, di suolo battuto, ha un altro buco dal quale sale fetore e gorgoglìo
d’acque profonde, come se vicino ci fosse un fiume o sotto passasse una cloaca
diretta al fiume.
Il luogo è malsano, umido, fetido. Le muraglie trasudano
acqua, il suolo è impregnato di materie schifose, perché comprendo che il buco
del soffitto fa da scolo ai rifiuti della cella soprastante.

In questo orrido carcere, in cui è una penombra folta che appena permette di
intravvedere l’essenziale, sono due persone. Una è coricata al suolo,
nell’umido, presso la parete, è incatenata per un piede. Ma non fa moto alcuno.
L’altro è seduto lì presso, col capo fra le mani. È vecchio, perché vedo il
sommo della testa calvo affatto.

Al di sopra, nell’altra cella, vi devono essere più persone, perché odo voci e
tramestìo. Voci di uomo e di donna. Voci di bimbi e di vecchi commiste a voci
fresche di giovinette e forti di adulti.
Cantano dentro per dentro (Espressione ricorrente e che signific: ogni tanto, di tanto in tanto) dei mesti inni che pur nella loro mestizia hanno un
che di tanta pace. Le voci risuonano contro le pareti spesse come in una sala
armonica. È molto bello l’inno che dice:

“Conducici alle tue fresche acque.
Portaci negli orti tuoi fioriti.
Dài la tua pace ai martiri
che sperano, che sperano in Te.

Sulla tua promessa santa
abbiam fondato la nostra fede.
Non deluderci, Gesù Salvatore,
perché abbiamo sperato in Te.

Ai martirî noi gioiosi andiamo
per seguirti nel bel Paradiso.
Per quella Patria tutto lasciamo
e non vogliamo, non vogliam che Te”.

Quando quest’ultimo canto si spegne lento, una luce si affaccia al buco e un
braccio si spenzola con una piccola lampadetta. Un volto d’uomo pure si
affaccia. Guarda. Vede che l’uomo coricato non fa moto e l’altro col capo fra le
mani non vede il lume, e chiama: “Diomede! Diomede! È l’ora”.
Il seduto sorge in piedi e trascinando la sua lunga catena viene sotto la
botola. “Pace a te, Alessandro”.
“Pace, Diomede”.
“Hai tutto?”.
“Tutto. Priscilla osò venire, travestita da uomo. Si è rasi i capelli per parere
un fossore. Ci ha portato di che celebrare il Mistero. Agapito che fa?”.
“Non si lamenta più. Non so se dorma o se sia spirato. E vorrei vedere... Per
dire su lui le preci dei martiri”.
“Ti caliamo la lampada. Attendi. Sarà gioia per lui avere il Mistero”.
Con un cordone di cinture annodate calano il fanaletto sino alle mani di Diomede
che, ora lo vedo bene, è un vecchio dal volto affilato e austero. Pallidissimo,
con pochi capelli, ha due occhi ancor splendidi di espressione. Nella sua
miseria di incatenato in quella fetida tana ha dignità di re.
Stacca il fanaletto dal cordone e va verso il compagno. Si china. Lo osserva. Lo
tocca. E apre le braccia, dopo aver posato la lampada al suolo, in un largo
gesto di commiserazione. Poi raccoglie le mani del cadavere, già quasi
irrigidite, e le incrocia sul petto. Povere mani gialle e scheletrite di vecchio
morto di stenti.
Si volge a chi attende presso il foro e dice:
Agapito è morto. Gloria sia al
martire della putrida fossa!”.
“Gloria! Gloria! Gloria al fedele al Cristo” rispondono quelli della cella
superiore.
“Calate per il Mistero. Non manca l’altare. Non più le sue mani, tese a far da
sostegno. Ma l’immoto petto che sino all’ultima ora ebbe palpiti per il Signore
nostro, Gesù”.

Viene calata una borsa di preziosa stoffa a da questa Diomede estrae un piccolo
lino, un pane largo e basso, un’anfora ed un piccolo calice. Prepara tutto sul
petto del morto, celebra e consacra dicendo le orazioni a memoria mentre quelli
di sopra rispondono. Deve essere nei primi tempi della Chiesa, perché la Messa è
su per giù come quella di Paolo nel Tullianum.
Quando la consacrazione è avvenuta, Diomede rimette nell’anfora il vino del
calice che è lievemente a brocca, forse scelto per questa funzione così, ripone
le Specie nella borsa e riporta tutto là dove il cordone attende di riportare di
sopra la borsa. Mentre questa sale, sollevata con precauzione, 
Diomede assolve i compagni. Il canto, quasi tutto di fanciulle, riprende dolcemente mentre i cristiani si comunicano.

Quando cessa, Diomede parla:

«Fratelli, comprendo che è giunta l’ora del circo e della vittoria eterna. Per
Agapito è già venuta. Per voi sarà domani. Siate forti, fratelli. Il tormento
sarà un attimo. La beatitudine non conoscerà sosta. Gesù è con voi. Non vi
lascerà neppure quando le Specie saranno consumate in voi. Egli non abbandona i suoi confessori. Ma con essi resta per riceverne senza un indugio l’anima lavata dall’amore e dal sangue. Andate. Pregate nell’ora della morte per i carnefici e per il vostro prete. Il Signore per mia mano vi dà l’ultima assoluzione. Non abbiate timore. Le anime vostre sono più candide di un fiocco di neve che scenda dal cielo.»

“Addio, Diomede!”, “Assistici, tu, santo, col tuo orare”, “Diremo a Gesù di
venire a prenderti”, “Ti precediamo per prepararti la via”, “Prega per noi”. I
cristiani si affacciano a turno al foro, salutano, sono salutati e scompaiono...
Per ultimo viene fatto risalire il fanaletto, e l’oscurità torna ancor più cupa
nell’antro in cui uno muore lentamente presso il già morto, fra il fetore e il
profondo fruscio delle acque sotterranee. Di sopra riprendono i canti lenti e
soavi.
Di mio non so dove avviene la scena. Direi a Roma, in tempi di persecuzione. Ma
quale sia la carcere non lo so. Come non so chi sia questo prete Diomede, dalla
figura tanto venerabile. Ma la visione per la sua tristezza mi colpisce ancora
di più di quella del Tullianum.>>

Domine Iesu,
Voca me, ut videam Te
Et in æternum fruar Te.
Amen.